Fischi di carta
Aprile 2014 Numero 16
Poesia di cinque giovani fischianti
Poesia
è il mondo l’umanità
la propria vita
fioriti dalla parola
la limpida meraviglia
di un delirante fermento.
Giuseppe Ungaretti, L'allegria, Commiato
Fischi di Carta
Editoriale
Vivere è meraviglia
Vi confesso una cosa ragazzi e ragazze sono giorni
che mi balena nella mente un pensiero assai
bizzarro. Sapete quelle idee che vi prendono
durante il giorno e non vi lasciano più come un amo
nel palato ? Ecco una cosa del tutto simile. Così, per
spiegarvi meglio di cosa sto parlando, vi voglio
raccontare la storia di questo editoriale. Dovete
sapere che l’argomento di questo mese doveva
essere improntato sulla noia, quella della società
contemporanea, quella schifosissima e lacerante
sensazione del “sempre uguale”; ma, appunto, a
metà pagina mi sono veramente sentito mancare e
con un energico colpo di spugna ho cancellato tutto
con le classiche due righe ad “x”. Quel giorno il
sole splendeva in cielo e per tutti i genovesi, vessati
da un’ininterrotta perturbazione che durava da quasi
due mesi, significava veramente una provvidenziale
salvezza. Anche io, gettando gli occhi fuori dalla
mia cameretta sono stato colpito dalla serenità di
quella giornata splendente e così presi una delle
miei decisioni irrevocabili e dell’ultimo momento:
dovevo uscire ! Non mi andava di fare le solite
uscite in città con l’irrimediabile risultato di
camminare a zonzo per negozi, magari in cerca di
quell’offerta primaverile sui capi di marca. No ! Ne
avevo proprio le scatole piene, così scesi sul mio
poggiolo e invece di gettare gli occhi al mare mi
voltai verso il monte. Era fatta ! Dovevo andare in
vetta al monte dietro casa mia. Presi giusto un paio
di cose : una bibita, il cappello, un bastone da
passeggio, penna e taccuino e partii. In vero ragazzi
vi sto descrivendo la cosa come se fossi partito per
la Russia, in realtà, molto onestamente, il tragitto
durò circa un’ oretta e mezza e non fu tanto
faticoso. Ad ogni modo non è certo della difficoltà
del percorso che vi voglio parlare, bensì della cosa
in sé: avevo superato la noia del mio vivere. Quella
breve passeggiata mi ha aperto gli occhi, mi ha
donato panorami mozzafiato, e, anche se già
conosciuti, me li ha fatti apprezzare sotto una luce
diversa. Dopo quel pomeriggio ho capito di essere
vivo, libero e liberato da quel senso di soffocamento
che la noia aveva stretto al mio collo.
Quindi mi sembra giusto oggi cambiare
definitivamente l’argomento di queste due righe, da
noia a stupore e meraviglia ed è proprio questo
pensiero che insistentemente sento dentro e che
quasi, da quanto è forte, non mi abbandona.
Insomma
un
“M’illumino
di
immenso”
2
all’ennesima potenza è quello che ho provato allora
ed è da questo, prendendo a prestito il verso del
nostro amato Ungaretti, che voglio partire. Che cosa
intendo per stupore e meraviglia ? Ebbene intendo
la capacità di provare emozioni vere e consapevoli,
in un’ ottica di scambio empatico. Questo lo
affermo perché oggi siamo il ritratto del paradosso:
da un lato vogliamo cambiare l’immagine identica
di noi stessi ma dall’altro, essendoci disabituati a
pensare al come farlo, non ne siamo in grado e ci
nascondiamo
in
modelli
prestabiliti
e
preconfezionati dalla società. Questa noia di vivere
ci rende apatici ai cambiamenti che siano culturali,
sociali o politici. Immobili come statue di sale,
indifferenti e freddi alle immense potenzialità che in
vero potremmo esprimere. Non so se capita anche a
voi di sentire un vuoto diamine ! Proprio una
malinconia intrinseca sia nei mattoni che
chiamiamo casa, sia nelle ossa che ci trasciniamo
tutt’ore e che abbiamo l’ardire di chiamare viventi.
