Fischi di carta
Gennaio 2014 Numero 13
Poesia di cinque giovani fischianti
Illustrazione di Sara Traina ([email protected])
Parole,
dove il cuore dell'uomo si specchiava
- nudo e sorpreso - alle origini
Umberto Saba, Canzoniere, Parole
Fischi di Carta
Editoriale
“Sono un poeta. Conosco il potere delle parole.”
Mi piacerebbe iniziare il nuovo anno solare dei
Fischi di Carta con questa citazione, tratta da un
film intitolato In viaggio con Evie. Ma,
nell'augurare
un
felice,
felicissimo
duemilaquattordici a chiunque tenga in mano questo
piccolo (ma, almeno per noi, sempre più grande)
opuscolo, vi prego di non considerarlo un atto di
arroganza da parte nostra. Si tratta piuttosto, direi,
di una speranza, un consiglio rivolto a noi stessi, e a
tutti. Un proposito, ecco. Il nostro proposito per
l'anno nuovo. Ma come fanno le parole a
trasformarsi in un proposito? Bene, cerchiamo di
scattare un'istantanea della situazione.
Quella del linguaggio è probabilmente la facoltà
fisica che, nel modo più evidente, ci rende umani:
attraverso il linguaggio, l'uomo articola e dà forma
al suo pensiero. Inoltre, il linguaggio è necessario
per realizzarci come ciò che di noi diceva
Aristotele, ovvero come “animali sociali”. Il
bisogno di comunicare, in qualsiasi modo, è per noi
fisiologico. Ma che cosa succede se dal bisogno,
dalla necessità, si passa, senza intermezzi, alla
dipendenza? Perché mi pare che sia proprio questa
la situazione in cui ci troviamo: siamo arrivati ad
essere dipendenti dalla comunicazione, e in questa
dipendenza ci siamo dispersi, dimenticandoci come
si fa a comunicare realmente. Credo che, ogni volta
che uno di noi fischianti ha parlato di onestà
letteraria, intendesse anche questo. Il punto di
partenza è, almeno per quanto mi riguarda,
ampiamente sociale: gli imperativi categorici della
nostra attuale civiltà si potrebbero riassumere tutti
(certamente con qualche forzatura, ma lo spazio è
poco, e in queste poche righe si esige sintesi) in una
parola: la velocità. Ed è proprio qui che, anche
culturalmente, anche letterariamente, sta il
problema. Il culto della velocità che si è sviluppato
negli ultimi decenni poco ha a che fare con il
linguaggio, con la comunicazione, e niente ha a che
fare con la letteratura: sono due ambiti separati, che
a mio parere hanno esigenze e scopi quasi
diametralmente opposti. Le ultime due o tre
generazioni sono cresciute nella ferma convinzione
che il requisito fondamentale della comunicazione
sia la rapidità: si deve poter comunicare nel modo
più diffuso possibile, nel minor tempo possibile, e
questo ce l'hanno insegnato internet, i cellulari, e,
ancora prima, la televisione. Ora, fermo restando il
fatto che lo spirito di queste mie parole è
interamente positivo, anzi, propositivo, devo
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ammettere che il mio intento non consiste nel
sottolineare ancora una volta i vantaggi a cui questa
rapidità da luogo; non intendo soffermarmi su
questi, per il semplice motivo che mi paiono
evidenti, quasi a prova di idiota, perché soltanto un
uomo fuori dal tempo oggi negherebbe gli enormi
aspetti positivi di questa rivoluzione della velocità.
