Nome file 931218SP1.pdf data 18/12/1993 Contesto ANTE Relatori R Colombo GB Contri Liv. revisione Trascrizione CORSO DI SCUOLA PRATICA DI PSICOLOGIA E PSICOPATOLOGIA 1993-1994 IL LEGAME SOCIALE E LE QUATTRO PSICOPATOLOGIE 18 dicembre 1993 4° LEZIONE TESTO INTEGRALE GIACOMO B. CONTRI Riprendo dall’ultimo atto. Immaginate di essere su una scena shakesperiana, intendo su un teatro povero con nessun oggetto, arredo, sulla scena. È compito degli uditori, spettatori, immaginare, mano a mano che, in questo caso il lettore, la lettrice leggerà, reciterà i pezzi, immaginare che cosa c’è sulla scena: la duchessa, il cavaliere, i fondali, la società presente. RAFFAELLA COLOMBO HARTMAN VON AUE, GREGORIUS Leggo alcuni brani della prima parte 1. «Chi racconta questa storia in versi di lingua tedesca è sire Hartman von Aue. Incomincia a questo punto la vicenda senza pari dell’innocente peccatore. Giace in Francia una regione che è chiamata Aquitania, né dal mare essa è lontana. Il signor di quella terra generò dalla sua sposa due fanciulli che d’aspetto erano belli quanto mai, un maschietto e una bambina. Ma la madre dei fanciulli morì già nel partorirli. Allorché furono giunti all’età di dieci anni, anche il padre venne a morte. Quando questa s’annunciò ed al letto lo costrinse Hartman Von Aue (1165 ca.-1215) poeta tedesco. Tradusse l’Erec di Chrétien de Troyes, inserendo il ciclo arturiano nella cultura tedesca e scrisse i poemi Gregorius ed Enrico il misero. Qui, del Gregorius, viene utilizzata la traduzione di Laura Mancinelli nell’edizione Einaudi del 1989. 1 1 dove per la malattia alla morte egli s’arrese, fece come i saggi fanno: mandò subito a chiamare i migliori del suo regno in cui aveva ogni fiducia, ché affidare lor voleva la sua anima e i figli. Quando furono a lui innanzi servi, uomini e parenti, ai suoi figli volse gli occhi: simili erano tra loro, e d’aspetto sì grazioso nella lor persona tutta che al sorriso avrebber mosso la più dura delle donne se li avesse mai veduti. (…) Quando vide i figli pianger a suo figlio si rivolse: «Perché piangi, figlio mio? A te sono ora soggetti la mia terra e il gran potere. Ma io nutro dei timori per la bella tua sorella. Più profondo è il mio rimorso e tardivo il pentimento che nei giorni di mia vita al suo stato non provvidi: non è questo agir da padre». (…) « Cerca il saggio qual compagno, fuggi il giovin sprovveduto. Ama Dio sopra ogni cosa, segui il suo comandamento nel governo della gente. La mia anima ti affido e la bella tua sorella, perché sempre a lei provveda, qual fratello le stia accanto: così avrete buona sorte». (…) Quando i nobili fanciulli furono privi anche del padre, non fu tardo il giovinetto a soccorrer la sorella e di lei si prese cura come l’onor suo voleva. Al suo cuore egli fu guida con affetto e gentilezza, non fu mai con lei severo. Ne ebbe cura (e dirò come ) sì che mai le rifiutò cosa che ella a lui chiedesse o di vesti o di altri agi. Eran sempre in ogni cosa lieti insieme l’un con l’altro, né si separavano mai, 2 e si stavano ogni ora sempre insieme fra di loro (come a lor si conveniva). Non si stavano mai disgiunti né a tavola né altrove. Tanto accosto erano i letti che pur scorgersi potevano. Altro dire non potresti se non che egli era sollecito per la cara sua sorella come deve un buon fratello. E più saldo era l’affetto che per lui ella nutriva. In tal modo erano felici. Quando questo viver lieto vide quel che tutti odia, nell’inferno incarcerato per l’invidia sua e superbia, dall’onor dei due fu roso (perché grande gli appariva) e agì come al consueto: soffrì sempre e ancor ne soffre d’ogni ben che all’uomo tocchi e non lascia dal suo artiglio quel che può perseguitare. Pensò allor di rovinare la lor gioia e il loro onore, col cercar di trasformare in sventura la lor gioia. Ad amar la sorella oltre debita misura spinse il giovane signore, finché affetto di fratello trasformò in tentazione. Fu l’amor la prima cosa che traviò l’animo suo, e seconda la bellezza che adornava la sorella, terzo fu il malvolere del demonio, e quarta infine la sua stolta giovinezza, alleata del demonio, che a tal punto lo traviarono finché prese a meditare di dormir con la sorella. Maledetta sia, o Signore, di quel cane dell’inferno la scaltrezza che ci inganna! Perché Dio permette a lui ch’ egli compia tanto scempio di creature ch’ Egli ha fatto a sua immagine e figura? Quando questo gran peccato per consiglio del demonio cominciò ad avere in cuore, 3 notte e giorno il cavaliere con maggiore affetto ancora stava accanto alla sorella. La fanciulla molto ingenua era cieca a tale amore, né sapeva, sconsigliata, nella sua grande innocenza da che cosa stare in guardia,e cedeva in tutto a lui. Non li lascia più il demonio finché in lor compie sua voglia. Aspettò quindi una notte che nel sonno abbandonata la fanciulla si giaceva. Ma non dorme suo fratello: si levò il giovin stolto, scivolò in gran silenzio fino al letto ove giaceva la sorella, alzò la coltre tanto adagio e lievemente che di nulla ella s’accorse finché egli le fu accanto e la prese tra le braccia. Che voleva, ahimé, là sotto? Meglio fosse nel suo letto! Ad entrambi eran le vesti state tolte, e sol coperti si giacevan dalle coltri. Allorché si fu destata, egli a sé già la stringeva. La sua bocca e le sue guance sentì tanto a lui compresse come dove il diavol vince. Cominciò ad accarezzarla più di come far soleva al cospetto della gente. La fanciulla allor s’ accorse che la cosa era assai grave. Ella disse: «Mio fratello, ma che cosa vuoi tu fare? non lasciar che la ragione il demonio ti sconvolga. A che mira questa lotta?». E pensava: «Se io taccio fà il demonio il suo volere, e son sposa a mio fratello, ma se grido e chiamo gente, noi per sempre avrem perduto tutti e due il nostro onore». Indugiava in tal pensiero mentre lui con lei lottava, lui era forte, debole lei, sì che contro il suo volere portò a fine la sua impresa. Troppa fu l’intimità. E la cosa fu compiuta. 4 Fu in quella stessa notte dal fratello messa incinta. Sempre più poi li sedusse seduzione del demonio, cominciaron col peccato ad amar la seduzione. E lo tennero nascosto fino a che ella s’ avvide, come san presto le donne, che d’un figlio ella era incinta. Fu la gioia allor tristezza, né potè celarla più. Manifesto fu il dolore. La sventura li travolse per la grande intimità: se ne fossero rifuggiti ora indenni ne sarebbero. Sia ciascun da questo esempio messo in guardia dal trattare con sorella o con figliuola in sì grande intimità: questo spinge a tal misfatto che ognun deve maledire. Quando il giovan cavaliere vide questo mutamento alla sua sorella in volto, così disse a lei in disparte: «Dimmi, cara mia sorella: tu sei triste, che ti accade? Ho notato già da tempo che il tuo aspetto è molto mesto: in te insolito mi appare». Ella allora incominciò con grande pena a sospirare e l’angoscia dolorosa sgorgò tutta dai suoi occhi. «Più non posso a te celarlo, — disse, — sono in gran tormento. Io sono morta, mio fratello, e nell’anima e nel corpo. Ahimé, povera infelice, perché mai io venni al mondo? Per tua colpa, io ho perduto Dio in cielo e qui l’onore. Il misfatto che finora nascondemmo a tutto il mondo non può più essere celato. Io mi guardo dal parlarne: ma il figliuolo che io porto lo dirà a tutto il mondo.» Cominciò il fratello allora a compiangere la sorella: fu il suo pianto ancor più grande. Nella triste lor sventura mostrò allora il dio Amore 5 la crudele usanza sua: dopo gioia dà il dolore. Dato fu ad essi insieme con il miele anche l’amaro. Pianse allora tristemente, chino il capo fra le mani, con quel gesto di dolore che a chi soffre è familiare. Rimpiangeva il suo prestigio: ma ancor più commiserava il soffrir di sua sorella che la stessa pena sua. Ella in volto lo guardò, disse: «Agisci come un uomo, lascia il pianto femminile, (non ci può giovar in nulla), un rimedio cerca a entrambi, che se noi per nostra colpa siamo ormai per Dio perduti, faccia sì che nostro figlio non si perda ancor con noi e sia tripla la sventura. Molte volte è stato detto che il figliuolo non è oppresso dalle colpe di suo padre. Non, per questo, deve perdere la sua grazia presso Dio se all’inferno siam dannati, perché lui in tal misfatto non ha certo alcuna colpa». Nel suo cuore egli incomincia a esplorare vie diverse. Stette a lungo silenzioso. Disse: «Fatti ora coraggio. Ho trovato a entrambi un mezzo che consente di celare la vergogna nostra al mondo. Nella terra mia conosco un signore molto saggio che può darci un buon consiglio. Me lo consigliò mio padre d’affidarmi al suo parere quando giacque presso a morte; anche a lui fu consigliere. Consigliere a noi sarà (so che molto egli è fedele) e farem quel che egli dice: salveremo il nostro onore». Quel consiglio ella accettò, e ne fu così contenta come a lei era concesso: non poteva ormai conoscere una gioia al tutto piena. Quel che un tempo era tristezza, quando ell’ era senza affanni, 6 era adesso grande gioia, interrotta del suo pianto. Del progetto fu contenta, disse: «Quel che a noi consiglio dovrà dar, fallo venire, che il mio tempo è già vicino». Il vassallo consiglia al giovane di partire per la Terra Santa e lasciare il governo del ducato alla sorella. Disse il saggio: «Io consiglio che alla corte voi chiamiate i signori a voi soggetti, dai più giovani ai più vecchi, consiglier di vostro padre. Voi allor rivelerete che intendete partir presto, pellegrino in Terra Santa. A noi tutti chiederete di giurare fedeltà a madonna la duchessa (e nessuno s’opporrà) perché possa governare finché voi starete assente. (…) La conduco alla mia casa, ogni comodo procuro sì che quando partorisca nessun sappia l’accaduto. (…) Resti qui nella sua terra, dove può il suo peccato espiare ancora meglio. Alleviar le pene ai miseri con denaro e buon volere può, se i beni suoi mantiene. Ma se nulla più possiede non le resta che il volere. Senza mezzi il buon volere come può aiutare qualcuno? A chi giova senza beni possedere il buon volere? O ricchezza senza bontà? La bontà vale anche sola, ma più vale col denaro. E per questo a me par bene che bontà abbia e ricchezza. Così può col suo denaro seguir l’impeto del cuore e il volere di Dio può compiere con corpo, cuore e ricchezza. Questo a voi pure consiglio». Giusto parve a tutti e due il