Domenica La DOMENICA 16 MAGGIO 2010/Numero 275 di Repubblica la società Fenomenologia della minigonna ANAIS GINORI cultura Achille Campanile, maestro di nonsense PAOLO MAURI I due inferni di New Orleans La marea nera che devasta le coste della Louisiana. E il libro-verità ILLUSTRAZIONE DI GIPI di Dave Eggers che narra i retroscena sconvolgenti dell’uragano Katrina DAVE EGGERS Z eitounsi svegliò dopo le nove, stremato dagli ululati dei cani. Quel giorno voleva trovarli a tutti i costi. Dopo aver pregato, percorse in canoa il giardino inondato. I cani sembravano vicinissimi. Attraversò la strada e svoltò a sinistra su Dart Street. Appena qualche casa più in giù, trovò esattamente ciò che cercava. Conosceva bene quella casa. Si avvicinò pagaiando, e i cani impazzirono. I loro guaiti disperati provenivano dall’interno. Ora doveva trovare un modo per entrare. Il primo piano era allagato, ragione per cui i cani — a occhio e croce due — dovevano essere intrappolati al piano di sopra. Vicino alla casa c’era un albero con molti rami. Ci si avvicinò e legò la canoa al tronco. (segue nelle pagine successive) spettacoli FEDERICO RAMPINI «N NEW YORK on esiste fede pari a quella di chi costruisce case lungo la costa della Louisiana», dice Abdulrahman Zeitoun. E questo muratore siriano-americano continua a costruire. Il 29 agosto 2005 era nella sua New Orleans quando la furia dell’uragano Katrina fece saltare gli argini. Ci rimase quando l’80% della città era allagata. Restò nell’orrore che seguì: i 1500 morti, i due milioni di profughi nell’intera regione del Golfo. Zeitoun è ancora lì che costruisce oggi, mentre la Louisiana assorbe lo shock della marea nera, quella che alcuni hanno previsto (o sperato) diventi «la Katrina di Barack Obama». In questi cinque anni Zeitoun ha visto due volte l’Apocalisse, due catastrofi si sono accanite contro la sua terra promessa. (segue nelle pagine successive) Ridere kosher, i comici ebrei americani MONI OVADIA e VITTORIO ZUCCONI i sapori Benvenuti nell’era del post-pane LICIA GRANELLO e MARINO NIOLA l’incontro Peter Brook, quando il teatro è ribelle LEONETTA BENTIVOGLIO Repubblica Nazionale 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 MAGGIO 2010 la copertina Per la seconda volta in cinque anni New Orleans è al centro di un’apocalisse E mentre la marea nera avanza verso la costa e mette alla frusta il governo Obama, un libro Inferni di Dave Eggers di cui pubblichiamo un brano in anteprima racconta la storia degli abusi commessi dal governo Bush durante le terribili giornate dell’uragano Katrina Zeitoun, un uomo nel disastro DAVE EGGERS (segue dalla copertina) i issò sull’albero, arrampicandosi finché non riuscì a scorgere una finestra al primo piano. Non vedeva i cani, ma li sentiva. Erano in quella casa, e molto vicino. L’albero su cui era salito si trovava a circa tre metri dalla finestra. Saltare era impossibile. Troppo lontano. In quel momento vide un’asse di legno, larga trenta centimetri e lunga quattro o cinque metri, che galleggiava nel cortiletto accanto alla casa. Scese dall’albero, raggiunse l’asse con la canoa, la portò vicino alla casa e l’appoggiò contro l’albero. Poi risalì sui rami, e sollevando l’asse creò un ponte tra l’albero e il tetto. Si trovava a circa cinque metri da terra, due metri e mezzo dalla superficie dell’acqua. Il ponte che aveva creato non era troppo diverso dalle impalcature di cui si serviva ogni giorno al lavoro, e così, dopo averlo saggiato rapidamente con un piede, lo attraversò e raggiunse il tetto. Una volta lì, forzò una finestra e s’introdusse in casa. I latrati si fecero più forti e frenetici. Attraversò la stanza in cui era entrato, sentendo i cani farsi sempre più isterici. Percorrendo il corridoio del primo piano, li vide: due cani, un labrador nero e un incrocio più piccolo, chiusi in una gabbia. Non avevano cibo, e la ciotola dell’acqua era vuota. Sembravano sufficientemente esasperati da poterlo mordere, ma Zeitoun non esitò. Aprì la gabbia e li lasciò uscire. Il labrador si fiondò fuori dalla stanza, l’altro indietreggiò nella gabbia impaurito. Zeitoun si fece da parte per lasciargli spazio, ma lui rimase dov’era. Il labrador non poteva andare da nessuna parte. Corse in cima alle scale, ma subito vide l’acqua ad appena pochi centimetri sotto il primo piano. Tornò da Zeitoun, che nel mentre aveva pensato cosa fare. «Aspettatemi qui» disse loro. Riattraversò il ponte di legno, scese dall’albero salendo sulla canoa, e tornò a casa sua. Si arrampicò sul tetto, entrò dalla finestra e scese i pochi scalini che non erano stati sommersi. Sapendo che Kathy teneva sempre il freezer pieno di carne e verdure, si protese e recuperò due bistecche, affrettandosi a richiudere lo sportello per impedire al poco freddo rimasto di disperdersi. Tornò sul tetto, prese due bottiglie di plastica piene d’acqua e le gettò con le bistecche S nella canoa. Scivolò a bordo e tornò dai cani. Di nuovo lo sentirono avvicinarsi, stavolta facendosi trovare in attesa oltre la finestra, con le teste che spuntavano da dietro il davanzale. Sentendo l’odore della carne, benché congelata, attaccarono ad abbaiare e scodinzolare come matti. Zeitoun gli riempì la ciotola dell’acqua, e loro ci si avventarono. Riempiti i serbatoi, passarono alle bistecche, che masticarono finché la carne non si fu ammorbidita. Zeitoun rimase a osservarli per qualche minuto, stanco ma felice, finché non cominciò a sentire altri latrati. C’erano altri cani, e lui aveva un congelatore pieno di cibo. Tornò a casa sua per organizzarsi. Caricò sulla canoa altra carne, quindi si mise in cerca degli altri animali abbandonati. Quasi subito, appena si fu allontanato da casa, sentì altri latrati, stavolta più attutiti, provenienti grosso modo dallo stesso punto in cui si trovavano i primi due cani. Si avvicinò, chiedendosi se per caso in quella casa non ce ne fosse un terzo. Ancorò di nuovo la canoa all’albero, prese due bistecche e si arrampicò. Da un ramo a mezza altezza si voltò verso la casa vicina, quella a sinistra, e vide altri due cani che saltellavano dietro una finestra. IL LIBRO Zeitoun di Dave Eggers esce il 28 maggio da Mondadori (traduzione di Matteo Colombo, 312 pagine, 17,50 euro) È un’opera di non fiction basata sui racconti di Abdulrahman e Kathy Zeitoun. Lui è un siriano immigrato negli Usa; lei un’americana convertitasi all’Islam. Abdulrahman diviene vittima delle autorità Usa Nel caos della New Orleans in ginocchio a causa dell’uragano Katrina, viene accusato di essere un affiliato di Al Qaeda Sfilò l’asse dalla prima casa e la spostò verso la seconda. I cani, vedendolo arrivare, cominciarono a saltare e girare in tondo furiosamente. Poco dopo, Zeitoun riuscì ad aprire la finestra ed entrare. I due cani gli balzarono addosso. Lanciò le bistecche, e quelli ci si avventarono, dimenticandosi completamente di lui. Doveva procurare dell’acqua anche a loro, per cui tornò a casa a prendere altre bottiglie e una ciotola. Zeitoun gli lasciò la finestra aperta abbastanza da far entrare un po’ d’aria fresca, dopodiché riattraversò l’asse e dall’albero si calò nella canoa. Impugnato il remo ripartì, pensando che fosse ora di chiamare Kathy. Mentre remava, notò che l’acqua si stava facendo più sporca. Era diventata scura, opaca, striata di nafta e benzina, piena di detriti, cibo, immondizia, vestiti, pezzi di case. Ma l’umore di Zeitoun era alto. Si sentiva rinvigorito da ciò che era riuscito a fare per quegli animali, dal fatto di averli potuti aiutare, e che quattro cani destinati a morire di fame ora sarebbero sopravvissuti perché lui era rimasto, e perché aveva comprato quella vecchia canoa. Non vedeva l’ora di dirlo a Kathy. Arrivò alla casa in Claiborne Avenue a mezzogiorno. Todd non c’era, e la casa era vuota. Entrò a telefonare. «Oh, grazie a Dio!» esclamò Kathy. «Dio, grazie, grazie, grazie. Dov’eri finito?». Lei e i figli stavano ancora viaggiando verso Houston. Accostò. «Di cosa ti preoccupavi?» le chiese Zeitoun. «Te l’avevo detto che avrei chiamato a mezzogiorno. È mezzogiorno adesso». «Chi era quell’uomo?» chiese lei. «Che uomo?». Kathy gli spiegò che, quando al mattino aveva provato a telefonare, le aveva risposto qualcun altro. Zeitoun rimase turbato. Mentre parlavano, cominciò a guardarsi intorno. Non c’erano segni di furto o effrazione. Niente serrature forzate o finestre rotte. Che l’uomo in questione fosse un amico di Todd? Disse a Kathy di non preoccuparsi, che avrebbe indagato. Kathy, ora più calma, fu felice di sapere che suo marito era riuscito ad aiutare i cani, che si sentiva utile. Ma non voleva assolutamente che rimanesse ancora a New Orleans, e pazienza quanti cani da nutrire o persone da salvare avesse. «Voglio che tu venga