Ciò che mi preme sottolineare è che la quantità non
dovrebbe emergere e trionfare a discapito della
qualità; e la comunicazione è di qualità innanzi tutto
non quando è veloce, ma quando è proficua, ovvero
viene compresa, e per così dire ricambiata. La
sensazione che ho oggi, accendendo la televisione,
o anche camminando per strada, è quella di
trovarmi in un mondo dove la comprensione è stata
sacrificata alla rapidità di esecuzione e di
diffusione: più gente mi sente, meglio è, e poco
importa che mi capiscano o meno. Poco importa
che mi ascoltino o meno. A questo punto mi chiedo:
ma è così necessario che le mie parole rimbalzino di
orecchio in orecchio, di bocca in bocca, senza che
nessuno, o quasi nessuno ne colga il vero, profondo
significato? Ed è proprio questo che è successo,
negli anni, fino ad oggi: abbiamo assistito ad una
vera e propria inflazione della parola. Senza tirare
in ballo la questione dell'abbassamento del registro
linguistico, che nelle mie intenzioni è marginale
(dico tantissime parolacce, e adoro certe bestemmie
grammaticali del genovese), sono le parole comuni,
quelle nei confronti delle quali non è stato mai
imposto nessun tabù sociale, che si sono
progressivamente svuotate di significato, in nome di
questa sorta di dogma del contatto. Ognuno
dev'essere in contatto costante con tutte le persone
che fanno parte, in lungo e in largo, della sua vita, e
queste devono essere di continuo “aggiornate” sul
suo “stato”; ora, certamente l'uso del facebookese
(un neologismo, tanto per mettere a tacere
preventivamente coloro che ci credono mummie
reazionarie) non è casuale, ma Facebook è solo la
punta di un iceberg innalzato da noi, giorno dopo
giorno. Da quando abbiamo la televisione accesa, ci
siamo convinti che comunicare significhi tenersi in
contatto perenne, e le parole ci hanno inondato
letteralmente, tanto che siamo arrivati al punto in
cui non siamo quasi più in grado di star zitti:
abbiamo abboccato all'amo che noi stessi avevamo
lanciato, e la nostra tecnologia si è adeguata a noi,
ci ha seguiti e ci ha gratificati, con gli sms, con le
chatroom, e poi con i social network. Strumenti
dalle potenzialità meravigliose, infinite, che
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vengono degradati ogni giorno, insieme alle parole,
che dovrebbero essere i nostri strumenti per
eccellenza. Abbiamo imparato a dare un significato
a parole che prima non lo avevano, che non
facevano parte del nostro linguaggio, soltanto per
averle sentite nel tg della sera (spread, vi dice
niente?), abbiamo pubblicizzato e affisso in
bacheca, o twittato, un sentimento come l'amore, il
più personale che ci sia, ci siamo riempiti la bocca
di concetti a noi sconosciuti soltanto perché li
avevamo sentiti ripetere a qualche personalità
mediatica e raramente ci siamo presi la briga di
andare a sfogliare un vocabolario; abbiamo posto
tutte le parole allo stesso livello, abituandoci a
sentire dalla stessa voce un “pedissequamente” e un
“vaffanculo”, per poi fingere di storcere il naso,
contrariati, quando sentivamo il “vaffanculo”, senza
assolutamente conoscere il significato di
“pedissequamente”. Ora, attenzione: se possiamo
essere d'accordo sul porre tutte le parole più o meno
allo stesso livello, almeno nell'uso quotidiano, non
possiamo permetterci, come umani, di cadere nel
tranello di porle tutte al livello più basso, a nessun
livello, al livello del non-significato, del vuoto.
E' per questo che spesso nelle nostre poesie noi
fischianti sembriamo dire cose già dette: ma c'è
un'enorme differenza d'intenti tra il ripetere e il
ribadire, o, ancora meglio, il ricordare. Scrivere una
poesia sulla solitudine può sembrare banale, così
come scrivere una poesia sull'amicizia: ebbene,
oggi non lo è, e ciò che tentiamo di fare è
semplicemente ricominciare a scavare dentro queste
parole, riscoprirle nelle loro sfaccettature, in tutti i
loro colori e sapori, per ricordarci quanto ci
possono dare. Stiamo parlando del linguaggio, forse
l'invenzione più geniale e bella del mondo, e non
dovremmo lasciare che la comunicazione, il parlare,
l'esprimersi cadano insieme a noi nel gioco della
falsa pienezza di cui ci siamo circondati per
mascherarci: siamo preda di un collettivo, globale
horror vacui, un'epidemia che ci porta a sentirci
vuoti, inerti, irrealizzati quando stiamo zitti, quando
ci fermiamo, anche solo per un secondo. Oggi
odiamo il silenzio. Ma dovremmo ricordarci tutti
che le parole si possono distinguere soltanto tra due
istanti
di
silenzio:
se
odiamo
tacere,
automaticamente non diamo il giusto valore al
parlare.
Perciò, buon anno, amati lettori: fermiamoci un
istante, tiriamo il fiato, respiriamo insieme, e
prepariamoci ad ascoltarci l'un l'altro di nuovo.
Emanuele Pon
Interno in rame
Il tempo tesse vene antiche
tra questi muri caldi;
solidi nodi bianchi
scorrono fino ai miei occhi
dalle pareti intorno.
Annusando il camino spento,
non so quale calore
non di fuoco o di brace
respira sotto la mia pelle:
si forma una condensa.
E' tardi: ora cala il silenzio,
non bussa più la neve
alla finestra chiusa
su questa sera di montagna.
Quando anche cade, tace.
appeso di fronte a me,
là sospeso sul muro,
simile ad un ricordo buono
per essere ricordato.