consiglio, e senza indugio il suo buon parere accolsero. Separati lei e il fratello, come il vecchio consigliò, 7 egli tosto deperiva (prigioniero ancora d’amore) e arrestare dovette il viaggio per amore di Dio intrapreso. Tanta era la nostalgia per l’amata sua sorella che trovar non gli era dato un sol attimo di pace. Il suo corpo ne appassiva. Se si dice che le donne amin più che non gli uomini, qui si vede che è menzogna, che la pena del suo cuore, quale in lui era palese, era piccola in confronto di quel solo grande amore che fu causa di sua morte: ella, aveva quattro pene e guarì. Lui prigioniero fu d’amore, e ne morì. (…) Quando ella ebbe in suo potere il ducato, e la notizia per il mondo si diffuse, dei signori assai potenti da vicino e da lontano la chiedevano per moglie. Per la nascita e l’aspetto, per potenza e giovinezza, per bellezza e per prestigio, cortesia e gran ricchezza e per tutto l’animo suo, d’ un gran principe era degna. Furon tutti rifiutati. (…) Un signor allor regnava in sue terre a lei vicine, pari a lei per signoria, nobilissimo e potente: ogni impegno egli metteva perché in sposo l’accettasse. Poiché l’ebbe corteggiata con messaggi e con preghiere, come a lui si conveniva, e lei sempre lo respinse, conquistarla volle altrimenti. Con assalti e con minacce senza indugio egli l’oppresse devastando le sue terre. Conquistò città e castelli, i migliori che ella avesse, e tal punto la ridusse che più nulla le rimase se non sol la capitale. Ed anch’essa era assediata e ogni giorno sorvegliata, che se Dio Signor non vuole in sua grazia essere d’aiuto, 8 anche quella perderà. Ma lasciamo ora questa storia e diciamo come andò al figliol della duchessa, che i selvaggi venti portano, pur di Dio con il volere, alla vita od alla morte. Volle Dio nostro Signore a lui essere di salvezza, come per sua grazia Giona si salvò dal vasto mare, poi che fu tre notti e giorni tra le onde imprigionato dallo stomaco di un pesce. Al bambino fu custode finché salvo lo avviò sulla costa di una terra. Leggo il brano in cui — Gregorio ha ormai 11 anni, ha frequentato la scuola nel monastero, è stato cresciuto dai pescatori — la moglie del pescatore, in un momento d’ira, saputo che questo bambino era stato trovato in mare, rivela il segreto di Gregorio a Gregorio. Così accadde un dì per caso che Gregorio giovinetto coi compagni suoi di gioco venne in luogo al gioco adatto. Qui accadde un fatto strano (non da lui certo voluto): fece male (unica volta) a un figliuol del pescatore sì che quel si mise a piangere. E piangendo corse via. Allorché sua madre vide che giungeva tutto in pianto, corse incontro al suo figliuolo. E gli chiese con affanno: «Perché mai piangi così?» «Il Gregorio mi ha picchiato» «Ti ha picchiato? perché mai?» «Madre mia, io non lo so» «Gli hai tu fatto qualche cosa?» «Per Dio, nulla, proprio nulla!» «Dove fu?» «Su quella riva». Ella disse: «O me infelice! Quello sciocco d’un superbo! Dunque lo ha allevato a questo, che mi picchi i figli miei nella lor stessa famiglia. Non s’addice ai tuoi di casa ch’io sopporti questo oltraggio da quel tale che non ebbe mai famiglia che sua fosse. Che abbia osato di picchiarti un che è giunto chissà come, sarà sempre a me un affronto. Non si può più tollerare che per Dio lo si sopporti. 9 Nessun sa chi egli sia. [Quant’è vero che son viva, voglio dirlo al mondo intero che è un bambino trovatello, (buon Signore, Tu m’aiuta) pur se adesso ha fatto strada. Certo lui se l’è scordato che infelice fu trovato ben legato in una botte su una barca alla deriva. Se ai miei figli egli fa male, non lo posso sopportare. Nessun sa chi egli sia]. Che gli viene ora in mente? L’ha portato qui il demonio perché sia la mia rovina! Ora so di dove viene, miserabil trovatello! Si curasse che si taccia dell’indegna sua esistenza? Ne vivrebbe più tranquillo. Maledetti siano i pesci che non l’hanno divorato, quando messo fu sul mare! Egli ha preso la via giusta qui giungendo dall’abate. Che se quello al padre tuo non l’avesse allor sottratto, e suo protettor non fosse, Dio lo sa che a noi sarebbe altrimenti sottomesso: i vitelli ed i maiali porterebbe a pascolare. Dove aveva mai la testa quel tuo padre, quando in mare lo trovò tutto gelato, e all’abate l’ha ceduto anziché asservirlo a sé, come era suo diritto, farne un servo o uno stalliere?» Ma Gregorio quando ebbe il fratello suo picchiato, ne fu triste e corse a casa. Egli aveva tanta fretta perché aveva gran paura che il fanciullo a lui togliesse della madre sua l’affetto. E sentì, là nella casa, un gridare senza fine. Si fermò fuor della soglia e udì quell’insultare, ed apprese fino in fondo cose a lui prima nascoste, ch’era estraneo in quella terra poiché spesso con il nome di straniero era chiamato. La sua gioia fu sommersa 10 sotto pene sconosciute. Si chiedeva in grande affanno se non fosse quel discorso verità o pur menzogna, che diceva la nutrice, e di corsa al monastero ritornò, trovò l’abate, e il sant’uomo prese a parte dove non vi fosse alcuno. Gregorio si rivolge all’abate e saprà da lui la sua storia. Si risolve a partire e l’abate deve lasciarlo partire perché l’insistenza di Gregorio è notevole. «Figlio mio, non voglio più trattenerti qui più oltre, (vedo che è il tuo intento serio), anche se con cuore triste mi separo ora da te. Figlio mio vieni con me: ti farò vedere quanto mi rimane dei tuoi beni». E il fedele lo condusse, molte lacrime versando in un grande bel salone che era pieno di tessuti di assai bella fine seta, e gli diede nella mano la sua tavola, in cui lesse tutto della sua persona. Ne fu triste e insiem felice. La tristezza gli veniva da quel ch’or vi voglio dire: il peccato egli piangeva da cui era generato. E la gioia lo coglieva per la nobile sua nascita e la grande sua ricchezza, di cui nulla egli sapeva. Disse allora il fedelissimo che era stato suo signore: «Ora hai letto, figlio mio, quel che sempre ti ho taciuto: te l’ha detto la tua tavola. Con il tuo oro ho fatto quello, come era mio dovere, che ordinava la tua madre: l’ho accresciuto in gran misura con l’aiuto del Signore. (…) La ricchezza tua è assai grande. Questo e quel che acquisterai ti darà da viver bene, se tu avrai senno e misura.» (…) Allor tese lo straniero [Gregorio] mani e cuore verso il cielo, e pregò ardentemente 11 il buon Dio che lo mandasse alla terra a cui il suo viaggio era volto dal destino. Ordinò ai marinai che alla volontà dei venti si rendessero obbedienti e lasciasser che la nave se ne andasse in lor balia né altrove dirigessero. Si levò un vento forte, che costante si mantenne, e in pochi giorni furono trascinati da tempesta alla terra di sua madre. Devastata ed incendiata era questa, come ho detto, sì che sol le era rimasta la città sua capitale, con pericolo assediata. Quando vide la città ordinò ai marinai di far vela verso quella e approdarono laggiù. (…) Quando seppe il lor pericolo, disse: «Giungo in buon momento. Questo è ciò che chiesi a Dio, di condurmi a una città dove avessi ben da fare, dove già si combatteva, perché il giovane mio tempo non passasse in pigro ozio. Se lo vuole la signora, suo soldato io sarò». (…) Quando apprese la notizia che era bella la regina, e ancor giovane e pulzella, e accadeva quella guerra con disgrazia e con rovina perché il duca respingeva, e che s’era prefissata di non prendere mai marito, egli allor volle vederla. Chiese quindi lo straniero se potesse ciò accadere senza danno per nessuno. Anche a lei fu riferito il suo pregio e nobiltà sì che anch’ella fu contenta di vedere l’ospite estraneo. Cosa rara per straniero. Era questo il suo costume: dimostrare in questo modo il dolore suo angoscioso (sconosciuta era la gioia): fosse misero o potente o straniero oppur del luogo 12 a nessuno si mostrava se non fosse nella chiesa, ove immersa era in preghiera come usava tutto il giorno, tranne per il sonno e il pranzo. Consigliò l’ospite al giovane che pregasse il siniscalco della donna di condurlo dove lei veder potesse. Fece questo il siniscalco. Egli un giorno lo condusse alla messa mattutina, per la mano lo guidò dove ella era in preghiera, sì che lui la vide bene. Poi le disse il siniscalco: «Mia signora, salutate questo sire: vuol servirvi». Salutò ella il figliuolo come fosse uno straniero. Anche a lui è cieco il cuore, e gli appare sconosciuta lei che in grembo lo portò. Lo guardò con attenzione più che mai avesse fatto con nessun altro uomo prima: questo fu per la sua veste. Quando l’ebbe ben guardata, riconobbe con se stessa che la seta del tessuto che con le sue mani aveva al suo bimbo avvolto intorno e la veste di quest’ospite erano molto somiglianti e per prezzo e per colore: il tessuto era lo stesso, ed entrambi erano stati intessuti da una mano. Rinnovò questo il dolore. A lui piacque la signora come a un uom piace una donna in cui tutto è a perfezione: anche a lei quello straniero piacque più che mai nessuno. (…) Lui lasciò il suo cuore a lei, e poiché l’aveva vista si impegnò ancor più di prima in onore ed in prestigio. I cortigiani sollecitano la signora a scegliersi uno sposo. Poiché tante giuste cause essi [i cortigiani] a lei misero innanzi, il consiglio loro accolse per compiere di Dio il volere, e promise di sposarsi. 