Il libro
Hardy Cates è un uomo affascinante e ambizioso, un milionario nato in una famiglia povera, che ha costruito la propria fortuna da solo. Ed è determinato a portare
avanti una sua vendetta privata contro i più ricchi petrolieri di Houston, i Travis. Haven è la figlia ribelle dei Travis, tornata a casa dopo due anni di matrimonio
fallimentare con un uomo che non è mai piaciuto ai suoi, e ben decisa a non dare più retta al proprio cuore. Ma quando il suo sguardo incrocia quello di Hardy, la
giovane donna si renderà conto che non si può resistere alla tentazione di un diavolo dagli occhi azzurri. Entrambi finiranno preda di un sentimento che nessuno dei
due può – o vuole – contrastare. Soprattutto quando una minaccia terribile emergerà dal passato della ragazza, e solo Hardy potrà salvarla…

di Lisa Kleypas
o L’amante di Lady Sophia
o Il diavolo ha gli occhi azzurri
o Sognando te
o Sugar Daddy
LISA KLEYPAS
IL DIAVOLO
HA GLI OCCHI
AZZURRI
Traduzione di Roberto Agostini e Martha Agostini
Il diavolo ha gli occhi azzurri
A mio marito Greg…
un gentiluomo e un uomo gentile.
Ti amerò sempre.
1
La prima volta che lo vidi fu al matrimonio di mio fratello, sotto il tendone del ricevimento.
Era in piedi, in una posa insolente e svogliata di chi avrebbe preferito trovarsi in piscina. Vestito in modo impeccabile. Ma chiaramente non si trattava del tipo che si
guadagna da vivere seduto a una scrivania. Nessun capo Armani sarebbe riuscito a ridimensionare quella corporatura massiccia e prestante, da operaio dei pozzi di
trivellazione o da cowboy abituato a montare tori ai rodei. Le sue lunghe dita, strette attorno a una flûte di champagne, avrebbero potuto spezzarne il gambo di
cristallo con facilità.
Mi bastò uno sguardo per rendermi conto che si trattava di uno di quei bravi ragazzi che vanno a caccia, giocano a calcio o a poker e reggono l’alcol. Non proprio il
mio tipo. Io ero interessata a qualcosa di più.
Tuttavia aveva un che di affascinante. Era decisamente bello nonostante la curva del naso che doveva essersi rotto in passato. I capelli bruni, folti e lucenti come
pelliccia di visone, erano scalati. Ma furono gli occhi ad attirare la mia attenzione. Azzurri, di una intensità che non si poteva dimenticare una volta vista. Provai una
scossa elettrica, quando girò lo sguardo nella mia direzione, fissandomi per un attimo.
Mi voltai immediatamente dall’altra parte, imbarazzata per essere stata sorpresa a spiarlo. Eppure mi sentivo ancora sotto il suo sguardo, sapevo che mi stava fissando
perché un’ondata di calore mi stava avvolgendo la pelle. Terminai il mio champagne in rapidi sorsi, lasciando che le bollicine effervescenti calmassero i miei nervi.
Soltanto dopo, arrischiai un’altra occhiata verso di lui.
Quegli occhi azzurri scintillavano con barbaro incanto. Un debole sorriso era infilato in un angolo della larga bocca. “Non vorrei davvero trovarmi sola in camera con
quel tipo” pensai. Il suo sguardo scivolò verso il basso, come in una pigra ispezione, poi tornò a sollevarsi sul mio volto. E allora mi fece uno di quei rispettosi cenni
del capo che i maschi del Texas hanno elevato a forma d’arte.
Questa volta mi girai di proposito dall’altra parte, indirizzando tutta l’attenzione su Nick, il mio ragazzo. Guardammo i novelli sposi danzare, i loro volti accostati. E
mi alzai sulle punte dei piedi per sussurrare all’orecchio di Nick: «I prossimi saremo noi».
Mi fece scivolare un braccio intorno alla vita. «Vedremo cosa ne dirà tuo padre.»
Nick aveva intenzione di chiedere a papà la mia mano. Una tradizione che io ritenevo antiquata e ormai superflua. Ma il mio ragazzo era un testardo.
«E cosa succede se papà non concede la sua approvazione?» chiesi. Considerato l’andamento della nostra famiglia – era raro che facessi qualcosa con l’approvazione
di mio padre – si trattava di una possibilità mica tanto remota.
«Ci sposeremo lo stesso.» Indietreggiando un po’, Nick mi sorrise. «Però, non mi dispiacerebbe convincerlo che non sono un così cattivo partito.»
«Tu sei la cosa migliore che mi sia mai capitata.» Mi rannicchiai nella curva del suo braccio. Pensavo che fosse un miracolo essere tanto amata da qualcuno quanto mi
amava Nick. Nessun altro uomo, fosse stato anche un adone, riusciva minimamente a interessarmi.
Ricambiando il sorriso, gettai un’altra volta uno sguardo di lato, chiedendomi se l’uomo dagli occhi azzurri fosse ancora lì. Non so perché, ma provai un gran sollievo
quando vidi che era andato via.
Mio fratello Gage aveva insistito per fare una cerimonia ristretta. Soltanto un gruppetto di persone era stato invitato nella piccola cappella di Houston, la stessa usata
dai conquistadores spagnoli nel XVII secolo. Il rito era stato breve ma stupendo, l’atmosfera vibrava di tanta soffusa dolcezza che potevi sentirla fin sotto i piedi.
Il ricevimento, invece, era come un circo.
Si svolgeva nella nostra dimora, la villa dei Travis a River Oaks, una zona esclusiva di Houston i cui abitanti avevano molte più cose da confessare ai commercialisti
che ai sacerdoti. Dal momento che Gage era il primo dei giovani Travis a sposarsi, papà intendeva approfittare dell’occasione per impressionare il mondo. O per lo
meno il Texas, che nella visione di papà era la parte di mondo che soprattutto valeva la pena impressionare. Come molti altri texani, mio padre credeva fermamente
che, se nel 1845 non fosse avvenuta l’annessione agli Stati Uniti, con ogni probabilità saremmo divenuti i leader del Nord America.
Così, per la reputazione familiare e per il fatto che gli occhi di tutto il Texas sarebbero stati puntati su di noi, papà aveva assunto una wedding planner, condensando in
cinque parole le sue istruzioni: «Eccole il libretto degli assegni».
Mio padre, Churchill Travis, era un noto mago dei mercati finanziari. Aveva creato un fondo d’investimento internazionale nel settore dell’energia, che era quasi
raddoppiato nei primi dieci anni di vita. Il fondo comprendeva produttori di petrolio e gas, costruttori di oleodotti e gasdotti, fornitori di energia alternativa e carbone,
in rappresentanza di quindici nazioni. Da piccola, non vedevo quasi mai papà; si trovava sempre in qualche remota località, a Singapore, in Nuova Zelanda o
Giappone. Si recava spesso anche a Washington D.C. per pranzare con il presidente della Federal Reserve, o a New York per presiedere qualche tavola rotonda in uno
dei programmi televisivi sulla finanza. Fare colazione con mio padre significava sintonizzarsi sulla CNN e guardarlo negli studi televisivi analizzare i trend di mercato
mentre noi, a casa, sbocconcellavamo i nostri waffles.
Dotato di un timbro di voce profondo e di una personalità esuberante, papà mi era sempre sembrato un uomo imponente. Soltanto quando divenni adolescente, mi resi
conto che fisicamente non era poi così alto, tuttavia un galletto che dominava il pollaio. Disprezzava l’arrendevolezza e temeva che i suoi quattro figli – Gage, Jack,
Joe e io – fossero viziati. Perciò quando era fra noi, si prendeva la briga di somministrarci massicce dosi di realismo, come cucchiaiate di un’amara medicina.