via, sul serio» gli disse. «Dalla città arrivano no- Repubblica Nazionale DOMENICA 16 MAGGIO 2010 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 La caccia al “terrorista” mentre la gente annega FEDERICO RAMPINI (segue dalla copertina) ome il medico solo di fronte alla peste nel romanzo di Albert Camus, nella tragedia Zeitoun ha provato la sua umanità. E contro questo eroe indifeso si è accanita la logica assurda della ragion di Stato. La sua storia è troppo perfetta per essere un romanzo. Perciò Dave Eggers, l’enfant prodige di San Francisco, ha lasciato in un angolo il genio letterario; per raccontare la storia di Zeitoun si è fatto umile cronista. Ha represso lo sdegno, rinunciato all’invettiva. I nudi fatti sono più che sufficienti. Nell’agosto di cinque anni fa, la moglie Kathy e i quattro figli di Zeitoun fuggono per tempo di fronte all’avanzata di Katrina. Lui da solo decide di restare in città. Quando New Orleans è sommersa, salta sulla sua canoa, si aggira in quel paesaggio sconvolto. Ci sono anziani abbandonati, a cui porta le prime provviste. Soccorre i cani che abbaiano disperati, sentono l’odore della morte. Il primo giorno Zeitoun salva cinque persone. «Non aveva mai sentito tanta energia, tanto senso di uno scopo nella vita. C’era bisogno di lui». Al terzo giorno del disastro, quando le acque luride e puzzolenti si gonfiano di cadaveri che galleggiano, Zeitoun ha il primo contatto surreale con lo Stato. Due vecchi vicini di casa, i coniugi Williams, devono essere portati via ma la sua canoa è troppo piccola. Lui rema in cerca di aiuti e finalmente avvista dei soldati. Lo cacciano: «Non è il nostro mestiere». Hanno radio ricetrasmittenti ma dicono di non poterle usare. Passano altri cinque giorni. Il 6 settembre Zeitoun è in casa quando fanno irruzione cinque uomini e una donna in tuta mimetica, con fucili automatici M-16. Lo caricano su un battello militare. Da quel momento comincia per lui il vero incubo, un’altra tragedia nascosta dentro la storia di Katrina. Una vicenda crudele e sconosciuta. Tutti associano l’inondazione di New Orleans con il punto più basso dell’Amministrazione Bush: l’indifferenza, l’incompetenza, la disorganizzazione. Uno spettacolo da Terzo mondo nel cuore dell’America. Il ritardo inspiegabile degli aiuti, le vittime abbandonate. Ma in mezzo a quella débacle, si scopre, ci fu anche uno sprazzo di paranoica efficienza. L’agenzia della protezione civile dopo l’11 settembre 2001 era finita dentro la Homeland Security, un superministero degli Interni. E dai vertici della Homeland Security durante l’agonia di New Orleans arriva un avvertimento che sembra tragicomico, se non avesse conseguenze tanto sinistre. L’uragano può essere “sfruttato” da gruppi di terroristi. In vari modi: «Sequestro di ostaggi, attacchi a rifugi di sfollati, attacchi elettronici o sostituzioni di persone atte a impersonare responsabili dell’ordine». Così, mentre centinaia di cittadini americani muoiono annegati in telecronaca diretta, ripresi sugli schermi della Cnn, mentre nello stadio Superdome gli sfollati impazziscono di fa- ILLUSTRAZIONE DI GIPI C Si allontanò, chiedendosi quante persone fossero rimaste in città Se Frank era rimasto, e anche Todd e Charlie avevano superato la tempesta senza andarsene, di certo dovevano essercene a decine di migliaia... Proseguì, sapendo che avrebbe dovuto sentirsi stanco Eppure non lo era affatto. Non si era mai sentito più forte tizie terribili. Gente che ruba, uccide. Rischi che ti succeda qualcosa di brutto». Zeitoun percepì la sua preoccupazione. Ma del caos di cui parlava, lui non aveva visto traccia. Ammesso che fosse vero — e Kathy sapeva benissimo quanto i media fossero portati a ingigantire — doveva essere concentrato nel centro. Lì da lui, disse, era tutto così silenzioso e calmo, così strano e surreale, che correre rischi era impossibile. Forse, aggiunse, c’era davvero una ragione se era rimasto, se aveva comprato quella canoa. Se in quel preciso momento si trovava in quella particolare situazione. «Sento che devo stare qui» disse. Kathy tacque. «È la volontà di Dio». A quello, sua moglie non seppe come rispondere. Passarono a parlare di questioni pratiche. A casa di Yuko il cellulare di Kathy non prendeva bene, e così diede a Zeitoun il numero fisso. Lui se lo annotò su un pezzetto di carta e lo lasciò accanto al telefono in Claiborne Avenue. «Appena arrivi a Phoenix, trova una scuola per i bambini» le disse. Kathy alzò gli occhi al cielo. «Naturalmente» rispose. «Vi voglio bene, diglielo» concluse Zeitoun, poi si salutarono. Ripartì, e subito vide Charlie Ray, il vicino della casa a destra. Era un falegname sui cinquant’anni, con gli occhi azzurri, nato a New Orleans, un tipo simpatico e alla mano che Zeitoun conosceva da anni. Sedeva nella sua veranda come se fosse una giornata qualunque. «Sei rimasto anche tu» disse Zeitoun. «Eh, già». «Ti serve qualcosa? Acqua?». Charlie non aveva bisogno di nulla, ma presto forse ne avrebbe avuto. Zeitoun promise che sarebbe ripassato più tardi, quindi si allontanò, chiedendosi quante persone fossero rimaste in città. Se Frank era rimasto, e anche Todd e Charlie avevano superato la tempesta senza andarsene, di certo dovevano essercene a decine di migliaia. Zeitoun non era stato l’unico a sfidare la sorte. Proseguì, sapendo che avrebbe dovuto sentirsi stanco. Eppure non lo era affatto. Non si era mai sentito più forte. Copyright © Dave Eggers, 2009 © 2010 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. Milano me sete e caldo, a due passi da lì inizia la costruzione di un carcere. Nella stazione abbandonata degli autobus di linea Greyhound, l’esercito deporta centinaia di detenuti dal penitenziario Angola, per dei lavori forzati molto speciali. Bisogna tirar su in fretta una prigione. La Guantanamo segreta dell’uragano Katrina. Zeitoun ci starà quasi un mese. «Un talibano, uno di al Qaeda», dice un soldato dopo aver visto la sua faccia da arabo. Un mese senza poter parlare con la moglie, che non sa più nulla di lui. Senza avvocati. Accusato di aver saccheggiato una casa: la sua. Come lui ci sono altri 1.200 detenuti, a maggioranza neri. Saranno rilasciati senza scuse, né indennizzi, senza uno straccio d’inchiesta per capire come sia potuto succedere. L’uragano Katrina ha sospeso i diritti civili e la Costituzione. Alla fine la moglie di Zeitoun, Kathy, dovrà sentirsi perfino riconoscente per un gesto di umanità, quando un funzionario della Giustizia «per compassione» restituisce la patente al marito. L’unico documento rimasto nel portafoglio, dal quale sono spariti dopo l’arresto i contanti e le carte di credito. La storia vera di Zeitoun, degna di Kafka e di Camus, è più d’un atto di accusa contro un episodio storico, contro un governo. Diventa la metafora di una condizione umana aggrappata a un gesto d’amore, a una testimonianza, a uno straccio di solidarietà: di fronte a un’astrazione insensata quale appare lo Stato. Oggi Obama fa del suo meglio perché la marea nera della Louisiana da disastro ecologico non si trasformi in un disastro politico. Il bilancio delle vittime non è paragonabile. Gli aiuti sono stati più veloci. Ma resta un divario incolmabile tra la logica dello Stato — bisognerà pur continuare a trivellare, l’America avrà ancora bisogno di compagnie che estraggono petrolio offshore — e il volto umano di quest’ultima catastrofe. Charles Robin, l’erede di cinque generazioni di pescatori, dice: «Katrina ci ha scavato la fossa. Eravamo lì dentro, annaspavamo per uscirne, e ci arriva addosso questa marea nera». John Richie, un artista del French Quarter, quando ha sentito che i capelli servono ad assorbire il petrolio, è andato a donare la sua criniera bionda. Shannon Powell, musicista jazz al Preservation Hall, parla a nome di tanti: «Cosa possiamo fare noialtri contro questa Cosa orrenda? Ci svegliamo ogni mattina e non sappiamo come difenderci». Il disastro stavolta non è arrivato di schianto ma accerchia lentamente, come la peste, tutto ciò che è vivo nel Golfo. Le inchieste del governo e del Congresso, le cause contro i petrolieri, viste dalla Louisiana sono riti beffardi. Cinque anni dopo Katrina il 41 per cento dei bambini di New Orleans continua a soffrire di anemia: il doppio rispetto ai senzatetto nel resto degli Stati Uniti. «Nel linguaggio umano — disse nel 2005 lo scrittore di New Orleans Richard Ford — manca una parola per dire la morte di una città». © RIPRODUZIONE RISERVATA Finalmente in Italia, la linea professionale del parrucchiere N°1* di Parigi, in profumeria e nei supermercati. Scoprilo stasera in TV! *per numero di saloni presenti sul territorio. © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA la società Donne sull’orlo ANAIS GINORI