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data
18/12/1993
Contesto
ANTE
Relatori
R Colombo
GB Contri
Liv. revisione
Trascrizione
CORSO DI SCUOLA PRATICA DI PSICOLOGIA E PSICOPATOLOGIA 1993-1994
IL LEGAME SOCIALE E LE QUATTRO PSICOPATOLOGIE
18 dicembre 1993
4° LEZIONE
TESTO INTEGRALE
GIACOMO B. CONTRI
Riprendo dall’ultimo atto. Immaginate di essere su una scena shakesperiana, intendo su un teatro
povero con nessun oggetto, arredo, sulla scena. È compito degli uditori, spettatori, immaginare, mano a mano
che, in questo caso il lettore, la lettrice leggerà, reciterà i pezzi, immaginare che cosa c’è sulla scena: la
duchessa, il cavaliere, i fondali, la società presente.
RAFFAELLA COLOMBO
HARTMAN VON AUE, GREGORIUS
Leggo alcuni brani della prima parte 1.
«Chi racconta questa storia
in versi di lingua tedesca
è sire Hartman von Aue.
Incomincia a questo punto
la vicenda senza pari
dell’innocente peccatore.
Giace in Francia una regione
che è chiamata Aquitania,
né dal mare essa è lontana.
Il signor di quella terra
generò dalla sua sposa
due fanciulli che d’aspetto
erano belli quanto mai,
un maschietto e una bambina.
Ma la madre dei fanciulli
morì già nel partorirli.
Allorché furono giunti
all’età di dieci anni,
anche il padre venne a morte.
Quando questa s’annunciò
ed al letto lo costrinse
Hartman Von Aue (1165 ca.-1215) poeta tedesco. Tradusse l’Erec di Chrétien de Troyes, inserendo il ciclo arturiano
nella cultura tedesca e scrisse i poemi Gregorius ed Enrico il misero. Qui, del Gregorius, viene utilizzata la traduzione
di Laura Mancinelli nell’edizione Einaudi del 1989.
1
1
dove per la malattia
alla morte egli s’arrese,
fece come i saggi fanno:
mandò subito a chiamare
i migliori del suo regno
in cui aveva ogni fiducia,
ché affidare lor voleva
la sua anima e i figli.
Quando furono a lui innanzi
servi, uomini e parenti,
ai suoi figli volse gli occhi:
simili erano tra loro,
e d’aspetto sì grazioso
nella lor persona tutta
che al sorriso avrebber mosso
la più dura delle donne
se li avesse mai veduti.
(…)
Quando vide i figli pianger
a suo figlio si rivolse:
«Perché piangi, figlio mio?
A te sono ora soggetti
la mia terra e il gran potere.
Ma io nutro dei timori
per la bella tua sorella.
Più profondo è il mio rimorso
e tardivo il pentimento
che nei giorni di mia vita
al suo stato non provvidi:
non è questo agir da padre».
(…)
« Cerca il saggio qual compagno,
fuggi il giovin sprovveduto.
Ama Dio sopra ogni cosa,
segui il suo comandamento
nel governo della gente.
La mia anima ti affido
e la bella tua sorella,
perché sempre a lei provveda,
qual fratello le stia accanto:
così avrete buona sorte».
(…)
Quando i nobili fanciulli
furono privi anche del padre,
non fu tardo il giovinetto
a soccorrer la sorella
e di lei si prese cura
come l’onor suo voleva.
Al suo cuore egli fu guida
con affetto e gentilezza,
non fu mai con lei severo.
Ne ebbe cura (e dirò come )
sì che mai le rifiutò
cosa che ella a lui chiedesse
o di vesti o di altri agi.
Eran sempre in ogni cosa
lieti insieme l’un con l’altro,
né si separavano mai,
2
e si stavano ogni ora
sempre insieme fra di loro
(come a lor si conveniva).
Non si stavano mai disgiunti
né a tavola né altrove.
Tanto accosto erano i letti
che pur scorgersi potevano.
Altro dire non potresti
se non che egli era sollecito
per la cara sua sorella
come deve un buon fratello.
E più saldo era l’affetto
che per lui ella nutriva.
In tal modo erano felici.
Quando questo viver lieto
vide quel che tutti odia,
nell’inferno incarcerato
per l’invidia sua e superbia,
dall’onor dei due fu roso
(perché grande gli appariva)
e agì come al consueto:
soffrì sempre e ancor ne soffre
d’ogni ben che all’uomo tocchi
e non lascia dal suo artiglio
quel che può perseguitare.
Pensò allor di rovinare
la lor gioia e il loro onore,
col cercar di trasformare
in sventura la lor gioia.
Ad amar la sorella
oltre debita misura
spinse il giovane signore,
finché affetto di fratello
trasformò in tentazione.
Fu l’amor la prima cosa
che traviò l’animo suo,
e seconda la bellezza
che adornava la sorella,
terzo fu il malvolere
del demonio, e quarta infine
la sua stolta giovinezza,
alleata del demonio,
che a tal punto lo traviarono
finché prese a meditare
di dormir con la sorella.
Maledetta sia, o Signore,
di quel cane dell’inferno
la scaltrezza che ci inganna!
Perché Dio permette a lui
ch’ egli compia tanto scempio
di creature ch’ Egli ha fatto
a sua immagine e figura?
Quando questo gran peccato
per consiglio del demonio
cominciò ad avere in cuore,
3
notte e giorno il cavaliere
con maggiore affetto ancora
stava accanto alla sorella.
La fanciulla molto ingenua
era cieca a tale amore,
né sapeva, sconsigliata,
nella sua grande innocenza
da che cosa stare in guardia,e
cedeva in tutto a lui.
Non li lascia più il demonio
finché in lor compie sua voglia.
Aspettò quindi una notte
che nel sonno abbandonata
la fanciulla si giaceva.
Ma non dorme suo fratello:
si levò il giovin stolto,
scivolò in gran silenzio
fino al letto ove giaceva
la sorella, alzò la coltre
tanto adagio e lievemente
che di nulla ella s’accorse
finché egli le fu accanto
e la prese tra le braccia.
Che voleva, ahimé, là sotto?
Meglio fosse nel suo letto!
Ad entrambi eran le vesti
state tolte, e sol coperti
si giacevan dalle coltri.
Allorché si fu destata,
egli a sé già la stringeva.
La sua bocca e le sue guance
sentì tanto a lui compresse
come dove il diavol vince.
Cominciò ad accarezzarla
più di come far soleva
al cospetto della gente.
La fanciulla allor s’ accorse
che la cosa era assai grave.
Ella disse: «Mio fratello,
ma che cosa vuoi tu fare?
non lasciar che la ragione
il demonio ti sconvolga.
A che mira questa lotta?».
E pensava: «Se io taccio
fà il demonio il suo volere,
e son sposa a mio fratello,
ma se grido e chiamo gente,
noi per sempre avrem perduto
tutti e due il nostro onore».
Indugiava in tal pensiero
mentre lui con lei lottava,
lui era forte, debole lei,
sì che contro il suo volere
portò a fine la sua impresa.
Troppa fu l’intimità.
E la cosa fu compiuta.
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Fu in quella stessa notte
dal fratello messa incinta.
Sempre più poi li sedusse
seduzione del demonio,
cominciaron col peccato
ad amar la seduzione.
E lo tennero nascosto
fino a che ella s’ avvide,
come san presto le donne,
che d’un figlio ella era incinta.
Fu la gioia allor tristezza,
né potè celarla più.
Manifesto fu il dolore.
La sventura li travolse
per la grande intimità:
se ne fossero rifuggiti
ora indenni ne sarebbero.
Sia ciascun da questo esempio
messo in guardia dal trattare
con sorella o con figliuola
in sì grande intimità:
questo spinge a tal misfatto
che ognun deve maledire.
Quando il giovan cavaliere
vide questo mutamento
alla sua sorella in volto,
così disse a lei in disparte:
«Dimmi, cara mia sorella:
tu sei triste, che ti accade?
Ho notato già da tempo
che il tuo aspetto è molto mesto:
in te insolito mi appare».
Ella allora incominciò
con grande pena a sospirare
e l’angoscia dolorosa
sgorgò tutta dai suoi occhi.
«Più non posso a te celarlo,
— disse, — sono in gran tormento.
Io sono morta, mio fratello,
e nell’anima e nel corpo.
Ahimé, povera infelice,
perché mai io venni al mondo?
Per tua colpa, io ho perduto
Dio in cielo e qui l’onore.
Il misfatto che finora
nascondemmo a tutto il mondo
non può più essere celato.
Io mi guardo dal parlarne:
ma il figliuolo che io porto
lo dirà a tutto il mondo.»
Cominciò il fratello allora
a compiangere la sorella:
fu il suo pianto ancor più grande.
Nella triste lor sventura
mostrò allora il dio Amore
5
la crudele usanza sua:
dopo gioia dà il dolore.
Dato fu ad essi insieme
con il miele anche l’amaro.
Pianse allora tristemente,
chino il capo fra le mani,
con quel gesto di dolore
che a chi soffre è familiare.
Rimpiangeva il suo prestigio:
ma ancor più commiserava
il soffrir di sua sorella
che la stessa pena sua.
Ella in volto lo guardò,
disse: «Agisci come un uomo,
lascia il pianto femminile,
(non ci può giovar in nulla),
un rimedio cerca a entrambi,
che se noi per nostra colpa
siamo ormai per Dio perduti,
faccia sì che nostro figlio
non si perda ancor con noi
e sia tripla la sventura.
Molte volte è stato detto
che il figliuolo non è oppresso
dalle colpe di suo padre.
Non, per questo, deve perdere
la sua grazia presso Dio
se all’inferno siam dannati,
perché lui in tal misfatto
non ha certo alcuna colpa».
Nel suo cuore egli incomincia
a esplorare vie diverse.
Stette a lungo silenzioso.
Disse: «Fatti ora coraggio.
Ho trovato a entrambi un mezzo
che consente di celare
la vergogna nostra al mondo.
Nella terra mia conosco
un signore molto saggio
che può darci un buon consiglio.
Me lo consigliò mio padre
d’affidarmi al suo parere
quando giacque presso a morte;
anche a lui fu consigliere.
Consigliere a noi sarà
(so che molto egli è fedele)
e farem quel che egli dice:
salveremo il nostro onore».
Quel consiglio ella accettò,
e ne fu così contenta
come a lei era concesso:
non poteva ormai conoscere
una gioia al tutto piena.
Quel che un tempo era tristezza,
quando ell’ era senza affanni,
6
era adesso grande gioia,
interrotta del suo pianto.
Del progetto fu contenta,
disse: «Quel che a noi consiglio
dovrà dar, fallo venire,
che il mio tempo è già vicino».
Il vassallo consiglia al giovane di partire per la Terra Santa e lasciare il governo del ducato alla
sorella.
Disse il saggio: «Io consiglio
che alla corte voi chiamiate
i signori a voi soggetti,
dai più giovani ai più vecchi,
consiglier di vostro padre.
Voi allor rivelerete
che intendete partir presto,
pellegrino in Terra Santa.
A noi tutti chiederete
di giurare fedeltà
a madonna la duchessa
(e nessuno s’opporrà)
perché possa governare
finché voi starete assente.
(…)
La conduco alla mia casa,
ogni comodo procuro
sì che quando partorisca
nessun sappia l’accaduto.