Io mi chiedo come possiamo non meravigliarci più
di nulla. Vero, la società ci ha dato una grossa mano
a riguardo: Media, giornali, prodotti, politica,
lavoro, soldi, pubblicità ecc … ci hanno portato via
la voglia di provare stupore per qualsiasi qualcosa,
ma certamente non credo sia solo di costoro il
merito di questa incapacità sostanziale di provare
meraviglia. Credo piuttosto che questo globale
disinteresse per la vita vissuta e per il cambiamento
sia una valida scusa di ripiego, per non far fronte
alla nostra incapacità di condividere emozioni reali
e partecipi. In questo caso ci viene in aiuto persino
Albert Einstein che molto semplicemente e
scientificamente sembra voler dare una definizione
a questo atteggiamento: « Chi non è in grado di
provare né stupore né sorpresa è per così dire
morto; ha gli occhi spenti.». La meraviglia invece è
ciò che porta all’emozione e che quindi occorre
come prova inconfutabile dell’esistenza. Essa è
movimento e luce che di per se sono attributi
necessari per lo sviluppo della vita. La grandezza
della meraviglia non va sottovalutata per nessun
motivo, perché è ciò che, in ultima analisi, ci sprona
ad interagire con il prossimo, quindi a vivere.
Ritengo azzeccato a riguardo il parere di un grande
poeta come Jorge Luis Borges: «Senza dubbio, la
nostra esistenza è un fatto curioso. Il fatto di stupirsi
di fronte alla vita può essere l’essenza della
poesia». Potremmo dire a questi punti che un essere
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vivente ha il dovere di stupirsi, poiché in un’ottica
universale provare ed assaporare la meraviglia
significa amare la vita e lo straordinario, per dirla
alla Leopardi: « Anche l’amore della meraviglia par
che si debba ridurre all’amore dello straordinario e
all’odio della noia ch’è prodotta dall’uniformità».
Noi fischi forse non salveremo il mondo, non
scopriremo la cura per il cancro, non risolveremo la
crisi economica mondiale, ma nel nostro piccolo
ardiamo di luce, movimento, poesia, stupore e
meraviglia. Vogliamo combattere contro questa
dilagante noia prodotta dalla standardizzazione del
pensiero, della quotidianità e delle abitudini umane.
Noi in questo libretto non scriviamo solo poesia ma
un puro distillato di meraviglia in carta. Quella che
coviamo nel nostro cuore e con la quale speriamo di
contagiare il prossimo. Voi cari lettori siete già una
testimonianza tangibile del nostro percorso e
questo, non lo nascondiamo, ci rende molto
orgogliosi. Tutto però diventerà vano se anche voi
non vi stupirete a vostra volta delle enormi
potenzialità che offre il vivere.
Allora è proprio il caso di dire: illuminiamoci di
immenso.
Andrea Pesce
Donna di periferia
In memoria della Costa di Sestri
Donna d’orizzonte
sulla linea collinare
hai gettato oltre
il tuo sguardo al Sole.
È questione d’un sorriso
donna d’un secondo
e poi resto solo e via
con la giostra del ricordo
in questa periferia
che mi tocca il cuore
e segna la vita mia.
Una borsa, un occhiale
labbra rosse da provare.
Donna d’un minuto
che dall’occhio
ha avuto il suo pane
per vedermi in futuro
alla sua porta bussare.
Donna di un’ora
che al mattino
mi riempie e colora
di follie e pensieri
selvaggi desideri
battezzati e salpati
come piccoli velieri,
dalle corde tese
dalla rotta tersa
verso una meta
ancora sconosciuta.
Donna d’una sera
che tutti o pochi
incontra e castiga.
S’inchina e lesta spera
in un prossimo incontro
che non meni prima la parola
e neanche duri un’ora.