Riconosco ora quel calore:
qualcosa di lontano
come il mattino adesso,
un respiro fragile accende
la brace nel camino.
Tra i nervi del muro, di nuovo
si scalda il mio sguardo
così, in un istante;
e si perde su, tra i riflessi
del fuoco acceso sul rame.
Emanuele Pon
Ma il mio sguardo è fisso sul rame
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Fischi di Carta
Corso Italia
Vicino al mare
trovi
un corso di piastrelle
e piccoli locali,
in un pentagramma
li ho pensati note
come il loro
frastuono d’entrata.
Eppure
ho immaginato questa
sonata
finire in Boccadasse
nel piatto rumore
d’un sasso
che fa da ormeggio.
Ho sognato le
forzate compagnie
dei sabati adolescenti
subissare ebbri
i piccoli arbusti
delle aiuole
rifugio dal traffico.
Tutto sembra filare
come quella visione
sazia e stanca
dell’abbiocco
dopo il pranzo.
Ma ecco l’amarezza,
scompare il sogno
entra l’affanno
della realtà
e di chi
con furiosa dipendenza
argina con le carte
quest’immagine
in polvere di scogliera.
Anche a Genova
si muore di vigore.
Andrea Pesce (da GebeNut)
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Via Stanavasso
Incespico nei ricordi
catapultato tra le sponde
dei rigagnoli dell’Orba
e i campi di pergolati.
Spingo le bigonce
colme d’uva
tediato dall’umido e
mischiato alle foglie cadute
che come un persiano
mi accolgono in vigna,
copro il lungo pendio
più e più volte
tagliando i raspi
pregni di acini.
Mi prendo solo una siesta
dopo la vendemmia
sulle assi del piccolo casolare
dove secoli di mestieri
mi osservano guardinghi
come un cervo spuntato dalle brume.
Raccolgo una roncola e poi un rastrello,
bevo le storie assieme al dolcetto
in compagnia dei maestri braccianti,
mi sento molto insignificante
con il mio animo sociale
mentre si lavora.
Per me metropolitano
è manna masticata
ridurmi alla zolla
scevro del superfluo
alone d’ unto che lascia
l’essenza dell’asfalto.
Andrea Pesce
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I miei giusti errori
Colature di sole sul finestrino.
Non vedo bene da quando
sono nato
ancora qualcosa di irrisolto
vedo riflesso
in me
il treno gracida tra secche erbe
e colline grigie
e il mio corpo
Gabbiani
Gabbiani neri tracciano
questo grigio cielo
nel candeggiare greve.
È come l’ espressione
di una fuga che dalla terra
emerge, l’impressione
che i giorni mi cadano
dalle mani.
Gabbiani.
Silvio Magnolo
acerbo si agita muovendosi,
vedo le persone
salutarmi,
dietro un occhio bagnato
mi riconosco,
sono stato toccato
visto, baciato,
come un barbaglio di rugiada
mi sveglio la mattina
tremando,
con la gioia di aver
commesso i miei giusti errori.
Silvio Magnolo
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Un Giorno di Vita
Il quadrato della piazza
è un piccolo recinto,
quiete poco elevata,
buio illuminato al neon
quasi intonso di passi,
poco calpestato dalle frette,
intonaco di storie copre i sassi
bianchi e neri della chiesa e il marmo è lucidato
su cui siedo un poco sghembo, debosciato
come il cinico Diogene irriverente alla
corrente degli altri.
Qui da fermo assaporo
lo spendere tempo in cose sempliciIl mio giorno dal risveglio è trascorso lento,
cadenzato dal ritmo pacato
di una vita mossa a stento
ma piena di significato. Sceso in strada
ho incontrato
il rigore dell'inverno incipiente
e quello della gente, dalle facce spente,
che a ogni angolo sorride, anche se mente;
di fretta, poco sente
-ognuno perso
nella sua corsa indecente
per conquistare il proprio trofeo marcio:
una vita decadente.
Io oggi conduco il mio cammino
povero e genuino
e dopo confessioni a denti bianchi
dietro il vetro di un bar,
ho lasciato alla stazione
una donna che vorrei
fosse anche un po' mia,
le mani che si lasciano davanti ai treni,
oh che nostalgia!
Allora son calato dolcemente su questi ciottoli,
accolto dalla quiete del sagrato rialzato,
e mi passa in fronte altra gente,
osserva deferente la mia stasi,
la pausa che intrattengo con l'infinito.
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Poi una figura in fondo alla piazza,
un po' più calma: riconosco dalla stazza
una persona amica,
libri impacco, mi stacco dal marmo,
percorro il sagrato, fiato affannato
raggiungo quell'ombra: è un cugino
in partenza per Casablanca
-ecco, con voce meno stanca
mi rigetto nel portento della vita in movimento.