(…)
Resti qui nella sua terra,
dove può il suo peccato
espiare ancora meglio.
Alleviar le pene ai miseri
con denaro e buon volere
può, se i beni suoi mantiene.
Ma se nulla più possiede
non le resta che il volere.
Senza mezzi il buon volere
come può aiutare qualcuno?
A chi giova senza beni
possedere il buon volere?
O ricchezza senza bontà?
La bontà vale anche sola,
ma più vale col denaro.
E per questo a me par bene
che bontà abbia e ricchezza.
Così può col suo denaro
seguir l’impeto del cuore
e il volere di Dio può compiere
con corpo, cuore e ricchezza.
Questo a voi pure consiglio».
Giusto parve a tutti e due
il consiglio, e senza indugio
il suo buon parere accolsero.
Separati lei e il fratello,
come il vecchio consigliò,
7
egli tosto deperiva
(prigioniero ancora d’amore)
e arrestare dovette il viaggio
per amore di Dio intrapreso.
Tanta era la nostalgia
per l’amata sua sorella
che trovar non gli era dato
un sol attimo di pace.
Il suo corpo ne appassiva.
Se si dice che le donne
amin più che non gli uomini,
qui si vede che è menzogna,
che la pena del suo cuore,
quale in lui era palese,
era piccola in confronto
di quel solo grande amore
che fu causa di sua morte:
ella, aveva quattro pene
e guarì. Lui prigioniero
fu d’amore, e ne morì.
(…)
Quando ella ebbe in suo potere
il ducato, e la notizia
per il mondo si diffuse,
dei signori assai potenti
da vicino e da lontano
la chiedevano per moglie.
Per la nascita e l’aspetto,
per potenza e giovinezza,
per bellezza e per prestigio,
cortesia e gran ricchezza
e per tutto l’animo suo,
d’ un gran principe era degna.
Furon tutti rifiutati.
(…)
Un signor allor regnava
in sue terre a lei vicine,
pari a lei per signoria,
nobilissimo e potente:
ogni impegno egli metteva
perché in sposo l’accettasse.
Poiché l’ebbe corteggiata
con messaggi e con preghiere,
come a lui si conveniva,
e lei sempre lo respinse,
conquistarla volle altrimenti.
Con assalti e con minacce
senza indugio egli l’oppresse
devastando le sue terre.
Conquistò città e castelli,
i migliori che ella avesse,
e tal punto la ridusse
che più nulla le rimase
se non sol la capitale.
Ed anch’essa era assediata
e ogni giorno sorvegliata,
che se Dio Signor non vuole
in sua grazia essere d’aiuto,
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anche quella perderà.
Ma lasciamo ora questa storia
e diciamo come andò
al figliol della duchessa,
che i selvaggi venti portano,
pur di Dio con il volere,
alla vita od alla morte.
Volle Dio nostro Signore
a lui essere di salvezza,
come per sua grazia Giona
si salvò dal vasto mare,
poi che fu tre notti e giorni
tra le onde imprigionato
dallo stomaco di un pesce.
Al bambino fu custode
finché salvo lo avviò
sulla costa di una terra.
Leggo il brano in cui — Gregorio ha ormai 11 anni, ha frequentato la scuola nel monastero, è stato
cresciuto dai pescatori — la moglie del pescatore, in un momento d’ira, saputo che questo bambino era stato
trovato in mare, rivela il segreto di Gregorio a Gregorio.
Così accadde un dì per caso
che Gregorio giovinetto
coi compagni suoi di gioco
venne in luogo al gioco adatto.
Qui accadde un fatto strano
(non da lui certo voluto):
fece male (unica volta)
a un figliuol del pescatore
sì che quel si mise a piangere.
E piangendo corse via.
Allorché sua madre vide
che giungeva tutto in pianto,
corse incontro al suo figliuolo.
E gli chiese con affanno:
«Perché mai piangi così?»
«Il Gregorio mi ha picchiato»
«Ti ha picchiato? perché mai?»
«Madre mia, io non lo so»
«Gli hai tu fatto qualche cosa?»
«Per Dio, nulla, proprio nulla!»
«Dove fu?» «Su quella riva».
Ella disse: «O me infelice!
Quello sciocco d’un superbo!
Dunque lo ha allevato a questo,
che mi picchi i figli miei
nella lor stessa famiglia.
Non s’addice ai tuoi di casa
ch’io sopporti questo oltraggio
da quel tale che non ebbe
mai famiglia che sua fosse.
Che abbia osato di picchiarti
un che è giunto chissà come,
sarà sempre a me un affronto.
Non si può più tollerare
che per Dio lo si sopporti.
9
Nessun sa chi egli sia.
[Quant’è vero che son viva,
voglio dirlo al mondo intero
che è un bambino trovatello,
(buon Signore, Tu m’aiuta)
pur se adesso ha fatto strada.
Certo lui se l’è scordato
che infelice fu trovato
ben legato in una botte
su una barca alla deriva.
Se ai miei figli egli fa male,
non lo posso sopportare.
Nessun sa chi egli sia].
Che gli viene ora in mente?
L’ha portato qui il demonio
perché sia la mia rovina!
Ora so di dove viene,
miserabil trovatello!
Si curasse che si taccia
dell’indegna sua esistenza?
Ne vivrebbe più tranquillo.
Maledetti siano i pesci
che non l’hanno divorato,
quando messo fu sul mare!
Egli ha preso la via giusta
qui giungendo dall’abate.
Che se quello al padre tuo
non l’avesse allor sottratto,
e suo protettor non fosse,
Dio lo sa che a noi sarebbe
altrimenti sottomesso:
i vitelli ed i maiali
porterebbe a pascolare.
Dove aveva mai la testa
quel tuo padre, quando in mare
lo trovò tutto gelato,
e all’abate l’ha ceduto
anziché asservirlo a sé,
come era suo diritto,
farne un servo o uno stalliere?»
Ma Gregorio quando ebbe
il fratello suo picchiato,
ne fu triste e corse a casa.
Egli aveva tanta fretta
perché aveva gran paura
che il fanciullo a lui togliesse
della madre sua l’affetto.
E sentì, là nella casa,
un gridare senza fine.
Si fermò fuor della soglia
e udì quell’insultare,
ed apprese fino in fondo
cose a lui prima nascoste,
ch’era estraneo in quella terra
poiché spesso con il nome
di straniero era chiamato.
La sua gioia fu sommersa
10
sotto pene sconosciute.
Si chiedeva in grande affanno
se non fosse quel discorso
verità o pur menzogna,
che diceva la nutrice,
e di corsa al monastero
ritornò, trovò l’abate,
e il sant’uomo prese a parte
dove non vi fosse alcuno.
Gregorio si rivolge all’abate e saprà da lui la sua storia. Si risolve a partire e l’abate deve lasciarlo
partire perché l’insistenza di Gregorio è notevole.
«Figlio mio, non voglio più
trattenerti qui più oltre,
(vedo che è il tuo intento serio),
anche se con cuore triste
mi separo ora da te.
Figlio mio vieni con me:
ti farò vedere quanto
mi rimane dei tuoi beni».
E il fedele lo condusse,
molte lacrime versando
in un grande bel salone
che era pieno di tessuti
di assai bella fine seta,
e gli diede nella mano
la sua tavola, in cui lesse
tutto della sua persona.
Ne fu triste e insiem felice.
La tristezza gli veniva
da quel ch’or vi voglio dire:
il peccato egli piangeva
da cui era generato.
E la gioia lo coglieva
per la nobile sua nascita
e la grande sua ricchezza,
di cui nulla egli sapeva.
Disse allora il fedelissimo
che era stato suo signore:
«Ora hai letto, figlio mio,
quel che sempre ti ho taciuto:
te l’ha detto la tua tavola.
Con il tuo oro ho fatto quello,
come era mio dovere,
che ordinava la tua madre:
l’ho accresciuto in gran misura
con l’aiuto del Signore.
(…)
La ricchezza tua è assai grande.
Questo e quel che acquisterai
ti darà da viver bene,
se tu avrai senno e misura.»
(…)
Allor tese lo straniero [Gregorio]
mani e cuore verso il cielo,
e pregò ardentemente
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il buon Dio che lo mandasse
alla terra a cui il suo viaggio
era volto dal destino.
Ordinò ai marinai
che alla volontà dei venti
si rendessero obbedienti
e lasciasser che la nave
se ne andasse in lor balia
né altrove dirigessero.
Si levò un vento forte,
che costante si mantenne,
e in pochi giorni furono
trascinati da tempesta
alla terra di sua madre.
Devastata ed incendiata
era questa, come ho detto,
sì che sol le era rimasta
la città sua capitale,
con pericolo assediata.
Quando vide la città
ordinò ai marinai
di far vela verso quella
e approdarono laggiù.
(…)
Quando seppe il lor pericolo,
disse: «Giungo in buon momento.
Questo è ciò che chiesi a Dio,
di condurmi a una città
dove avessi ben da fare,
dove già si combatteva,
perché il giovane mio tempo
non passasse in pigro ozio.
Se lo vuole la signora,
suo soldato io sarò».
(…)
Quando apprese la notizia
che era bella la regina,
e ancor giovane e pulzella,
e accadeva quella guerra
con disgrazia e con rovina
perché il duca respingeva,
e che s’era prefissata
di non prendere mai marito,
egli allor volle vederla.
Chiese quindi lo straniero
se potesse ciò accadere
senza danno per nessuno.
Anche a lei fu riferito
il suo pregio e nobiltà
sì che anch’ella fu contenta
di vedere l’ospite estraneo.
Cosa rara per straniero.
Era questo il suo costume:
dimostrare in questo modo
il dolore suo angoscioso
(sconosciuta era la gioia):
fosse misero o potente
o straniero oppur del luogo
12
a nessuno si mostrava
se non fosse nella chiesa,
ove immersa era in preghiera
come usava tutto il giorno,
tranne per il sonno e il pranzo.
Consigliò l’ospite al giovane
che pregasse il siniscalco
della donna di condurlo
dove lei veder potesse.
Fece questo il siniscalco.
Egli un giorno lo condusse
alla messa mattutina,
per la mano lo guidò
dove ella era in preghiera,
sì che lui la vide bene.
Poi le disse il siniscalco:
«Mia signora, salutate
questo sire: vuol servirvi».
Salutò ella il figliuolo
come fosse uno straniero.
Anche a lui è cieco il cuore,
e gli appare sconosciuta
lei che in grembo lo portò.
Lo guardò con attenzione
più che mai avesse fatto
con nessun altro uomo prima:
questo fu per la sua veste.
Quando l’ebbe ben guardata,
riconobbe con se stessa
che la seta del tessuto
che con le sue mani aveva
al suo bimbo avvolto intorno
e la veste di quest’ospite
erano molto somiglianti
e per prezzo e per colore:
il tessuto era lo stesso,
ed entrambi erano stati
intessuti da una mano.
Rinnovò questo il dolore.
A lui piacque la signora
come a un uom piace una donna
in cui tutto è a perfezione:
anche a lei quello straniero
piacque più che mai nessuno.
(…)
Lui lasciò il suo cuore a lei,
e poiché l’aveva vista
si impegnò ancor più di prima
in onore ed in prestigio.
I cortigiani sollecitano la signora a scegliersi uno sposo.