Donna d’un giorno
avuta in lungarno
per assetarmi d’un male
e viverlo forse insieme
nell’arco delle ore
pochi istanti e parole
solo gemiti e furore.
Donna d’una settimana
che conta i visi
e forse solo uno ama,
si nasconde nel mare
perché il mio palato
sente di lei solo il sale.
Donna d’una vita
dama d’orizzonte
sulla linea collinare
non so chi tu sia
ma nell’attimo corto
in cui sei andata via
sorridere al mio sguardo
ti ha fatto mia.
Andrea Pesce
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Sincronizzazione
Whatsapp
Aleph1
a Martina
Dimentico che è un gioco vivo
dire, unendo le lettere, parole
e solo risate mi escono di bocca
mentre il dito scorre lo schermo
o pianti – ridi o scuoti la testa meccanico
senza quanto né dove né quando.
Vibra il telefono che ho già tra le mani
è il gruppo chiede notizie, stasera
che faccio, che faccio domani.
E non ho il ricordo di un ascolto
in silenzio senza fretta seduti
a volte al bar a volte di fronte,
– farlo ora sarebbe da amanti
nervosi alle prime armi – non ricordo
un ascolto senza un messaggio vocale.
Anse di torrenti che discendono dai monti,
contenenti il grembo parentesi,
o di oboe a note basse,
sassi affusolati dalle correnti,
ciondolanti gocciole gocciolanti,
mandola tondi suoni vibranti,
– ch'io ne sia il suonatore! –
Volute voluttuose di fumo, odori morbidi,
gote, melograni, arance,
vetri soffiati da artigiani,
tenerezza delle pesche bianche,
nubi nette su cieli azzurri,
sempre nuovi ai miei occhi stanchi,
tuoi, di vertigine – riassuntivi – fianchi.
Federico Ghillino
Vibra il telefono, trema insieme il mio sangue
è il gruppo chiede risposta
dice che è stanco di fare domande.
Così misuro i miei tentacoli d'animale
virtuale immortale – e via! Al calcolo
rituale infinitesimale del bacino infinito
d'utenza che penso sia mia. Non sento voci:
vedo nomi aggiunti recuperati a memoria,
sincronizzo numeri – contatti senza storia.
Vibra il telefono, è ronzio impazzito
è il gruppo chiede attenzione
chiede se sono ancora vivo.
Emanuele Pon
1
4
L'Aleph è una novella dello scrittore argentino Jorge Luis Borges, dove, per l'appunto, si racconta di un Aleph. “Un
Aleph è uno dei punti dello spazio che contengono tutti i punti”, un punto che, se fissato, mostra “tutti i luoghi della
terra, visti da tutti gli angoli”. In questa poesia vi parlo del mio personalissimo Aleph.
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Moneglia
Raggiro
(girando nei vicoli)
“Credevo stesse abbracciando
qualcuno”
mi vedono scrivere
sdraiato
a lato
nel ventaglio di fogli,
non possono capire
quanto accovacciato
sulla sabbia
stringo la carta
come pizzo violento
del mare nel suo margine impaurito.
Chi non ha avuto estremo terrore,
all’estremità, agli arti,
ha tremato la vita
in mano?
Vedo i volti che voglio vedere.
Mi confondo. Saluto gente
che non conosco, saluto
i miei pensieri, in realtà.
Improvvisi occhi
dalle scacchiere
truccate
delle inferriate,
dove ogni vento passa
ed è vana ogni mossa
Silvio Magnolo
“Credevo stesse abbracciando
Qualcuno”
no, ti ho preso prima, amore,
e mi è bastato
in quanto ora
sdraiato
a lato
tiro fuori
le mie arterie e i miei tendini,
accudisco - forse - un segreto
ignoto pure a me.