13 Quel che vollero fu fatto e d’accordo furon tutti di lasciare a lei la scelta che sposasse chi voleva. Poi che questo era deciso, saggiamente ella pensò molte volte nel suo cuore che colui che avrebbe scelto e al suo cuore più piaceva non era altri che quell’uomo — e contenta ella era in cuore — che le aveva Dio mandato a salvare lei e il regno. Era il figlio suo, Gregorio. E ben presto egli divenne il marito di sua madre. Si compì il voler del diavolo. Non fu mai gioia più grande, la gioia che ebbero essi, il signore e la signora, perché entrambi lor godevano con l’amor grande fede. E vedete finì in pianto. Egli fu buon reggitore e generoso in largheggiare. Ciò che a un uomo fu mai dato di perfetta gioia al mondo, egli l’ebbe a suo talento. Ma poi tutto finì male. Grande cura [Gregorio] ebbe in segreto ogni giorno per la tavola che celava in suo possesso, sì che mai nessuno seppe che su lui s’era trovata. Vi leggeva tutti i giorni la sua storia di peccato per tormento dei suoi occhi. Come fosse concepito e qual peso di peccato ne portasse il padre e madre. E pregava Dio il Signore che entrambi perdonasse, né vedeva quel peccato che portava sul suo dorso, che ogni giorno ed ogni notte consumava con sua madre e con cui Dio offendeva. Era in casa una servetta troppo scaltra, a dire il vero, che s’accorse del suo pianto come ora vado a dirvi, quella sala rassettando in cui stava la sua tavola. Egli aveva al suo tormento scelto un tempo del suo giorno che non alterava mai. La fanciulla aveva visto, nel passare accanto a lui, che egli entrava là sereno 14 e ne usciva tutto triste, rossi gli occhi suoi di pianto. Ogni giorno più zelante fu a spiar segretamente per scoprire quale fosse la sorgente di quel pianto, finché un giorno lo seguì quando entrò a far penitenza, pur seguendo suo costume. Quando il pianto fu finito, la ragazza andò di corsa dalla sua padrona e disse: «Mia signora, qual dolore tanto opprime il mio signore mentre voi ne siete indenne?». La signora disse: «Che intendi? Poco fa si è accomiatato molto lieto qui da noi. Che potrebbe avere appreso dopo che da noi partì che sì triste l’abbia reso? Se qualcosa gli fu detto, non l’avrebbe a me taciuto. Nulla accadde a lui sì triste. Tu devi esserti ingannata». «No, signora, no purtroppo. Io per vero l’ho veduto prigioniero in tal tormento che m’ha fatto male al cuore». «Sempre è stato tuo costume, e più volte tu per questo m’hai irritato grandemente, di portar cattive nuove. Meglio avresti tu taciuto che non dir queste menzogne sol per farmi ancor soffrire». «Mia signora, io non mento. Io sostengo solo questo: che a voi dico cosa vera. Che può essere mai, signora, questa cosa che vi cela, poiché nulla vi nasconde? Ma qualunque cosa sia, ha sul cuore un grave peso». La signora disse triste: «Ahimè, mio signore caro. Che gli può fare tanta guerra? Del suo affanno non so nulla. So che è giovane e in salute e ha potere in gran misura. Nulla inoltre io trascuro per far quello che egli vuole e lo faccio con gran gioia perché il merito suo è grande. Se altra donna ha uom più caro, non mi muove alcuna invidia, ma più caro mai non nacque. Ahimè, misera infelice. 15 Mai non v’è nella mia vita alcun bene tanto grande nè verrà in alcun tempo che non venga dal prestigio di quel solo uomo al mondo. Alla giovinezza sua che può essere accaduto che lo faccia pianger tanto come tu mi riferisci? Ora dammi tu il consiglio, poiché tace egli con me. Per scoprire il suo tormento, senza ch’io mi scopra a lui. Temo che se a lui lo chiedo posso perderlo per questo. So che qualsifosse cosa che lo tiene sì in tormento che possa essere svelata non la tacerebbe a me. Non vorrei sapere nulla che va contro al suo volere. Questo solo con l’astuzia ora mi occorre di scoprire, perché forse il suo dolore posso in qualche mai maniera alleviare col mio aiuto o del tutto allontanare. Abituata io non sono che una cosa lui mi taccia, che dia gioia oppure no, e per questo son sicura che tal cosa non vuol dirmi». La duchessa, leggendo la tavoletta che la serva le porta, riconosce quella che lei stessa aveva scritto, aveva inciso e posto nella culla di Gregorio. Gregorio rientra e la donna gli chiede notizie della sua nascita. Il duca giunse dove ebbe fine la sua gioia, quando scorgere dovette, della cara sposa sua la vista desolante. Dalle guance era fuggito per dolore ogni rosato, ogni bel color sbiadito. La trovò color di morte. Anche in lui fuggì la gioia e al suo posto entrò il dolore, poiché mai non furon visti due c he sì tanto s’amavano. L’innocente peccatore disse: «Che v’accade, mia signora?» «Sire, sono in grande pena» «Che v’angoscia, mia signora?» «Sire, ne ho tanto motivo che al Signor quasi rinfaccio d’esser mai venuta al mondo, ché inimica a me ogni gioia. 16 Maledetta fu quell’ora dalla bocca del Signore in cui io fui concepita: guerra a me giurò la gioia e tien fede al giuramento e mi dà mille sventure per un attimo di gioia. Sire, voi dovete dirmi di qual stirpe voi nasceste. Prima già dovevo farvi la domanda che ora faccio. Forse adesso è troppo tardi…» «So, signora, che v’opprime. V’ha qualcuno raccontato che io nobile non sono? Se sapessi chi con questo rattristata v’ha cotanto, non potrei avere pace fino al giorno di mia morte. Ben si celi, ne ha motivo. Chi si sia egli ha mentito: è provato senza dubbio che son figlio io d’un duca. Concedetemi senz’ira che di questo più non dica. Non vi posso dir di più». Così a lui disse la donna: «Non è questa la ragione. Sa il Signore che giammai guarderei in faccia un uomo che di voi mi raccontasse cosa indegna mai di voi. Nessun credito qui avrebbe. Temo che la vostra nascita a me sia troppo parente». Quella tavola allor trasse. «Se voi siete — disse — l’uomo, non tenetelo nascosto, di cui qui è stato scritto, il volere del demonio ci ha sommersi anima e corpo: vostra madre sono e sposa». Or pensate quel che prova l’innocente peccatore. Del dolore egli fu preda. E la collera levò contro Dio dicendo: «Questo è quel che io chiedevo a Dio, di condurmi in luogo tale che io avessi l’avventura di vedere con occhi lieti la carissima mia madre. O Dio buono e onnipotente! Altra cosa mi hai concesso, che non quella che chiedevo. 17 Nel mio animo sognavo una gioia e un grande bene. Or mia madre ho conosciuta sì che gioia mai né avrò. Vorrei esser di lei privo che non intimo così». Chi volesse fino in fondo raccontare il lor dolore più di me dev’esser bravo. Credo che non sia possibile che una sola umana bocca tutto questo vi racconti. Quando mai uomo, oppure donna, provò tanto duro affanno e sì greve a sopportarsi senza alcun confronto al mondo? Era l’anima atterrita dall’incendio dell’inferno e il corpo lor soffriva della lor separazione. Il poter di Dio ha creato un’ambigua comunione, che persiste tuttavia, e dell’anima e del corpo. Ciò che al corpo piace tanto non fa bene alcuno all’anima. Ciò per cui l’anima è salva spesso al corpo causa pena. Ma in entrambi essi feriti doppia morte ne pativano. «Oh, mio figlio, mio signore, voi che molto avete letto, mi sapete dir se esiste penitenza a tal delitto, poiché nulla può cambiarsi — e di questo sono certa — né all’inferno sfuggir posso, con cui in qualche parte almeno espiar sì che più lieve sia che altre vite ancora all’inferno pur dannate?» «Madre mia, —disse Gregorio — non parlate più così. È contrario alla Sua legge. Voi di Dio non disperate, ché potete ancora salvarvi. Lessi un tempo d’un conforto che Dio stima il pentimento espiazione del delitto. Ora noi dobbiamo agire sì che Dio ci accolga un giorno ancora insieme». Gregorio parte mendicante e la duchessa , madre e sposa, rimane a reggere il regno. La penitenza di Gregorio, suggerita dall’occasione di un incontro con il pescatore, che lo disprezza, è trascorrere 17 anni legato a una catena su uno scoglio in mare. (…) 18 Alcuni saggi ricevono la rivelazione che il Papa da eleggere — essendo vacante il soglio pontificio a Roma — sarebbe un uomo che vive in Aquitania su uno scoglio: decidono di andare a prenderlo. I due saggi partono, senza sapere dove andare, e giungono alla casa del pescatore. Quando furono alloggiati, disse il pescatore agli ospiti: «È per me una gran fortuna di vedere in casa mia gente tanto di prestigio. Ho pescato proprio oggi un bellissimo gran pesce». Il pescatore, 17 anni prima, aveva chiuso a chiave il lucchetto e la catena, gettato la chiave in mare, e posta una condizione: Gregorio sarebbe stato sicuro della sua innocenza se un giorno la chiave sarebbe tornata nelle sue mani, per poter aprire il lucchetto. «È per me una gran fortuna di vedere in casa mia gente tanto di prestigio. Ho pescato proprio oggi un bellissimo gran pesce». Sopra un tavolo esso stava alla vista dei signori. Non mentiva il pescatore perché grosso era e ben lungo. Già di quello pregustava il guadagno in buon denaro. E fu presto affare fatto: ordinarono di comprarlo e pregarono il loro ospite che lui stesso lo sventrasse. Cominciò quello ad aprirlo, mentre tutti lì guardavano e trovò quell’uomo esoso nello stomaco la chiave di cui già sentiste dire, con la quale Gregorio aveva chiuso senza compassione 17 anni prima e gettata aveva in acqua, asserendo che a quell’ora, che l’avesse ritrovata ripescandola dal lago, lui di colpe sarà puro. Quando la ritrovò nel pesce all’istante egli comprese che era stato sordo e cieco e con ambedue le mani si strappò i capelli in testa. E aiutato anch’io lo avrei sol che fossi stato lì, tanto irato io sono con lui. Il pescatore con i due saggi si dirigono allo scoglio, benché il pescatore sia sicuro che non troveranno più nessuno, e invece trovano Gregorio. Lo pregano di dire se Gregorio è il suo nome. Gli dicono che egli è stato eletto e nominato, stabilito reggitore in Sua vece sulla terra da parte di Dio. Gregorio non vuole. 19 «Se tra voi oggi io fossi accader potrebbe ai giusti di pagar i miei delitti, tanto grande è la mia colpa. Che per guida mi vogliate è un inganno pien di beffa. Da Signore nostro Iddio ho piuttosto meritato il suo odio e la sua ira e non certo che egli volga la Sua grazia a me e l’onore che d’un Papa son sigillo. Non io sono in Roma atteso: nessun bene ne verrebbe. Non vedete il corpo mio? E si descrive. «Fui di nefandezze vaso pieno e di peccato, quando qui su questa rupe fui legato in questi ceppi che vedete ai piedi miei, che con pena ancora porto. Fu celata allor la chiave con la quale nelle catene chiuso fui sì strettamente. Fu gettata in fondo al lago e colui che l’ha gettata disse che sol perdonato io sarei se la trovasse. Non c’è mai sì gran peccato che più forte sia la grazia di colui che aprì l’inferno. Se il Signore nostro Iddio s’è dei miei molti debiti, delitti, per bontà dimenticato, e io son di nuovo puro, a noi tre di questo deve dare un segno che sia indubbio o dovrà la vita mia trovar fine in questo scoglio. Egli deve qui mandarmi quella chiave con la quale qui sono stato incatenato o di qui io non mi parto». Il pescatore dice di avere trovato la chiave e apre le catene. Gregorio cerca la tavoletta che aveva dimenticato la mattina quando era stato svegliato dalla moglie del pescatore perché si era addormentato e la trovano fra le macerie e le ceneri della catapecchia in cui era stato ospitato anni prima. La vuole affinché delle sue colpe più gravoso fosse il peso. Su quella tavoletta stava scritta la sua origine. Viene condotto a Roma. E la città grande di Roma ricevette