Poiché tante giuste cause essi [i cortigiani]
a lei misero innanzi,
il consiglio loro accolse
per compiere di Dio il volere,
e promise di sposarsi.
13
Quel che vollero fu fatto
e d’accordo furon tutti
di lasciare a lei la scelta
che sposasse chi voleva.
Poi che questo era deciso,
saggiamente ella pensò
molte volte nel suo cuore
che colui che avrebbe scelto
e al suo cuore più piaceva
non era altri che quell’uomo
— e contenta ella era in cuore —
che le aveva Dio mandato
a salvare lei e il regno.
Era il figlio suo, Gregorio.
E ben presto egli divenne il marito di sua madre.
Si compì il voler del diavolo.
Non fu mai gioia più grande,
la gioia che ebbero essi,
il signore e la signora,
perché entrambi lor godevano
con l’amor grande fede.
E vedete finì in pianto.
Egli fu buon reggitore
e generoso in largheggiare.
Ciò che a un uomo fu mai dato
di perfetta gioia al mondo,
egli l’ebbe a suo talento.
Ma poi tutto finì male.
Grande cura [Gregorio] ebbe in segreto
ogni giorno per la tavola
che celava in suo possesso,
sì che mai nessuno seppe
che su lui s’era trovata.
Vi leggeva tutti i giorni
la sua storia di peccato
per tormento dei suoi occhi.
Come fosse concepito
e qual peso di peccato
ne portasse il padre e madre.
E pregava Dio il Signore
che entrambi perdonasse,
né vedeva quel peccato
che portava sul suo dorso,
che ogni giorno ed ogni notte
consumava con sua madre
e con cui Dio offendeva.
Era in casa una servetta
troppo scaltra, a dire il vero,
che s’accorse del suo pianto
come ora vado a dirvi,
quella sala rassettando
in cui stava la sua tavola.
Egli aveva al suo tormento
scelto un tempo del suo giorno
che non alterava mai.
La fanciulla aveva visto,
nel passare accanto a lui,
che egli entrava là sereno
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e ne usciva tutto triste,
rossi gli occhi suoi di pianto.
Ogni giorno più zelante
fu a spiar segretamente
per scoprire quale fosse
la sorgente di quel pianto,
finché un giorno lo seguì
quando entrò a far penitenza,
pur seguendo suo costume.
Quando il pianto fu finito, la ragazza andò di corsa dalla sua padrona e disse:
«Mia signora, qual dolore
tanto opprime il mio signore
mentre voi ne siete indenne?».
La signora disse: «Che intendi?
Poco fa si è accomiatato
molto lieto qui da noi.
Che potrebbe avere appreso
dopo che da noi partì
che sì triste l’abbia reso?
Se qualcosa gli fu detto,
non l’avrebbe a me taciuto.
Nulla accadde a lui sì triste.
Tu devi esserti ingannata».
«No, signora, no purtroppo.
Io per vero l’ho veduto
prigioniero in tal tormento
che m’ha fatto male al cuore».
«Sempre è stato tuo costume,
e più volte tu per questo
m’hai irritato grandemente,
di portar cattive nuove.
Meglio avresti tu taciuto
che non dir queste menzogne
sol per farmi ancor soffrire».
«Mia signora, io non mento.
Io sostengo solo questo:
che a voi dico cosa vera.
Che può essere mai, signora,
questa cosa che vi cela,
poiché nulla vi nasconde?
Ma qualunque cosa sia,
ha sul cuore un grave peso».
La signora disse triste:
«Ahimè, mio signore caro.
Che gli può fare tanta guerra?
Del suo affanno non so nulla.
So che è giovane e in salute
e ha potere in gran misura.
Nulla inoltre io trascuro
per far quello che egli vuole
e lo faccio con gran gioia
perché il merito suo è grande.
Se altra donna ha uom più caro,
non mi muove alcuna invidia,
ma più caro mai non nacque.
Ahimè, misera infelice.
15
Mai non v’è nella mia vita
alcun bene tanto grande
nè verrà in alcun tempo
che non venga dal prestigio
di quel solo uomo al mondo.
Alla giovinezza sua
che può essere accaduto
che lo faccia pianger tanto
come tu mi riferisci?
Ora dammi tu il consiglio,
poiché tace egli con me.
Per scoprire il suo tormento,
senza ch’io mi scopra a lui.
Temo che se a lui lo chiedo
posso perderlo per questo.
So che qualsifosse cosa
che lo tiene sì in tormento
che possa essere svelata
non la tacerebbe a me.
Non vorrei sapere nulla
che va contro al suo volere.
Questo solo con l’astuzia
ora mi occorre di scoprire,
perché forse il suo dolore
posso in qualche mai maniera
alleviare col mio aiuto
o del tutto allontanare.
Abituata io non sono
che una cosa lui mi taccia,
che dia gioia oppure no,
e per questo son sicura
che tal cosa non vuol dirmi».
La duchessa, leggendo la tavoletta che la serva le porta, riconosce quella che lei stessa aveva scritto,
aveva inciso e posto nella culla di Gregorio.
Gregorio rientra e la donna gli chiede notizie della sua nascita.
Il duca giunse dove
ebbe fine la sua gioia,
quando scorgere dovette,
della cara sposa sua
la vista desolante.
Dalle guance era fuggito
per dolore ogni rosato,
ogni bel color sbiadito.
La trovò color di morte.
Anche in lui fuggì la gioia
e al suo posto entrò il dolore,
poiché mai non furon visti due c
he sì tanto s’amavano.
L’innocente peccatore disse:
«Che v’accade, mia signora?»
«Sire, sono in grande pena»
«Che v’angoscia, mia signora?»
«Sire, ne ho tanto motivo
che al Signor quasi rinfaccio
d’esser mai venuta al mondo,
ché inimica a me ogni gioia.
16
Maledetta fu quell’ora
dalla bocca del Signore
in cui io fui concepita:
guerra a me giurò la gioia
e tien fede al giuramento
e mi dà mille sventure
per un attimo di gioia.
Sire, voi dovete dirmi
di qual stirpe voi nasceste.
Prima già dovevo farvi
la domanda che ora faccio.
Forse adesso è troppo tardi…»
«So, signora, che v’opprime.
V’ha qualcuno raccontato
che io nobile non sono?
Se sapessi chi con questo
rattristata v’ha cotanto,
non potrei avere pace
fino al giorno di mia morte.
Ben si celi, ne ha motivo.
Chi si sia egli ha mentito:
è provato senza dubbio
che son figlio io d’un duca.
Concedetemi senz’ira
che di questo più non dica.
Non vi posso dir di più».
Così a lui disse la donna:
«Non è questa la ragione.
Sa il Signore che giammai
guarderei in faccia un uomo
che di voi mi raccontasse
cosa indegna mai di voi.
Nessun credito qui avrebbe.
Temo che la vostra nascita
a me sia troppo parente».
Quella tavola allor trasse.
«Se voi siete — disse — l’uomo,
non tenetelo nascosto,
di cui qui è stato scritto,
il volere del demonio
ci ha sommersi anima e corpo:
vostra madre sono e sposa».
Or pensate quel che prova
l’innocente peccatore.
Del dolore egli fu preda.
E la collera levò
contro Dio dicendo:
«Questo è quel
che io chiedevo a Dio,
di condurmi in luogo tale
che io avessi l’avventura
di vedere con occhi lieti
la carissima mia madre.
O Dio buono e onnipotente!
Altra cosa mi hai concesso,
che non quella che chiedevo.
17
Nel mio animo sognavo
una gioia e un grande bene.
Or mia madre ho conosciuta
sì che gioia mai né avrò.
Vorrei esser di lei privo
che non intimo così».
Chi volesse fino in fondo
raccontare il lor dolore
più di me dev’esser bravo.
Credo che non sia possibile
che una sola umana bocca
tutto questo vi racconti.
Quando mai uomo, oppure donna,
provò tanto duro affanno
e sì greve a sopportarsi
senza alcun confronto al mondo?
Era l’anima atterrita
dall’incendio dell’inferno
e il corpo lor soffriva
della lor separazione.
Il poter di Dio ha creato
un’ambigua comunione,
che persiste tuttavia,
e dell’anima e del corpo.
Ciò che al corpo piace tanto
non fa bene alcuno all’anima.
Ciò per cui l’anima è salva
spesso al corpo causa pena.
Ma in entrambi essi feriti
doppia morte ne pativano.
«Oh, mio figlio, mio signore,
voi che molto avete letto,
mi sapete dir se esiste
penitenza a tal delitto,
poiché nulla può cambiarsi
— e di questo sono certa —
né all’inferno sfuggir posso,
con cui in qualche parte almeno
espiar sì che più lieve sia
che altre vite ancora
all’inferno pur dannate?»
«Madre mia, —disse Gregorio —
non parlate più così.
È contrario alla Sua legge.
Voi di Dio non disperate,
ché potete ancora salvarvi.
Lessi un tempo d’un conforto
che Dio stima il pentimento
espiazione del delitto.
Ora noi dobbiamo agire sì
che Dio ci accolga un giorno ancora insieme».
Gregorio parte mendicante e la duchessa , madre e sposa, rimane a reggere il regno. La penitenza di
Gregorio, suggerita dall’occasione di un incontro con il pescatore, che lo disprezza, è trascorrere 17 anni
legato a una catena su uno scoglio in mare.
(…)
18
Alcuni saggi ricevono la rivelazione che il Papa da eleggere — essendo vacante il soglio pontificio a
Roma — sarebbe un uomo che vive in Aquitania su uno scoglio: decidono di andare a prenderlo. I due saggi
partono, senza sapere dove andare, e giungono alla casa del pescatore.
Quando furono alloggiati,
disse il pescatore agli ospiti:
«È per me una gran fortuna
di vedere in casa mia
gente tanto di prestigio.
Ho pescato proprio oggi
un bellissimo gran pesce».
Il pescatore, 17 anni prima, aveva chiuso a chiave il lucchetto e la catena, gettato la chiave in mare,
e posta una condizione: Gregorio sarebbe stato sicuro della sua innocenza se un giorno la chiave sarebbe
tornata nelle sue mani, per poter aprire il lucchetto.
«È per me una gran fortuna
di vedere in casa mia
gente tanto di prestigio.
Ho pescato proprio oggi
un bellissimo gran pesce».
Sopra un tavolo esso stava
alla vista dei signori.
Non mentiva il pescatore
perché grosso era e ben lungo.
Già di quello pregustava
il guadagno in buon denaro.
E fu presto affare fatto:
ordinarono di comprarlo
e pregarono il loro ospite
che lui stesso lo sventrasse.
Cominciò quello ad aprirlo,
mentre tutti lì guardavano
e trovò quell’uomo esoso
nello stomaco la chiave
di cui già sentiste dire,
con la quale Gregorio aveva chiuso
senza compassione 17 anni prima
e gettata aveva in acqua,
asserendo che a quell’ora,
che l’avesse ritrovata ripescandola dal lago,
lui di colpe sarà puro.
Quando la ritrovò nel pesce
all’istante egli comprese
che era stato sordo e cieco
e con ambedue le mani
si strappò i capelli in testa.
E aiutato anch’io lo avrei
sol che fossi stato lì,
tanto irato io sono con lui.