Quando mia madre Ava era ancora viva, era copresidente dell’annuale Festival del libro del Texas e durante le pause andava a fumare con Kinky Friedman, il
folksinger scrittore. Era una donna affascinante: le sue erano le gambe più sexy di River Oaks e le feste che organizzava le più divertenti. Come si diceva allora, aveva
la classe di una Dr Pepper alla spina. Dopo averla incontrata, gli uomini davano al papà del “fortunato bastardo”, cosa che gli faceva un tremendo piacere. Lei era più
di quanto lui meritasse, aveva proclamato papà a ogni occasione. Affermazione che, però, di solito concludeva con un risolino di scherno, perché aveva sempre
creduto di meritare più di quello che gli sarebbe spettato.
Settecento ospiti furono invitati al ricevimento, ma se ne presentarono mille. La gente affollava le sale della nostra villa e all’aperto si stipava sotto l’enorme tendone
bianco, ricoperto da milioni di lucine incantevoli e tappezzato da orchidee bianche e rosa. Nel caldo umido della serata primaverile le decorazioni floreali spandevano
dolci effluvi profumati.
L’interno era rinfrescato dall’aria condizionata. La sala del buffet era divisa in due da un bancone frigorifero, lungo una decina di metri e ricolmo di ogni genere di
frutti di mare. C’erano dodici sculture di ghiaccio fra cui una scolpita a mo’ di fontana di champagne e un’altra a mo’ di fontana di vodka costellata di caviale.
Camerieri in guanti bianchi riempivano di vodka ghiacciata i calici e versavano il caviale su piccoli blini alla panna acida e uova di quaglia in salamoia.
Il buffet caldo, invece, offriva zuppiere di bisque di aragosta e, negli scaldavivande, fette di filetto affumicato al pecan, tonno grigliato e almeno una trentina di
antipasti diversi. Avevo partecipato a numerose feste e cerimonie a Houston, ma in vita mia non avevo mai visto tanto cibo accumulato in un unico posto.
Giornalisti dell’«Houston Chronicle» e del «Texas Monthly» erano presenti e avrebbero parlato del ricevimento cui partecipavano ospiti importanti, come l’ex
governatore e il sindaco, un famoso conduttore televisivo, gente di Hollywood e petrolieri. Tutti in attesa di Gage e Liberty, che si erano attardati alla piccola cappella
per fare le fotografie.
Nick era abbastanza stordito. Proveniva da una rispettabile famiglia della media borghesia e un tale spettacolo era uno shock per i suoi valori. Anche la mia coscienza
sociale, sebbene alle prime armi, era imbarazzata da tanti eccessi. Ero cambiata da quando avevo frequentato Wellesley, il college femminile il cui motto era «Non
ministrari, sed ministrare»(“Non essere serviti, ma servire”). Avevo pensato che fosse un buon precetto da imparare, per una come me.
I miei familiari mi avevano preso in giro, dicendo che stavo attraversando una fase liberal. Papà, soprattutto, pensava che fossi il campione vivente della ragazza
privilegiata che a un certo punto viene presa dal senso di colpa per le sue ricchezze.
Diressi la mia attenzione nuovamente alle lunghe tavolate con le vivande. Avevo organizzato tutto in modo tale che il cibo rimasto venisse distribuito ad alcuni
ricoveri per i poveri di Houston. La mia famiglia l’aveva trovata una buona idea. Ma mi sentivo egualmente in colpa. Una falsa liberal, in coda per il caviale.
«Lo sapevi» chiesi a Nick mentre avanzavamo verso la fontana di vodka «che bisogna scavare l’equivalente di una tonnellata di rifiuti per trovare un diamante? Di
conseguenza, per produrre tutti i diamanti che ci sono in questa stanza, bisognerebbe scavare quasi l’intera Australia.»
Nick finse di essere sbalordito. «L’ultima volta che ho controllato, l’Australia si trovava ancora al suo posto.» Fece scorrere le punte delle dita sulla mia spalla nuda.
«Non prendertela, Haven. Non devi provarmi nulla. So chi sei.»
Eravamo entrambi texani, ma c’eravamo incontrati nel Massachussets. Io ero andata al Wellesley e Nick al Tufts. Lo avevo incrociato a una festa ispirata al tema “Il
giro del mondo”, organizzata in un grande centro escursionistico di Cambridge. A ogni stanza era stata assegnata una nazione differente, con la bevanda tipica. Vodka
per la Russia, whisky per la Scozia, e via dicendo.
In qualche punto, tra il Sud America e il Giappone, andai a sbattere contro un ragazzo dai capelli scuri, con occhi brillanti color nocciola e un sorriso sicuro. Aveva un
lungo corpo flessuoso da corridore e l’aria da intellettuale.
Con mio grande piacere, mi si rivolse con l’accento texano: «Forse dovresti concederti una pausa nel tuo tour mondiale. Almeno, finché non sei di nuovo sicura sulle
gambe.»
«Sei di Houston» dissi.
Il suo sorriso si distese nell’udire il mio accento. «Nossignora.»
«San Antonio?»
«No.»
«Austin? Amarillo? El Paso?»
«No. No. E, grazie a Dio, neppure.»
«Allora sei di Dallas» notai con dispiacere. «Peccato, praticamente sei uno yankee.»
Nick mi condusse fuori, dove ci sedemmo sui gradini e parlammo per due ore nel freddo pungente.
Ci innamorammo subito. Ero pronta a qualsiasi cosa per Nick, a seguirlo dovunque. Ci saremmo sposati. E sarei diventata la moglie di Nicholas Tanner. Haven Travis
Tanner. Nessuno poteva fermarmi.
Quando finalmente giunse il mio turno di ballare con papà, Al Jarreau stava cantando il melodioso ritornello di Accentuate the Positive. Nick era andato al bar coi miei
fratelli Jack e Joe, e ci saremmo rivisti più tardi.
Nick era il primo uomo che avevo portato a casa. Il primo uomo che avevo amato. E l’unico con cui fossi andata a letto. Non avevo avuto molte occasioni o altri
appuntamenti. Quando la mamma era morta di tumore, avevo quindici anni. E per un paio di anni dopo mi ero sentita troppo giù, troppo in colpa, anche solo al
pensiero di avere delle amicizie. Poi ero andata al college femminile, ottimo per la mia educazione ma non altrettanto per la mia vita sentimentale.
Non era stato solo l’ambiente di ragazze a trattenermi. Molte di loro andavano a feste fuori dal campus o incontravano i ragazzi nei corsi integrativi ad Harvard e
al MIT. Ero io il problema. Mi mancava qualcosa per attirare la gente, per dare e ricevere amore senza problemi. Era troppo per me. Sembrava che respingessi le
persone che mi interessavano di più. Alla fine avevo pensato che far innamorare qualcuno di me era come tentare di persuadere un uccellino a beccare il cibo su un
dito… Non sarebbe mai accaduto. A meno che avessi smesso di pensarci in modo ossessivo.
Così avevo rinunciato a pensarci. E, come volevasi dimostrare, proprio allora era accaduto. Avevo incontrato Nick. E ci eravamo innamorati. Lui era tutto quello che
volevo. E questo doveva bastare alla mia famiglia. Ma i miei non l’avevano accettato. Allora, mi misi a rispondere a domande che nessuno mi poneva, dicendo, per
esempio: «Sono proprio felice». Oppure: «Nick si sta specializzando in economia». Oppure: «Ci siamo conosciuti a una festa studentesca».
L’assenza di interesse da parte di papà e dei miei fratelli per Nick, per la nostra relazione e il nostro futuro, era esasperante. Era come un giudizio in sé, quel loro
inquietante silenzio.
«Capisco, dolcezza», aveva commentato Todd, il mio migliore amico, quando al telefono mi ero sfogata con lui. Ci conoscevamo da quando avevamo dodici anni.
Allora la sua famiglia si era trasferita a River Oaks. Il padre di Todd, Tim Phelan, era un artista le cui opere erano esposte in tutti i grandi musei, tra cui il MoMa di
New York e il Kimbell Art Museum di Fort Worth.
I Phelan avevano sempre sconcertato i residenti di River Oaks. Erano vegetariani, i primi che avessi mai incontrato. Indossavano indumenti spiegazzati di canapa e
calzavano sandali Birkenstock. In un quartiere dove predominavano due stili decorativi – l’english country e il texano-mediterraneo – i Phelan avevano dipinto ogni
stanza della loro casa di un colore diverso, con atmosfere esotiche e motivi svolazzanti sui muri.