il suo signore con il cuore tutto in festa. E per tutti fu un gran bene, 20 poiché mai nella città era stato eletto un Papa che così sanar sapesse le ferite di ogni anima. Conduceva vita santa poiché dava a lui misura del Signore il Santo Spirito: rispettava la giustizia ed è giusto mantenere nel potere l’umiltà. Hanno i poveri qui asilo. Ed è giusto col timore fustigare empi costumi e piegare con diritto quei che son contro giustizia. E se un figlio del demonio tien la stola in poco conto senta il peso del potere: giuste son le due leggi. Esse insegnano giustizia e colpiscono l’arroganza. Ma si deve il peccatore pur correggere con dolcezza, con la mite penitenza che fa dolce il pentimento, che la legge è sì severa, ché se viene a un peccatore applicata con rigore non può il corpo sopportarla. Chi cercare vuol la grazia, più dura penitenza spesso alfine ne dispera, sì che a Dio può rinunciare e tornare preda del demonio. Perciò viene ognor la grazia prima della dura legge. Diede giusta la misura alla vita spirituale, perché salvo il peccatore e costante fosse il giusto. Col suo forte insegnamento del Signor la gloria accrebbe e si sparse saldamente nell’impero dei romani. Veniamo ora all’ultimo atto. La sua madre, sposa e zia, tre persone in un sol corpo, quando seppe in Aquitania di quel Papa che per vero un rifugio e un conforto era a tutti i peccatori, lo cercò per un consiglio al peccato capitale perché il peso dei peccati fosse tolto alle sue spalle. Allorché lo vide e a lui 21 confessandosi parlò, alla nobile signora pur non venne alcun sospetto sopra il corpo di quel Papa, che cioè fosse suo figlio. Ella aveva in sé sofferto e fatiche e penitenze poiché erano separati, sì che il corpo per fatica appassito e indebolito era in forza e in colore, che neppure lui la riconobbe fino a che il suo nome disse e la terra di Aquitania. Quando udì la confessione, e null’altro ella disse se non quella stessa storia che egli già ben conosceva, riconobbe sul momento che la donna era sua madre. Quel sincero uomo santo ringraziò molto il Signore che ella avesse al suo consiglio obbedito tanto a fondo. Vide infatti chiari in lei pentimento e penitenza. on saluto assai festoso egli accolse allor sua madre e felice fu che a lui quella gioia infin toccasse di vederla ancora in vita e di averla accanto a sé nella tarda sua vecchiaia, consigliere essere a lei per la sua salvezza eterna. Ma la donna non sapeva che l’aveva già incontrato. Con parole accorte disse: «Donna, ditemi per Dio, mai sapeste qualche cosa dove fosse vostro figlio, se sia morto oppure vivo?» Per gran pena sospirò. Disse: «No, signore mio. Sono certa che tal pena ha sofferto in penitenza che se il vero ciò non smente, credo che non sia più vivo». Egli disse: «Se per grazia del Signore esser potesse che egli fosse a voi mostrato, credereste di poterlo riconoscere ancora oggi?» «Se i miei sensi non mi ingannano, 22 se lo vedo lo conosco». Egli disse: «Dite, prego, quale dei due voi provereste? Forse gioia, oppure dolore, s e doveste rivederlo?» Disse: «Voi dovete credermi. Ho da me allontanato tutti gli agi, ogni ricchezza, ogni gioia pur dell’animo e sono fatta misera donna. Non potrei in questa vita avere mai gioia più grande che di rivederlo ancora». Disse: «Fatevi coraggio che vi annuncio grande gioia. Non è molto che lo vidi e nel nome di Dio disse che più caro nulla aveva, più costante e saldo affetto che la vostra persona». E la donna: «Dite, di grazia, vive ancora?» «Sì» «E come?» «Bene sta ed è qui accanto». «E, signor, posso vederlo?» «Sì. Non è molto lontano». «Che io lo veda, mio signore». «Mia signora, è presto fatto. Se volete voi vederlo non occorre che attendiate. Cara madre, mi guardate. Sono il figlio e sposo vostro. Benché fosse grande e grave dei peccati miei il fardello, Dio ha tutto cancellato e da Dio questo potere consegnato è in mano mia. Dal volere Suo è venuto che io fossi qui eletto e a Lui ho consacrato la mia anima e il mio corpo». Così fu all’infelice compensato il suo soffrire. Dio li unì per vie mirabili per la gioia di lor due. Vissero quindi inseparati finché entrambi morirono. Ciò che a lei Gregorio disse e ordinò per penitenza, allorché lasciò la patria, tutto aveva ella compiuto, con il corpo e con gli averi, in voler di penitenza sì che nulla le restava. E quegli anni che trascorsero essi a Roma poi insieme furono tutti per entrambi a Dio solo consacrati, 23 sì che furono per sempre figli eletti del Signore. Anche ottenne per suo padre che con lui sedesse dove mai la gioia viene meno. Gloria a chi siede lassù. Dalla storia a lieto fine dei due grandi peccatori che riottengono la grazia del Signore dopo la colpa, mai non deve un peccatore trarre triste presunzione né pensar nella sua mente di potere fare guerra a Dio ragionando in questo modo: “Compi pure ogni delitto, chi potrà dannarti poi?”. Quindi deve avere il peccatore chiaro quel concetto: che se pur molto ha peccato, c’è per lui speranza ancora se si pente veramente e fa giusta penitenza. Hartman, che la sua fatica diffuse in questi versi, manda a tutti insieme, l’innocente peccatore e messaggero, il nostro affanno, perché noi nella miseria alla fine ci salviamo, come loro si sono salvati. Dio ci aiuti in questo. Ecco. GIACOMO B. CONTRI Fra qualche momento segue un intermezzo ancora di Raffaella Colombo. RAFFAELLA COLOMBO NARRAZIONE DI UN CASO Dalle prime file c’è stata la richiesta, l’ennesima richiesta: «ce lo dici dov’è la colpa?». Introduco… Vi racconto adesso di una bambina di 12 anni, Sybill, che è stata inviata a me su indicazione dei docenti e che mi è stata presentata dalla madre. Una bambina, una ragazzina che frequenta la 1° media e che i docenti “non capiscono”. Una ragazzina scontrosa, che si isola, non vuol parlare con nessuno, sembra non capire; intanto, non va bene a scuola. Di lei si sa, i docenti sanno, che è figlia di genitori divorziati — il divorzio è avvenuto quattro anni fa — e non riescono, non si riesce ad avere un rapporto né con lei, né lei con i compagni di scuola. Distratta, se parla è per aggredire, per attaccare. E la madre — è venuta da me alla fine di ottobre — mi dice questo: è contenta che la figlia possa venire da me, ma teme che si rifiuterà perché ha avuto un’esperienza precedente con psicologi al momento del divorzio, quando a uno psicologo era stato 24 assegnato il compito di facilitare la ripresa dei rapporti fra Sybill, la sorellina e il padre, perché Sybill e la sorella non volevano più vedere il padre che aveva un diritto di visita. La madre dice che la figlia era l’unica delle tre donne — la madre e l’altra sorella — era l’unica alla quale il padre obbediva. Quando il padre vedeva la figlia con un fare autoritario, andava in cantina. Il padre alcoolista e dipendente da sonniferi, aveva l’abitudine di recarsi più volte al giorno in cantina, dove aveva costruito, arredato, un locale come il suo insediamento. E la madre, la moglie, sapeva che lui beveva, ci si accorgeva, per lo meno all’olfatto e anche alla vista, ma non si riusciva a scoprire una bottiglia; cioè non si riusciva a capire, lei non riusciva a capire dove bevesse e tutte le volte che risaliva dalla cantina odorava di alcool e non c’era traccia alcuna in cantina. Dopo la separazione si è scoperto, lei ha scoperto, che in cantina lui aveva costruito un locale, un doppio muro, con una porta di accesso ben celata, che era una cantina fornitissima. E quando la bambina diceva al padre: «Fila in cantina! Non mi dar fastidio. Fila in cantina!», lui faceva questo, lui se ne andava. Lei lo aveva in pugno, secondo la madre. Nel momento della separazione, l’occasione della separazione è stata data da un episodio — era la fine dell’anno scolastico della terza elementare di Sybill — Sybill aveva portato a casa il libretto scolastico e i quaderni e il padre glieli aveva stracciati e stava iniziando una collisione tra lui e la moglie. La bambina alla vista di questo era fuggita di casa, si era rifugiata da un vicino, e aveva telefonato a casa dicendo che sarebbe tornata solo se la mamma avesse mandato via il papà da casa. Questa è stata l’occasione per la separazione. E la madre mi dice che il marito era un uomo violento, inaffidabile, soprattutto nei momenti in cui beveva, ma che non aveva mai picchiato Sybill; appunto la temeva. E allora racconta di alcuni sospetti sul rapporto tra il padre e la bambina, confermati dalla bambina stessa, e secondo la madre il rapporto che il padre, il modo di rapporto che il padre ha avuto a sua insaputa, a insaputa della madre, con Sybill, sono da connettere con il fatto che Sybill non riesce più ad avere rapporti, con i compagni, con la scuola. Il fatto è questo — un primo sospetto in un rapporto disturbato — è un episodio che risale all’età della scuola materna. La maestra d’asilo un giorno racconta alla madre di Sybill di un gioco che Sybill ha fatto con un compagno, un maschietto. E la maestra mette in allarme la madre sulle inusuali conoscenze della bambina riguardo alla fisiologia. Dice che ha visto Sybill giocare fra i cuscini , in un momento di gioco libero, con un maschietto, svestiti, anzi svestita dal maschietto e Sybill che diceva al maschietto, che si toccava: «Quando hai finito, dopo esce una cosa bianca». Era una indicazione, evidente, che una bambina non dovrebbe avere riguardo alla eiaculazione. Era un’indicazione a riguardo dell’eiaculazione. E la madre non ha dato rilevanza al fatto. Più tardi ha ricordato che quando lei rientrava a casa dopo delle assenze di più ore, durante le quali era il padre che era in casa e si occupava delle bambine, ricorda che trovava Sybill a letto, semiaddormentata, con il dito in bocca. Questo fino a 6-7 anni. Cioè era accaduto più volte. E che un giorno Sybill le ha raccontato dei giochi che il papà faceva con lei. E il sospetto della madre, che questi giochi siano stati realmente fatti, pur non avendone prova alcuna, se non dal racconto della bambina, mentre dal marito la negazione. E dice di avere spiegato alla bambina che queste sono cose che non si fanno e che da allora la bambina ha avuto il coraggio che prima non aveva di rifiutare di seguire il padre, che la invitata o ad andare in cantina o ad andare in bagno con lui. La bambina viene. È una ragazzina bionda, con gli occhiali, la frangetta, anzi una