Il pescatore con i due saggi si dirigono allo scoglio, benché il pescatore sia sicuro che non troveranno
più nessuno, e invece trovano Gregorio.
Lo pregano di dire se Gregorio è il suo nome. Gli dicono che egli è stato eletto e nominato, stabilito
reggitore in Sua vece sulla terra da parte di Dio.
Gregorio non vuole.
19
«Se tra voi oggi io fossi
accader potrebbe ai giusti
di pagar i miei delitti,
tanto grande è la mia colpa.
Che per guida mi vogliate
è un inganno pien di beffa.
Da Signore nostro Iddio
ho piuttosto meritato
il suo odio e la sua ira
e non certo che egli volga
la Sua grazia a me e l’onore
che d’un Papa son sigillo.
Non io sono in Roma atteso:
nessun bene ne verrebbe.
Non vedete il corpo mio?
E si descrive.
«Fui di nefandezze
vaso pieno e di peccato,
quando qui su questa rupe
fui legato in questi ceppi
che vedete ai piedi miei,
che con pena ancora porto.
Fu celata allor la chiave
con la quale nelle catene
chiuso fui sì strettamente.
Fu gettata in fondo al lago
e colui che l’ha gettata
disse che sol perdonato
io sarei se la trovasse.
Non c’è mai sì gran peccato
che più forte sia la grazia
di colui che aprì l’inferno.
Se il Signore nostro Iddio
s’è dei miei molti debiti, delitti,
per bontà dimenticato,
e io son di nuovo puro,
a noi tre di questo deve
dare un segno che sia indubbio
o dovrà la vita mia
trovar fine in questo scoglio.
Egli deve qui mandarmi
quella chiave con la quale
qui sono stato incatenato
o di qui io non mi parto».
Il pescatore dice di avere trovato la chiave e apre le catene. Gregorio cerca la tavoletta che aveva
dimenticato la mattina quando era stato svegliato dalla moglie del pescatore perché si era addormentato e la
trovano fra le macerie e le ceneri della catapecchia in cui era stato ospitato anni prima. La vuole affinché
delle sue colpe più gravoso fosse il peso. Su quella tavoletta stava scritta la sua origine.
Viene condotto a Roma.
E la città grande di Roma
ricevette il suo signore
con il cuore tutto in festa.
E per tutti fu un gran bene,
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poiché mai nella città
era stato eletto un Papa
che così sanar sapesse
le ferite di ogni anima.
Conduceva vita santa
poiché dava a lui misura
del Signore il Santo Spirito:
rispettava la giustizia
ed è giusto mantenere
nel potere l’umiltà.
Hanno i poveri qui asilo.
Ed è giusto col timore
fustigare empi costumi
e piegare con diritto
quei che son contro giustizia.
E se un figlio del demonio
tien la stola in poco conto
senta il peso del potere:
giuste son le due leggi.
Esse insegnano giustizia
e colpiscono l’arroganza.
Ma si deve il peccatore
pur correggere con dolcezza,
con la mite penitenza
che fa dolce il pentimento,
che la legge è sì severa,
ché se viene a un peccatore
applicata con rigore
non può il corpo sopportarla.
Chi cercare vuol la grazia,
più dura penitenza spesso alfine
ne dispera, sì che a Dio può rinunciare
e tornare preda del demonio.
Perciò viene ognor la grazia
prima della dura legge.
Diede giusta la misura
alla vita spirituale,
perché salvo il peccatore
e costante fosse il giusto.
Col suo forte insegnamento
del Signor la gloria accrebbe
e si sparse saldamente
nell’impero dei romani.
Veniamo ora all’ultimo atto.
La sua madre, sposa e zia,
tre persone in un sol corpo,
quando seppe in Aquitania
di quel Papa che per vero
un rifugio e un conforto
era a tutti i peccatori,
lo cercò per un consiglio
al peccato capitale
perché il peso dei peccati
fosse tolto alle sue spalle.
Allorché lo vide e a lui
21
confessandosi parlò,
alla nobile signora
pur non venne alcun sospetto
sopra il corpo di quel Papa,
che cioè fosse suo figlio.
Ella aveva in sé sofferto
e fatiche e penitenze
poiché erano separati,
sì che il corpo per fatica
appassito e indebolito
era in forza e in colore,
che neppure lui la riconobbe
fino a che il suo nome disse
e la terra di Aquitania.
Quando udì la confessione,
e null’altro ella disse
se non quella stessa storia
che egli già ben conosceva,
riconobbe sul momento
che la donna era sua madre.
Quel sincero uomo santo
ringraziò molto il Signore
che ella avesse al suo consiglio
obbedito tanto a fondo.
Vide infatti chiari in lei
pentimento e penitenza.
on saluto assai festoso
egli accolse allor sua madre
e felice fu che a lui
quella gioia infin toccasse
di vederla ancora in vita
e di averla accanto a sé
nella tarda sua vecchiaia,
consigliere essere a lei
per la sua salvezza eterna.
Ma la donna non sapeva
che l’aveva già incontrato.
Con parole accorte disse:
«Donna, ditemi per Dio,
mai sapeste qualche cosa
dove fosse vostro figlio,
se sia morto oppure vivo?»
Per gran pena sospirò.
Disse: «No, signore mio.
Sono certa che tal pena
ha sofferto in penitenza
che se il vero ciò non smente,
credo che non sia più vivo».
Egli disse: «Se per grazia del Signore
esser potesse che egli fosse
a voi mostrato,
credereste di poterlo riconoscere ancora oggi?»
«Se i miei sensi non mi ingannano,
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se lo vedo lo conosco».
Egli disse: «Dite, prego,
quale dei due voi provereste?
Forse gioia, oppure dolore, s
e doveste rivederlo?»
Disse: «Voi dovete credermi.
Ho da me allontanato tutti gli agi, ogni ricchezza,
ogni gioia pur dell’animo
e sono fatta misera donna.
Non potrei in questa vita
avere mai gioia più grande
che di rivederlo ancora».
Disse: «Fatevi coraggio
che vi annuncio grande gioia.
Non è molto che lo vidi
e nel nome di Dio disse
che più caro nulla aveva,
più costante e saldo affetto
che la vostra persona».
E la donna: «Dite, di grazia, vive ancora?»
«Sì»
«E come?»
«Bene sta ed è qui accanto».
«E, signor, posso vederlo?»
«Sì. Non è molto lontano».
«Che io lo veda, mio signore».
«Mia signora, è presto fatto.
Se volete voi vederlo
non occorre che attendiate.
Cara madre, mi guardate.
Sono il figlio e sposo vostro.
Benché fosse grande e grave
dei peccati miei il fardello,
Dio ha tutto cancellato
e da Dio questo potere
consegnato è in mano mia.
Dal volere Suo è venuto
che io fossi qui eletto
e a Lui ho consacrato
la mia anima e il mio corpo».
Così fu all’infelice
compensato il suo soffrire.
Dio li unì per vie mirabili
per la gioia di lor due.
Vissero quindi inseparati
finché entrambi morirono.
Ciò che a lei Gregorio disse
e ordinò per penitenza,
allorché lasciò la patria,
tutto aveva ella compiuto,
con il corpo e con gli averi,
in voler di penitenza
sì che nulla le restava.
E quegli anni che trascorsero
essi a Roma poi insieme
furono tutti per entrambi
a Dio solo consacrati,
23
sì che furono per sempre
figli eletti del Signore.
Anche ottenne per suo padre
che con lui sedesse
dove mai la gioia viene meno.
Gloria a chi siede lassù.
Dalla storia a lieto fine
dei due grandi peccatori
che riottengono la grazia
del Signore dopo la colpa,
mai non deve un peccatore
trarre triste presunzione
né pensar nella sua mente
di potere fare guerra a Dio
ragionando in questo modo:
“Compi pure ogni delitto,
chi potrà dannarti poi?”.
Quindi deve avere il peccatore
chiaro quel concetto:
che se pur molto ha peccato,
c’è per lui speranza ancora
se si pente veramente
e fa giusta penitenza.
Hartman, che la sua fatica
diffuse in questi versi,
manda a tutti insieme,
l’innocente peccatore e messaggero,
il nostro affanno,
perché noi nella miseria
alla fine ci salviamo,
come loro si sono salvati.
Dio ci aiuti in questo.
Ecco.
GIACOMO B. CONTRI
Fra qualche momento segue un intermezzo ancora di Raffaella Colombo.
RAFFAELLA COLOMBO
NARRAZIONE DI UN CASO
Dalle prime file c’è stata la richiesta, l’ennesima richiesta: «ce lo dici dov’è la colpa?».
Introduco…
Vi racconto adesso di una bambina di 12 anni, Sybill, che è stata inviata a me su indicazione dei
docenti e che mi è stata presentata dalla madre. Una bambina, una ragazzina che frequenta la 1° media e che
i docenti “non capiscono”. Una ragazzina scontrosa, che si isola, non vuol parlare con nessuno, sembra non
capire; intanto, non va bene a scuola. Di lei si sa, i docenti sanno, che è figlia di genitori divorziati — il
divorzio è avvenuto quattro anni fa — e non riescono, non si riesce ad avere un rapporto né con lei, né lei
con i compagni di scuola. Distratta, se parla è per aggredire, per attaccare. E la madre — è venuta da me alla
fine di ottobre — mi dice questo: è contenta che la figlia possa venire da me, ma teme che si rifiuterà perché
ha avuto un’esperienza precedente con psicologi al momento del divorzio, quando a uno psicologo era stato
24
assegnato il compito di facilitare la ripresa dei rapporti fra Sybill, la sorellina e il padre, perché Sybill e la
sorella non volevano più vedere il padre che aveva un diritto di visita.
La madre dice che la figlia era l’unica delle tre donne — la madre e l’altra sorella — era l’unica alla
quale il padre obbediva. Quando il padre vedeva la figlia con un fare autoritario, andava in cantina. Il padre
alcoolista e dipendente da sonniferi, aveva l’abitudine di recarsi più volte al giorno in cantina, dove aveva
costruito, arredato, un locale come il suo insediamento. E la madre, la moglie, sapeva che lui beveva, ci si
accorgeva, per lo meno all’olfatto e anche alla vista, ma non si riusciva a scoprire una bottiglia; cioè non si
riusciva a capire, lei non riusciva a capire dove bevesse e tutte le volte che risaliva dalla cantina odorava di
alcool e non c’era traccia alcuna in cantina. Dopo la separazione si è scoperto, lei ha scoperto, che in cantina
lui aveva costruito un locale, un doppio muro, con una porta di accesso ben celata, che era una cantina
fornitissima.
E quando la bambina diceva al padre: «Fila in cantina! Non mi dar fastidio. Fila in cantina!», lui
faceva questo, lui se ne andava. Lei lo aveva in pugno, secondo la madre.
Nel momento della separazione, l’occasione della separazione è stata data da un episodio — era la fine
dell’anno scolastico della terza elementare di Sybill — Sybill aveva portato a casa il libretto scolastico e i
quaderni e il padre glieli aveva stracciati e stava iniziando una collisione tra lui e la moglie. La bambina alla
vista di questo era fuggita di casa, si era rifugiata da un vicino, e aveva telefonato a casa dicendo che sarebbe
tornata solo se la mamma avesse mandato via il papà da casa. Questa è stata l’occasione per la separazione.