L PARIGI a libertà femminile è incominciata a poco a poco, con un orlo che lentamente si alza, svelando prima le caviglie, poi le ginocchia, infine le cosce. La gonna è qualcosa di più di un semplice pezzo di stoffa. Ogni centimetro guadagnato o perso ha segnato una nuova tappa nel cambiamento sociale. A campana, a portafoglio, lunga o mini, strettissima o con lo spacco, nelle sue infinite geometrie e trasformazioni ha accompagnato il cammino delle donne per secoli, rispecchiando la decenza e la morale dell’epoca. Indumento femminile per eccellenza, definisce il genere sessuale sin dall’antichità. «Già nella Bibbia viene menzionato il divieto per le donne di vestirsi da uomo», ricorda Christine Bard, autrice di Ce que soulève la jupe, storia politica di questo capo vestiario. Sotto alla gonna, come suggerisce il titolo del libro, si nascondono le fantasie erotiche degli uomini ma anche, a livello sociale, la gerarchia tra i sessi. In Francia, fino agli anni Sessanta un prete poteva rifiutare la comunione a una donna con i pantaloni, e non è ancora stata abrogata un’ordinanza che vieta alle donne di uscire a Parigi indossando i calzoni. Solo nel 1980 il parlamento ha autorizzato le deputate a presentarsi in pantaloni: merito della comunista Chantal Leblanc che, respinta dagli uscieri, ha preteso che cadesse l’ultimo tabù. Per secoli, indossare la gonna è stato un obbligo, il marchio di un’inferiorità. «Un vestito DOMENICA 16 MAGGIO 2010 In principio fu la veste bisex per eccellenza Col tempo è diventata molto più che un semplice pezzo di stoffa, segnando il confine tra i sessi e le molte tappe dell’emancipazione femminile Ora, in Francia, un libro ne ripercorre la lunga storia Che al di là delle apparenze è tutta politica La gonna da prigione a bandiera di libertà IL LIBRO Ce que soulève la jupe di Christine Bard, pubblicato in Francia (Autrement, 170 pagine, 17 euro), traccia una storia politica della minigonna, dagli anni Sessanta a oggi FOTO GETTY IMAGES aperto, segno della disponibilità del corpo femminile, da contrapporre a quello chiuso e protetto degli uomini», spiega Bard, docente di storia contemporanea all’università di Angers. «Anche da un punto di vista pratico, significava una costrizione, c’era l’idea di intralciare il movimento». Le gonne erano pesanti, sovrapposte alle sottane, si trascinavano a terra. Alla fine dell’Ottocento, la prima suffragetta francese, Hubertine Auclert, fondò la “Lega per le gonne corte”: insieme al diritto di voto, rivendicava anche quello di liberare le gambe. Nel 1897, durante un incendio al Bazar de la Charité di Parigi, morirono centodieci donne e solo sei uomini. Secondo le femministe dell’epoca, le vittime non erano riuscite a scappare per colpa delle loro gonnelle. È proprio nella Belle Epoque che viene inventata la gonna-pantalone, per andare in bicicletta o fare sport. La guerra dà un’altra spallata alle convenzioni. Mentre gli uomini sono in trincea, le donne devono lavorare. In fabbrica, portano i pantaloni. Fumano, slacciano busti e corpetti, si tagliano i capelli. Le chiamano le garçonnes, maschiacci. Intanto, l’orlo si accorcia. Nel 1925 arriva fino al ginocchio, negli Stati Uniti vengono persino varate leggi per fissare l’altezza della gonna. La rivoluzione è cominciata. Anche se negli anni Trenta con la Grande Depressione e l’avvento del nazismo la moda ricambia e torna il «rispetto delle differenze» tra uomini e donne. La direttrice della rivista femminista La Française scrive allora: «La gonna, simbolo e strumento dell’ineguaglianza tra i sessi, rimane un feticcio difficile da toccare senza creare scandalo». Ma è questione di poco. Le donne si appropriano dei pantaloni a partire degli anni Sessanta, con i mitici tailleur di Coco Chanel e i jeans americani che spopolano tra le intellettuali di Saint-Germain-des-Près. Ma proprio in quegli anni la gonna ritrova la sua forza sovversiva. Da simbolo di oppressione, diventa emblema della liberazione sessuale. Nel 1959, Yves Saint-Laurent svela il ginocchio di una modella durante una sfilata. Da Londra arriva la “mini” di Mary Quant. Per Chanel è un indumento «sporco». Lo stilista André Courrège manda invece la minigonna in passerella, dedicandola alle «Donne del Duemila». Due visioni si contrappongono, e non è solo questione di moda. A proposito del duello Chanel-Courrège, il filosofo Jean Baudrillard scrive: «Il corpo è diventato il nostro più gran- de oggetto di consumo». Una questione politica. Tanto che Georges Pompidou è costretto a risponderne in campagna elettorale. Favorevole o contrario alla minigonna? «La moda cambia, io mi adeguo», dice, sapendo che ormai è impossibile schierarsi. Sua moglie Claude, rompe la tradizione, entrando all’Eliseo in pantaloni. «Ancora oggi portare la gonna non è un gesto banale, senza conseguenze», osserva Christine Bard. «Implica una consapevolezza del proprio corpo. È un potente rivelatore dei rapporti sociali tra maschi e femmine, e tra le stesse femmine». Dal 2005 esiste in Francia un “movimento della gonna” nato in un liceo della Bretagna, dopo che una ragazza era stata stuprata perché «vestiva troppo sexy». Da quell’e- pisodio è nato un progetto di educazione civica che si ripete ogni anno in decine di scuole, la “Primavera della gonna e del rispetto”. Il capo di vestiario è il pretesto per parlare d’altro. Di tolleranza e pregiudizi, di violenza non solo fisica ma verbale, di autodeterminazione del proprio corpo. L’obiettivo è scardinare l’equazione gonna uguale puttana. «Per molti giovani rappresenta ciò che era nell’antichità: un vestito aperto, quindi sinonimo di disponibilità sessuale», racconta Bard. «Le ragazze che si vestono così si sentono più esposte, in pericolo». A celebrare le giovani neofemministe con la gonna è arrivato l’anno scorso anche un film. Isabelle Adjani nei panni di un’insegnante prende in ostaggio i suoi alunni e chiede come riscatto al governo una giornata della gonna, LA FOTO La copertina di Life, 21 agosto 1970 Repubblica Nazionale DOMENICA 16 MAGGIO 2010 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 MARY QUANT Anni ’60, la stilista inglese inventa la minigonna TWIGGY L’icona della moda degli anni Sessanta è sempre in mini “Da 30 anni, nei miei 600 saloni, la mia passione è rendere sublimi i capelli di ogni donna”. BRIGITTE BARDOT Da Piace a troppi in poi ha mostrato le gambe al cinema Franck Provost rende la sua professionalità accessibile a tutte le donne creando la linea Expert di shampoo, balsamo e maschera. JANE FONDA Barbarella e la squillo di Klute sono i suoi personaggi in mini Formule professionali, nel grande formato salone, a un prezzo accessibile. LADY DIANA Ha rotto gli schemi alla corte inglese anche in minigonna affinché le sue alunne «non vengano trattate come mignotte quando la indossano». Scoprire le gambe è di nuovo un atto militante, la rivendicazione di un diritto. È questa la parte del corpo più nascosta delle donne. «Nel Medioevo — ricorda Bard — si potevano ostentare profondi decolleté, però mai centimetri di pelle dal busto in giù». Nonostante tante trasformazioni, la gonna costituisce ancora una trasgressione all’ordine. «Il pantalone, invece, si è rapidamente spoliticizzato: da cinquant’anni fa è di uso comune tra le donne». Nel Ventunesimo secolo l’indumento femminile potrebbe servire all’affermazione dell’identità transgender. «Dalle prime gonne per uomini create da Jean-Paul Gaultier negli anni Ottanta — ricorda la storica — si è creata una nuova sensibilità tra giovani uomini che chiedono di impadronirsi di questo capo vestiario. Credo sarebbe un bene tornare all’idea che è unisex». Gonna, dal latino gunna, in origine era infatti una veste, anche maschile, che copriva il corpo. La parola gonna, fa notare la storica, eredita tuttora una connotazione negativa. Qualche mese fa, il cardinale André VingtTrois aveva commentato a proposito del sacerdozio femminile: «Non basta indossare una gonna, occorre avere qualcosa nella testa». Dopo quella battuta, delle cattoliche progressiste si sono unite per denunciare pubblicamente l’oscurantismo nella Chiesa. Hanno creato il “Comitato della Gonna”. Là sotto c’è davvero un mondo. In PROFUMERIA e nei SUPERMERCATI © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 MAGGIO 2010 CULTURA* Una vedova va al cimitero ogni giorno fino a quando non muore sulla tomba del marito. Titolo: “Tanto va la gatta al lardo” È uno dei motti fulminanti dell’autore di “Centocinquanta la gallina canta”, maestro del nonsense, precursore di Ionesco, umorista per natura. Ora un epistolario rivela il suo privato: l’ansia per un libro in uscita, la stima di Montale, il timore di Cardarelli, la collaborazione con Zavattini CAMPANILE Le lettere assurde