frangetta piuttosto lunga: le copre gli occhi. E colpisce per l’andatura, per il portamento: è piegata su di sé. Guarda da sopra gli occhiali, con il mento che tiene sul petto e siede semisdraiata sulla sedia. I vestiti le cadono di addosso; si vede che non ha nessuna cura. Questo è il primo incontro. E quello che mi dice: sa perché è venuta e io le dico che sono contenta che lei venga e che mi dica quello che vuole dirmi, che vedo che ha un cruccio. E lei mi dice di sì: è il papà. Il papà è via da casa da tre anni e lei teme di incontrarlo in città. È una cittadina: scuola, piazza, il centro è piccolo per cui la possibilità di incontrarlo è grande e teme di incontralo all’uscita da scuola. È successo più volte: il papà la invita a bere qualcosa, entrano in un bar, lui beve e poi se ne va e deve pagare lei. Questo è successo tre, quattro volte. E le facevo notare che dal suo rapporto mi sembra che non abbia voglia di seguire il papà, di andare a bere con lui. Lei mi dice che ha paura, è timida, il papà la intimidisce, non gli sa dire di no. E le chiedo che cos’è che non vada. Mi dice che il papà è ubriaco, è ammalato, è invecchiato, è diventato brutto; ha il viso coperto di foruncoli, è senza denti e lei si vergogna. Non vuole che i suoi compagni sappiano che lui è il papà. Da quando accade che il papà la venga a prendere o incontrare all’uscita da scuola, la madre tenta di evitarlo andando a sua volta a prenderla. La bambina dice che la mamma le ha detto che il papà potrebbe invitarla a casa sua e per evitare questo la viene a prendere. La mamma le ha detto che il papà potrebbe chiederle quello che le ha chiesto nel passato. La mamma teme questo, dice la bambina, e quindi la viene a prendere. 25 Allora faccio notare alla bambina, per la quale vedo che il problema più importante, che è veramente un cruccio, è che il papà è diventato vecchio, brutto e senza denti, non vorrebbe che i compagni la vedessero figlia di quest’uomo, e allora le faccio notare, come lei ha detto, che sì il papà è ammalato, ma se è ammalato non è sempre stato ammalato. Le chiedo se non ricordi com’era suo padre quando lei era piccola. E ha dei ricordi e nel parlarne si ravviva. Le chiedo se non ha delle foto del papà da giovane, quando non era ammalato e perché non ne porti con sé. Potrebbe benissimo dire ai compagni che suo papà è questo, quell’uomo là. Questa sembra una soluzione per la bambina — momentanea — e difatti vuol venire, vuol venire ancora e la volta successiva viene e mi porta 5-6 foto ed è orgogliosissima di mostrarmi il suo papà. Intanto, dalla seconda volta in poi, è diversa: ha un portamento più eretto, i capelli…non so se ha tagliato la frangia, comunque la fronte è libera, guarda negli occhi, sorride, racconta. E mi dice che la mamma le ha detto di dirmi una cosa: e torna allora ad assumere un’espressione triste, intimidita, dispiaciuta. Mi dice che il papà ha fatto con lei delle cose che un papà non dovrebbe permettersi di fare. Lei era piccola e il papà la invitava a fare delle cose che non aveva il diritto di chiederle. Io le chiedo chi le abbia detto questo. Lei mi ha detto: «L’aveva detto la mamma. È la mamma che mi ha detto che il papà non aveva il diritto di chiedermi queste cose perché io ero piccola». E mi dice che quando era piccola lei non sapeva di che cosa si trattasse e lo faceva perché a lei piaceva; la divertiva, era una cosa nuova. E succedeva spesso che il padre le chiedesse di andare in cantina o di andare in bagno e da quando sa dalla mamma che certi atti, certi gesti un papà non li può chiedere alla bambina, da quando lo sa, il ricordo di questo, ciò che papà ha fatto con lei le provoca ribrezzo. La madre mi aveva raccontato al primo incontro, ed era una prova del fatto che era accaduto qualcosa di sconveniente tra padre e figlia, ricorda che una notte recentemente Sybill si era svegliata ed era entrata nella sua stanza, nella stanza da letto della madre, — dove da tre anni, cioè da poco dopo il divorzio dorme con un amico che ha preso il posto del padre in casa e Sybill ogni tanto parla di lui, si confonde, lo chiama con il nome proprio, poi dice il papà, poi dice il papà tale, il papà con il nome proprio — ; una sera è entrata in stanza e ha visto la mamma e il suo amico fare l’amore ed è rimasta sulla soglia. La madre se ne è accorta, è uscita e Sybill le ha detto: «Ma a te, mamma, fare queste cose, piace? Perché quando io le facevo con il papà, a me non piaceva». Notare che il fatto che non le piacesse, la bambina dice è accaduto dopo che la mamma le aveva detto di che cosa si trattava. E la madre le dice che a lei sì che piace. Successivamente, Sybill torna da me, chiede di tornare; chiede di volta in volta se davvero tornerà la settimana prossima alla tale ora. E un giorno le racconto succintamente la storia di Gregorius, facendole notare che quello che è accaduto a lei è accaduto anche ad altri e anzi, anche a re e a regine e non per questo non sono poi state donne amate da uomini e desiderate, amate. E alla fine del racconto, che aspettava volentieri, commenta dicendo: «Ah! Ma allora ce ne sono altri come me». Nel frattempo, a scuola nei rapporti è cambiato tutto: è tornata spigliata, allegra; c’è un vai-vieni di compagni a casa sua, in casa di altri. E recentemente mi ha detto che non si ricorda neanche più perché è venuta da me, che sta bene, ma ha un pensiero fisso. Ha un ricordo che ha presente fin dall’inizio e che le torna continuamente ed è legato, questo ricordo, è legato al papà, al fatto che il papà sia malato, che sia così brutto, così trascurato. Allora io torno, le chiedo perché non faccia notare al papà che può curarsi. Lei dice che ha paura, è intimidita — gliel’ha detto la mamma che lei è intimidita — . Allora racconta finalmente un episodio che le torna alla mente e che mi dice che voleva, più volte avrebbe voluto dirmi e dimenticava. Ed è il vero motivo per cui il pensiero del papà e la vista del papà le risulta spiacevole. È il fatto che a insaputa della mamma lei ha visto più volte il papà picchiare il cane. Dice di avere odiato il papà per questo, perché lei si immedesimava nel cane che veniva tenuto legato a una catena nel giardino e quando il padre — lei dice — era nervoso, picchiava con un bastone, fino al punto che hanno dovuto portar via il cane, portarlo al canile, perché era diventato pericoloso: non ci si poteva più avvicinare perché mordeva. E lei racconta che anche il papà è stato morsicato. E si dilunga nel raccontare questo, dicendo che nessuno la vedeva, la mamma non sapeva che lei vedeva, perché quando si sentiva il cane gemere, la madre portava le bambine dall’altro lato della casa e lei dice che aveva scoperto che da una finestrella nel bagno del piano superiore si poteva vedere in giardino. E tutte le volte che sentiva il cane gemere e il padre urlare, perché lo picchiava, lei andava a vedere. E insiste dicendo che lei si immedesimava in questo cane senza colpa e non capiva perché il papà si accanisse tanto … E lei si immaginava la pena di questa bestia e il papà era cattivo, in questo era cattivo. Il sollievo per Sybill è stato il notare, riconoscere lei stessa che in questi atti, per questi atti, il papà era cattivo. Per degli atti; non “il papà è un cattivo”. E in quel momento ha potuto ricordare anche aspetti gradevoli, cari, del papà; dei lavori fatti dal padre per lei che lei tiene nella sua stanza e che voleva togliere dalla stanza, e — lei dice — che da un po’ di tempo le sono tornati cari. 26 Terminerei qua, con un commento. È un caso di incesto. La sorpresa è stata il constatare come la bambina chiedesse addirittura a me conferma, ma non era neanche necessario avere una conferma per lei, del fatto che degli atti dei rapporti con il padre erano diventati sconvenienti solo nel momento in cui aveva saputo che erano proibiti. Uno sconcerto per lei stessa: come mai quello che a me piace o che a me piaceva non era da fare? La condanna è venuta nel momento in cui la madre ne ha dichiarato, ha fatto diventare l’atto uno scandalo. Per Sybill questo atto era leggibile in lei: non voleva che i compagni sapessero che quello era suo padre. Ma il reale motivo di dispiacere riguardo al padre non è legato a quegli atti. Il ricordo che ritorna — non mi sembra che sia un ricordo di copertura — sono atti reali visti, di pena, dovuta a degli atti di cattiveria del papà, di quell’uomo. Allora, dove sta la colpa, che questa bambina non riconosceva e neanche adesso riconosce, salvo nelle parole, nel giudizio della madre: «Un padre non si può permettere queste cose»? Colpa che si sta trasmettendo il lei, perché lo stesso atto visto compiere da altri e pensato per sé con un uomo le risulta fonte di ribrezzo. Ma ripete lei: «perché me l’ha detto la mamma». Erano domande mie: chi te l’ha detto? Lo pensi tu? Te lo ha detto qualcuno? E ogni volta: «Me lo ha detto la mamma». C’è l’aspetto di scandalo; mentre per il soggetto questo, per la bambina, questi atti erano — lo diceva lei stessa — era qualcosa di bello, perché era qualcosa di nuovo, di divertente. «Mi piaceva perché me lo chiedeva il papà», «Lo facevo perché me lo chiedeva il papà e mi andava bene». Allora, dov’è la colpa? GIACOMO B. CONTRI L’ EDIPO Raffaella mi chiedeva se è sufficiente: è già tutto contenuto in ciò che lei ha detto, prima, ora e la volta scorsa. La mia è solo una esplicitazione. Se la legge è quella che noi diciamo, se la legge è la legge dei figli, dei figli che sono figli e figlie, — di più: una legge tale senza la quale essi non sarebbero figli e figlie, non avrebbero un sesso, se non ridotto alla ideologia della anatomia. Diciamo un’ideologia più o meno gentilmente pornografica, un’ideologia isterica, propriamente parlando, nevrotica, e immorale in quanto tale, immorale in quanto patologica. — Se la legge è quella che noi diciamo, l’incesto, quello che si chiama incesto ne sarebbe il primo correlato. Non solo lo sarebbe, ma lo è. Lo è privato della “in” iniziale della parola in-cesto, che vuol dire «in-castus», non casto. Se la legge è quello che diciamo, ciò che è chiamato incesto diventerebbe casto; significa legittimo. E difatti è così. La domanda è: dove è il peccato, colpa o delitto? Dalle parole appena dette, è del tutto chiaro: se c’è colpa, delitto o peccato, si tratta di una colpa, un delitto, un peccato, contro