E la madre mi dice che il marito era un uomo violento, inaffidabile, soprattutto nei momenti in cui
beveva, ma che non aveva mai picchiato Sybill; appunto la temeva. E allora racconta di alcuni sospetti sul
rapporto tra il padre e la bambina, confermati dalla bambina stessa, e secondo la madre il rapporto che il
padre, il modo di rapporto che il padre ha avuto a sua insaputa, a insaputa della madre, con Sybill, sono da
connettere con il fatto che Sybill non riesce più ad avere rapporti, con i compagni, con la scuola.
Il fatto è questo — un primo sospetto in un rapporto disturbato — è un episodio che risale all’età
della scuola materna. La maestra d’asilo un giorno racconta alla madre di Sybill di un gioco che Sybill ha
fatto con un compagno, un maschietto. E la maestra mette in allarme la madre sulle inusuali conoscenze della
bambina riguardo alla fisiologia. Dice che ha visto Sybill giocare fra i cuscini , in un momento di gioco
libero, con un maschietto, svestiti, anzi svestita dal maschietto e Sybill che diceva al maschietto, che si
toccava: «Quando hai finito, dopo esce una cosa bianca». Era una indicazione, evidente, che una bambina
non dovrebbe avere riguardo alla eiaculazione. Era un’indicazione a riguardo dell’eiaculazione. E la madre
non ha dato rilevanza al fatto. Più tardi ha ricordato che quando lei rientrava a casa dopo delle assenze di più
ore, durante le quali era il padre che era in casa e si occupava delle bambine, ricorda che trovava Sybill a
letto, semiaddormentata, con il dito in bocca. Questo fino a 6-7 anni. Cioè era accaduto più volte. E che un
giorno Sybill le ha raccontato dei giochi che il papà faceva con lei. E il sospetto della madre, che questi
giochi siano stati realmente fatti, pur non avendone prova alcuna, se non dal racconto della bambina, mentre
dal marito la negazione. E dice di avere spiegato alla bambina che queste sono cose che non si fanno e che da
allora la bambina ha avuto il coraggio che prima non aveva di rifiutare di seguire il padre, che la invitata o ad
andare in cantina o ad andare in bagno con lui.
La bambina viene. È una ragazzina bionda, con gli occhiali, la frangetta, anzi una frangetta piuttosto
lunga: le copre gli occhi. E colpisce per l’andatura, per il portamento: è piegata su di sé. Guarda da sopra gli
occhiali, con il mento che tiene sul petto e siede semisdraiata sulla sedia. I vestiti le cadono di addosso; si
vede che non ha nessuna cura. Questo è il primo incontro. E quello che mi dice: sa perché è venuta e io le
dico che sono contenta che lei venga e che mi dica quello che vuole dirmi, che vedo che ha un cruccio. E lei
mi dice di sì: è il papà. Il papà è via da casa da tre anni e lei teme di incontrarlo in città. È una cittadina:
scuola, piazza, il centro è piccolo per cui la possibilità di incontrarlo è grande e teme di incontralo all’uscita
da scuola. È successo più volte: il papà la invita a bere qualcosa, entrano in un bar, lui beve e poi se ne va e
deve pagare lei. Questo è successo tre, quattro volte. E le facevo notare che dal suo rapporto mi sembra che
non abbia voglia di seguire il papà, di andare a bere con lui. Lei mi dice che ha paura, è timida, il papà la
intimidisce, non gli sa dire di no. E le chiedo che cos’è che non vada. Mi dice che il papà è ubriaco, è
ammalato, è invecchiato, è diventato brutto; ha il viso coperto di foruncoli, è senza denti e lei si vergogna.
Non vuole che i suoi compagni sappiano che lui è il papà. Da quando accade che il papà la venga a prendere
o incontrare all’uscita da scuola, la madre tenta di evitarlo andando a sua volta a prenderla. La bambina dice
che la mamma le ha detto che il papà potrebbe invitarla a casa sua e per evitare questo la viene a prendere.
La mamma le ha detto che il papà potrebbe chiederle quello che le ha chiesto nel passato. La mamma teme
questo, dice la bambina, e quindi la viene a prendere.
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Allora faccio notare alla bambina, per la quale vedo che il problema più importante, che è veramente
un cruccio, è che il papà è diventato vecchio, brutto e senza denti, non vorrebbe che i compagni la vedessero
figlia di quest’uomo, e allora le faccio notare, come lei ha detto, che sì il papà è ammalato, ma se è ammalato
non è sempre stato ammalato. Le chiedo se non ricordi com’era suo padre quando lei era piccola. E ha dei
ricordi e nel parlarne si ravviva. Le chiedo se non ha delle foto del papà da giovane, quando non era
ammalato e perché non ne porti con sé. Potrebbe benissimo dire ai compagni che suo papà è questo,
quell’uomo là. Questa sembra una soluzione per la bambina — momentanea — e difatti vuol venire, vuol
venire ancora e la volta successiva viene e mi porta 5-6 foto ed è orgogliosissima di mostrarmi il suo papà.
Intanto, dalla seconda volta in poi, è diversa: ha un portamento più eretto, i capelli…non so se ha
tagliato la frangia, comunque la fronte è libera, guarda negli occhi, sorride, racconta. E mi dice che la
mamma le ha detto di dirmi una cosa: e torna allora ad assumere un’espressione triste, intimidita, dispiaciuta.
Mi dice che il papà ha fatto con lei delle cose che un papà non dovrebbe permettersi di fare. Lei era piccola e
il papà la invitava a fare delle cose che non aveva il diritto di chiederle. Io le chiedo chi le abbia detto questo.
Lei mi ha detto: «L’aveva detto la mamma. È la mamma che mi ha detto che il papà non aveva il diritto di
chiedermi queste cose perché io ero piccola». E mi dice che quando era piccola lei non sapeva di che cosa si
trattasse e lo faceva perché a lei piaceva; la divertiva, era una cosa nuova. E succedeva spesso che il padre le
chiedesse di andare in cantina o di andare in bagno e da quando sa dalla mamma che certi atti, certi gesti un
papà non li può chiedere alla bambina, da quando lo sa, il ricordo di questo, ciò che papà ha fatto con lei le
provoca ribrezzo.
La madre mi aveva raccontato al primo incontro, ed era una prova del fatto che era accaduto
qualcosa di sconveniente tra padre e figlia, ricorda che una notte recentemente Sybill si era svegliata ed era
entrata nella sua stanza, nella stanza da letto della madre, — dove da tre anni, cioè da poco dopo il divorzio
dorme con un amico che ha preso il posto del padre in casa e Sybill ogni tanto parla di lui, si confonde, lo
chiama con il nome proprio, poi dice il papà, poi dice il papà tale, il papà con il nome proprio — ; una sera è
entrata in stanza e ha visto la mamma e il suo amico fare l’amore ed è rimasta sulla soglia. La madre se ne è
accorta, è uscita e Sybill le ha detto: «Ma a te, mamma, fare queste cose, piace? Perché quando io le facevo
con il papà, a me non piaceva». Notare che il fatto che non le piacesse, la bambina dice è accaduto dopo che
la mamma le aveva detto di che cosa si trattava. E la madre le dice che a lei sì che piace.
Successivamente, Sybill torna da me, chiede di tornare; chiede di volta in volta se davvero tornerà la
settimana prossima alla tale ora. E un giorno le racconto succintamente la storia di Gregorius, facendole
notare che quello che è accaduto a lei è accaduto anche ad altri e anzi, anche a re e a regine e non per questo
non sono poi state donne amate da uomini e desiderate, amate. E alla fine del racconto, che aspettava
volentieri, commenta dicendo: «Ah! Ma allora ce ne sono altri come me».
Nel frattempo, a scuola nei rapporti è cambiato tutto: è tornata spigliata, allegra; c’è un vai-vieni di
compagni a casa sua, in casa di altri. E recentemente mi ha detto che non si ricorda neanche più perché è
venuta da me, che sta bene, ma ha un pensiero fisso. Ha un ricordo che ha presente fin dall’inizio e che le
torna continuamente ed è legato, questo ricordo, è legato al papà, al fatto che il papà sia malato, che sia così
brutto, così trascurato. Allora io torno, le chiedo perché non faccia notare al papà che può curarsi. Lei dice
che ha paura, è intimidita — gliel’ha detto la mamma che lei è intimidita — . Allora racconta finalmente un
episodio che le torna alla mente e che mi dice che voleva, più volte avrebbe voluto dirmi e dimenticava. Ed è
il vero motivo per cui il pensiero del papà e la vista del papà le risulta spiacevole. È il fatto che a insaputa
della mamma lei ha visto più volte il papà picchiare il cane. Dice di avere odiato il papà per questo, perché
lei si immedesimava nel cane che veniva tenuto legato a una catena nel giardino e quando il padre — lei dice
— era nervoso, picchiava con un bastone, fino al punto che hanno dovuto portar via il cane, portarlo al
canile, perché era diventato pericoloso: non ci si poteva più avvicinare perché mordeva. E lei racconta che
anche il papà è stato morsicato. E si dilunga nel raccontare questo, dicendo che nessuno la vedeva, la
mamma non sapeva che lei vedeva, perché quando si sentiva il cane gemere, la madre portava le bambine
dall’altro lato della casa e lei dice che aveva scoperto che da una finestrella nel bagno del piano superiore si
poteva vedere in giardino. E tutte le volte che sentiva il cane gemere e il padre urlare, perché lo picchiava, lei
andava a vedere. E insiste dicendo che lei si immedesimava in questo cane senza colpa e non capiva perché il
papà si accanisse tanto … E lei si immaginava la pena di questa bestia e il papà era cattivo, in questo era
cattivo.
Il sollievo per Sybill è stato il notare, riconoscere lei stessa che in questi atti, per questi atti, il papà
era cattivo. Per degli atti; non “il papà è un cattivo”. E in quel momento ha potuto ricordare anche aspetti
gradevoli, cari, del papà; dei lavori fatti dal padre per lei che lei tiene nella sua stanza e che voleva togliere
dalla stanza, e — lei dice — che da un po’ di tempo le sono tornati cari.
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Terminerei qua, con un commento. È un caso di incesto. La sorpresa è stata il constatare come la
bambina chiedesse addirittura a me conferma, ma non era neanche necessario avere una conferma per lei, del
fatto che degli atti dei rapporti con il padre erano diventati sconvenienti solo nel momento in cui aveva
saputo che erano proibiti. Uno sconcerto per lei stessa: come mai quello che a me piace o che a me piaceva
non era da fare? La condanna è venuta nel momento in cui la madre ne ha dichiarato, ha fatto diventare l’atto
uno scandalo. Per Sybill questo atto era leggibile in lei: non voleva che i compagni sapessero che quello era
suo padre. Ma il reale motivo di dispiacere riguardo al padre non è legato a quegli atti. Il ricordo che ritorna
— non mi sembra che sia un ricordo di copertura — sono atti reali visti, di pena, dovuta a degli atti di
cattiveria del papà, di quell’uomo.