Non spaventarti se la notte
mi ha spaventato,
non pensare che mi abbia cambiato
lasciami solo per un po’
col mio astuccio
di luci
Silvio Magnolo
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A Vida Em Movimento III
Sono spariti adesso quei bicchieri per i sogni
che mi avevano cullato di illusioni
eppure, ugualmente, non mi curo dei malanni.
Impazza la musica, scrosciano le coppe
mani tra le mani, spalle da titani
ed io mi specchio in occhi limpidi
nel guardare questo movimento
che ci investe fino alla gola.
Poi usciamo avvolti dalla pioggia
e rimbalziamo senza sosta,
sassolini nella corrente,
tra un bar e l'altro, un vetro e un'altra porta
-noi le apriamo tutte per riprenderci
i pezzi infranti della vita,
corriamo tra nuove persone
ed un cerchio di braccia
che sento cingermi nel fiatoNon vediamo più la paura
per le imprese di domani ed è solo
scivolare cadere rovinare al suolo
ridendo di quanto l'incavo tra i ciottoli
sia pieno di sorprese
-non si affonda, ci dirige
il vento,
erige monumenti a noi
sopravvissuti, rinascite continue,
che senza ali tentiamo il volo
da uccelli acerbi, stendendo
pelli a gonfiarsi come vele.
6
E che sia terra o mare o cielo
più non mi importa
perché l'unica sostanza sono io stesso,
che includo eludo sbatto apro e poi chiudo,
siamo noi, stretti in una felicità assordante
che voglio mi pervada,
che con gengive sanguinolente
mordiamo le briglie della ragione
fino a spezzarle, terribili uragani
nella notte, che siamo umani
e siamo poco, qui stretti in una macchina
o al tavolo di un bar.
Dimentichiamo il male e
scuotiamo con violenza le pareti
che ci costringono,
eruttiamo l'anima a fiotti
per illuminare con la nostra forza
ancestrale queste strade, portare
tra le tenebre un'esistenza luminosa.
E l'amore che ho, così si completa di sorrisi,
come pezzi di un disegno, mi ricolora di vivo
perché ora che una voce mi dice
-tutto è casa tua-,
nell'essere inserto fluente del mondo,
il mio abbraccio include l'umano.
Alessandro Mantovani
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Le poesie dei lettori
Sulla scia delle novità inserite dal numero di settembre 2013 abbiamo deciso di arricchire la nostra rubrica!
L'idea di Le poesie dei lettori è nata dalle richieste di collaborazione che abbiamo ricevuto da amici,
conoscenti e sconosciuti che ci hanno fatto pensare ad uno spazio dove raccogliere tutte le loro poesie.
Quindi, ringraziando coloro che senza timore si sono mostrati e si mostreranno, speriamo che la nostra
idea possa farvi piacere ed invitiamo chiunque sia interessato a scriverci!
Il primo autore che vi presentiamo questo mese è Emanuela Mignone.
Emanuela è nata a Genova, studia (per essere precisi fa finta di provarci) e frequenta il corso di laurea
triennale in Conservazione dei Beni Culturali. Recentemente sta seguendo un laboratorio teatrale con il
Suq. Spera un giorno di diventare restauratrice.
Amore in decomposizione
La morte arriva e porta via il profumo fresco della vita.
L'amore fugge via dal cuore, lasciandosi dietro un vago odore di decomposizione.
L'amore inizia lentamente a marcire, come la pelle di un cadavere esposto al sole in un afoso
pomeriggio di agosto.
I sentimenti ristagnano e fermentano come il sangue, fermo e disgustoso, dentro le vene putrefatte.
L'odore dell'abitudine è nauseante come il fegato, divenuto ormai una massa grigia e informe.
Il rancore è un tarlo che divora il cuore come i vermi che sgranocchiano e banchettano dentro quel corpo
privo di vita.
Si intravedono le ossa della disperazione, lisce e bianche, con ancora qualche brandello di carne attaccato.
L'amore muore e fugge via da quel corpo decomposto, lasciandosi dietro solo ossa, polvere e brandelli di
rabbia.