la legge in quanto legge dei figli e figlie. Dunque, definizione appena data: c’è colpa o peccato o delitto, se e solo se si tratta un delitto nei confronti della legge dei figli in quanto tali, ossia contro la verità che «essere uomini è essere figli». Allora questo è il livello a partire dal quale e nel quale trattare ciò che trattiamo e significa la nostra vita stessa, anzitutto. Il fatto che noi, o parte di noi, in una maniera o in un’altra, siamo dei curanti, dei terapeuti o come volete dire, è formalmente secondario, ossia derivato. Riguardo alla parola peccato sarebbe bene che facessimo un rapido processo di civilizzazione di noi stessi. Peccato e delitto sono, peraltro all’uso latino antico, ma ancora dei giuristi dell’altro secolo, sono, e non sono mai stati altro, che due sinonimi. È rigorosamente falso che il peccato è una cosa da prete e il delitto è una cosa da magistrato. Che il peccato è una cosa che riguarda la morale e il delitto è una cosa che riguarda il Diritto Penale. La nostra unificazione del concetto è esplicita, formale, rigorosa. In questa, che è Scuola Pratica di Psicologia e Psicopatologia, le categorie della quale sono sufficienti a fare ciò che abbiamo fatto questa mattina e la prima volta — tirare dentro Hartman — senza per questo essere passati a fare un lavoro di letteratura, scisso, estraneo, in questa scuola si sono unificati in una medesima nozione di competenza diritto, morale e psicologia. Allora, peccato o delitto, se è, è peccato o delitto contro la legge dei figli. È contro l’essere come essere di figli e figlie. Infatti, è solo la legge a consentire di conoscere il peccato. C’è qualcuno che l’ha detto in questo modo in passato. Non esiste il 27 peccato se non esiste la legge. Noi potremmo conoscere l’esistenza o meno, testare, come dicono gli psicologi e non solo, l’esistenza o meno del delitto o del peccato a partire dalla legge stessa. Aperta parentesi: i test, non dei fisici, non dei medici, ma degli psicologi in questo non valgono nulla o peggio. Anche essi per conoscere ciò che testano, non partono da una legge, una scala, — un test proiettivo — non è una legge se non in qualche aspetto, per qualche parvenza, a brandelli, a straccetti. Ma questo è solo un inciso. Avevo detto la volta scorsa che stiamo facendo un recupero, una ricapitolazione dei secoli e dei millenni. La faccenda di cui ci occupiamo è l’interrogativo, a risposta perfettamente incognita: ma dove è il peccato in questa vicenda? Parte della storia letteraria, almeno da Sofocle, dicevamo. Abbiamo portato il Gregorius, di Hartman von Aue, XII secolo, indubbiamente esplicitando il nostro plauso, la nostra netta preferenza, alla soluzione — dico bene: soluzione — di Hartman rispetto alla soluzione di Sofocle. Le due coppie incestuose di questo racconto sono due coppie di persone psichicamente sane, normali. Edipo e Giocasta sono malati. Già dimostrato, dimostrato ed illustrato in questa sede, illustrazione estendibile, lo illustrerei grazie al confronto col Gregorius mostrando le divergenze opposte, strane, che nel rapporto tra i due soggetti, prendono i soggetti in Edipo Re e in Gregorius. In Edipo Re, Giocasta ed Edipo, nella misura stessa in cui vanno riconoscendo quella che essi credono essere la verità, non si parlano più. Interrompono il loro rapporto. Non c’è più rapporto fra di loro. Il delitto che essi compiono verso se stessi — l’autoaccecamento e il suicidio, rispettivamente di Edipo e di Giocasta — sono consumati dall’uno e dall’altra nella solitudine del rapporto interrotto. Assolutamente tipico della patologia: quanto più il soggetto si ammala, tanto meno prosegue il rapporto di parola che in precedenza ha, aveva con certe persone, in particolare caso. Qui noi abbiamo due coppie di soggetti che nella misura stessa in cui riconoscono chi essi sono, proseguono il rapporto. L’incremento, la confidenza stessa è estesa. C’è di più, in Gregorius: si può bene considerarlo una apologia di incesto. Edipo Re è il pollice verso all’incesto. Ma anche nel cavaliere e nella duchessa, figlio e madre, si pone l’interrogativo: dov’è il delitto? Essi stessi, per asserire che ve ne è uno, danno fiducia alla testimonianza di Dio, è Dio che dice che c’è delitto. Non in una sola riga del Gregorius c’è una positiva asserzione di quale esso sarebbe. È importante, in almeno due punti del Gregorius, Gregorius, —ma la cosa sarebbe estendibile alla donna, sorella prima, madre poi — è definito «innocente peccatore». C’è un’altissima consapevolezza del quesito sul delitto o peccato da parte di Hartman, essendo egli così formato (…) «Innocente peccatore», ossia ci mette di fronte a un contrasto. Preferisco la parola contrasto; contraddizione è un concetto logico. Diciamo che c’è un contrasto o scomposizione. Notiamo che almeno, forse anche fratello e sorella — la prima coppia incestuosa — ma che almeno duchessa e cavaliere sono assolutamente privi di sensi di colpa e al momento medesimo della scoperta. È un’insistenza sul fatto che si tratta di persone psichicamente sane, assolutamente diverse da Edipo e Giocasta. Sono Edipo e Giocasta che hanno il senso di colpa. Anzi, con una frase che devo a qualcuno che ho visto l’altro giorno, noi abbiamo che Edipo e Giocasta commettono un delitto ritenendo di averne compiuto uno in precedenza, cioè di essere certi, cioè essi ritendono di poter essere certi di avere commesso un delitto e basta nel loro rapporto incestuoso e per conseguenza — una conseguenza illogica — commettono il nuovo delitto verso se stessi, dell’autolesione e dell’autouccisione che è il suicidio. Vale qui una frase, dicevo, che devo a qualcuno, che diceva: «Non è vero che è del delitto che si cancellano le tracce» — quello che tutti credono: il delinquente compie il delitto poi cerca di cancellare le tracce; diciamo che questo accade soltanto se il delinquente è una persona normale. Allora sì — non è del delitto che in tutto ciò (e avete visto la portata nuova che diamo alla parola) non è del delitto che si cancellano le tracce in tutto ciò che chiamiamo psicopatologia, o in quella che altri chiamavano malattia morale, molto pertinentemente, «è il delitto che cancella le tracce». In questo caso il delitto di Giocasta ed Edipo contro se stessi cancella le tracce della domanda Ma quale sarebbe il delitto? Essi danno per ovvio di saperlo: non sanno niente, sono … «Non è del delitto che si cancellano le tracce; è il delitto che cancella le tracce». Badate che quando leggiamo, come ancora pochi giorni fa, sulle prime pagine dei giornali, di quel tale che è entrato in un treno e si è messo a sparare alla gente, ammazzandone tanti e ferendone ancora di più — avrete letto la notizia — e tutti i casi di questo tipo, di solito gli Stati Uniti sono la patria di questo tipo di ammazzamenti pubblici, ma non è obbligatorio che sia solo negli Stati Uniti… A mio parere è assolutamente vistoso: questi, che poi si fanno arrestare con candore. Ho sempre osservato, anche in quest’ultimo caso, ma in un seminario lo facevo già notare per quel tale ammazzatore del supermercato negli Stati Uniti di alcuni anni fa, e pure questo ha 28 continuato a sparare fino al momento in cui qualcuno è riuscito a bloccarlo e si è lasciato arrestare arrivata la polizia. Possiamo dire: aspettava solo che arrivasse la polizia. Con il proprio delitto, costui ha cancellato le tracce di tutta la propria psicopatologia. A partire da quel giorno vivrà felice — in prigione o nel manicomio criminale — avendo portato a termine la rimozione, non avendo più pendenze di rimozione da sostenere. Ormai la sua nuova realtà è un caso di metànoia, di metànoia nera, eh?, come si dice umorismo nero. La sua nuova realtà è diventata l’essere un delinquente. È luminoso, su ciò che sta dicendo già nel testo e nella coscienza di Hartman: un passo già letto da Raffaella Colombo — io lo riprendo —; «intanto questi sposi (…)», sposi, legame stabile. È importantissimo che il testo non vuole dire una storiella momentanea. Si tratta di un legame. Ricordo sempre il tema del nostro corso: Il legame sociale. Non è un legame effimero, è un legame stabile. Non è una scappatella, tanto meno uno stupro. Già si incomincia ad accorgersi, ad avvicinarsi un pochino all’idea di dove è l’errore, il delitto o colpa o peccato. Già è un errore il ritenere che l’incesto sarebbe un qualche cosa che ha a che fare con l’ordine empirico di un’attrattiva naturale scatenatasi , che la moralità personale non ha saputo frenare, ossia è già avvicinarsi all’errore accorgersi che l’incesto non ha nulla a che vedere con l’attrattiva sessuale presa come causa. L’incesto non è l’effetto di una causa naturale, del tipo causa-effetto. Lì l’attrattiva sessuale, l’istinto sessuale — abbiamo già detto che non esiste — effetto … Rigorosamente falso. E già si profila l’idea di delitto attraverso l’osservazione di un errore. Questi più che amanti, questi sposi, — legame stabile — sono lì a non fare altro, permanentemente, che l’asserzione: «Il mio altro, il mio amato o è quello o non è nessun altro». Questa è l’asserzione di certezza: il solo altro degno di me come suo soggetto — fin qui nella reciprocità — il solo altro è quello lì o quella lì. Se non quello, nessun altro. E in questa asserzione, di cui Giocasta ed Edipo sono rigorosamente incapaci, in questa asserzione non riflettono neanche dei passaggi in cui si parla dell’Inferno o delle fiamme dell’Inferno, della tentazione. L’asserzione: «Il mio altro è quello» è la certezza piena di questi soggetti. Sia nella prima coppia incestuosa che nella seconda. Non esiste altro uomo all’infuori di questo. Proprio non esistono dubbi, non esiste ossessività a questo riguardo e non esiste neppure timore della punizione divina al quale viene detto — intenzionalmente, coscientemente — «Guarda che per ognuno di noi il solo amore è questo». Di questa asserzione, non esiste il minimo pentimento. Allora la cosa diventa ulteriormente interessante. All’interno di questa esplicita certezza c’è questo importantissimo passaggio: «il potere di Dio ha creato un’ambigua comunione». State attenti. Non ha detto «il potere del diavolo ha creato un’ambigua comunione». È il potere di Dio che l’ha creata. Come vedete andiamo avanti con l’assenza di esitazione su ciò di cui si tratta. Non si tratta di personaggi con la