Allora, dove sta la colpa, che questa bambina non riconosceva e neanche adesso riconosce, salvo
nelle parole, nel giudizio della madre: «Un padre non si può permettere queste cose»? Colpa che si sta
trasmettendo il lei, perché lo stesso atto visto compiere da altri e pensato per sé con un uomo le risulta fonte
di ribrezzo. Ma ripete lei: «perché me l’ha detto la mamma». Erano domande mie: chi te l’ha detto? Lo pensi
tu? Te lo ha detto qualcuno? E ogni volta: «Me lo ha detto la mamma». C’è l’aspetto di scandalo; mentre per
il soggetto questo, per la bambina, questi atti erano — lo diceva lei stessa — era qualcosa di bello, perché era
qualcosa di nuovo, di divertente. «Mi piaceva perché me lo chiedeva il papà», «Lo facevo perché me lo
chiedeva il papà e mi andava bene».
Allora, dov’è la colpa?
GIACOMO B. CONTRI
L’ EDIPO
Raffaella mi chiedeva se è sufficiente: è già tutto contenuto in ciò che lei ha detto, prima, ora e la
volta scorsa. La mia è solo una esplicitazione.
Se la legge è quella che noi diciamo, se la legge è la legge dei figli, dei figli che sono figli e figlie,
— di più: una legge tale senza la quale essi non sarebbero figli e figlie, non avrebbero un sesso, se non
ridotto alla ideologia della anatomia. Diciamo un’ideologia più o meno gentilmente pornografica,
un’ideologia isterica, propriamente parlando, nevrotica, e immorale in quanto tale, immorale in quanto
patologica. — Se la legge è quella che noi diciamo, l’incesto, quello che si chiama incesto ne sarebbe il
primo correlato. Non solo lo sarebbe, ma lo è. Lo è privato della “in” iniziale della parola in-cesto, che vuol
dire «in-castus», non casto. Se la legge è quello che diciamo, ciò che è chiamato incesto diventerebbe casto;
significa legittimo.
E difatti è così.
La domanda è: dove è il peccato, colpa o delitto?
Dalle parole appena dette, è del tutto chiaro: se c’è colpa, delitto o peccato, si tratta di una colpa, un
delitto, un peccato, contro la legge in quanto legge dei figli e figlie. Dunque, definizione appena data: c’è
colpa o peccato o delitto, se e solo se si tratta un delitto nei confronti della legge dei figli in quanto tali, ossia
contro la verità che «essere uomini è essere figli».
Allora questo è il livello a partire dal quale e nel quale trattare ciò che trattiamo e significa la nostra vita
stessa, anzitutto. Il fatto che noi, o parte di noi, in una maniera o in un’altra, siamo dei curanti, dei terapeuti o
come volete dire, è formalmente secondario, ossia derivato.
Riguardo alla parola peccato sarebbe bene che facessimo un rapido processo di civilizzazione di noi
stessi. Peccato e delitto sono, peraltro all’uso latino antico, ma ancora dei giuristi dell’altro secolo, sono, e
non sono mai stati altro, che due sinonimi. È rigorosamente falso che il peccato è una cosa da prete e il
delitto è una cosa da magistrato. Che il peccato è una cosa che riguarda la morale e il delitto è una cosa che
riguarda il Diritto Penale. La nostra unificazione del concetto è esplicita, formale, rigorosa.
In questa, che è Scuola Pratica di Psicologia e Psicopatologia, le categorie della quale sono
sufficienti a fare ciò che abbiamo fatto questa mattina e la prima volta — tirare dentro Hartman — senza per
questo essere passati a fare un lavoro di letteratura, scisso, estraneo, in questa scuola si sono unificati in una
medesima nozione di competenza diritto, morale e psicologia. Allora, peccato o delitto, se è, è peccato o
delitto contro la legge dei figli. È contro l’essere come essere di figli e figlie. Infatti, è solo la legge a
consentire di conoscere il peccato. C’è qualcuno che l’ha detto in questo modo in passato. Non esiste il
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peccato se non esiste la legge. Noi potremmo conoscere l’esistenza o meno, testare, come dicono gli
psicologi e non solo, l’esistenza o meno del delitto o del peccato a partire dalla legge stessa. Aperta
parentesi: i test, non dei fisici, non dei medici, ma degli psicologi in questo non valgono nulla o peggio.
Anche essi per conoscere ciò che testano, non partono da una legge, una scala, — un test proiettivo — non è
una legge se non in qualche aspetto, per qualche parvenza, a brandelli, a straccetti. Ma questo è solo un
inciso.
Avevo detto la volta scorsa che stiamo facendo un recupero, una ricapitolazione dei secoli e dei
millenni. La faccenda di cui ci occupiamo è l’interrogativo, a risposta perfettamente incognita: ma dove è il
peccato in questa vicenda? Parte della storia letteraria, almeno da Sofocle, dicevamo. Abbiamo portato il
Gregorius, di Hartman von Aue, XII secolo, indubbiamente esplicitando il nostro plauso, la nostra netta
preferenza, alla soluzione — dico bene: soluzione — di Hartman rispetto alla soluzione di Sofocle. Le due
coppie incestuose di questo racconto sono due coppie di persone psichicamente sane, normali. Edipo e
Giocasta sono malati. Già dimostrato, dimostrato ed illustrato in questa sede, illustrazione estendibile, lo
illustrerei grazie al confronto col Gregorius mostrando le divergenze opposte, strane, che nel rapporto tra i
due soggetti, prendono i soggetti in Edipo Re e in Gregorius. In Edipo Re, Giocasta ed Edipo, nella misura
stessa in cui vanno riconoscendo quella che essi credono essere la verità, non si parlano più. Interrompono il
loro rapporto. Non c’è più rapporto fra di loro. Il delitto che essi compiono verso se stessi —
l’autoaccecamento e il suicidio, rispettivamente di Edipo e di Giocasta — sono consumati dall’uno e
dall’altra nella solitudine del rapporto interrotto. Assolutamente tipico della patologia: quanto più il soggetto
si ammala, tanto meno prosegue il rapporto di parola che in precedenza ha, aveva con certe persone, in
particolare caso.
Qui noi abbiamo due coppie di soggetti che nella misura stessa in cui riconoscono chi essi sono,
proseguono il rapporto. L’incremento, la confidenza stessa è estesa.
C’è di più, in Gregorius: si può bene considerarlo una apologia di incesto. Edipo Re è il pollice verso
all’incesto.
Ma anche nel cavaliere e nella duchessa, figlio e madre, si pone l’interrogativo: dov’è il delitto? Essi
stessi, per asserire che ve ne è uno, danno fiducia alla testimonianza di Dio, è Dio che dice che c’è delitto.
Non in una sola riga del Gregorius c’è una positiva asserzione di quale esso sarebbe. È importante, in almeno
due punti del Gregorius, Gregorius, —ma la cosa sarebbe estendibile alla donna, sorella prima, madre poi —
è definito «innocente peccatore». C’è un’altissima consapevolezza del quesito sul delitto o peccato da parte
di Hartman, essendo egli così formato (…)
«Innocente peccatore», ossia ci mette di fronte a un contrasto. Preferisco la parola contrasto;
contraddizione è un concetto logico. Diciamo che c’è un contrasto o scomposizione. Notiamo che almeno,
forse anche fratello e sorella — la prima coppia incestuosa — ma che almeno duchessa e cavaliere sono
assolutamente privi di sensi di colpa e al momento medesimo della scoperta.
È un’insistenza sul fatto che
si tratta di persone psichicamente sane, assolutamente diverse da Edipo e Giocasta. Sono Edipo e Giocasta
che hanno il senso di colpa. Anzi, con una frase che devo a qualcuno che ho visto l’altro giorno, noi abbiamo
che Edipo e Giocasta commettono un delitto ritenendo di averne compiuto uno in precedenza, cioè di essere
certi, cioè essi ritendono di poter essere certi di avere commesso un delitto e basta nel loro rapporto
incestuoso e per conseguenza — una conseguenza illogica — commettono il nuovo delitto verso se stessi,
dell’autolesione e dell’autouccisione che è il suicidio. Vale qui una frase, dicevo, che devo a qualcuno, che
diceva: «Non è vero che è del delitto che si cancellano le tracce» — quello che tutti credono: il delinquente
compie il delitto poi cerca di cancellare le tracce; diciamo che questo accade soltanto se il delinquente è una
persona normale. Allora sì — non è del delitto che in tutto ciò (e avete visto la portata nuova che diamo alla
parola) non è del delitto che si cancellano le tracce in tutto ciò che chiamiamo psicopatologia, o in quella
che altri chiamavano malattia morale, molto pertinentemente, «è il delitto che cancella le tracce». In questo
caso il delitto di Giocasta ed Edipo contro se stessi cancella le tracce della domanda Ma quale sarebbe il
delitto? Essi danno per ovvio di saperlo: non sanno niente, sono …
«Non è del delitto che si cancellano le tracce; è il delitto che cancella le tracce». Badate che quando
leggiamo, come ancora pochi giorni fa, sulle prime pagine dei giornali, di quel tale che è entrato in un treno e
si è messo a sparare alla gente, ammazzandone tanti e ferendone ancora di più — avrete letto la notizia — e
tutti i casi di questo tipo, di solito gli Stati Uniti sono la patria di questo tipo di ammazzamenti pubblici, ma
non è obbligatorio che sia solo negli Stati Uniti… A mio parere è assolutamente vistoso: questi, che poi si
fanno arrestare con candore. Ho sempre osservato, anche in quest’ultimo caso, ma in un seminario lo facevo
già notare per quel tale ammazzatore del supermercato negli Stati Uniti di alcuni anni fa, e pure questo ha
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continuato a sparare fino al momento in cui qualcuno è riuscito a bloccarlo e si è lasciato arrestare arrivata la
polizia. Possiamo dire: aspettava solo che arrivasse la polizia. Con il proprio delitto, costui ha cancellato le
tracce di tutta la propria psicopatologia. A partire da quel giorno vivrà felice — in prigione o nel manicomio
criminale — avendo portato a termine la rimozione, non avendo più pendenze di rimozione da sostenere.
Ormai la sua nuova realtà è un caso di metànoia, di metànoia nera, eh?, come si dice umorismo nero. La sua
nuova realtà è diventata l’essere un delinquente.
È luminoso, su ciò che sta dicendo già nel testo e nella coscienza di Hartman: un passo già letto da
Raffaella Colombo — io lo riprendo —; «intanto questi sposi (…)», sposi, legame stabile. È importantissimo
che il testo non vuole dire una storiella momentanea. Si tratta di un legame. Ricordo sempre il tema del
nostro corso: Il legame sociale. Non è un legame effimero, è un legame stabile. Non è una scappatella, tanto
meno uno stupro. Già si incomincia ad accorgersi, ad avvicinarsi un pochino all’idea di dove è l’errore, il
delitto o colpa o peccato. Già è un errore il ritenere che l’incesto sarebbe un qualche cosa che ha a che fare
con l’ordine empirico di un’attrattiva naturale scatenatasi , che la moralità personale non ha saputo frenare,
ossia è già avvicinarsi all’errore accorgersi che l’incesto non ha nulla a che vedere con l’attrattiva sessuale
presa come causa. L’incesto non è l’effetto di una causa naturale, del tipo causa-effetto. Lì l’attrattiva
sessuale, l’istinto sessuale — abbiamo già detto che non esiste — effetto … Rigorosamente falso.
E
già si profila l’idea di delitto attraverso l’osservazione di un errore.