Ma ero ancora più affascinata dal fatto che i Phelan fossero buddhisti. “Buddhista”: un termine che avevo sentito ancora più raramente di “vegetariano”. Quella volta
che chiesi a Todd cosa facessero i buddhisti, mi rispose che passavano molto tempo a contemplare la natura della realtà. Todd e i suoi genitori mi avevano perfino
invitata a recarmi a un tempio buddhista con loro. Ma con mia grande delusione, i miei genitori si erano rifiutati. Ero una battista, mi disse mia madre, e i battisti non
passano il loro tempo a riflettere sulla realtà.
Todd e io eravamo sempre stati molto intimi, al punto che gli altri pensavano che stessimo insieme. Non eravamo mai stati coinvolti a quel livello, ma il sentimento
esistente fra noi non era neanche del tutto platonico. Non sapevo come spiegare cosa Todd rappresentasse per me e io per lui.
Todd era probabilmente l’essere umano più bello che avessi mai visto. Sottile e atletico, aveva i lineamenti fini, i capelli biondi e gli occhi del turchese trasparente del
mar dei Caraibi, come si vede nelle fotografie sui dépliant turistici. C’era in lui un tocco felino, diverso da tutti gli altri maschi texani di mia conoscenza, così bulli.
Una volta avevo domandato a Todd se fosse gay. E lui mi aveva risposto che uomo o donna gli era indifferente. Era più interessato all’interiorità di una persona.
«Quindi sei bisessuale?» avevo concluso. Lui aveva riso della mia insistenza ad appiccicargli un’etichetta.
«Credo di essere un bi-possibile» mi aveva risposto, premendo un caldo, spensierato bacio sulle mie labbra.
Nessuno mi conosceva, o mi capiva, meglio di Todd. Era il mio confidente. La persona che stava in ogni circostanza al mio fianco, pur non prendendo sempre le mie
parti.
«È esattamente ciò che avrebbero fatto i tuoi. L’avevi detto» rispose Todd, quando gli confessai che la mia famiglia ignorava Nick. «Perciò non hai nulla di cui
sorprenderti.»
«Anche se non è una sorpresa, non vuol dire che sia meno irritante.»
«Ricordati, però, che questo weekend non riguarda te o Nick, ma i due sposi.»
«I matrimoni non riguardano mai la sposa e lo sposo» affermai. «I matrimoni sono cerimonie pubbliche, il piedistallo di famiglie complicate.»
«Ma bisogna fingere per gli sposi. Perciò lasciati andare, divertiti. E aspetta a parlare di Nick con tuo padre, quando è finito il matrimonio.»
«Todd,» gli avevo chiesto in tono lamentoso «tu hai incontrato Nick. E ti piace, no?»
«Non posso rispondere a questa domanda.»
«Perché?»
«Perché se non lo capisci, niente che possa aggiungere potrebbe fartelo capire.»
«Cosa intendi dire?»
Ma Todd non aveva risposto a questa mia ultima domanda e io avevo riattaccato, sentendomi incompresa e insoddisfatta.
Sfortunatamente il consiglio di Todd andò in fumo, appena cominciai a ballare un foxtrot con papà.
Mio padre era rosso per lo champagne e la soddisfazione. Non aveva fatto mistero con nessuno del proprio desiderio che questo matrimonio fosse celebrato, e la
notizia della gravidanza di mia cognata l’aveva rallegrato ancora di più. Le cose stavano procedendo proprio come voleva papà. Ero quasi certa che immagini di
nipotini già gli vorticavano in testa. Generazioni di malleabile DNA, tutte a sua disposizione.
Papà aveva il petto carenato, le gambe corte, gli occhi neri e i capelli così folti che era impossibile scorgere il cuoio capelluto. Tutto ciò, oltre al mento alla tedesca, gli
dava un certo fascino, anche se non si poteva considerare un uomo avvenente. Aveva sangue indiano, comanche, dal lato materno, e un bel po’ di antenati tedeschi e
scozzesi che, senza futuro nella loro nazione d’origine, erano emigrati in Texas alla ricerca di terre a buon mercato. Terre che non conoscevano inverni e attendevano
solo le loro braccia per produrre prosperità. Invece, in Texas avevano trovato siccità, epidemie, indiani che li assalivano, blatte e scorpioni grandi più di un’unghia di
un pollice.
Quei Travis che erano sopravvissuti a tutto ciò rappresentavano gli uomini più coriacei sulla faccia della terra, gente con la spina dorsale dritta, che non si arrendeva
mai, finché non aveva ottenuto quello che voleva. Questo spiegava la cocciutaggine di papà… e anche la mia. Eravamo molto simili, come ripeteva la mamma. Tutti e
due pronti a far sempre di testa nostra. Entrambi smaniosi di saltare al di là della linea tirata dall’altro.
«Ehi, papà.»
«Sì, zucca. Dimmi.» Aveva la voce fonda, sicura, di chi non ha mai dovuto compiacere nessuno. «Sei molto graziosa stasera. Mi ricordi tua madre.»
«Grazie.» Gli apprezzamenti di papà erano rari. Mi fece piacere. Per il resto sapevo di avere poco in comune con mia madre.
Indossavo un abito da pomeriggio di satin, di una tinta verde acqua, con le spalline fermate da fibbie di cristallo. E avevo i piedi incapsulati in sandali d’argento, con
sette centimetri di tacco. Liberty aveva insistito per farmi l’acconciatura. Aveva impiegato almeno quindici minuti per attorcigliare e puntare i miei lunghi boccoli neri
in un modo ingannevolmente semplice, che non sarei mai riuscita a riprodurre. Liberty era solo di pochi anni più grande di me, eppure i suoi gesti erano materni,
gentili, come di rado erano state le maniere di mia madre.
«Ecco» aveva mormorato Liberty una volta terminata la pettinatura. Aveva preso il piumino per incipriarmi il naso. «Perfetta.»
Era veramente difficile non provare simpatia per Liberty.
Mentre ballavo con papà, uno dei fotografi si avvicinò. Ci chinammo l’uno verso l’altra e con i visi accostati sorridemmo all’accecante lampo bianco. Dopo il flash
tornammo alla distanza precedente.
«Domani, Nick e io torneremo nel Massachusetts» dissi. Avevo acquistato due biglietti in business class con la mia carta di credito. Dal momento che papà pagava la
mia carta di credito, non potevo ignorare che fosse a conoscenza che il biglietto di Nick era stato pagato da me. Ma non aveva detto nulla al riguardo. Per il momento.
«Prima di partire» continuai «Nick desidera parlarti.»
«Non vedo l’ora.»
«Papà, vorrei che fossi gentile con lui.»
«Qualche volta ho le mie ragioni per non essere gentile. È un modo per vedere di che pasta uno è fatto.»
«Non hai bisogno di provare Nick. Devi solo rispettare le mie scelte.»
«Intende sposarti» disse papà.
«Sì.»
«E così pensa di comprarsi un biglietto di prima classe per il resto della vita. Ecco, tutto quello che rappresenti per lui, Haven.»
«Non hai mai pensato che qualcuno possa amarmi solo per quello che sono e non per i nostri soldi?»
«Non quello lì.»
«Spetta a me deciderlo» replicai. «Non a te.»
«Hai già deciso» disse papà.
Sebbene non si trattasse di una vera e propria domanda, annuii. Sì, avevo preso una decisione.
«Allora non chiedermi il permesso» proseguì papà. «Hai fatto una scelta e ne accetterai le conseguenze. Dannazione, tuo fratello non mi ha mai chiesto cosa pensassi
del suo matrimonio con Liberty.»
«Ovvio. Tu hai fatto tutto il possibile per spingerli insieme. Tutti sanno che vai pazzo per lei.» Sorpresa dall’ombra di gelosia nella mia stessa voce, proseguii
rapidamente: «Papà, non possiamo fare tutto normalmente? Io porto il mio fidanzato a casa, tu fingi di trovarlo simpatico, io vado avanti con la mia vita e ci vediamo
in tutte le feste comandate». Atteggiai la bocca a un sorriso. «Ti prego, papà: non metterti di mezzo. Lasciami solo essere felice.»