minima ambiguità anche nell’individuare che c’è qualcosa di ambiguo in tale comunione. In tedesco, oltretutto, io trovo corretta la traduzione con comunione, ma comunque è utile osservare che la parola è Gesellschaft, vuol dire società, legame sociale. «Il potere di Dio ha creato un’ambigua comunione che persiste tuttavia». Proprio… È inutile…È quello che si dice Errare è umano; perseverare è diabolico. Loro non lo considerano errare il fatto che persista la comunione, la società di loro. E, per togliere ulteriormente ogni possibile dubbio che il loro rapporto abbia alcunché a che vedere con la causalità naturale, che è detta sopra, qui distinta e lì l’effetto, aggiunge: «comunione e dell’anima e del corpo». Proprio quello che si dice secondo il linguaggio morale tradizionale “piena coscienza e deliberato consenso”. Ma l’ambiguità eccola descritta: «Ciò che al corpo piace tanto non fa bene alcuno all’anima, benché l’anima assenta — c’è complicità; e infatti dice: vero anche l’inverso — ciò per cui l’anima è salva spesso al corpo causa pena. Ma in entrambi, anima e corpo, essi feriti, doppia morte ne pativano». Abbiamo ancora la piena normalità della persona: nessuna schizofrenia come quella ordinaria e patologica fra l’anima e il corpo, o del tipo “avrai il mio corpo, non avrai la mia anima” e tutte queste cose che girano per il mondo, eh?, di cui tutti siamo pieni nella nostra psiche. Se continuo ancora un po’ in questo modo, finisco come l’altra volta che ho appena potuto introdurre la questione e «Ne parliamo volta prossima». Allora, io arriverei al delitto in questo modo: lo riprendo. L’espressione Complesso di Edipo a questo punto non ci va più. Non che esso non esista, ma — ormai vi è familiare che la parola complesso per noi è sinonimo di legge; si tratta del concetto di una legge del moto o movimento — perché la legge di Edipo è una legge alquanto critica: è già la legge di un soggetto ammalato, una legge che già si è ammalata. Infatti giustamente Freud, almeno nel maschio, la vede decadere fino a distruggersi, tramontare nel verbo più mite; è fatta a pezzi, è una catastrofe. Oh, i nostri sposi incestuosi, non vogliono e non domandano altro, non solo non vogliono la caduta del — diciamo così — loro complesso, ma non vogliono, non domandano altro che esso duri o addirittura si ricostituisca in una forma legittima ed eterna. È esattamente l’opposto della prospettiva patologica che è quella della distruzione di quella legge. Infatti, i due coniugi incestuosi, nel finale del racconto, si ricongiungono perfettamente. Mi annotavo poco fa che allora, se proprio volessimo, noi potremmo 29 chiamarlo non più il complesso di Edipo, che sta sul versante già di una certa patologia; momentaneamente mi è venuto di annotarmelo come il complesso del discendente, di chi discende da qualcun altro che è ancora lì. Il delitto in generale — e questo non abbiamo fatto che dirlo da un anno in qua, magari con parole diverse — è l’ impedire a un soggetto di accedere alla legge del figlio, come unica legge di soddisfazione possibile esistente. Abbiamo sempre descritto la parola medica — che è un po’ una caduta rispetto a stamani — la eziopatogenesi di tutte e quattro le nostre categorie, le nostre quattro psicopatologie, come la crisi o l’impedimento dell’accesso di un soggetto alla legge di beneficio o alla legge di figli. Quella legge dei figli da noi riformulata con la formula: «Agisci in modo che il tuo beneficio, il tuo vantaggio, il tuo guadagno, il tuo piacere — tutte le parole che volete — si produca per mezzo di un altro, venga da un altro». Sarà delitto ogni infrazione a questa legge. Il delitto che troveremo sarà esattamente, è decisamente delitto di infrazione a questa legge. Legge alla quale, come abbiamo visto, il cavaliere e la duchessa tengono. Se c’è qualche cosa che li tiene e li tiene nel legame è il fatto dell’essere osservanti in ogni momento di questa legge. Vale anche la pena di osservare che la penitenza di lei e di lui è narrata così perché lo scenario in cui l’autore costruisce quella penitenza è uno scenario di sette secoli fa, e di contenuto — non mi va di dire religioso — di contenuto tradizionalmente penitenziale. Non vedo perché non sarebbero religiosi anche altri contenuti. Ma questa penitenza non è affatto una pena, nel senso in cui si manda in prigione, non è una sanzione per un delitto. Ma la penitenza, vuoi su uno scoglio, vuoi in convento, non sono pena di un delitto. Non si tratta neppure di lutto. Esiste del lutto in questi soggetti, peraltro di qualcosa che essi non danno affatto per perduto. Non esiste neppure la rassegnazione. Allora che cosa è, di cosa è figura la penitenza di cui qui si tratta? Oh, notate che questi due ragionano come Giobbe, eh? Se essi si fossero autoassegnati una pena per un delitto, avrebbero ragionato come quelli, come i cosiddetti amici di Giobbe che gli dicono che i disastri che gli sono successi sono la conseguenza dei suoi peccati e Giobbe gli risponde alla lettera con il noto gestaccio, quello per cui si inclina un braccio, poi… La penitenza delle due persone, come già della prima coppia, è figura di una elaborazione, di una rielaborazione che consentirà alla legge di figli in cui già vivono di arrivare a un compimento, a una perfezione, giudizio, cui non era ancora pervenuta, con ritorno e incremento della soddisfazione per i due partners, compagni, amanti e sposi. È una rielaborazione — è questo il passaggio decisivo per arrivare a cogliere dove è il delitto — è una rielaborazione che essi compiono — o appena detto che non è una pena per il proprio delitto, quindi non è un atto di carattere riflessivo, esattamente ciò che fanno Giocasta ed Edipo: l’atto che compiono su se medesimi è appunto riflessivo; ognuno agisce verso se stesso. Qui i due partner con la figura di penitenza, figura di rielaborazione della legge, agiscono per conto di tutto il mondo, di tutti. Elaborano una questione di diritto quale sarà, che è una questione di tutti. Ciò è specialmente chiaro nel primo incesto, allorché la sorella dice: «Ma se chiamo e vengono altri? » e giustamente Raffaella ricordava che questo è lo scandalo. Allora il delitto è il correlato di uno scandalo, di uno scandalizzato che tuttavia non saprebbe dire perché è scandalizzato. Riproduco lo schema già prodotto molte volte, ma reso assolutamente completo. Allora noi abbiamo sempre detto che la formula della legge è questa, nei termini di Freud è la legge del principio di piacere. La prima è questa. Au S A Io prima ho segnato la freccia che va da qui [da A] a qui [a S], poi l’ho cancellata perché in ordine di tempo, è questa la prima freccia da disegnare, quello che nella formula suona: «Agisci in modo …» perché questo altro [A] al momento potrebbe anche essere uno che sta passando per strada e che neppure sa che io esisto. Per questa freccia a suo tempo usavo anche la parola tradizionale di propiziazione che è una cosa molto diversa dal fare i furbi. Nel nostro lavoro è una cosa di cui accorgersi bene. «Agisci in modo che il 30 beneficio ti provenga per mezzo di un altro». Alla base di questo altro abbiamo messo una «U», iniziale di universo. Questo altro è uno di tutti gli altri ed è già stata spesa la parola dignità, il più degno. Allora, l’universo resta. Tutto ciò si interromperà se, o al momento in cui, questo altro cessa di essere il più degno, o nella misura in cui il desiderio del soggetto cessa di essere il desiderio “del più degno”. Ossia quando cadono ambedue nella indegnità. Bene. Nella sede della Scuola che è il Seminario, cui solo una parte di voi partecipa, ho riproposto quello che ormai non chiamiamo più l’Edipo, perché l’Edipo esiste, ma è la versione già parzialmente patologica di ciò che disegnerò ora, ossia del caso del figlio che si rivolge più, inclina più verso la madre o della figlia che inclina verso il padre. Dopo ho riproposto — ora però chiamato ad esempio come la legge del discendente — dopo ho disegnato semplicemente come un secondo tempo di questa medesima legge. Ancora questo lavoro non era stato fatto da nessuno. Dicevo che quello che corrisponde nel normale al complesso edipico non è altro che il secondo tempo di questa medesima legge. Au S A U-D D-U Con una differenza che deriva solo dallo stato dei fatti. Chi è questo A, questo altro? Fin qui la risposta è nell’ovvietà: sono i due genitori. Ma la banalità che è stata gettata su tutto questo, è del tutto identica alla banalità patologica di Giocasta che avevo già fatto osservare la volta scorsa: «Ah, un po’ tutti i figli …» . L’uno o l’altro genitore. Perché il figlio si dovrebbe specialmente risolvere a uno o all’altro genitore? Ed ecco ritornato l’errore. Forse per il fatto che la bambina ha l’istinto sessuale verso il papà. Idioti, ma proprio idioti! Idem per la bambina. Scemi. Il bambino nel rivolgersi ad un conto alla coppia dei genitori, con una sfumatura di preferenzialità, non fa altro che stare già applicando la legge paterna (…) Il secondo tempo non è che una fra le altre applicazione della già istituita legge paterna o dei figli al caso particolare del fatto che il figlio, che già segue, finché è normale, la legge del primo tempo con i conoscenti, nell’allattamento, nel giocare, nel combinare qualsiasi cosa combina, ossia nel seguire un principio di piacere che chiamiamo legge dei figli, applica, anche al fatto che si trova lì due tizi, lui e lei, e per il puro fatto che sono lì, e applica anche al trovarsi lì quello che … chiamavo “fare man bassa” ossia seguire quella legge. La preferenzialità, se non dipende come non dipende affatto dal fatto che il bambinetto avrebbe l’istinto maschile verso la madre, la bambinetta avrebbe l’istinto femminile verso il padre — ripeto: idiota, proprio idiota, o demente; abbiamo iniziato il corso di lezioni sulla demenza; doppiamente demente — se inclina più verso il genitore di diverso sesso rispetto al proprio è semplicemente perché l’essere di altro sesso lo fa preferire come altro. È il puro dato osservativo. Diventa un altro un po’ più singolare dell’altro altro o altro genitore per il fatto, avendo un altro sesso, è un altro più simpatico. Niente a che vedere dunque con l’istinto sessuale: fatto fuori. Dunque, ogni questione di moralità che parta dall’idea che ci sono gli istinti, poi bisogna comprovarli con la morale, appartiene alla medesima demenza, errore cui dicevo… Ciò che importa affinché da questa applicazione (applicazione fra tante, eh?) non risulti come ahinoi, … acciocché non risulti danno o non si dia la offesa, la offesa patogena, occorre che questo altro, rispetto al suo di altro, — la moglie rispetto al marito, il marito rispetto alla moglie; la donna rispetto all’uomo, l’uomo rispetto alla donna, perché questo altro è individuato in quanto uno di quella coppia lì, ed è quella coppia lì solo perché è lì — sia un altro che si propone figlio, in posizione di S, cioè lui stesso diventi tale nel suo rapporto e non posizione di altro; ossia, occorre che al figlio si proponga — che cosa è S? Il figlio — bisogna che questo altro preferenziale si proponga al figlio a sua volta in posizione di figlio. È la condizione generale — usiamo una parola un po’ astratta — della norma dei figli. Dicendo così, ho già definito un po’ di più in cosa consiste il delitto e del fatto che l’altro si proponga come a sua volta altro del proprio partner, ossia in una posizione non di figlio. 