PAOLO MAURI a sera del 17 ottobre 1930 andò in scena al teatro Manzoni di Milano L’amore fa fare questo ed altrodi Achille Campanile. Un maestro si traveste da bambino per meglio insegnare a un altro bambino. La regia era di Guido Salvini e a recitare c’erano, tra gli altri, Vittorio De Sica, che di Campanile era parente, e Giuditta Rissone. Una buona parte del pubblico — il teatro era stracolmo — cominciò a rumoreggiare, gli altri applaudivano. Raccontano le cronache che persino i carabinieri di servizio discutessero tra di loro. A un certo punto qualcuno vede Pirandello in un palco, insieme al drammaturgo Dario Niccodemi (La nemica etc). C’è una vera ovazione per Pirandello. Campanile si stufa, si affaccia alla ribalta e grida: ma l’autore sono io! Viene sommerso dai fischi. Raccontò poi che Pirandello lo aveva guardato con odio e Pirandello stesso, scrivendo a Marta Abba, ricordò l’episodio, parlando di «fiasco colossale di quella scipita buffonata del Campanile» e degli applausi rivolti a lui. La rappresentazione fu interrotta. Tre anni dopo, al Barberini di Roma, gli attori della compagnia Za Bum n.8 si rifiutarono di continuare dopo il primo atto, mettendosi a recitare un’altra commedia. Una cosa mai vista. Questa volta Campanile ricevette la solidarietà da diversi colleghi. Anche da Pirandello. Il teatro di Campanile, che Ionesco riconobbe tra i propri padri nobili, non era per tutti. Nel ’25 in via degli Avignonesi a Roma Anton Giulio Bragaglia gestisce il Teatro degli Indipendenti e chiede un testo a Campanile: vien fuori di getto Centocinquanta la gallina canta. Chi ama l’opera buffa e il “riso scemo” L RICORDI A destra: Campanile a dieci mesi; con la moglie Giuseppina Bellavita Sopra, il padre dello scrittore, Gaetano Campanile Mancini nel 1920 Il genio folle nascosto nella battuta di Campanile può ora seguirne la lunga vicenda attraverso l’epistolario dello scrittore, Urgentissime da evadere, ben curato da Silvio Moretti e Angelo Cannatà, per l’editore Aragno (528 pagine, 25 euro), con l’avvertenza che il Nostro scriveva lettere malvolentieri e dunque qui si ritroveranno soprattutto le lettere dei suoi principali interlocutori. Che furono molti e, se così possiamo dire, sceltissimi, a testimonianza del fatto che Campanile era una presenza importante nel panorama letterario italiano, anche prima che le nuove generazioni lo riscoprissero a partire dal ’71, quando Einaudi pubblicò in volume i suoi lavori teatrali. Lo leggevano in tanti: Cecchi, Baldini, Ojetti, Montale, D’Amico… Nel ’27 Enrico Dall’Oglio gli pubblica il primo romanzo Ma che cosa è quest’amore?. Andrà a ruba e sarà anche ben recensito da Pancrazi sul Corriere. Il 10 giugno l’editore lo rassicura, presiederà lui stesso all’ultima revisione dell’opera, comunque «se Ella ci tiene la prego di essere a Milano lunedì mattina per licenziare le prime novantasei pagine prima d’andare in macchina». Come tutti gli autori, anche Campanile segue con apprensione la sua creatura. Il 18 luglio (il romanzo era uscito da tre giorni) l’editore cerca di rasserenarlo: «Ho ricevuto tutto: l’espresso del 14, la lettera iraconda del 15, il telegramma pacificatore del giorno 16, la successiva lettera del giorno 16…». Con Dall’Oglio ci sarà poi una frattura, ricucita solo moltissimi anni dopo. Campanile passerà a Treves, poi a Mondadori e infine a Rizzoli, per citare solo i suoi principali editori. Ma in molti lo cercano e lo corteggiano per avere qualcosa di suo. Valentino Bompiani che pubblica un Almanacco letterario gli chiede, nel ’27, qualcosa di originale. E gli suggerisce «una serie di “inter- Repubblica Nazionale DOMENICA 16 MAGGIO 2010 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 FOTO DI GRUPPO Sotto, Campanile (il primo da sinistra) con i colleghi della redazione del Travaso; a sinistra, una lettera di Malaparte La novità Franck Provost: una gamma di shampoo e balsamo con formule professionali a un prezzo accessibile. NUOVO FORMATO PROFESSIONALE 750 ml PREZZO ACCESSIBILE * CARTEGGI A sinistra, un biglietto scritto da Campanile a Franco Zeffirelli; sopra, una lettera di Vincenzo Cardarelli Tutte le immagini di queste pagine sono tratte dal volume Urgentissime da evadere a cura di Silvio Moretti e Angela Cannatà (Aragno Editore) viste fulminanti” apocrife di non molte ma vivaci battute». Campanile, introdotto dal padre Gaetano alla Tribuna come correttore di bozze, ha ben presto rivelato le sue doti di battutista. Arriva la notizia che una vedova, solita a recarsi ogni giorno sulla tomba del marito, muore anch’essa proprio lì. E il giovane Campanile titola: «Tanto va la gatta al lardo», sicché il critico teatrale Silvio D’Amico, che curava la terza pagina del giornale, commenta: questo è un pazzo o un genio. Probabilmente Campanile era un po’ tutte e due le cose. L’assurdo richiede genialità e un po’ di follia e non a tutti la cosa piaceva. Vincenzo Cardarelli lo mette in guardia: «Caro Campanile, leggo sulla Fiera letteraria il pezzo che mi riguarda e mi compiaccio di constatare come finalmente lei sia riuscito a scrivere su me qualcosa di garbato. Io sono un suo vecchio estimatore e in qualche momento mi sono persino illuso che noi fossimo diventati amici. Veda di non turbare in seguito, se le sarà possibile, con scherzi avventati, questi miei sinceri e umanissimi sentimenti a suo riguardo…». La lettera è del giugno 1927: Campanile ha ventotto anni, Cardarelli una quarantina. Il 27 ottobre 1930, Lando Ferretti, capo ufficio stampa di Mussolini, lo informa che sarà ricevuto da “S. E. il Capo del Governo” a palazzo Venezia lunedì 10 novembre alle ore 17. Quando il fascismo cadde, Campanile ironizzò sul fatto che Mussolini era stato capace di governare contro quaranta milioni di italiani: non se ne trovava più uno che fosse stato fascista. Ma fascista non era stato nemmeno lui: si considerava un apolitico. Gli capitò invece, molti anni dopo, di lavorare per un quotidiano comunista, lui che proprio comunista non era e non si sen- tiva. Era Milano-Serache nel ’49 lo assunse come inviato. Ricordò nei suoi diari che quel giornale era ben strano e il direttore non aveva autorità sui suoi redattori e nemmeno sugli uscieri: anzi un usciere, essendo capocellula del partito, dava del tu al direttore e controllava gli articoli facendo fare delle modifiche. Informato della cosa, Campanile teneva d’occhio un usciere, ma era… quello sbagliato. Come inviato speciale Campanile, che aveva lavorato per La Gazzetta del Popolodi Ermanno Amicucci e per La Stampadi Curzio Malaparte, si era anche trasformato in giornalista sportivo seguendo il Giro d’Italia e il Tour. Naturalmente a modo suo. Così come molto campanilesca è l’intervista al Mostro di Loch Ness che soffre di solitudine e alla fine muore. Fittissima è la corrispondenza con Zavattini col quale condivise la direzione del Settebello, settimanale umoristico che insidiava il Bertoldo. C’è anche una lettera del professor Di Lauro, già insegnante di Campanile al liceo ginnasio Mamiani di Roma. A lui l’undicenne Achille portò il quaderno con la tragedia di Rosmunda messa in versi. Alboino la invita a bere nel cranio di suo padre e lei: «Caro Alboino/ bere non posso/tutto quel vino/dentro quell’osso». Oggi si fanno anche convegni sul nonsense e l’editore Salerno ha appena stampato gli atti di un simposio tenutosi a Cassino tre anni fa. C’è anche un contributo su Campanile di Barbara Silvia Anglani, che ricorda un Campanile lettore dell’assurdo nella realtà. Ecco la sua reazione alla morte di un bambino: «Ma guarda un po’ quel bambino, così piccolo e già morto… È ammirevole a quell’età, non lo neghiamo: è un caso di precocità sorprendente». € 6,99 Dimensioni reali del prodotto In PROFUMERIA e nei SUPERMERCATI * Prezzo suggerito. Il rivenditore è libero di applicare il prezzo desiderato. © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA la memoria Patrioti DOMENICA 16 MAGGIO 2010 Si chiamava Antonia Masanello, con il marito raggiunse le camicie rosse, si spacciò per maschio e combatté dalla Sicilia al Volturno guadagnandosi il grado di caporale Poi la morte per tisi e un lungo oblio. Fino a quando il suo paese, in Veneto, ne ha recuperato la storia per raccontarla nell’anniversario dell’Unità d’Italia La guerriera di Garibaldi l 23 maggio del 1862 usciva su Lo Zenzero, «giornale politico popolare» di Firenze, un articolo, breve ma commosso, intitolato semplicemente Antonia Marinello. L’anonimo articolista si rivolgeva ai «Popolani miei carissimi». Domandava loro se avessero visto «jeri l’altro sera quella bara che portava un cadavere all’ultima dimora», e se sapessero chi fosse la persona morta: «...dissero una Garibaldina... Non sapete altro?... Dunque ascoltate». Chi