«Non sarai felice con lui. È un perdente.»
«E come fai a dirlo? Avrai passato a malapena un’ora in compagnia di Nick.»
«Ho vissuto abbastanza per essere in grado di riconoscere un perdente, appena ne incontro uno.»
Non pensavo che avessimo alzato tanto il tono di voce, eppure cominciavamo a incrociare sguardi incuriositi. Mi resi conto che non era nemmeno necessario che
alzassimo la voce, perché gli altri notassero la nostra discussione. Lottai per riprendere il controllo e continuai a muovere meccanicamente i piedi nei passi di danza.
Ero fuori ritmo, ma non smisi di ballare.
«Ogni uomo che potrei desiderare, per te sarebbe un perdente» dissi. «A meno che non l’abbia scelto tu.»
Giudicai questa mia affermazione sufficientemente vera, per far sbottare mio padre. Che, invece, mi disse: «Ti concederò il permesso di sposarti. Ma dovrai trovarti
qualcuno altro che ti accompagni all’altare. E non comparirmi davanti quando ti serviranno soldi per divorziare. Se lo sposi, ti escludo dall’eredità. Nessuno di voi due
riceverà un soldo da me, capito? Se ha le palle per parlare con me domani, gli dirò proprio questo».
«Grazie, papà.» Mi scostai da lui appena la musica cessò. «È stato veramente bello ballare con te.»
Mentre abbandonavo la pista da ballo, fui sfiorata da Carrington, che si stava precipitando a braccia aperte da mio padre. Era la sorellina di Liberty. «Tocca a me»
gridò, come se ballare con Churchill Travis fosse la cosa migliore al mondo.
Pensai amaramente che, quando avevo nove anni, anch’io avevo provato la stessa sensazione.
Mi feci strada tra la folla. Riuscivo a distinguere solo bocche. Bocche che parlavano e ridevano. E bocche che bevevano, mangiavano e lanciavano baci nell’aria. Il
rumore, accumulandosi, mi offuscava la mente.
Diedi un’occhiata all’orologio a muro, appeso all’ingresso, un antico modello Ball che un tempo scandiva i minuti per la ferrovia Buffalo Bayou, Brazos & Colorado.
Erano le ventuno. Fra circa mezz’ora avrei dovuto incontrarmi con Liberty in una delle camere da letto al piano superiore. L’avrei aiutata a cambiarsi, per indossare il
suo completo da viaggio. Non vedevo l’ora che finissero tutti quei riti. In un’unica serata, riuscivo a tollerare solo una dose di occhi umidi per la felicità.
Lo champagne mi aveva messo sete. Andai in cucina, dove trovai schierato l’intero staff dell’impresa di catering. Riuscii a trovare un bicchiere pulito in uno dei
pensili. Lo riempii d’acqua del rubinetto e mi dissetai con lunghe sorsate.
«Mi scusi» disse un cameriere, cercando di farsi largo con uno scaldavivande fumante.
Mi accostai alla parete per lasciarlo passare e così scivolai nel salone ovale per le cene.
Con mio grande sollievo, colsi il profilo e le spalle di Nick, sotto lo scuro arco d’ingresso alla cantina di degustazione. Aveva già oltrepassato il cancelletto di ferro
battuto, che aveva lasciato socchiuso. Sembrava che si stesse dirigendo verso la cantina a volta, foderata di botti in quercia il cui profumo addolciva l’aria. Pensai che
il mio ragazzo si fosse stancato della folla e fosse venuto sul luogo del nostro appuntamento in anticipo. Volevo che mi abbracciasse. Avevo bisogno di un istante di
pace in mezzo a quel chiasso assordante.
Costeggiando il tavolo imbandito per la cena, mi diressi verso la cantina. Il cancelletto si richiuse dietro di me con un suono netto. Raggiunsi con la mano
l’interruttore, spensi la luce e scesi la scala.
Udii Nick mormorare «Ehi…»
«Sono io.» Mi fu facile individuarlo nell’oscurità. E feci una risata sommessa, quando con i palmi delle mani gli strofinai le spalle. «Come ti dona lo smoking.»
Fece per dire qualcosa, ma gli abbassai la testa finché la mia bocca socchiusa gli sfiorò il mento. «Mi sei mancato» sussurrai. «Non hai fatto neppure un ballo con
me.»
Lui smise di respirare per un attimo e per un attimo io vacillai sui tacchi alti, mentre le sue mani si univano alle mie. Aspirai l’aroma zuccherato dei vini ma
qualcos’altro mi riempì le narici … un odore di pelle di maschio, pelle fresca come noce moscata o zenzero… o un altro aroma bruciato dal sole. Facendo pressione
sulla nuca, incitai la sua bocca ad abbassarsi verso la mia e vi trovai un languido calore. Il gusto di champagne si sciolse nel morbido, intimo sapore di lui.
Con una mano mi percorse la spina dorsale, provocandomi un brivido e un dolce shock, quando il palmo caldo incontrò la mia pelle nuda. Sentii la forza della sua
mano, e la dolcezza, nel momento in cui si chiuse sulla mia nuca, spingendomi la testa indietro. Le sue labbra sfiorarono appena le mie, fu la promessa di un bacio più
che un bacio vero. Al lieve tocco delle sue labbra esalai un corto respiro e rimasi con il viso rivolto verso l’alto, desiderosa d’altro. Ed ecco una nuova fitta di piacere,
una pressione vertiginosa nell’attimo in cui mi forzò la bocca con la sua. La lingua mi entrò in profondità, solleticando zone sensibili.
Cercai di circondarlo, trattenendolo con il mio corpo arcuato. La sua lingua si muoveva lentamente, mentre esplorava la mia bocca. Baci duri all’inizio che poi si
sciolsero come sfatti al loro calore. Il piacere si fece più intenso, forti correnti di desiderio mi percorrevano, trasportando eccitazione. Non mi resi conto che stavo
indietreggiando, premetti con le reni il bordo del tavolo di degustazione dei vini, la sua estremità appuntita mi entrò nella carne. Allora Nick mi sollevò con
sorprendente facilità e mi ritrovai seduta sulla superficie gelida del tavolo. Mi aprì la bocca nuovamente, più a lungo, più in profondità, con la sua lingua, mentre
cercavo di raggiungere la sua e di attirarlo il più possibile dentro me. Desideravo stendermi, offrirmi a lui su quel marmo freddo e lasciargli fare quello che voleva.
Qualcosa aveva sciolto i miei freni. Ero eccitata, come fossi ubriaca, e un motivo era che Nick, sempre così controllato, adesso mi sembrava stesse combattendo per
trattenersi. Il suo respiro era irregolare, con le mani mi abbrancò il corpo.
Mi baciò il collo, scese lungo la pelle sottile ed eccitabile, finché le sue labbra sfiorarono il mio cuore pulsante. Ansimando, feci scorrere le dita fra i suoi capelli, così
morbidi e folti, strati di seta sotto i miei polpastrelli.
Ma non erano i capelli di Nick!
Rabbrividii. Come se un pugno gelido mi avesse colpito allo stomaco. «Dio mio.» Fui appena in grado di emettere quelle due parole. Toccai il volto immerso
nell’oscurità, incontrai lineamenti sconosciuti, la superficie della barba rasata e dura. Gli angoli degli occhi mi bruciavano, ma non sapevo se fossero lacrime di
imbarazzo, di rabbia, paura o delusione. O qualche strana miscela di tutte queste sensazioni.
«Nick?»
Il mio polso fu circondato da una mano forte. Una bocca si strofinò dolcemente sulle mie dita aperte. E un bacio mi bruciò il centro del palmo.
Poi udii una voce fumosa e così profonda che avrei giurato provenisse dall’inferno.
«Chi è Nick?»
2
Nella torrida oscurità lo straniero non mi lasciò. Solo, mi accarezzò la schiena, nel tentativo di rilassarmi.