Questi più che amanti, questi sposi,
— legame stabile — sono lì a non fare altro, permanentemente, che l’asserzione: «Il mio altro, il mio amato
o è quello o non è nessun altro». Questa è l’asserzione di certezza: il solo altro degno di me come suo
soggetto — fin qui nella reciprocità — il solo altro è quello lì o quella lì. Se non quello, nessun altro. E in
questa asserzione, di cui Giocasta ed Edipo sono rigorosamente incapaci, in questa asserzione non riflettono
neanche dei passaggi in cui si parla dell’Inferno o delle fiamme dell’Inferno, della tentazione.
L’asserzione: «Il mio altro è quello» è la certezza piena di questi soggetti. Sia nella prima coppia
incestuosa che nella seconda. Non esiste altro uomo all’infuori di questo. Proprio non esistono dubbi, non
esiste ossessività a questo riguardo e non esiste neppure timore della punizione divina al quale viene detto —
intenzionalmente, coscientemente — «Guarda che per ognuno di noi il solo amore è questo». Di questa
asserzione, non esiste il minimo pentimento. Allora la cosa diventa ulteriormente interessante. All’interno di
questa esplicita certezza c’è questo importantissimo passaggio: «il potere di Dio ha creato un’ambigua
comunione». State attenti. Non ha detto «il potere del diavolo ha creato un’ambigua comunione». È il potere
di Dio che l’ha creata. Come vedete andiamo avanti con l’assenza di esitazione su ciò di cui si tratta. Non si
tratta di personaggi con la minima ambiguità anche nell’individuare che c’è qualcosa di ambiguo in tale
comunione. In tedesco, oltretutto, io trovo corretta la traduzione con comunione, ma comunque è utile
osservare che la parola è Gesellschaft, vuol dire società, legame sociale.
«Il potere di Dio ha creato un’ambigua comunione che persiste tuttavia». Proprio… È inutile…È quello che
si dice Errare è umano; perseverare è diabolico. Loro non lo considerano errare il fatto che persista la
comunione, la società di loro. E, per togliere ulteriormente ogni possibile dubbio che il loro rapporto abbia
alcunché a che vedere con la causalità naturale, che è detta sopra, qui distinta e lì l’effetto, aggiunge:
«comunione e dell’anima e del corpo». Proprio quello che si dice secondo il linguaggio morale tradizionale
“piena coscienza e deliberato consenso”. Ma l’ambiguità eccola descritta: «Ciò che al corpo piace tanto non
fa bene alcuno all’anima, benché l’anima assenta — c’è complicità; e infatti dice: vero anche l’inverso — ciò
per cui l’anima è salva spesso al corpo causa pena. Ma in entrambi, anima e corpo, essi feriti, doppia morte
ne pativano». Abbiamo ancora la piena normalità della persona: nessuna schizofrenia come quella ordinaria e
patologica fra l’anima e il corpo, o del tipo “avrai il mio corpo, non avrai la mia anima” e tutte queste cose
che girano per il mondo, eh?, di cui tutti siamo pieni nella nostra psiche.
Se continuo ancora un po’ in questo modo, finisco come l’altra volta che ho appena potuto introdurre
la questione e «Ne parliamo volta prossima». Allora, io arriverei al delitto in questo modo: lo riprendo.
L’espressione Complesso di Edipo a questo punto non ci va più. Non che esso non esista, ma —
ormai vi è familiare che la parola complesso per noi è sinonimo di legge; si tratta del concetto di una legge
del moto o movimento — perché la legge di Edipo è una legge alquanto critica: è già la legge di un soggetto
ammalato, una legge che già si è ammalata. Infatti giustamente Freud, almeno nel maschio, la vede decadere
fino a distruggersi, tramontare nel verbo più mite; è fatta a pezzi, è una catastrofe.
Oh, i nostri sposi incestuosi, non vogliono e non domandano altro, non solo non vogliono la caduta
del — diciamo così — loro complesso, ma non vogliono, non domandano altro che esso duri o addirittura si
ricostituisca in una forma legittima ed eterna. È esattamente l’opposto della prospettiva patologica che è
quella della distruzione di quella legge. Infatti, i due coniugi incestuosi, nel finale del racconto, si
ricongiungono perfettamente. Mi annotavo poco fa che allora, se proprio volessimo, noi potremmo
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chiamarlo non più il complesso di Edipo, che sta sul versante già di una certa patologia; momentaneamente
mi è venuto di annotarmelo come il complesso del discendente, di chi discende da qualcun altro che è ancora
lì.
Il delitto in generale — e questo non abbiamo fatto che dirlo da un anno in qua, magari con parole
diverse — è l’ impedire a un soggetto di accedere alla legge del figlio, come unica legge di soddisfazione
possibile esistente. Abbiamo sempre descritto la parola medica — che è un po’ una caduta rispetto a stamani
— la eziopatogenesi di tutte e quattro le nostre categorie, le nostre quattro psicopatologie, come la crisi o
l’impedimento dell’accesso di un soggetto alla legge di beneficio o alla legge di figli. Quella legge dei figli
da noi riformulata con la formula: «Agisci in modo che il tuo beneficio, il tuo vantaggio, il tuo guadagno, il
tuo piacere — tutte le parole che volete — si produca per mezzo di un altro, venga da un altro». Sarà delitto
ogni infrazione a questa legge.
Il delitto che troveremo sarà esattamente, è decisamente delitto di infrazione a questa legge. Legge
alla quale, come abbiamo visto, il cavaliere e la duchessa tengono. Se c’è qualche cosa che li tiene e li tiene
nel legame è il fatto dell’essere osservanti in ogni momento di questa legge.
Vale anche la pena di
osservare che la penitenza di lei e di lui è narrata così perché lo scenario in cui l’autore costruisce quella
penitenza è uno scenario di sette secoli fa, e di contenuto — non mi va di dire religioso — di contenuto
tradizionalmente penitenziale. Non vedo perché non sarebbero religiosi anche altri contenuti. Ma questa
penitenza non è affatto una pena, nel senso in cui si manda in prigione, non è una sanzione per un delitto. Ma
la penitenza, vuoi su uno scoglio, vuoi in convento, non sono pena di un delitto. Non si tratta neppure di
lutto. Esiste del lutto in questi soggetti, peraltro di qualcosa che essi non danno affatto per perduto. Non
esiste neppure la rassegnazione. Allora che cosa è, di cosa è figura la penitenza di cui qui si tratta? Oh, notate
che questi due ragionano come Giobbe, eh? Se essi si fossero autoassegnati una pena per un delitto,
avrebbero ragionato come quelli, come i cosiddetti amici di Giobbe che gli dicono che i disastri che gli sono
successi sono la conseguenza dei suoi peccati e Giobbe gli risponde alla lettera con il noto gestaccio, quello
per cui si inclina un braccio, poi…
La penitenza delle due persone, come già della prima coppia, è figura di una elaborazione, di una
rielaborazione che consentirà alla legge di figli in cui già vivono di arrivare a un compimento, a una
perfezione, giudizio, cui non era ancora pervenuta, con ritorno e incremento della soddisfazione per i due
partners, compagni, amanti e sposi. È una rielaborazione — è questo il passaggio decisivo per arrivare a
cogliere dove è il delitto — è una rielaborazione che essi compiono — o appena detto che non è una pena per
il proprio delitto, quindi non è un atto di carattere riflessivo, esattamente ciò che fanno Giocasta ed Edipo:
l’atto che compiono su se medesimi è appunto riflessivo; ognuno agisce verso se stesso. Qui i due partner
con la figura di penitenza, figura di rielaborazione della legge, agiscono per conto di tutto il mondo, di tutti.
Elaborano una questione di diritto quale sarà, che è una questione di tutti. Ciò è specialmente chiaro nel
primo incesto, allorché la sorella dice: «Ma se chiamo e vengono altri? » e giustamente Raffaella ricordava
che questo è lo scandalo. Allora il delitto è il correlato di uno scandalo, di uno scandalizzato che tuttavia non
saprebbe dire perché è scandalizzato. Riproduco lo schema già prodotto molte volte, ma reso
assolutamente completo. Allora noi abbiamo sempre detto che la formula della legge è questa, nei termini di
Freud è la legge del principio di piacere. La prima è questa.
Au
S
A
Io prima ho segnato la freccia che va da qui [da A] a qui [a S], poi l’ho cancellata perché in ordine di
tempo, è questa la prima freccia da disegnare, quello che nella formula suona: «Agisci in modo …» perché
questo altro [A] al momento potrebbe anche essere uno che sta passando per strada e che neppure sa che io
esisto. Per questa freccia a suo tempo usavo anche la parola tradizionale di propiziazione che è una cosa
molto diversa dal fare i furbi. Nel nostro lavoro è una cosa di cui accorgersi bene. «Agisci in modo che il
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beneficio ti provenga per mezzo di un altro». Alla base di questo altro abbiamo messo una «U», iniziale di
universo. Questo altro è uno di tutti gli altri ed è già stata spesa la parola dignità, il più degno.
Allora, l’universo resta. Tutto ciò si interromperà se, o al momento in cui, questo altro cessa di essere
il più degno, o nella misura in cui il desiderio del soggetto cessa di essere il desiderio “del più degno”. Ossia
quando cadono ambedue nella indegnità.
Bene. Nella sede della Scuola che è il Seminario, cui solo una parte di voi partecipa, ho riproposto
quello che ormai non chiamiamo più l’Edipo, perché l’Edipo esiste, ma è la versione già parzialmente
patologica di ciò che disegnerò ora, ossia del caso del figlio che si rivolge più, inclina più verso la madre o
della figlia che inclina verso il padre. Dopo ho riproposto — ora però chiamato ad esempio come la legge del
discendente — dopo ho disegnato semplicemente come un secondo tempo di questa medesima legge. Ancora
questo lavoro non era stato fatto da nessuno.
Dicevo che quello che corrisponde nel normale al complesso edipico non è altro che il secondo tempo di
questa medesima legge.
Au
S
A U-D
D-U
Con una differenza che deriva solo dallo stato dei fatti. Chi è questo A, questo altro? Fin qui la
risposta è nell’ovvietà: sono i due genitori. Ma la banalità che è stata gettata su tutto questo, è del tutto
identica alla banalità patologica di Giocasta che avevo già fatto osservare la volta scorsa: «Ah, un po’ tutti i
figli …» . L’uno o l’altro genitore. Perché il figlio si dovrebbe specialmente risolvere a uno o all’altro
genitore? Ed ecco ritornato l’errore. Forse per il fatto che la bambina ha l’istinto sessuale verso il papà.