ascoltò, e lesse, apprese che la morta era Antonia Marinello, «che appena attaccata la guerra nell’Italia Meridionale assieme a suo marito corse I Sulla sua tomba questi versi: “Era bella, era bionda, era piccina ma avea cuor da leone e da soldato” colà nelle file del Generale Garibaldi». Una vivandiera, dunque? «No, vi ho detto che combatté, che vuol dire che col suo fucile in spalla fece tutto quel che fecero quei generosi giovani», dalla Sicilia al Volturno. E lo fece sotto mentite spoglie, facendosi passare per il fratello del consorte, dato che l’arruolamento delle donne non era consentito. Così, per molto tempo, «i suoi camerati non si erano avveduti, che essa era una femmina». Antonia, o Tonina, esule veneta, era morta due giorni prima di tisi a Firenze, dove abitava con il suo compagno in una «delle più umili casette che sono alla piazza de’ Marroni». Di lì a poco, in luglio, avrebbe dovuto compiere ventinove anni. Al suo funerale andarono in tanti. E a quella folla dovette unirsi anche Francesco Dall’Ongaro, uno dei poeti più amati del Risorgimento. Non molto tempo dopo dedicò un canto struggente, musicato in seguito da Carlo Castoldi, alla giovane che aveva indossato la camicia rossa dell’Esercito Meridionale di Giuseppe Garibaldi. Scrisse: «L’abbiam deposta la garibaldina / all’ombra della torre a San Miniato». E ancora, parafrasando Dante: «Era bella, era bionda, era piccina, / ma avea cuor da leone e da soldato». I versi vennero incisi sulla lapide nel cimitero delle Porte Sante di San Miniato. Di Tonina, come ormai la chiamavano affettuosamente, parlò persino un quotidiano di New Orleans, The Daily True Delta. Il 10 agosto di quel 1862 raccontò di «an italian heroin», un’eroina italiana, fra cronaca e leggenda. Poi su di lei cadde il silenzio. E venne dimenticata. L’oblio durò a lungo. Fino a quando a Cervarese Santa Croce, un paese in provincia di Padova, tra il fiume Bacchiglione e i Colli Euganei, Giovanni Perin, poeta «per diletto» in lingua veneta, suo figlio Piero, scultore, entrambi scomparsi, e soprattutto Alberto Espen, storico e bibliotecario, hanno cercato di riportare un po’ alla luce la storia della garibaldina. Il suo vero nome era Antonia Masanello. Nata a Cervarese nel 1833 in una famiglia contadina, aveva cominciato giovanissima a cospirare contro gli austriaci con l’uomo con il quale si sarebbe sposata, che verosimilmente si chiamava Marinello. Pare che i due fossero stati incaricati di aiutare chi voleva espatriare dal Lombardo-Veneto e raggiungere il Piemonte. Non si ha notizia di quando Tonina, il suo compagno e la loro figlioletta, che nel frattempo era nata, passarono a loro volta il confine. Sorvegliati dalla polizia, sospettati di professare idee liberali e mazziniane, prossimi LA PARTENZA Nel maggio 1860, Antonia Masanello (raffigurata qui sopra) e il marito si imbarcano a Genova alla volta della Sicilia L’INQUADRAMENTO Antonia si arruola come Antonio Marinello e viene inquadrata nel terzo reggimento della Brigata Sacchi LE BATTAGLIE Dalla Sicilia al Volturno, Antonia partecipa alle battaglie al seguito di Garibaldi. Ottiene il brevetto da caporale LA FINE Congedata con onore, Antonia si trasferisce con marito e figlia a Firenze. Muore povera nel 1862, a ventinove anni a essere arrestati, nei primi mesi del 1860 riuscirono a riparare a Modena. Si stava preparando l’impresa garibaldina in Sicilia. Lasciata la figlia a Modena da un amico, Tonina e il marito corsero a Genova. Lì seppero che erano appena salpati il “Piemonte” e il “Lombardo”. Non si persero d’animo. S’imbarcarono nel giro di qualche settimana, forse con la spedizione guidata dal pavese Gaetano Sacchi, una delle tante che avrebbero portato rinforzi e armi a Garibaldi. Lei si arruolò come Antonio Marinello e venne inquadrata nel terzo reggimento della Brigata Sacchi, facendo tutta la campagna di liberazione. Fu la sola donna garibaldina del 1860, oltre alla moglie di Francesco Crispi, che aveva seguito i Mille dallo scoglio di Quarto? Per quanto concerne le truppe regolari, non si sa. Vestiva la divisa delle Guide, ma senza nascondere la sua bellezza, la contessa Martini Giovio della Torre, che si era invaghita del Generale. C’era qualcuno che conosceva la reale identità di Tonina? Si dice che ne fossero a conoscenza soltanto il maggiore Bossi e il colonnello Ferracini, altre fonti aggiungono Francesco Nullo, bergamasco, il «più bello dei Mille», e lo stesso Eroe dei Due Mondi, che avrebbero visto sciogliersi i suoi capelli biondi, dapprima raccolti sulla nuca, nel furore di uno scontro. Rammentò Lo Zenzero che Tonina «quando gli toccava o gli veniva ordinato montava le sue guardie, faceva le sue ore di sentinella a’ posti avanzati — il suo servizio di caserma; insomma faceva tutto ciò» con «disinvoltura e coraggio». Nella sua monografia su Cervarese Santa Croce, Espen afferma che gli ufficiali dicevano che Tonina «avrebbe potuto comandare un battaglione se la sua condizione di donna non gliel’avesse impedito». Vennero la gran battaglia del Volturno, il trionfo di Garibaldi, di Bixio, di Cosenz, di Medici, di Dezza, di Türr, dei picciotti siciliani, di Sacchi. La garibaldina ottenne, il brevetto da caporale e il congedo con onore. Arrivò il giorno della smobilitazione. I piemontesi incassa- rono l’Italia fatta dalle camicie rosse e le mandarono a casa. Tonina e il marito andarono a prendere la loro bambina, trasferendosi a Firenze. Vissero in povertà. A un certo punto lei si ammalò. Era una malattia, disse Lo Zenzero, «acquistata nelle fatiche della guerra». Spirò «nelle braccia del marito lasciandolo nel pianto in terra d’esilio». Ada Corbellini, una poetessa di Parma deceduta anche lei giovane, a ventisei anni, in una notte di luglio del 1863 compose una lirica in cui espresse il desiderio di essere sepolta accanto alla tomba di Tonina, a San Miniato. Ora le spoglie della garibaldina non sono più all’ombra della torre. Nel 1957 vennero traslate nel cimitero fiorentino di Tre- “Poteva comandare un battaglione, se la sua condizione di donna non glielo avesse impedito” spiano. Aveva dato la vita per fare l’Italia. E ovviamente l’Italia la dimenticò. Solamente Cervarese Santa Croce, il suo paese, la ricorda. Nella biblioteca comunale c’è una scultura, opera di Piero Perin, che ne immagina il viso. È il volto della “Masenela”, come si dice in veneto, che Giovanni Perin, il papà dell’artista, aveva descritto così: «Tra i tanti eroi della nostra storia/ registrar dovemo la Masenela/ per conservar viva la memoria/ de sta gueriera dona, forte e bela». © RIPRODUZIONE RISERVATA FOTO SCALA MASSIMO NOVELLI Repubblica Nazionale 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 MAGGIO 2010 SPETTACOLI Tre americani su cento hanno origini ebraiche ma tra i comici di mestiere il rapporto è ottanta su cento. Ora un libro di Lawrence J. Epstein, con la prefazione di Moni Ovadia, spiega perché lo straziante sorriso del ghetto ha conquistato il mondo 1 2 Fanny Brice Milton Berle Non mi sono mai piaciuti gli uomini che ho amato, e non ho mai amato gli uomini che mi sono piaciuti A teatro ho visto una commedia così brutta che da una poltrona si è alzato un signore che ha gridato: “C’è un attore in sala?” 1 FANNY 6 I FRATELLI BRICE Sopra, l’attrice interpreta Baby Snooks nel 1949 2 MILTON MARX 5 Chico, Harpo, Groucho e Zeppo L’attore al microfono della Cbs nel 1944 5 ED BROOKS 7 Il regista del film di culto Frankenstein Junior LA COPPIA SWING WYNN Il comico veniva chiamato “The Perfect Fool” dal titolo di un film Gracie Allen e George Burns 7 nel 1935 VITTORIO ZUCCONI i quante lacrime è inzuppato il sorriso del ghetto, di quante paure è lastricato il sentiero della risata che dall’Europa dei pogrom ha raggiunto e conquistato i palcoscenici di New York, gli studios di Hollywood. Eppure è in quella dolorosa speranza trascinata attraverso l’Atlantico nelle stive fetenti dei vapori, nei termitai umani della Lower East Side di Manhattan il segreto per capire che cosa abbia spinto tre generazioni di immigrati ebrei a diventare comici, a soffrire per far ridere e dunque farsi accettare e amare. Magari soltanto per cercare quella che Henry Bergson, nel proprio saggio sulla risata, chiamava «la passeggera anestesia del cuore». Oggi sembra normale che nell’America che ride, tanti uomini e donne che la intrattengono abbiano nomi ebrei o li nascondano dietro pseudonimi “anglo”. Da Woody (Konigsberg) Allen ai fratelli Marx (il loro vero nome), dalla regina dell’umorismo femminile più feroce Joan Rivers (Rosenberg) all’immenso Mel Kaminski, in arte Mel Brooks, nei cento anni trascorsi fra lo sbarco nel 1899 a New York della famiglia di Benjamin Meyer, che divenne il patriarca della comicità kosher facendosi