31 (…) Il delitto di cui si tratta — delitto in cui moralità, diritto, psiche, sono una sola cosa — il delitto si presenta in tre versioni di essa: 1. c’è delitto quando c’è caduta dell’universo. Frase costruita un po’ sulla antica frase caduta dal Paradiso terrestre. Ma caduta è come decadente: ma allora va ancora bene il lessico morale tipo caduta nel peccato ma vedete come cambia tutta la posizione. Con un filo di banalizzazione è la caduta del figlio nella famiglia. Non c’è figlio che nell’universo. Non c’è figlio della famiglia. Al punto che affinché questa applicazione accada in modo sano, normale, occorre che gli adulti stessi si presentino a loro volta come figli, niente affatto come papà e mamma, ma come uomo e donna. Caso rarissimo. 2. Secondo modo in cui si presenta il delitto: è il delitto di offesa, di offesa patogena. Vero e proprio delitto, con cui si scandalizzano i bambini, secondo la frase del Vangelo: «Chiunque scandalizzerà …». È anche ben nominato il delitto. Il Vangelo in questo caso dà una definizione del delitto della cui esistenza e definizione stiamo andando alla ricerca. Seconda forma del delitto. 3. Terza forma del delitto: la teoria, la teoria pratica e tutte le condotte che ad essa corrispondono secondo la quale esisterebbe una causalità naturale al desiderio. L’ho detto prima: l’incesto ci sarebbe perché esisterebbe una tendenza sessuale naturale che porterebbe da quella parte lì. Nulla di vero. Esattamente è un altro mondo. Diamo due formule per i due tempi. Al primo tempo c’è la costituzione della legge del Padre. Non accade al secondo tempo; è già al primo, come legge dell’erede, dicevo. La legge del beneficio da altri è la legge dell’eredità. Quel primo tempo è il tempo che corrisponde a una definizione abbastanza nota, ma che finalmente acquista un significato non mistificato, quella formula che dice che il desiderio è il desiderio dell’altro. E infatti la stessa freccia che parte da S e va verso A, è concepire descrivibile quella freccia come la domanda all’altro di muovere il proprio desiderio verso il soggetto. Voi potete essere poveri di denaro, di cultura, di tante altre cose, ma … il più grande che conosciamo … è che esistono, esiste sempre meno l’esperienza dell’essere desiderati. E ciò non ha nulla a che vedere con l’ideologia del bambino poco desiderato, eh? Mi piace sempre citare quest’altro…Ma ora lasciamo stare. … Che cosa di nuovo accade, se accade, — ecco il punto: se accade — se accade il secondo tempo? Perché non è affatto vero che accade così. È un successo se accade. Se non accade è proprio un peccato, un delitto. Sto ancora descrivendo il medesimo delitto. Che cosa accade nel secondo tempo? Nel secondo tempo accade un incremento della stessa formula messa nel primo tempo. Il primo tempo è il tempo della formula il desiderio — del soggetto — è il desiderio dell’altro. Se c’è il desiderio dell’altro, io l’ho sempre paragonato al finanziamento, alla banca che mi finanzia. L’altro è il mio banchiere in fatto di desiderio. Non esiste moto del corpo senza desiderio dell’altro. Non vado da nessuna parte. Il secondo tempo è la stessa formula arricchita: il desiderio sessuale è il desiderio dell’altro. Nulla a che vedere con la causalità naturale. Vorrei farvi osservare come la formula il desiderio sessuale è il desiderio dell’altro, ve la posso benissimo proporre come la formula stessa — vi sembrerà un po’ inconsueto ritrovare questa nozione generalmente antipatica; io qui finalmente la trovo sin-patica — la formula il desiderio sessuale è il desiderio dell’altro, è la formula stessa della castità, che non ha nulla a che vedere con il non farlo. È la subordinazione del desiderio, — ma come genesi, eh?; non è la subordinazione del soldato al generale; la subordinazione come genesi logica, psicologica, — la subordinazione del desiderio e del desiderio sessuale al desiderio dell’altro si chiama castità. Oh, potrei benissimo spendere lo stesso passaggio dicendo che la prima formula è la formula della verginità, del primo tempo. Ma su questo ritorno un’altra volta, perché già ora che ci penso io metterei ambedue le cose invece al secondo tempo. Vedete come capita di correggersi mentre si parla. Magari lo riprendiamo un’altra volta, questo. Per aggiungere… No, no: la delicatezza in questi passaggi, quanto più in anch’essi risulta, tanto meglio è. E abbiamo già in qualcuna delle nostre riunioni introdotto la distinzione tra la verginità patologica e quella normale. La verginità patologica qual è ? — che poi è quella così bene descritta da Freud nell’articolo Il tabù della verginità — È quando la verginità è considerata vuoi un attributo, vuoi uno stato pertinente alla sola esperienza femminile. Questa è la patologia: possiamo esserne certi. Allorché, vuoi come stato, vuoi come 32 attributo, questa parola venga assegnata all’esperienza di ambedue i sessi, qui abbiamo finalmente la solita essendo che questa parola non denota in alcun modo quello che si chiama il «non farlo». Anzi, se avessi avuto tempo per parlare dell’isteria, avrei mostrato come l’inibizione sessuale derivi precisamente dall’assenza del requisito della verginità. Ne è una conseguenza, in questo caso logica, non anzitutto psicologica, ma logica. Il finale dell’esposizione è soltanto il breve atto sistematico del mostrare fra le conseguenze del peccato o delitto, le patologie, a loro volta contenitori del medesimo delitto. Ed ecco perchè abbiamo sostenuto la presenza della imputabilità in tutte e quattro le psicopatologie. Sistematicamente, la cosa a Gregorio era già nota. Al secondo tempo corrispondono le nevrosi. Ed è per questo che possono passare come passabilmente normali, nel senso di compatibili con il come va il mondo, perché nelle nevrosi il primo tempo della legge ha potuto costituirsi. È quando è avvenuto il delitto dell’ostacolare un soggetto a costituirsi del primo tempo della legge, che si collocano psicosi, handicap psichico e perversioni. Sulla collocazione delle perversioni un’altra volta ritorneremo, perché è bene sottilizzare, sarà bene sottilizzare a quella dell’altro. Finisco osservando per — perché avrete notato che il tema, ma … cominciando ad osservare che i passaggi per rendere integralmente intellegibile il delitto di cui si tratta. Anzi, razionalmente intelleggibile il delitto di cui si tratta. Prima ho dovuto mettere e sottolineare che Hartman tratta — è l’unico caso in cui la grammatica che ci è stata presentata ed abbiamo presentato dell’ormai cosiddetto incesto. Il delitto dell’incesto è quando diventa in-cesto, non casto. Perché la legge dei figli è la castità del rapporto tra figli e nell’avere rapporto, eh? Un’altra volta vorrei che parlassimo di che cosa può essere il significato dell’espressione: desiderio di un figlio. È una frase a doppio taglio: desiderio di — nel senso di genitivo soggettivo —: il figlio che ha un desiderio e il desiderio di avere un figlio. Il che ha a che fare con il delitto. Non ho detto che è un delitto avere il desiderio di avere un figlio, ma è compromesso dalla presenza del delitto. Finisco solo osservando il delitto in Edipo. Avevamo già detto che Edipo è uno il cui complesso di Edipo non è affatto riuscito. Se c’è qualcosa che gli è andata male è proprio quell’esperienza, o gli è andato, gli è venuto male. Nella sua condotta, il suo peccato, il suo delitto è palese: è il delitto di — essendo egli principe, re, — da quel momento cessa di riconoscersi principe e diventa un figliolo di famiglia ebete e idiota come tutti gli altri. Ha lasciato cadere la regalità, perché solo i principi sono all’altezza della legge. Cessando di operare e di pensare come re, si lascia decadere dalla legge. Si declassa, si esautora. Abbiamo sempre descritto la eziopatogenesi delle psicopatologie come partenti da una offesa che è una esautorazione. E anche la moglie Giocasta lo esautora quando gli banalizza ciò che lui nell’angoscia le va raccontando. È per questo che è incestuoso, non-casto. Vale la pena, mi era venuta una frase come questa: «solo i principi sono casti»; i principi sono sempre casti; nella misura in cui la condotta è di ciascuno, deciderà. Chi sa reggersi all’altezza di quella formula è un principe. Semplicemente, come vedete, rovesciamo l’ordine della storia, dicendo questo. Noi non diciamo: quello lì della casata Savoia. Solo perché è italiana, Savoia. Pensate a tutte le casate che vi pare. Tutti i saggi, i libri di storia dicono che grazie alle genealogie che … ne sono venuti fuori e quindi non facciamoci illusioni sui principi della storia. È a partire da lì che ridefiniamo il principe. Che cos’è il principe? È un privilegiato. «Non posso amare che te, che quello, piuttosto niente» è una legge del privilegio, è una legge dell’altro mondo. Quando Freud descrive la nostra civiltà, la descrive certamente come una civiltà anche giuridica che corrisponde alla abolizione di quella legge. Ecco perché diciamo che la civiltà che corrisponde all’abolizione di quella legge è la Città dei malati, la conseguenza definitiva. © Studium Cartello – 2007 Vietata la riproduzione anche parziale del presente testo con qualsiasi mezzo e per qualsiasi fine senza previa autorizzazione del proprietario del Copyright 33