«Oddio, mi spiace tantissimo» dissi digrignando i denti. «Credevo che fosse il mio ragazzo.»
Lui parve afflitto. «Adesso darei l’anima per esserlo.» Mosse la mano fino alla mia nuca e fece una lieve pressione sulla pelle nuda, sciogliendo il crampo dei piccoli
muscoli.
«Devo accendere la luce?»
«No!» lo bloccai.
Rimase fermo, disponibile. Un sorriso sembrò colorarne la voce quando mi domandò: «Ti dispiace dirmi il tuo nome?».
«No. Niente nomi.»
«D’accordo, boss.» Mi tirò giù dal tavolo, cercando di non farmi sbilanciare.
Il cuore mi batteva violentemente. «Non ho mai fatto nulla del genere, prima d’ora. Sento che sto per svenire o urlare…»
«Preferirei che non lo facessi.»
«Non voglio che nessuno venga a saperlo. Io stessa vorrei non sapere nulla. Vorrei…»
«Parli rapidamente quando sei nervosa» notò quello.
«Parlo sempre rapidamente. E non sono nervosa. Sono scioccata. Vorrei poter ricominciare da capo. Mi sento in una di quelle pagine “non trovate” che appaiono sul
computer…»
«404 Not Found?»
«Sì, questo è un enorme 404.»
Apparve divertito. «Okay» disse, tirandomi più vicino. Il suo corpo era così piacevole che non potei impormi di respingerlo. E il tono della sua voce era così
rassicurante che avrebbe bloccato una mandria in fuga per i pascoli. «Okay. Non è accaduto niente di male.»
«Non lo dirai a nessuno?»
«Ovvio. Se Nick lo scoprisse, mi prenderebbe a calci nel sedere.»
Annuii, anche se questa reazione da parte di Nick nei confronti di quel tipo mi sembrava ridicola. Attraverso la stoffa dello smoking potevo sentirne il corpo
muscoloso, forte, sembrava acciaio invulnerabile. Come in un flash, rividi l’uomo sotto il tendone, in mezzo al ricevimento. Le pupille mi si dilatarono nell’oscurità.
«Oh!»
«Cosa ti succede?» Chinò la testa e il suo alito caldo mi mosse i capelli sulle tempie.
«Io ti ho visto sotto il tendone. Sei il tizio dagli occhi azzurri, giusto?»
Si immobilizzò. «E tu la damigella in verde?» Gli sfuggì una risatina bassa, ironica. Un suono delizioso che mi solleticò il corpo, ogni singolo pelo. «Dannazione, sei
una Travis, è vero?»
«Non dico nulla.» Lottavo con me stessa, per capire in quale ordine vergogna ed eccitazione mi bruciavano le vene. La sua bocca era così vicina. Volevo ancora i suoi
soffocanti baci. Mi sentivo orribile per questo desiderio. Ma il suo profumo caldo, bruciante… emanava il migliore aroma che avessi mai sentito da un essere umano
finora incontrato. «Va bene,» sussurrai «dimentica quello che ho appena detto su niente nomi. Tu chi sei?»
«Per te, tesoro… io rappresento un problema.»
Entrambi immobili, in silenzio, eravamo lì, intrappolati in un mezzo abbraccio, come se ogni secondo proibito avesse formato l’anello di una catena avvoltasi attorno
a noi. La parte di cervello ancora funzionante mi spingeva a staccarmi dallo straniero senza indugio. Tuttavia non riuscivo a muovermi, paralizzata dalla sensazione
che qualcosa di straordinario stesse accadendo. Nonostante il trambusto che proveniva dall’ingresso della cantina, dalle centinaia di persone a pochi passi da me, mi
sentivo in un posto isolatissimo.
Con una mano mi lambì il volto, con le punte delle dita mi esplorò la curva della guancia. Istintivamente con la mia mano raggiunsi la sua, cercando sulle dita il
cerchietto duro di un anello.
«No» mormorò. «Non sono sposato.»
La falange del suo mignolo mi sfiorò l’orecchio, sottolineandone delicatamente la curva. Mi ritrovai a scivolare in una strana, piacevole sensazione di annullamento.
“Non posso farlo” pensai, ma intanto lasciavo che mi tirasse a sé e con le mani mi premesse le anche contro i suoi fianchi. Mi sentivo la testa pesante e l’inclinai
all’indietro, appena lui mi accarezzò la zona delicata sotto il mento. Mi ero sempre considerata in grado di resistere a ogni tentazione. Ma adesso, per la prima volta
avvertivo la spinta del vero desiderio. E non ero per nulla preparata ad affrontarlo.
«Sei un amico dello sposo?» riuscii a domandargli. «O della sposa?»
Sentii il suo sorriso contro la mia pelle. «Non direi di essere il benvenuto in nessuno dei due ambienti.»
«Allora ti sei infiltrato al ricevimento senza un invito?»
«Tesoro, metà della gente arrivata qui non ha l’invito.» Toccò una delle spalline dell’abito e avvertii un vuoto allo stomaco.
«Sei nel business del petrolio? Oppure del bestiame?»
«Petrolio» sottolineò «Perché me lo chiedi?»
«Hai il fisico di un operaio dei pozzi di trivellazione.»
Una risata frullò nel suo petto. «Ho accatastato la mia buona dose di tubi per pompare il petrolio» ammise. Il suo respiro morbido, caldo, sui miei capelli. «Ma… non
ti capita spesso di uscire con un operaio, vero? Scommetto che non ti è mai capitato. Le ragazze ricche come te… preferiscono restare nel loro giro, no?»
«Indossi uno smoking elegante per essere un operaio» replicai. «Armani?»
«Anche agli operai capita di agghindarsi, di tanto in tanto.»
Puntò le mani, ai miei lati, afferrandosi al bordo del tavolo. «E questo, a cosa serve?»
Mi inclinai, in modo da preservare una minima ma cruciale distanza, tra i nostri corpi. «Il tavolo di degustazione?»
«Sì.»
«Per stappare le bottiglie e versare il vino. Gli accessori sono nei cassetti. Compresi i tovaglioli bianchi da avvolgere intorno al collo delle bottiglie, per giudicare il
colore dei vini.»
«Non ho mai partecipato a una degustazione di vini. In cosa consiste?»
Fissai il profilo del suo capo, ora vagamente visibile nell’oscurità. «Si impugna il calice per lo stelo e si ficca il naso direttamente dentro, per inspirare il profumo.»
«Nel mio caso, una considerevole quantità di naso.»
Non riuscii a dominarmi e lo toccai in quel preciso momento, avvicinando furtivamente le dita al suo volto e ispezionando la curva del naso. Lo sfiorai vicino al setto.
«Come te lo sei rotto?» domandai in un sussurro.
Le sue labbra calde mi scivolarono sul dorso della mano. «Questo è uno degli episodi che racconto solo quando bevo qualcosa di molto più forte del vino.»
«Oh» allontanai la mano. «Mi spiace.»
«Non preoccuparti. Un giorno, magari, te lo racconterò.»
A fatica, riportai la conversazione sulla degustazione. «Quando si degusta un vino, si fa un piccolo sorso, che bisogna trattenere a lungo in bocca. C’è un punto nella
bocca dove i recettori del gusto si uniscono alla cavità nasale. Viene definito retro-olfatto.»
«Interessante.» Fece una pausa. «Allora, dopo che hai assaggiato e odorato il vino, lo sputi in un secchio, giusto?»
«Io preferisco inghiottire, non sputare.»
Accortami subito del doppio senso di queste parole, arrossii violentemente. E di sicuro lui se ne accorse, anche nell’oscurità. Ma, fortunatamente, non fece commenti,
anche se nelle sue parole seguenti c’era un pizzico di divertimento: «Grazie per i dettagli».
«Di nulla. Ora dovremmo andare. Esci tu per primo?»
«Okay.»
Ma nessuno dei due si mosse.
E poi le sue mani ritrovarono i miei fianchi e, scorrendo verso l’alto, una delle sue forti dita si impigliò nella fragile trama del mio vestito. Avvertivo ogni
cambiamento della sua pressione, lievi movimenti di ossa e vigorosi muscoli. E il suono elettrizzante del suo respiro.