chiamare Jack Benny, e il trionfo di Jerry Seinfeld, che orgogliosamente usò il proprio cognome come bandiera del suo show (scritto da Larry David, altro ebreo) nel 1998, c’è una storia di risate strazianti. Un viaggio di ansie e di dilemmi culturali e umani che finalmente un incantevole saggio, Riso kosher di Lawrence J. Epstein (titolo originale: The Haunted Smile, il sorriso tormentato), tradotto da Sago- 3 MEL BERLE D Ridere Kosher FOTO GETTY IMAGES 6 ma editore, racconta. Fu per primo il New York Timesad avvedersi in una inchiesta del 1979 di questo dato sbalorditivo. In una nazione dove erano appena il tre per cento, gli ebrei erano l’ottanta per cento dei comici in attività, dai clubbini di spogliarello a Chicago agli hotel casinò di Vegas, dal lungomare di Atlantic City agli studi della televisione. Passando per gli aberghi resort dei monti Catskills, quei mega hotel dove un cameriere chiamato Jerry Lewis, nato Levitch, scoprì la propria capacità di far ridere inciampando e rovesciando un vassoio di cibo kosher addosso al rabbino che recitava le preghiere del “Shabbes”, del sabato. Rise anche il rabbino. Dipanare la matassa di questo sensazionale successo è impossibile e rischioso, perché tesse ragnatele di luoghi comuni, di generalizzazioni e sotto sotto di razzismo, che alla fine non spiegano come generazioni di uomini e di donne abbiano saputo solleticare il “funny bone”, l’osso della risata. Se c’è un filo rosso che lega l’umorismo familiare e affettuoso di un Myron Cohen che sfotteva la mamma oculata massaia («andava dal fruttivendolo e chiedeva: quanto vengono due cetrioli? Cinque cent. E uno solo? Tre cent. Bene, mi dia quello da due») alla ribellione autodistruttrice del tormentato Leonard Schneider, Lenny Bruce, primo e unico comico satirico a essere condannato al carcere per scurrilità, questo filo è nella spia di quei nomi d’arte sovrapposti al nome autentico. Il dramma universale dell’immigrato, che si contorce sempre fra i desideri opposti di integrarsi e di mantenere la propria identità, si tende fino a spezzarsi, come nel caso di Lenny Bruce Schneider, morto in rovina per overdose. Il percorso della comicità, la ricerca di quella risata che significa accettazione («semplicemen- Repubblica Nazionale DOMENICA 16 MAGGIO 2010 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 L’autoironia, un passe-partout nella società del melting pot MONI OVADIA orizzonti e prospettive, che inaugurava nuovi e dirompenti strumenti di comunicazione come radio, cinema e televisione. La prima società di massa, la prima società dello spettacolo, il primo e gigantesco melting pot, con tutte le sue angosce, insicurezze ed esplosive contraddizioni, aveva un bisogno vitale di qualcuno che esorcizzasse i conflitti, le intolleranze, le violenze incendiarie per farle deflagrare nelle risate invece che nelle aggressioni. I comici e gli umoristi ebrei offrirono come “vittime” sacrificali dei loro micidiali strali se stessi e i buffi e sgangherati tipi tragicomici della loro gente, con i guai e le disavventure che ne scandivano l’esistenza. Progressivamente insegnarono alla società statunitense, minoranze e maggioranze, a ridere di se stessa, contribuendo così a creare un territorio culturale ed esistenziale comune. I nomi di questi “eroi” della comicità sono troppo noti perché si debba elencarli, fanno parte della topografia sociale e culturale degli Stati Uniti, ma anche di quella di tutto l’Occidente. Il loro spirito è entrato anche nel paesaggio interiore di tutti noi e, in qualche misura, ha contribuito a formarci. egli Stati Uniti l’intera temperie culturale del Novecento è stata fortemente influenzata dalla minoranza ebraica, ma per ciò che attiene al mondo dello spettacolo e ancor di più a tutte le forme del comico e dell’umoristico, la vastità della presenza ebraica ha dell’inverosimile e persino del miracoloso [...] L’umorismo nel mondo ebraico (ma non solo nel mondo ebraico) è sempre stato ben di più e ben altro che un modo per divertirsi e ridere, è stato una Weltanschauung, una filosofia, uno strumento ermeneutico e una delle forme del pensiero sociale che ha permesso agli ebrei di attraversare i momenti più tragici della loro esistenza senza che la loro identità ne venisse demolita. Il tratto saliente dell’umorismo e della comicità ebraica è l’autodelazione, il ridere di se stessi, dei propri guai, delle proprie angosce e paure anche sul limitare dell’abisso o della tomba, mai cedendo alla logica della volgarità o della violenza. Questa attitudine è nata dalla convergenza di tre particolari fattori: esilio, sradicamento, persecuzione, condizioni esistenziali tutte difficili ma foriere di eccezionali sollecitazioni. Un’attitudine, si diceva, divenuta una seconda natura e un passe-partout per l’accesso in una società in piena e dinamica trasformazione, ricca di N 3 Mel Brooks Per ogni dieci ebrei che si battono il petto, Dio ne ha creato uno che diverta quelli che si disperano: sono io CANTOR 8 IL DUO STORICO 9 © RIPRODUZIONE RISERVATA Harpo Marx 8 EDDIE L’attore in una scena di Whoopee film del 1930 © Moni Ovadia, 2010 Jerry Lewis e Dean Martin in una foto del 1955 te non si può odiare chi ti fa ridere e questo i comici lo capiscono subito», dice l’italoamericano Jay Leno) offre un surrogato di sicurezza e di calore a chi ben poco ne conobbe. Jackie Mason, nato Jakob Moshe Maza, portava questo calvario dell’identità anche dentro se stesso, in famose satire della psicoanalisi: «Il mio analista mi ha detto che mi farà trovare il vero me stesso. Bravo dottore, e se poi scopro che non mi piaccio lei mi restituisce i soldi?». Lui aveva imparato a calcare la mano sul proprio ebraismo, forzando l’accento yiddish, il tedesco reinventato dalle comunità ebree nell’Europa Centrale e Orientale, fino a farli diventare parte dell’inglese americano d’ogni giorno. Parole come schlepp, faticare, meshugge, pazzerello, schlock, patacca, schmuck, minchione, sono passate dai ghetti di Varsavia ai club di Manhattan. E lo schlemiel, l’inetto, l’eterno perdente, è il personaggio classico della cultura popolare ebraica che Woody Allen ha trasferito nei suoi monologhi e poi nei suoi film. Proprio in uno dei capolavori di AllenKonisberg, Zelig, l’angoscia dell’identità impossibile raggiunse la propria maturità, con l’uomo che è tutto per tutti e dunque nessuno. L’autoironia, l’autoanalisi, l’autodeprecazione sono state l’arma che ha reso tanti di questi artisti amati e accettabili, come ora sta accadendo con una nuova generazione di comici afroamericani. Nella spietata autocommiserazione («chi non sa fare le cose le insegna, chi non sa insegnare insegna ginnastica, chi non sa fare né insegnare veniva scelto come professore nella mia scuola», recitava Woody) c’era la lama di una satira sociale accettabile e non offensiva soltanto perché a doppio taglio, che ferisce chi la impugna prima di chi la riceve. Ma sempre, anche nei più giovani come Jerry Seinfeld, con il sospetto che sotto la pelle si nasconda la carne vi- 9 Come ci si può divertire in una festa in cui le birre sono calde e le donne sono fredde? Eddie Cantor Jerry Lewis Il matrimonio è tentare di risolvere in due problemi che non sarebbero mai sorti se fossi rimasto da solo La felicità non esiste Di conseguenza non ci resta che provare ad essere felici senza Zelig, lo strano caso dei comici ebrei Riso kosher di Lawrence J. Epstein (Sagoma Editore, trad. di Alessandra Olivieri Sangiacomo, 350 pagine, 18 euro) La prefazione è di Moni Ovadia. Sagoma partecipa al Salone del libro di Torino Woody Allen - Dottore, mio fratello crede di essere una gallina - Perché non lo interna? - E poi le uova chi me le fa? Groucho Marx Si può ridere del passato purché si sia abbastanza fortunati da sopravvivervi IL LIBRO 4 va. In un famoso episodio del dentista che si converte all’ebraismo soltanto per poter raccontare le barzellette sugli ebrei senza passare per antisemita, quando il medico chiede a Seinfeld se le sue battute lo offendessero come ebreo, Jerry risponde asciutto: «No, lei mi offende come comico». Nessuno dei suoi predecessori avrebbe azzardata una risposta che insieme sferza il dentista idiota e rifiuta la suscettibilità etnica e culturale che la barzelletta razzista dovrebbe far scattare. I suoi vecchi, quelli che battevano il circuito delle vacanze con blande prese in giro dei tic e delle patologie familiari («il becchino chiama il genero della donna morta e chiede: dobbiamo imbalsamare, cremare o seppellire sua suocera? Faccia tutte e tre, per non correre rischi») o che ripetevano i classici sketch coniugali cercavano l’inoffensività come rifugio. Per le femmine, le regine della comicità kosher, matrioske che portavano e portano dentro di sé