Idioti, ma proprio idioti! Idem per la bambina. Scemi. Il bambino nel rivolgersi ad un conto alla coppia dei
genitori, con una sfumatura di preferenzialità, non fa altro che stare già applicando la legge paterna (…)
Il secondo tempo non è che una fra le altre applicazione della già istituita legge paterna o dei figli al
caso particolare del fatto che il figlio, che già segue, finché è normale, la legge del primo tempo con i
conoscenti, nell’allattamento, nel giocare, nel combinare qualsiasi cosa combina, ossia nel seguire un
principio di piacere che chiamiamo legge dei figli, applica, anche al fatto che si trova lì due tizi, lui e lei, e
per il puro fatto che sono lì, e applica anche al trovarsi lì quello che … chiamavo “fare man bassa” ossia
seguire quella legge. La preferenzialità, se non dipende come non dipende affatto dal fatto che il bambinetto
avrebbe l’istinto maschile verso la madre, la bambinetta avrebbe l’istinto femminile verso il padre — ripeto:
idiota, proprio idiota, o demente; abbiamo iniziato il corso di lezioni sulla demenza; doppiamente demente
— se inclina più verso il genitore di diverso sesso rispetto al proprio è semplicemente perché l’essere di
altro sesso lo fa preferire come altro. È il puro dato osservativo. Diventa un altro un po’ più singolare
dell’altro altro o altro genitore per il fatto, avendo un altro sesso, è un altro più simpatico. Niente a che
vedere dunque con l’istinto sessuale: fatto fuori. Dunque, ogni questione di moralità che parta dall’idea che
ci sono gli istinti, poi bisogna comprovarli con la morale, appartiene alla medesima demenza, errore cui
dicevo…
Ciò che importa affinché da questa applicazione (applicazione fra tante, eh?) non risulti come ahinoi,
… acciocché non risulti danno o non si dia la offesa, la offesa patogena, occorre che questo altro, rispetto al
suo di altro, — la moglie rispetto al marito, il marito rispetto alla moglie; la donna rispetto all’uomo, l’uomo
rispetto alla donna, perché questo altro è individuato in quanto uno di quella coppia lì, ed è quella coppia lì
solo perché è lì — sia un altro che si propone figlio, in posizione di S, cioè lui stesso diventi tale nel suo
rapporto e non posizione di altro; ossia, occorre che al figlio si proponga — che cosa è S? Il figlio — bisogna
che questo altro preferenziale si proponga al figlio a sua volta in posizione di figlio. È la condizione generale
— usiamo una parola un po’ astratta — della norma dei figli.
Dicendo così, ho già definito un po’ di più in cosa consiste il delitto e del fatto che l’altro si
proponga come a sua volta altro del proprio partner, ossia in una posizione non di figlio.
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(…)
Il delitto di cui si tratta — delitto in cui moralità, diritto, psiche, sono una sola cosa — il delitto si
presenta in tre versioni di essa:
1. c’è delitto quando c’è caduta dell’universo. Frase costruita un po’ sulla antica frase caduta dal Paradiso
terrestre. Ma caduta è come decadente: ma allora va ancora bene il lessico morale tipo caduta nel peccato
ma vedete come cambia tutta la posizione. Con un filo di banalizzazione è la caduta del figlio nella
famiglia. Non c’è figlio che nell’universo. Non c’è figlio della famiglia. Al punto che affinché questa
applicazione accada in modo sano, normale, occorre che gli adulti stessi si presentino a loro volta come
figli, niente affatto come papà e mamma, ma come uomo e donna. Caso rarissimo.
2. Secondo modo in cui si presenta il delitto: è il delitto di offesa, di offesa patogena. Vero e proprio delitto,
con cui si scandalizzano i bambini, secondo la frase del Vangelo: «Chiunque scandalizzerà …». È anche
ben nominato il delitto. Il Vangelo in questo caso dà una definizione del delitto della cui esistenza e
definizione stiamo andando alla ricerca. Seconda forma del delitto.
3. Terza forma del delitto: la teoria, la teoria pratica e tutte le condotte che ad essa corrispondono secondo la
quale esisterebbe una causalità naturale al desiderio. L’ho detto prima: l’incesto ci sarebbe perché
esisterebbe una tendenza sessuale naturale che porterebbe da quella parte lì. Nulla di vero. Esattamente è
un altro mondo.
Diamo due formule per i due tempi.
Al primo tempo c’è la costituzione della legge del Padre. Non accade al secondo tempo; è già al
primo, come legge dell’erede, dicevo. La legge del beneficio da altri è la legge dell’eredità. Quel primo
tempo è il tempo che corrisponde a una definizione abbastanza nota, ma che finalmente acquista un
significato non mistificato, quella formula che dice che il desiderio è il desiderio dell’altro.
E infatti la stessa freccia che parte da S e va verso A, è concepire descrivibile quella freccia come la
domanda all’altro di muovere il proprio desiderio verso il soggetto. Voi potete essere poveri di denaro, di
cultura, di tante altre cose, ma … il più grande che conosciamo … è che esistono, esiste sempre meno
l’esperienza dell’essere desiderati. E ciò non ha nulla a che vedere con l’ideologia del bambino poco
desiderato, eh? Mi piace sempre citare quest’altro…Ma ora lasciamo stare. …
Che cosa di nuovo accade, se accade, — ecco il punto: se accade — se accade il secondo tempo?
Perché non è affatto vero che accade così. È un successo se accade. Se non accade è proprio un peccato, un
delitto. Sto ancora descrivendo il medesimo delitto. Che cosa accade nel secondo tempo? Nel secondo tempo
accade un incremento della stessa formula messa nel primo tempo. Il primo tempo è il tempo della formula il
desiderio — del soggetto — è il desiderio dell’altro. Se c’è il desiderio dell’altro, io l’ho sempre paragonato
al finanziamento, alla banca che mi finanzia. L’altro è il mio banchiere in fatto di desiderio. Non esiste moto
del corpo senza desiderio dell’altro. Non vado da nessuna parte. Il secondo tempo è la stessa formula
arricchita: il desiderio sessuale è il desiderio dell’altro. Nulla a che vedere con la causalità naturale. Vorrei
farvi osservare come la formula il desiderio sessuale è il desiderio dell’altro, ve la posso benissimo proporre
come la formula stessa — vi sembrerà un po’ inconsueto ritrovare questa nozione generalmente antipatica;
io qui finalmente la trovo sin-patica — la formula il desiderio sessuale è il desiderio dell’altro, è la formula
stessa della castità, che non ha nulla a che vedere con il non farlo. È la subordinazione del desiderio, — ma
come genesi, eh?; non è la subordinazione del soldato al generale; la subordinazione come genesi logica,
psicologica, — la subordinazione del desiderio e del desiderio sessuale al desiderio dell’altro si chiama
castità. Oh, potrei benissimo spendere lo stesso passaggio dicendo che la prima formula è la formula della
verginità, del primo tempo. Ma su questo ritorno un’altra volta, perché già ora che ci penso io metterei
ambedue le cose invece al secondo tempo. Vedete come capita di correggersi mentre si parla. Magari lo
riprendiamo un’altra volta, questo. Per aggiungere… No, no: la delicatezza in questi passaggi, quanto più in
anch’essi risulta, tanto meglio è. E abbiamo già in qualcuna delle nostre riunioni introdotto la distinzione tra
la verginità patologica e quella normale.
La verginità patologica qual è ? — che poi è quella così bene descritta da Freud nell’articolo Il tabù
della verginità — È quando la verginità è considerata vuoi un attributo, vuoi uno stato pertinente alla sola
esperienza femminile. Questa è la patologia: possiamo esserne certi. Allorché, vuoi come stato, vuoi come
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attributo, questa parola venga assegnata all’esperienza di ambedue i sessi, qui abbiamo finalmente la solita
essendo che questa parola non denota in alcun modo quello che si chiama il «non farlo». Anzi, se avessi
avuto tempo per parlare dell’isteria, avrei mostrato come l’inibizione sessuale derivi precisamente
dall’assenza del requisito della verginità. Ne è una conseguenza, in questo caso logica, non anzitutto
psicologica, ma logica.
Il finale dell’esposizione è soltanto il breve atto sistematico del mostrare fra le conseguenze del
peccato o delitto, le patologie, a loro volta contenitori del medesimo delitto. Ed ecco perchè abbiamo
sostenuto la presenza della imputabilità in tutte e quattro le psicopatologie.
Sistematicamente, la cosa a Gregorio era già nota.
Al secondo tempo corrispondono le nevrosi. Ed è per questo che possono passare come
passabilmente normali, nel senso di compatibili con il come va il mondo, perché nelle nevrosi il primo
tempo della legge ha potuto costituirsi. È quando è avvenuto il delitto dell’ostacolare un soggetto a costituirsi
del primo tempo della legge, che si collocano psicosi, handicap psichico e perversioni. Sulla collocazione
delle perversioni un’altra volta ritorneremo, perché è bene sottilizzare, sarà bene sottilizzare a quella
dell’altro.
Finisco osservando per — perché avrete notato che il tema, ma … cominciando ad osservare che i
passaggi per rendere integralmente intellegibile il delitto di cui si tratta. Anzi, razionalmente intelleggibile il
delitto di cui si tratta. Prima ho dovuto mettere e sottolineare che Hartman tratta — è l’unico caso in cui la
grammatica che ci è stata presentata ed abbiamo presentato dell’ormai cosiddetto incesto. Il delitto
dell’incesto è quando diventa in-cesto, non casto. Perché la legge dei figli è la castità del rapporto tra figli e
nell’avere rapporto, eh?
Un’altra volta vorrei che parlassimo di che cosa può essere il significato dell’espressione: desiderio
di un figlio. È una frase a doppio taglio: desiderio di — nel senso di genitivo soggettivo —: il figlio che ha
un desiderio e il desiderio di avere un figlio. Il che ha a che fare con il delitto. Non ho detto che è un delitto
avere il desiderio di avere un figlio, ma è compromesso dalla presenza del delitto.
Finisco solo osservando il delitto in Edipo. Avevamo già detto che Edipo è uno il cui complesso di
Edipo non è affatto riuscito. Se c’è qualcosa che gli è andata male è proprio quell’esperienza, o gli è andato,
gli è venuto male. Nella sua condotta, il suo peccato, il suo delitto è palese: è il delitto di — essendo egli
principe, re, — da quel momento cessa di riconoscersi principe e diventa un figliolo di famiglia ebete e idiota
come tutti gli altri. Ha lasciato cadere la regalità, perché solo i principi sono all’altezza della legge. Cessando
di operare e di pensare come re, si lascia decadere dalla legge. Si declassa, si esautora. Abbiamo sempre
descritto la eziopatogenesi delle psicopatologie come partenti da una offesa che è una esautorazione. E anche
la moglie Giocasta lo esautora quando gli banalizza ciò che lui nell’angoscia le va raccontando. È per questo
che è incestuoso, non-casto. Vale la pena, mi era venuta una frase come questa: «solo i principi sono casti»; i
principi sono sempre casti; nella misura in cui la condotta è di ciascuno, deciderà. Chi sa reggersi all’altezza
di quella formula è un principe. Semplicemente, come vedete, rovesciamo l’ordine della storia, dicendo
questo. Noi non diciamo: quello lì della casata Savoia. Solo perché è italiana, Savoia. Pensate a tutte le
casate che vi pare. Tutti i saggi, i libri di storia dicono che grazie alle genealogie che … ne sono venuti fuori
e quindi non facciamoci illusioni sui principi della storia.
È a partire da lì che ridefiniamo il principe. Che cos’è il principe? È un privilegiato. «Non posso
amare che te, che quello, piuttosto niente» è una legge del privilegio, è una legge dell’altro mondo.
Quando Freud descrive la nostra civiltà, la descrive certamente come una civiltà anche giuridica che
corrisponde alla abolizione di quella legge. Ecco perché diciamo che la civiltà che corrisponde all’abolizione
di quella legge è la Città dei malati, la conseguenza definitiva.
© Studium Cartello – 2007
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18/12/1993 - 4° - trascrizione