Emanuela Mignone
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Fischi di Carta
Il secondo autore che vi presentiamo questo mese è Gabriel Benvenuto.
Gabriel nasce nel 1985 a Santa Margherita Ligure da padre italiano e madre tedesca, dopo il
conseguimento del diploma nel 2005 al Liceo Classico Delpino – Indirizzo Psico Socio Pedagogico – di
Chiavari abbandona per 7 anni gli studi svolgendo vari mestieri e diverse mansioni. In seguito, mentre
lavora part-time, decide di iscriversi alla facoltà di Scienze della Comunicazione a Savona trovando nuovi
stimoli e ottenendo buoni risultati in vista, alla conclusione della triennale, di una laurea specialistica in
giornalismo.
In queste sere
In queste sere sospese nel tempo
corvi volteggiano, stanchi nel sole
e vivere appare più grande
di quanto ci avevano fatto sembrare.
In queste sere sospese nel tempo
vecchie emozioni, riacciuffate nel vento,
alimentano ricordi sepolti
dalla banalità di chiacchiere e pensieri sommersi.
In queste sere
forse ci rincontreremo
soli, io e te,
fra fili d'argento e lacrime d'asfalto
nell'inesorabile rincorrersi del tempo
dove tramonta l'anima, senza tregua.
Gabriel Benvenuto
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Fischi di Carta
Wasteland 2.0
di Emanuele Pon
Thomas Stearns Eliot è uno di quei poeti che alcuni
non amano citare, per i più svariati motivi, ma
principalmente in nome del politcally correct
imperante. A Eliot è andata bene a non aver subito
la damnatio memoriae che può aver subito un
uomo, un artista come Ezra Pound. E anche costui
non è citato a caso: mi capita spesso di chiedermi
quanti abbiano sentito nominare Casa Pound, e
quanti abbiano letto i suoi Cantos; la stessa sorte
sarebbe potuta capitare a Eliot. Infatti, come Pound,
Thomas non ha mai fatto mistero del proprio
antisemitismo,
schierandosi
su
posizioni
decisamente reazionarie. Il suo nome tuttavia non è
stato usato da un collettivo neofascista, e forse
dovremmo chiederci perchè. Ma su questo
riflettiamo in silenzio, e ripartiamo da un'amicizia.
Di questo prima di tutto si tratta, infatti: amicizia,
reciproca influenza e venerazione letteraria e
poetica, ecco cosa c'è stato tra Thomas ed Ezra.
Siamo nel 1922, nel bel mezzo del cosiddetto
“modernismo”. Dostoeskij e Leopardi prima,
Nietzsche, Freud e la Grande Guerra poi hanno
spazzato via ogni singola certezza, sia essa politica,
spirituale, filosofica, scientifica. E' l'apocalisse dei
valori costituiti, e sta succedendo ovunque: proprio
nel 1922 esce un libro che s'intitola Ulysses, firmato
James Joyce. In casa nostra, la portata della novità
non sfugge a Montale e a Svevo. In Inghilterra non
sfugge a Thomas Eliot, che dà alle stampe quella
che forse è la sua opera più importante, destinata a
diventare una pietra d'angolo della storia poetica del
novecento. Ha un titolo programmaticamente
apocalittico: The Waste Land, ovvero La Terra
Desolata. Entriamoci e cerchiamo di capirla.
Innanzi tutto la dedica: “per Ezra Pound, il miglior
fabbro”. Di nuovo l'amicizia letteraria, di nuovo la
passione che ha fatto incontrare i due poeti: Dante.
Ecco le due dichiarazioni d'amore di Thomas, il
passato e il contemporaneo in sei parole.