Alessandro Mantovani
Fischi di Carta
Attendiamo che torni
«no il nostro tempo non è fermo ne' in movimento
il nostro tempo è quello dell'attesa
per il trasporto urbano»
me lo dicono le occhiaie opale – ancora –
di chi stanco va a lavorare.
bene o male a tutti giova l'alba
perché distende la fronte
e (sfondo un cielo denso)
a chi è fermo alla fermata
fa più piacere la sigaretta accesa.
per il resto dove si perde il mondo
il sole alza la sua immane palpebra
tornando a percorrere il solito apparente arco
e scandendo il nostro tempo; è materia e forma
per noi sonda del giorno che torna
dello sforzo tutto umano che cambia
Federico Ghillino
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Le poesie dei lettori
Sulla scia delle novità inserite dal numero di settembre abbiamo deciso di arricchire la nostra rubrica!
L'idea di Le poesie dei lettori è nata dalle richieste di collaborazione che abbiamo ricevuto da amici,
conoscenti e sconosciuti che ci hanno fatto pensare ad uno spazio dove raccogliere tutte le loro poesie.
Quindi, ringraziando coloro che senza timore si sono mostrati e si mostreranno, speriamo che la nostra
idea possa farvi piacere ed invitiamo chiunque sia interessato a scriverci!
Il primo autore che vi presentiamo questo mese è Lorenzo Fusi.
Lorenzo nasce nel 1995 a Genova. Fin dal primo anno di superiori inizia ad appassionarsi ed a dedicarsi
alla poesia ed agli ideali anarchici. Nel 2013 collabora per qualche mese col Nucleo Negazioni e, conclusa
quest'esperienza, inizia a scrivere versi liberi e sciolti toccando talvolta tematiche ispirate al libertarismo.
GNÒSIS
Trascendo
il trascendente
con intuizioni
degne d'un niente
intrinseco al tutto
Lorenzo Fusi
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Fischi di Carta
Il secondo autore che vi presentiamo questo mese è Caterina Grisanzio.
Nasce per sbaglio in quel di Trento il 1 febbraio 1964. Scrivere le procura gioia e, complice la passione per
la lettura, l'osservazione e l'empatia verso tutto ciò che è vivo, nonostante il suo lavoro, l'ingrediente
principale delle sue opere è la curiosità, unita alla voglia di esplorare il mondo. Ha partecipato e vinto
alcuni concorsi di poesia locali e nazionali.
Supermercato dell'umanità
Mi hanno marchiata
e costretta ad uscire
con i loro vestiti
a parlare una lingua non mia
e a foderare i quaderni
per non macchiarli
di rabbia.....
Puntualmente mi ritrovo
a cercare nello sguardo
di un gatto
ciò che non trovo
nel supermercato dell’umanità....
e viaggi frenetici
per conoscere il nulla
e libri osannati
che insegnano il niente
budini scaduti
nel tuo frigorifero
e schermi giganti
che trasmettono il deserto...
formidabile.
Non sono io.
E non voglio essere,
per l’eternità,
altro che polvere
azzurro e suono
trasportato
da vento impalpabile
che raggiunge
la moltitudine.
Caterina Grisanzio
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L'altra Superba
di Andrea Pesce
Apro questo articolo confessandovi il mio desiderio
di raccontarvi Genova, ma non quella delle solite
scorribande notturne in cerca di svago nei vicoli
grondanti di persone o dello shopping forsennato in
via XX Settembre. Vi propongo di compiere un
viaggio dentro una città che si conosce troppo poco,
che in verità meriterebbe molta più fortuna e
considerazione di quella che, invece, le si concede.
Vi voglio parlare delle meraviglie artistiche e
culturali di Genova, un patrimonio enorme ed
incommensurabile di oggetti, dipinti, vie, chiese e
palazzi che pur essendo incredibilmente
meravigliosi non hanno visibilità o ne hanno poca.
Ovviamente nel piccolo spazio di una pagina non si
può ambire a descrivere questi capolavori con una
trattazione completa ed esaustiva, in ogni caso ho
intenzione di stuzzicare il vostro interesse cercando,
il più possibile, di trasmettervi tutto lo stupore e la
meraviglia di quando per la prima volta ho visitato i
luoghi di cui ora vi parlerò.