Le lunghe dita irruvidite dal lavoro non si fermarono nella risalita e infine giunsero a cullare il mio volto, con una dolcezza che mi fece quasi smarrire. La sua bocca
cercava la mia. Tutto era bollente e nello stesso tempo morbido. Per quanto il suo bacio fosse tenero, emanò una forza tale che quando si staccò i miei nervi erano
scossi dal piacere e terribilmente vivi. E un gridolino mi sfuggì dalle labbra, quasi un vagito, facendomi imbarazzare. Non ero riuscita a controllarlo. Nulla, potevo
controllare.
Mi allungai aggrappandomi ai suoi polsi d’acciaio, per evitare di crollare a terra, con le ginocchia molli. Mai avevo provato qualcosa di così violento e tentatore. Il
mondo mi si era ristretto a questa stanza oscura, inebriata dagli aromi dei vini. Due corpi nel buio. La morsa dolorosa di quando desideri una persona che sai che non
avrai mai più. Lui accostò la bocca al mio orecchio, ne percepii l’alito caldo, umido, e mi voltai verso di lui, in trance.
«Ascolta, tesoro» mi sussurrò. «Solo un paio di volte, nella mia vita, mi è capitato come adesso qualcosa di così bello, da fregarmene delle conseguenze.» Le sue
labbra percorsero la mia fronte, il naso, le palpebre tremanti. «Dì a Nick che non ti senti bene. E vieni via con me. Ora. In questo preciso momento. C’è la luna rosa
stanotte. Andiamo da qualche parte. Troviamo un prato di soffice erba e ci dividiamo una bottiglia di champagne. E poi ti porto in macchina fino a Galveston. A
vedere l’alba sulla baia.»
Ero inebetita. Nessun uomo mi aveva mai detto simili parole. E mai avrei creduto di esserne così follemente tentata. «Non posso. È una pazzia.»
Le sue labbra catturarono le mie in un dolce morso.
«Sarebbe una pazzia non farlo.»
Mi agitai e divincolai, riuscendo a ristabilire una certa distanza tra di noi. «Sto con il mio ragazzo» dissi con voce tremante. «Non so come ho potuto… ho permesso
che tutto questo accadesse. Scusa.»
«Non scusarti. Almeno, non per questo.» Tornò ad avvicinarsi facendomi irrigidire. «Invece, dovresti dispiacerti» proseguì «sapendo che per il resto della mia vita
dovrò evitare le cantine di degustazione di vini. Per non ripensare a te.»
«Perché?» chiesi afflitta e imbarazzata. «Baciarmi è stato così brutto?»
In un sussurro, incandescente come un diavolo, rispose: «No, tesoro. No. È stato troppo bello».
E se ne andò per primo. Mentre io rimasi appoggiata al tavolo, in equilibrio precario.
Ritornai nel caos, avviandomi allo scalone che conduceva al secondo piano. Liberty mi stava aspettando nella camera che era stata di Gage da bambino. Quante volte
ero entrata lì a cercare attenzione dall’unica persona che sembrava avere sempre tempo per me. Dovevo essere stata una vera piaga, parlavo ininterrottamente mentre
mio fratello faceva i compiti e gli portavo i miei giocattoli rotti perché li risistemasse. Ma lui aveva sopportato tutto dimostrando, a pensarci oggi, una considerevole
pazienza.
Ricordo quella volta – dovevo avere suppergiù l’età di Carrington, o forse ero un po’ più piccola – in cui Jack e Joe avevano buttato la mia bambola preferita giù dalla
finestra e Gage l’aveva recuperata. Ero andata nella stanza di Jack, un caos di giocattoli, libri e vestiti gettati dappertutto, e l’avevo visto inginocchiato vicino alla
finestra, insieme a Joe.
«Cosa state facendo?» avevo chiesto, avventurandomi più vicino. Le due teste scure si erano voltate contemporaneamente.
«Vattene di qui, Haven» mi aveva ordinato Jack.
«Papà ha detto che dovete lasciarmi giocare con voi.»
«Dopo. Adesso sparisci.»
«Cosa avete in mano?» Avvicinandomi un altro po’, avevo sentito un balzo al cuore quando avevo visto una cosa fra le loro mani, tutta legata con delle corde. «Ma
è… è Bootsie?»
«L’abbiamo presa in prestito» aveva detto Joe. Intanto armeggiava con le corde e del materiale tipo plastilina.
«Non potete farlo!» Ero stata assalita dal panico, perché ero assolutamente impotente, impotente e ferita dall’esproprio subito.
«Non mi avete chiesto il permesso. Ridatemela! Dai…» La voce mi si ruppe in un grido quando vidi che Bootsie spenzolava dal davanzale, con il corpo rosa legato a
una imbracatura di corde, nastri e graffette. La mia bambola, reclutata per una missione come paracadutista. «Nooo!»
«Accidenti!» aveva replicato Jack disgustato. «Ma è soltanto un grosso pezzo di plastica!» E aggiungendo all’insulto il danno, lanciandomi un’occhiata cattiva aveva
lasciato cadere Bootsie di sotto.
La bambola era piombata a terra come una pietra. Non mi sarei sentita così sconvolta nemmeno se i miei fratelli avessero gettato fuori dalla finestra una bambina vera.
Ululando, mi precipitai per lo scalone a pianterreno. E continuai a ululare mentre balzavo fuori, senza prestare attenzione ai richiami dei miei genitori, della
governante e del giardiniere.
Bootsie era andata a finire in mezzo a una rigogliosa siepe di ligustro. L’unica cosa che riuscivo a scorgere era il paracadute spiegazzato e intrappolato in un ramo,
mentre la mia bambola giaceva da qualche parte, nascosta nella macchia verde e bianca. Ero troppo bassa per raggiungere i rami, così rimasi lì a piangere, mentre il
sole cocente del Texas mi avvolgeva in una coltre incandescente.
Allarmato dal trambusto, era sopraggiunto Gage che, rovistando tra i cespugli, aveva ritrovato Bootsie. L’aveva ripulita e poi mi aveva abbracciata e stretta, finché le
lacrime si erano asciugate contro la sua maglietta.
«Ti voglio bene, più di tutti» gli avevo sussurrato.
«Anch’io ti voglio bene» mi aveva sussurrato Gage in risposta mentre potevo sentire che sorrideva contro i miei capelli. «Più di tutti.»
Ora, appena entrata nella stanza di Gage, vidi Liberty seduta sul bordo del letto, fra onde luccicanti di organza, le scarpe già abbandonate sul pavimento, il velo da
sposa che galleggiava come bianca schiuma sul materasso. Pareva impossibile che potesse essere più bella di poco prima, quando eravamo in chiesa. Eppure, mi
appariva ancora più luminosa, splendente. Liberty era di origine messicana, la carnagione morbida come burro, grandi occhi verdi e un corpo che faceva venire in
mente la vecchia espressione “bomba sexy”. Però era timida, addirittura cauta. Dava l’impressione di non aver avuto una vita facile e di aver affrontato parecchie
avversità.
Fece una buffa smorfia appena mi vide. «La mia salvatrice. Mi devi proprio aiutare a uscire da questo vestito. Ha migliaia di bottoni, tutti sulla schiena.»
«Ci penso io.» Mi sedetti sul letto, accanto a Liberty, che si girò di schiena per facilitarmi l’operazione. Mi sentivo strana, dentro di me erano sorte tensioni
sconosciute che nessuna gentilezza da parte di Liberty avrebbe potuto placare.
Cercai di pensare a qualcosa di carino da dirle. «Credo che oggi sia il giorno migliore della vita di Gage. Tu lo rendi davvero felice.»
«Anche lui mi rende felice» disse Liberty. «Molto più che felice. Lui è l’uomo più incredibile, più…» Si interruppe con una lieve scrollata di spalle, come se le
riuscisse impossibile esprimere fino in fondo i propri sentimenti.
«Noi non siamo la famiglia più semplice, in cui scegliere il marito. Siamo un gruppo di forti personalità.»