la doppia condizione alienante di ebree e di donne, l’umorismo non poteva che essere ancora più graffiante e cattivo. Joan Rivers, nata Rosenberg, caricatura della vacua signora dello shopping e della vanità ingioiellata, reci- ta con gusto la parte della sguaiata ricca e sfacciata: «In fatto di relazioni sessuali con gli uomini, sono molto selettiva: se non respirano, non li prendo». Mentre Roseanne Barr, rarissima ebrea cresciuta nello Utah dei mormoni, trovò un immenso successo nella parodia della “jewish mother”, della mamma e casalinga bruttina, sovrappeso, ansiosa ma insoddisfatta di fronte a un marito indifferente e assente. «Non ho ancora capito quale sia il mio lavoro — recitò in un episodio della sua serie Roseanne — ma se quando mio marito torna a casa trova tutti i bambini ancora vivi, credo di avere fatto il mio dovere». Non c’era bisogno di essere ebrea, di essersi addestrati alla polemica con il Signore nelle scuole talmudiche, di avere vissuto il cammino della lacrime da Leopoli o Byalystock perché le donne capissero lo humour acre della Barr. Il filo della comicità tessuto da questi artisti è divenuto parte dell’arazzo americano. Il Mel Brooks che si permette di schiaffeggiare la sussiegosa, incestuosa “intellighenzia” artistica di Manhattan con il suo meraviglioso The Producers,nel quale un’orrenda apologia in forma musical di Hitler conquista il pubblico, si permise di inter- 4 WOODY ALLEN 10 Il primo film, Prendi i soldi e scappa è del 1969 I TRE MARMITTONI Larry Fine, Moe Howard e Curly 10 Howard pretare in una parodia dei western un grande capo Sioux che parlava yiddish stretto e senza sottotitoli. Ma ormai, cento anni dopo la marea umana che si riversò sui pontili di Manhattan, prima che fosse costruita Ellis Island, quando in meno di trent’anni il numero dei residenti ebrei di New York passò da ottantamila nel 1885 a un milione e mezzo nel 1910, anche il riso amaro è divenuto “mainstream”, parte della corrente maestra. Seinfeld è, come già lo era Allen, più il classico nevrotico newyorchese egoista, il Peter Pan della generazione post baby boom, lontano davvero un secolo dai “tenements”, dei falansteri dove future stelle come George Burns vivevano rubando la frutta dalle bancarelle e poi rivendendola sottocosto alle loro mamme. I loro padri, fonte di infinito materiale per i monologhi e i copioni, («ci sono tanti comici ebrei perché ci sono stati tanti padri ebrei», scherzava ma non troppo Carl Reiner, il regista) quasi sempre abietti fallimenti come il padre dei Marx, sarto soprannominato “Taglia Sbagliata” perché prendeva tutte le misure a occhio e le sbagliava, sono stati impiegati, funzionari, professionisti come i loro colleghi anglo, italiani, ispanici o irlandesi. Lo yiddish è un ricordo di famiglia, ormai diluito nello slang. Ci sarà certamente una quarta generazione di comici popolarissimi con cognomi ebraici non più mimetizzati, ma faranno ridere perché faranno ridere, perché ci sarà sempre qualcosa, qualcuno da sfottere, per l’orrore degli assolutisti e dei potenti. Ma la lezione di questo secolo di risate amare sarà entrata nel tessuto di una cultura libera e multietnica: imparare a ridere con gli altri, non degli altri. © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 MAGGIO 2010 i sapori Evoluzione Intolleranze alimentari, diete tiranne, scarsa qualità delle pagnotte industriali hanno aperto la strada a una molteplicità di surrogati del cibo per antonomasia, sempre più presenti sugli scaffali dei supermercati e sulle tavole di famiglia. E i nuovi chef 24% Le fibre in una fetta Wasa si sono affrettati a cogliere la moda, trasformando questi “rimpiazzi” in primattori dell’alta gastronomia Post Pane LICIA GRANELLO 500mila I celiaci in Italia 28 Le calorie in una cialda di riso erauna volta il pane. E c’è ancora, sempre più costretto in categorie che non gli dovrebbero appartenere. Da una parte, le pessime michette precotte, che nel giro di poche ore si trasformano in corpi contundenti o chewingum di farina. Dall’altra, i carissimi pani super salutari tutti fibre, dall’alto peso specifico e irrimediabilmente punitivi nel gusto. In mezzo, le forme profumate e ariose dei pani d’autore, lievito naturale e forno a legna. Irresistibili. È per molti versi colpa delle cyber-pagnotte, se il presente-futuro del pane è punteggiato di cialde e sfogliette, schiacciatine di crusca e snack integrali, grissini light e cereali estrusi. Perché negli anni, la scelta degli ingredienti — farina e lievito, in primis — ha subito un crollo. Per spendere meno, ovviamente, ma anche e soprattutto per contrarre al minimo i tempi di fermentazione. Gran parte delle sostanze usate per standardizzare la produzione — dagli acceleratori di lievitazione agli anti-muffa — non sono rintracciabili dopo la cottura in forno. Ma il nostro corpo, purtroppo le avverte fin troppo bene. Così, intolleranze e allergie sono cresciute in maniera esponenziale, ben al di là delle ipersensibilità di cui statisticamente soffre una minima parte della popolazione. E allora, via libera ai piccoli grandi sostituti del pane che fu. A metà tra ansia da imminente prova-costume e necessità medica, i sacchettini leggiadri e impalpabili confinati fino a qualche anno fa nei tristanzuoli negozi di dietetica, oggi (anche grazie agli investimenti dei grandi marchi) campeggiano negli scaffali della grande distribuzione. Qualità in ribasso e nutriceutica — il business di inizio millennio che lega industria farmaceutica e alimentare — non danno scampo: da una parte, bocconcini e ciabatte men che mediocri, dall’altra il rassicurante post-pane curativo e dietetico. Certo, la produzione massificata non giova né all’immagine né alla sostanza dei nuovi prodotti: utilizzare grani antichi, lavorare le farine con macine a pietra, capaci di preservare la parte germinativa, impastare con acque surgive, fa la differenza anche in alimenti nati più per surrogare che per ingolosire. In più, basterebbe leggere le etichette per sapere che la quota calorica è quasi la stessa: semplicemente, non siamo abituati a pesare il pane, né a pensarlo come alimento a sé stante. Non a caso, Milano — città-regina di diete e show-food — getta nella spazzatura ogni giorno quasi due quintali di pane. Un dato che, allargato all’Italia intera, farebbe lievitare lo spreco a quasi 300mila tonnellate l’anno, cifra insopportabile nel Paese dove cinquant’anni fa si incidevano a croce le forme da infornare per sottolinearne la sacralità (e per migliorare la lievitazione). Ancora una volta, la nuova cucina riesce a legare nuove tendenze e alta gastronomia. Se assaggiate i grissini di carruba di Matias Perdomo (Pont de ferr, Milano) o le cialde di mais di Antonino Cannavacciuolo (Villa Crespi, Orta, Novara), scoprirete che il post-pane può riuscire attraente e goloso quanto il suo antenato. Basta non pretendere di fare scarpetta. C’ Cialde, grissini e cracker largo ai dietetici © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale DOMENICA 16 MAGGIO 2010 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 Villareggia (To) itinerari Terracinese trapiantato a New York, Roberto Caporuscio è il pizzaiolo-patron di Kesté, pizzeria d’autore nel cuore del West Village Tra le sue ricette più popolari, la focaccia realizzata con un mix di farine senza glutine Roma Monterenzio (Bo) Al confine tra le province di Torino e Vercelli, terra-madre delle risaie piemontesi, si stanno diffondendo piccole realtà agrobiologiche Produzione di risi integrali e, in scia, cialde, gallette, grissini Nella capitale, l’arte bianca di tradizione ebraica si esprime nei forni certificati Kosher, dove la stretta osservanza della Torah si coniuga con pruduzioni sane e golose, e dove il pane azzimo regna sovrano Nella campagna emiliano-romagnola esistono alcune tra le realtà biologiche più importanti d’Italia. I “coltivatori di biodiversità” trasformano i cereali non raffinati, macinati a pietra, in snack e tarallini DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE VILLA MATILDE Viale Marconi 29, Romano Canavese Tel. 0125-639290 Camera doppia da 175 euro, colazione inclusa MORPHEUS ROOMS Via Palermo 36 Tel. 06-48913750 Camera doppia da 80 euro, colazione inclusa PALAZZO LOUP Via S. Margherita 21, Loiano Tel. 051-6544040 Camera doppia da 120 euro, colazione inclusa DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE GARDENIA Corso Torino 9, Caluso Tel. 011-9832249 Chiuso martedì, menù da 45 euro GLASS HOSTARIA Vicolo de' Cinque 58 Tel. 06-58335903 Chiuso lunedì, menù da 40 euro MARCONI Via Porrettana 29, Sasso Marconi Tel. 051-846216 Chiuso domenica sera e lunedì, menù da 50 euro DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE LA FINESTRA SUL CIELO Via