La prima tappa del nostro viaggio si chiama chiesa
del Gesù e dei santi Ambrogio e Andrea. Questa
chiesa è situata in piazza Matteotti in pieno centro,
poco sotto la celeberrima piazza De Ferrari. Il
nucleo primitivo di questa chiesa risale alle
persecuzioni longobarde, quando il clero milanese
in fuga vi si stabilì. Dopo che il vescovo Giovanni
Bono lasciò Genova per tornare a Milano nel VII
secolo, la chiesa rimase senza un proprietario
illustre fino al 1552 quando i Gesuiti, prendendola
in gestione, iniziarono i lavori di ristrutturazione
che finirono nel 1589. Da qui seguì un periodo
d’oro che portò questo edificio al massimo
splendore grazie all‘apporto di pittori come Pieter
Paul Rubens al quale fu commissionata la
realizzazione di due dipinti: “la Circoncisione” e
“Sant’Ignazio guarisce un’ossessa”. Sono rimasto
sbalordito nel vedere che uno dei maestri indiscussi
del barocco europeo abbia lasciato anche a Genova
una testimonianza del suo passaggio, poiché le
opere di quest’uomo sono nei musei più prestigiosi
del mondo e poterle ammirare anche in una chiesa a
pochi metri dal centro mi ha lasciato
favorevolmente sorpreso. Rubens a parte, questo
luogo è un insieme di opere sublimi, dagli affreschi
alle tele, dalle sculture ai ricchissimi fregi, il tutto
abilmente composto e architettato in uno stile
barocco secondo solo a quello della basilica di San
Pietro e che merita una visita.
La seconda tappa del nostro viaggio ci porta alla
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fine di via Balbi in piazza della Nunziata per
presentarvi una delle chiese che Montesquieu definì
la più bella di Genova; vi sto parlando della
Basilica della Santissima Annunziata del Vastato.
Quest’edificio alle origini era una piccola chiesa di
un convento di frati Umiliati (1228) poi nel 1508
passò in gestione ai frati francescani che ne
predisposero la ricostruzione in stile tardo gotico in
osservanza ai canoni della basilica di San Francesco
d’Assisi.
Purtroppo
quest’opera
risultò
anacronistica e spropositata, tanto che non venne
più portata a termine. In seguito, a partire dal 1582,
per adeguarsi ai dettami del concilio di Trento, i
frati furono costretti a rivedere la costruzione, così
nel 1591 decisero di vendere il giuspatronato della
cappella maggiore alla ricchissima famiglia dei
Lomellini che finanziò ed iniziò i lavori nel 1615.
La basilica venne ultimata solo venti anni più tardi
e rimase di proprietà di costoro fino al 1794 quando
la famiglia si estinse con Agostino Lomellini doge
di Genova dal 1760 al 1762. Infine con le leggi
sabaude del 1861 i francescani vennero sfrattati e
così l’arcivescovo Tommaso Reggio la consacrò in
parrocchia affidandola ai frati Minori nel 1901. Da
ricordare che nel periodo della seconda guerra
mondiale la basilica cadde vittima dei
bombardamenti del 1942 e 1943 che lasciarono
parecchi danni, alcuni restaurati, altri irreparabili
come la perdita degli affreschi del lato sudest. Le
particolarità di questa chiesa sono due a mio
giudizio: l’interno che si presenta con una
magnificenza ed opulenza incredibile con le sue tre
navate a pianta a croce latina arricchite da dipinti,
affreschi, marmi intarsiati e stucchi in oro zecchino
che lasciano il visitatore a bocca aperta per la
luminosità e la grandezza degli spazi. L’esterno che
presenta una bellissima facciata neoclassica,
caratterizzata da due campanili e un grandioso
pronao con sei colonne in stile ionico realizzato nel
1867 dai progetti di Carlo Barabino e Giovanni
Battista Resasco. Quest’opera architettonica mi ha
lasciato senza fiato per l’inaspettata magnificenza
che mi ha letteralmente colto alla sprovvista, poiché
mai mi sarei aspettato di trovare un così perfetto e
ben riuscito intreccio di stili diversi in una città
come Genova.
Detto questo lascio a voi il piacere di constatare con
i vostri occhi ciò che io ho già avuto il piacere di
ammirare, sperando che le mie parole vi abbiano
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convinto o incuriosito quanto basta ad intraprendere
un viaggio alla riscoperta di una delle città più belle
del mondo. Nei prossimi mesi seguiranno le
prossime tappe in cui vi parlerò di altre meraviglie
alla scoperta della Superba. Buon viaggio.
Siete tutti invitati alla presentazione di
GebeNut
prima silloge di
Andrea Pesce
la presentazione si terrà
venerdì 10 gennaio 2014
presso
la Stanza della Poesia
di Palazzo Ducale
– piazza Matteotti 78r –
Genova
alle ore
17,30
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