«Adoro i Travis» rispose senza esitazione. «Tutti voi. Ho sempre voluto una grande famiglia. Dopo la morte di mamma, sono rimasta sola con Carrington.»
Non avevo mai riflettuto sul fatto che entrambe avevamo perso la madre, da adolescenti. Ma doveva essere stato peggio per Liberty, visto che non aveva un padre
ricco, una bella famiglia, una grande casa. Aveva avuto una vita difficile e aveva dovuto crescere la sorellina Carrington da sola. E per questo l’ammiravo.
«Tua madre era ammalata?»
Liberty scosse il capo. «No. Incidente d’auto.»
Andai all’armadio e staccai il completo pantalone, appeso dietro l’anta. Lo portai a Liberty che sgusciò fuori dall’abito nuziale. Una visione di morbide curve,
trattenute da lacci bianchi. La rotondità della gravidanza era più accentuata di quanto mi sarei aspettata.
Indossò il paio di pantaloni bianchi con il blazer abbinato e calzò scarpe beige scollate, con un filo di tacco. Si avvicinò al comodino e si chinò verso lo specchio per
pulire con un fazzoletto le sbavature del trucco sulle palpebre. «Be’» commentò «È il massimo che riesco a fare.»
«Sei bellissima» le dissi.
«Appassita.»
«In un modo bellissimo.»
Da sopra la spalla mi rivolse uno sguardo e un sorriso abbagliante. «Tutto il tuo rossetto se ne è andato, Haven.» E mi indicò lo specchio accanto a sé. «Nick ti ha
sorpresa da sola in qualche angolino, vero?»
Mi allungò un tubetto lucente e pallido. Grazie al cielo, qualcuno bussò alla porta prima che mi toccasse rispondere.
Liberty andò ad aprire e Carrington entrò accompagnata da zia Gretchen.
Zia Gretchen era l’unica sorella di papà, maggiore di lui. E indubbiamente, la parente che preferivo in entrambi i rami della famiglia. Non era mai stata elegante come
mia madre. Gretchen era una donna di campagna, robusta come le donne dei pionieri che avevano attraverso il Fiume Rosso sul sentiero dei cherokee. A quell’epoca
le donne del Texas avevano imparato a prendersi cura di se stesse perché gli uomini erano sempre da qualche parte, quando c’era bisogno. La versione femminile
moderna era ancora così, una volontà d’acciaio sotto la vernice di cosmetici.
Zia Gretchen avrebbe dovuto, con diritto, essere una figura tragica. Fidanzata tre volte, aveva sempre perduto i fidanzati, il primo nella Guerra di Corea, il secondo in
un incidente d’auto, il terzo a causa di un difetto cardiaco non diagnosticato. Ogni volta zia Gretchen aveva affrontato la perdita accettandola, seppur affranta. Alla
fine aveva confessato di non considerare più l’idea di sposarsi, perché era chiaro che nel suo destino non c’era un marito.
Ma sapeva prendere dalla vita tutto ciò che le serviva. Portava grandi occhiali da sole con la montatura di corallo. E abbinava sempre il colore del rossetto alla tinta
degli abiti, sfoggiando gioielli da ogni parte. I capelli cotonati formavano una palla gonfia, bianca argentata. Quando ero piccola, spesso era in viaggio e quasi sempre,
al ritorno, ci portava dei regali.
Tutte le volte che passava da noi per fermarsi una settimana o più, era un momento delicato per mia madre. Mettere insieme due donne dal carattere forte sotto lo
stesso tetto era come collocare due treni sullo stesso binario e aspettarne la collisione. La mamma avrebbe voluto limitare le visite di zia Gretchen, ma non aveva mai
osato dirlo. Una delle poche volte in cui avevo udito mio padre parlare aspramente a mia madre, fu quando lei si lamentò della zia, perché era indiscreta.
«Non mi importa un fico secco, se mette sottosopra tutta la nostra casa» disse papà. «Lei mi ha salvato la vita.»
Infatti, quando papà frequentava ancora le elementari, mio nonno, aveva abbandonato la famiglia, dicendo a tutti che sua moglie, mia nonna, era la donna più crudele
sulla faccia della terra. Perfino pazza. Ma se lui poteva sopportare una donna pazza, non c’era nulla di peggio di una moglie crudele. Così sparì da Conroe dove
abitavano e da allora non se ne seppe più nulla.
La partenza del nonno avrebbe potuto far riflettere la consorte e convincerla a dimostrarsi un po’ meno crudele. Invece andò tutto al contrario. Alzava le mani sui suoi
due bambini, Gretchen e Churchill, ogni volta che si sentiva provocata. In pratica non c’era situazione che non la provocasse. Allora correva in cucina o in giardino a
prendere il primo attrezzo che le capitava sotto mano per picchiare i figli a sangue.
Allora la gente tollerava maggiormente simili atteggiamenti e nessuno si intrometteva in quelli che venivano considerati affari di famiglia. Ma Gretchen sapeva che lei
e il fratellino erano destinati a morte certa, se non avesse trovato il modo di fuggire.
Mise da parte del denaro, facendo lavori di pulizia e di cucito. E appena compì sedici anni, svegliato Churchill nel cuore della notte e raccolti i loro vestiti in una
valigia di cartone, guidò il fratellino fino all’altro capo della strada, dove li stava aspettando, in auto, il ragazzo di Gretchen. Questi li portò da Conroe a Houston dove
li scaricò con la promessa che sarebbe tornato presto. Ma non lo rividero più. A Gretchen non importò, se l’aspettava. Mantenne se stessa e il fratellino con un
impiego nella compagnia telefonica. La nonna non li trovò né probabilmente li cercò mai.
Anni dopo, quando ritennero che fosse ormai troppo vecchia per nuocere, Gretchen chiese a qualcuno di andare a controllare. Scoprirono che viveva in uno stato
pietoso, fra mucchi di immondizia e torme di parassiti. Allora Gretchen e Churchill la ricoverarono in un pensionato, dove lei maltrattò gli altri degenti e il personale
sanitario fino al giorno della sua morte. Churchill non andò mai a farle visita; Gretchen, invece, sì, di tanto in tanto. In quelle occasioni portava la nonna fuori, al caffè
o in qualche negozio dove le comprava degli abiti nuovi, prima di riportarla indietro, al pensionato.
«Era buona quando la portavi in giro?» avevo chiesto una volta a zia Gretchen.
La mia domanda l’aveva fatta sorridere. «No. Lei non sapeva essere buona. Qualsiasi cosa uno facesse per lei, credeva di meritare ancora di più.»
«Ma perché ti prendevi cura di lei e andavi a farle visita, dopo tutto quello che aveva fatto? Io l’avrei lasciata marcire.»
«Be’…» Gretchen aveva serrato le labbra pensosamente. «Avevo capito che era la sua natura. Non poteva farne a meno. Quando la recuperai, non aveva più un
soldo.»
Negli ultimi anni zia Gretchen aveva perso smalto. Era diventata smemorata e lamentosa. Si muoveva in modo strano, come se non avesse le articolazioni registrate a
dovere. La pelle si era assottigliata, divenendo lucida, quasi trasparente. E le vene blu affioravano come le linee schizzate di un disegno. Dopo la morte di mia madre,
era venuta a vivere con noi facendo piacere a papà, che desiderava tenerla d’occhio.
Aver accolto Carrington nella nostra famiglia aveva dato a Gretchen una ventata di vita. Ne aveva proprio bisogno. Nessuno dubitava che le due si adorassero.
Nel suo abitino rosa porpora, i capelli biondo pallido raccolti in una coda di cavallo fermata da un enorme fiocco tempestato di finti brillantini, a nove anni Carrington
era il ritratto dell’alta moda. Portava il bouquet della sposa, una versione più piccola che era stata fatta per il lancio di Liberty. «Io lo lancerò» aveva annunciato
Carrington. «Liberty non è capace di lanciare bene come me!»
Gretchen si fece avanti, con un sorriso radioso. «Eri la più graziosa sposa che abbia mai visto» disse, abbracciando Liberty. «Cosa indosserai per la partenza per la
luna di miele?»