Nell'epigrafe subito sotto, dei ragazzi chiedono alla
Sibilla Cumana che cosa ella desideri, e l'indovina
risponde: “desidero morire”. Proviamo ad entrare
proprio da questa scorciatoia, i modelli e le
citazioni: essi sono capitali per lo stile di Eliot e per
la comprensione di questo poemetto. Non c'è una
struttura narrativa in questi 433 versi, non si riesce
ad individuare una fabula che tenga insieme le
cinque parti in cui essi sono divisi. Ci sono, però,
l'Antico Testamento, Ovidio, Dante, Shakespeare e
Baudelaire, citando solo le ricorrenze più esplicite.
Versi di questi poeti, parti delle Scritture, elementi
mitologici ritornano ovunque nel testo: ma che
cosa accomuna Dante a Baudelaire, e questi due
alla Bibbia o alle Metamorfosi? E' proprio questo il
filo rosso di questo lamento. Li accomuna ciò che
negli anni '20 del '900 non c'è più. Un valore. Un
punto di riferimento. Un ideale verso cui indirizzare
la propria vita, quando non la propria Arte. E che
cosa è rimasto? La Terra Desolata. Oppure, per
usare un'altra accezione del verbo inglese “waste”,
La Terra Sprecata. L'uomo moderno non ha più
niente da dire, è vuoto, e ha svuotato di significato e
di valore tutta la bella terra che aveva intorno a sé.
Dunque, è questo il deserto che Thomas vede
dinnanzi a sé: lo stesso deserto da cui il Re
Pescatore, padre di Re Artù (personaggio che torna
e ritorna nella Waste Land), si era trovato
circondato all'improvviso. Eliot, come Parsifal
cavaliere di Artù, cerca il Graal, e con esso la
rinascita. Ed è vero: come affermano, proprio in
quegli anni, i primi grandi antropologi, la creazione
non è che vegetazione, ovvero rigenerazione della
natura. Ma, dice Eliot, non c'è niente di positivo in
questa rinascita, non c'è niente di veramente bello
nella primavera, perchè essa non è altro che il primo
stadio di un ciclo che si ripete senza fine: il tempo
non ha senso se è sempre uguale a sé stesso. Ed è
per questo che “aprile è il più crudele dei mesi”:
vende illusioni “confondendo memoria e desiderio”,
fa nascere fiori, sì, ma li fa nascere sulle tombe dei
morti, e non c'è nessuna differenza tra i morti e i
vivi di oggi. Siamo nel 1922, e Thomas Eliot,
attingendo dalla cultura orientale e mescolandola
con quella occidentale, ci parla di Zombie. Parla
degli uomini del suo tempo come di cadaveri che
coltivano e fanno crescere altri cadaveri, si spostano
in massa, come un fiume mefitico e senza senso
(volete un'immagine per concretizzare al meglio?
Metropolis di Fritz Lang, 1926, potrebbe fare al
caso vostro), in uno scenario in bilico tra il mitico e
l'iperrealistico, tra la Gerusalemme biblica e la
Londra industriale. Il passato travolto da un
presente senza più alcun senso è emblematicamente
rappresentato dai personaggi che animano i versi,
anche questi posti in contrapposizione tra loro: un
Tristano ed una Isotta contemporanei che chiedono
il vaticinio dei tarocchi ad una cartomante; una
coppia di amanti annoiati che, “in attesa che
bussino alla porta”, gioca “una partita a scacchi”,
come intitola la seconda parte del poemetto. Nella
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Fischi di Carta
terza parte, “Il Sermone del Fuoco” (ripresa diretta
di un testo dell'ascetismo Buddhista), Eliot cerca
una qualche sorgente d'acqua che purifichi e renda
di nuovo fertile il deserto attuale; ma il Tamigi,
come il Gange ormai è “irreale”, come ogni città, e
ogni cosa è coperta dalla “nebbia bruna” di
ciminiere e macchine: le Ninfe mitiche sono partite,
si sono appartate con “eredi di direttori di banca
della City”, e alle sue spalle il poeta sente il rumore
del “vicolo dei topi” e “lo scricchiolio delle ossa”.