«Questo» ripose Liberty.
«Pantaloni?»
«È un completo Escada, zia Gretchen» dissi io. «Molto elegante.»
«Ti servono più gioielli» disse Gretchen a Liberty. «Questo completo è troppo povero.»
«Non ho molti gioielli» rispose Liberty, sorridendo.
«Hai al dito un brillante grande come una noce» le feci notare. «È un buon inizio.» Sorrisi a vedere l’imbarazzo di Liberty, che sussultò perché considerava l’anello di
fidanzamento esagerato. Mio fratello Jack aveva aumentato il suo disagio, soprannominandola “animaletto brillante”.
«Ti serve un braccialetto» disse Gretchen con decisione, estraendo un piccolo astuccio di velluto. «Prendi, Liberty. Una cosina tintinnante per far sapere alla gente che
sei nei paraggi.»
Liberty aprì l’astuccio con prudenza, e mi si spezzò il cuore appena ne scorsi il contenuto: era il braccialetto d’oro portafortuna che Gretchen metteva in ogni
occasione, arricchito con ciondoli provenienti da tutti i luoghi esotici in cui era stata.
Me l’aveva promesso quando avevo cinque anni.
Potevo ricordarmi il giorno esatto, quando la zia mi aveva regalato un kit di attrezzi per bambini. Ma veri, da lavoro: morsetto, punteruolo, sega, pinze, livella,
martello, chiavi inglesi e cacciaviti, compreso la cintura con le tasche per infilarli.
Non appena la mamma aveva visto che me l’allacciavo, gli occhi le erano diventati due spilli. Aprì la bocca, e prima che ne uscisse una singola sillaba, sapevo che
avrebbe detto a zia Gretchen di riprendersi il regalo. Perciò afferrai una manciata di arnesi e corsi da papà, che entrava in quel momento nella sala. «Guarda cosa mi
ha portato zia Gretchen.»
«Oh, come è bello» aveva detto papà, sorridendo prima alla zia e poi a mia madre. Ma si era paralizzato appena aveva osservato l’espressione di mia madre.
«Gretchen,» disse mia madre, seccamente «voglio essere interpellata la prossima volta che compri un regalo per mia figlia. Non intendo crescere un muratore.»
Avevo smesso di dondolarmi sui piedi. «Ma io non voglio restituirli.»
«Non mancare di rispetto a tua madre» disse papà.
«Misericordia» aveva esclamato Gretchen. «Sono giocattoli. A Haven piace creare cose. Non c’è nulla di male in tutto questo.»
La voce di mia madre sembrò piena di aculei. «Sono io che decido cosa è meglio per mia figlia. Se sai così tante cose sui bambini, perché non ne hai avuti di tuoi?»
La mamma era uscita infuriata dalla stanza, passando accanto a me e papà e lasciandosi dietro un silenzio glaciale.
Gretchen aveva sospirato, scuotendo il capo mentre guardava papà.
«Posso tenerli?» domandai.
Papà mi lanciò un’occhiata esasperata e s’incamminò dietro alla mamma.
Io andai da Gretchen lentamente, con le mani strette davanti a me. Lei era calma, ma io sapevo cosa dovevo fare. Mi slacciai la cintura e la deposi con cura nella
scatola. «Forse avresti dovuto regalarmi un servizio da tè» notai cupamente. «Riprendili, zia. Non mi lascerebbe mai giocare con questi.»
Gretchen si batté su un ginocchio e io le scivolai in grembo, rannicchiandomi tra gli aromi di cipria e lacca per capelli, e il profumo Rive Gauche. Vedendo come
stavo ammirando il suo braccialetto portafortuna, la zia se lo sfilò e me lo fece osservare da vicino. Aveva comprato un ciondolo ogni volta che era stata in un nuovo
posto. Trovai una mini Torre Eiffel da Parigi, un ananas dalle Hawaii, una balla di cotone da Memphis, un matador dalla Spagna con la minuscola mantiglia
svolazzante, un paio di sci incrociati dal New Hampshire. E troppi altri per nominarli tutti.
«Un giorno» disse Gretchen «ti darò questo braccialetto. Così potrai aggiungerci i tuoi ciondoli portafortuna.»
«Andrò in così tanti posti, come te, zia?»
«Ma… forse non ne avrai voglia. La gente che viaggia tanto come me lo fa unicamente perché non ha ragioni sufficienti per rimanere ferma.»
«Quando sarò grande» dissi «non starò mai ferma.»
Gretchen aveva dimenticato quella promessa. Non era colpa sua. Aveva dimenticato un sacco di cose nell’ultimo periodo. “Non importa” mi dissi. “Lascia perdere.”
Ma conoscevo la storia che c’era dietro a ogni ciondolo. Ed era come se Gretchen mi stesse privando di quelle manciate di memorie e le stesse elargendo a Liberty. In
qualche modo mi obbligai a sorridere e mantenni il sorriso.
La zia allacciò il braccialetto al polso di Liberty con un gesto esagerato. Carrington danzava intorno a loro tutta eccitata, chiedendo di vedere i ciondoli. Il mio sorriso
non sembrava appartenermi. Era appeso alla mia faccia, come un quadro alla parete, con chiodi e fili.
«Immagino che dovrò fare qualcosa con questo» dissi, sollevando il velo da sposa dal letto e appoggiandolo sul braccio. «Come damigella d’onore sono un fiasco,
Liberty. Dovevi licenziarmi.»
Lei mi lanciò una rapida occhiata. A dispetto della mia maschera allegra, qualcosa sembrò averla turbata.
Quando ci avviammo, Carrington e Gretchen furono le prime a uscire dalla stanza. Liberty ne approfittò, bloccandomi con un leggero tocco sul braccio. «Haven,»
mormorò fra il tintinnio del braccialetto «non dovevi riceverlo tu, un giorno?»
«Oh, no. No» risposi prontamente. «Non sono una maniaca dei braccialetti portafortuna. Si impigliano dappertutto.»
Scendemmo a piedi, mentre Gretchen e Carrington aspettavano l’ascensore.
Sull’ultimo gradino, qualcuno si avvicinò con ampie falcate rilassate. Alzai lo sguardo e vidi un paio di stupefacenti occhi azzurri. Un brivido di allarme mi corse
lungo la schiena, quando si fermò contro il pomo delle scale e si appoggiò a suo agio. Avevo la faccia bianca come un lenzuolo. Era lui, l’uomo della cantina, il Signor
Operaio in Smoking. Alto, sexy, l’aspetto arrogante di un campione di wrestling. Mi diede una breve occhiata impersonale, focalizzandosi su Liberty.
Con mia grande sorpresa, Liberty lo inquadrò senza la benché minima soggezione o curiosità, ma solo con un sorriso rassegnato. Si fermò a braccia conserte. «Un
pony, per regalo di nozze?»
Un sorriso sfiorò la sua bella bocca. «Carrington si era affezionata a lui quando andavamo a cavalcare.» Parlava con un accento leggermente più marcato di quando
eravamo in cantina. Un accento strascicato che ci aspetteremmo di sentire nelle cittadine di provincia o nei campi di roulotte. «Ho immaginato che tu avessi già tutto
quello che ti serve. Perciò ho preso una cosina per tua sorella.»
«Sai quanto costa mantenere quella “cosina” in una stalla?» chiese Liberty, calma.
«Me lo riprendo, se vuoi.»
«Sai bene che Carrington non ci perdonerebbe mai. Hai messo mio marito in una posizione difficile, Hardy.»
Il sorriso dell’uomo si fece lievemente beffardo. «Oh, quanto mi dispiace sentirlo.»
Hardy.
Volsi la faccia e chiusi gli occhi nauseata, per un secondo. Maledizione. Semplicemente… maledizione. Non solo avevo baciato un’altra persona invece del mio
fidanzato. Ma a quanto pareva, era anche un nemico di famiglia. Il peggior nemico di mio fratello. Aveva deliberatamente mandato all’aria un importante accordo sui
biocombustibili che significava molto per Gage, personalmente e professionalmente.
Fine dell'estratto Kindle.
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