Poi, nei versi centrali del poemetto, fa la sua
comparsa l'indovino Tiresia, cieco, vecchio, che
assiste impotente al sesso monotono e meccanico
tra una dattilografa che rientra a casa ed un giovane
“foruncoloso”: costui non è altro che, come ha
teorizzato lo stesso Eliot, il “correlativo oggettivo”,
l'immagine concreta del sentimento e della
condizione di Nulla e di Male in cui si trovano
immersi gli uomini. Di fronte a questo “cumulo
d'immagini infrante” che resta, Tiresia non ha
potuto far altro che “presoffrire tutto”, e forse, come
la Sibilla, desidera soltanto morire di fronte
all'indifferenza totale. Ora anche Eliot e il Re
Pescatore sono sconfitti, perchè non c'è più niente
da pescare, nessun valore, nessun Graal: l'acqua,
quando c'è, porta la morte al marinaio fenicio
Phlebas con il suo gorgo infernale (“La Morte Per
Acqua” è il titolo della quarta parte), finchè, nella
quinta ed ultima parte, non scompare del tutto,
come all'inizio (ritorna l'idea del ciclo, infinito ed
insensato). L'acqua non ha fatto crescere né ha
purificato nulla: era già contaminata in partenza.
Come un virus di aridità che, a partire dall'uomo, si
diffonde. Resta solo un'eco, “Ciò che disse Il
Tuono”. E' appunto la Voce del Tuono (contenuta, si
crede, in un antico testo indiano) ad offrire, alla
fine, l'unica speranza, ancora troppo vaga. Perchè
nel frattempo il mondo continua a sfaldarsi. “Torri
che crollano”. Vi ricorda qualcosa? E' questo il
motivo per cui scelgo spesso di viaggiare nella
Waste Land, rileggendola tutte le volte che posso:
forse è solo suggestione, ma credo che, se riletto,
Eliot possa dire molto oggi, per oggi. E credo che,
in fondo, la sua Waste Land sia la nostra Waste
Land. Ci sono scrittori che, volenti o nolenti, si
trasformano in profeti. Penso a Dante, Svevo,
Pasolini. E penso anche a Thomas Eliot. Forse, ora
che anche noi abbiamo ben stampato nei nostri
occhi e nei nostri ricordi il “correlativo oggettivo”
di quelle “torri che crollano” di cui Eliot/Tiresia ci
ha detto, possiamo rendere un po' meno vana la sua
esplorazione nel Deserto. Partendo dalla
Desolazione, proprio come Thomas, forse possiamo
trovare anche noi quella parola, quell'idea che
chiude La Terra Desolata. “Shantih Shantih
Shantih”. Traduzione letterale: pace ineffabile.
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NEWS
Giovedì 24 aprile
Stanza della Poesia
Palazzo Ducale (Piazza Matteotti 78r, Genova)
ore
17.30
preview del numero di maggio
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Fischi di Carta
it.ulule.com/fischi-di-carta
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Grazie a tutti!
GENOVA è....
LA CITTA' DEI POETI!!
La Stanza della Poesia di Palazzo Ducale, col Patrocinio dei nove Municipi del Comune di Genova e
la collaborazione di Coop Liguria, lancia un grande concorso di poesia aperto a tutti i residenti a
Genova.
LA CITTA' DEI POETI premierà 1 autore per ogni Municipio e 1 vincitore assoluto che potrà
leggere la sua poesia a Palazzo Ducale durante il 20° Festival Internazionale di Poesia (9-16 giugno)
insieme ai più grandi autori mondiali.
Trova il bando presso il tuo Municipio o su www.festivalpoesia.org
La data di scadenza per partecipare al concorso
LA CITTA' DEI POETI è il 30 aprile 2014
La partecipazione è gratuita.
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autore di Rintocchi d'ombra (Habanero, 2011)
e Corrosione (Habanero, 2013)
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autore di Guglie di vento (Ibiskos Editrice, 2013)
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• Emanuele Pon
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autore di Dalla Parte della Notte (Noirmoon, 2013)
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