Rondissone 26, Villareggia Tel. 0161-455511 BOCCIONE Via del Portico d’Ottavia 1 Tel. 06-6878637 ALCE NERO E MIELIZIA Via Idice 299, Monterenzio Tel. 051-6540211 Cialde Soffietti Wasa Riso, mais, farro, in versione sbiancata o integrale, con o senza sale: solo cereali soffiati nei dischi rotondi e leggerissimi. Nella versione dolce, metà superficie è cosparsa di cioccolato bianco, latte e fondente Hanno l’aspetto di piccole sfere impalpabili, le palline di mais soffiato, commercializzate in sacchetti tipo snack. Variante con verdure essiccate ed erbe per aumentare l’effetto drenante Nate in Svezia nel 1919, le croccanti fette rettangolari di segale integrale (da oltre 10 anni di proprietà Barilla) sono diventate un marchio-simbolo della moderna dietetica mondiale, grazie al contenuto di fibre proteiche È senza lievito (dal greco a-zymos) il pane delle tradizioni rituali ebraica (matzah) e cristiana (l’ostia eucaristica). Nella ricetta originaria, l’impasto di acqua e cereali integrali viene cotto su pietra o a legna Azzimo Tortillas Chapati Grissini di riso Cracker di miglio Il pane messicano, fatto di sola masa harina (finissima farina di mais) e acqua calda, steso sottile e cotto in padella, si trasforma in leggerissimi triangoli da infornare con formaggio e peperoni piccanti (nachos) Le leggerissime focaccine indiane di farina integrale (ma anche miglio, orzo, grano saraceno), acqua e sale (o zucchero, nella versione dolce) vengono cotte su piastra di ferro unta con burro chiarificato (ghee) Niente glutine nei friabili bastoncini messi a punto come sostituti del pane per la dieta quotidiana di celiaci e intolleranti alle farine Realizzati con o senza lievito, vantano un basso impatto calorico Sono croccanti e alcalinizzanti (ideali contro l’acidità di stomaco) le sfoglie a base del cereale coltivato in Oriente ed Egitto, tradizionale di molte cucine tra Africa e Asia, simile al frumento, ma privo di glutine La lunga marcia da alimento-base a ghiottoneria MARINO NIOLA on abbiamo che cinque pani. Lo dicono gli apostoli a Gesù. E il figlio di Dio risponde con il celebre miracolo della moltiplicazione sfamando cinquemila bocche. Oggi ad essere in cinquemila sono i pani con tutti i loro derivati. Ma questa volta la moltiplicazione è opera del mercato. È un miracolo economico. Che ha progressivamente trasformato l’alimento per antonomasia, il minimo vitale della sussistenza in uno sterminato catalogo di fantasie da forno. Forme e pezzature sempre più minute, sempre più ricercate. Con buona pace del pane comune, sopraffatto da uno tsunami di pani speciali. Alle olive, al sesamo, ai semi di papavero, di finocchio, al pomodoro, alle noci, all’uvetta, alle erbe, allo zafferano, allo zenzero. E chi più ne ha più ne metta. Nella civiltà del benessere, insomma, non si vive di solo pane. Ma piuttosto di panini, soffiate, coppiette, michette, ciriole, grissini, tarallini, crackers, schiacciate, pancarré, panbrioche, scrocchiarelle, brezel, bagel, sfoglie, gallette. Piaceri leggeri, fragranti, golosi, fatti per stuzzicare il palato più che per riempire la pancia. È il trionfo del postpane. Specchio di un edonismo di massa che moltiplica gli sfizi come i vizi, le preferenze come le intolleranze. E parcellizza il pane proprio come il lavoro. Pani monoporzione per un’umanità sempre più single, alimenti interinali a misura di un popolo di partite iva. Il fatto è che il pane non è più la base della nostra piramide nutrizionale ed è diventato poco più di un surplus voluttuario. Sempre più N L’appuntamento A Valderici, Trapani, dal 19 al 27 giugno, “Unpanicunzatu Fest” Nato su Facebook grazie alla comunità virtuale “Fiero di essere siciliano”, è stato concepito come un grande laboratorio gastro-culturale a cielo aperto. Si prepareranno in diretta i pani di tutte le culture presenti in Italia elaborato e costoso, proprio come quelle focacce condite e filoni farciti che una volta arricchivano la tavola dei signori, accanto a carni e pesci prelibati. Ghiottonerie condannate dalla Chiesa in quanto simboli del peccato di gola, di un mangiare da ricchi epuloni. Un segno morale e politico che resta impresso in nomi come kaiserbrot, herrenbrot, pane del prete, pane del principe, pan ducale, galletta del re. O nell’etimologia di parole potenti come Lord, che in origine significa il custode del pane ben lievitato. E come Lady che nell’inglese antico designava per antonomasia la donna che impasta, nostra signora della lievitazione. Mentre i contadini e le plebi urbane, i dannati della terra che assaltavano i forni per la fame, non avevano null’altro che pane. E certo non di quello bianco, fragrante e profumato. Ghiande, crusca, segale, miglio, farro, orzo, tutto era buono per far pagnotte. Era questo il nero nutrimento dei poveri cristi, quello che non a caso compare nelle rappresentazioni dell’Ultima Cena. O nelle immagini dell’umile grotta di Betlemme dove spesso accanto alla Vergine c’è una gerla di pane scuro. Quello che adesso chiamiamo integrale e che abbiamo elevato a emblema supremo di salute e di salvezza. In un cortocircuito tra fibra vegetale e fibra morale. E così noi epuloni buonisti, cerchiamo di far quadrare il cerchio tra edonismo e temperanza comprando a prezzi da ricchi alimenti da poveri. È il contrappasso della gola che cerca di redimere le sue colpe. Nel nome del pane. © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 MAGGIO 2010 le tendenze Chiodi fissi Giubbotti in pelle, borchie, zatteroni e magliette strappate Dagli happening degli anni Settanta alle ultime passerelle lo stile più ribelle della storia torna riveduto e corretto Almeno quanto basta a non cadere nel ridicolo BORCHIATI VERTIGINOSO Sono d’argento gli orecchini Chanel Ma non per questo rinunciano alle piccole borchie Tacco vertiginoso e pizzo d’ordinanza per lo zatterone in stile rock Dolce&Gabbana SFRANGIATO Il mini jeans Diesel sfrangiato, a suo modo un classico (per chi se lo può permettere) AGGRESSIVO Un mocassino, ma con tacco dodici centimetri, quello firmato Miu Miu: in vernice e reso aggressivo dalle miniborchie MICHELA GATTERMAYER ock’n’roll is here to stay». Perché? Ovvio, «Can never die». Così cantava Neil Young nel 1979. E non è che tutti ci credessero. Oggi, invece, è assolutamente evidente. Lo dice anche Greil Marcus, forse il critico musicale più famoso del mondo, che paragona il rock a Moby Dick e a Il Grande Gatsby. E nella moda? Pelle nera, borchie, zatteroni, capelli in piedi, magliette strappate e jeans lisi sono ormai un grande classico. Esattamente come la camicia bianca, il tubino, il trench e la collana di perle. E non è esagerato dirlo. Alle ultime sfilate era su tutte le passerelle, quindi non fa più tendenza perché il rock è il modo più facile e immediato per attualizzare qualsiasi stile. Basta guardarsi in giro, per la strada: l’eleganza da manuale è praticamente sparita e la gente è convinta di dover dare spettacolo. Esattamente come faceva Elton John (che per una vita tutti hanno preso per i fondelli per via degli occhiali stranissimi, ora assoluta- «R Quando la trasgressione è un classico mente normali) o Mick Jagger (con le sue giacchette di pelle smilze e i jeans da orchite, ora quasi una divisa). Sono sempre loro le icone a cui ispirarsi, assieme a Lou Reed, Jim Morrison, i Sex Pistols... Pensavano di essere trasgressivi, invece sono diventati come Jacqueline Kennedy o Grace Kelly, un look book da imitare. Che dire? Da una parte piacciono l’estremismo, le esagerazioni, il gioco perché sono indici della libertà di cui gode la moda, uno dei pochi fortunati settori non colpiti dalla censura, almeno per ora. Dall’altra è certo che una vittima sacrificale c’è, ed è il buon gusto. Perché il rock è anche un grande trappolone. Non basta saper strimpellare quattro note con una chitarra elettrica per fare un bel concerto. Allo stesso modo non basta possedere un paio di pantaloni da biker o degli stivali cattivi per essere “giusti”. Anzi, si può diventare ridicoli. Qualche consiglio? Scegliere solo un dettaglio rock: per intenderci, mai giacca e pantaloni di cuoio coordinati, borchie come collane, bracciali o sulle scarpe, nero total e trucco pesante tutto assieme. Se avete il chiodo, mettetelo con una gonna longuette, quasi bon-ton. Se i leggings sono di pelle, indossateli sotto un vestito romantico. Se volete i jeans sdruciti, date loro dignità con una bella giacca. Se vi piacete con rossetto e smalto viola, usateli per far arrabbiare il solito tailleur. Il rock perderà lo shock ma diventerà chic. © RIPRODUZIONE RISERVATA ESSENZIALI Bracciali Oviesse colorati, semplici ed essenziali: sono le borchie a rimarcare lo stile METALLO E PELLE Pantaloni Philippe Plein da citazione rock: in pelle con ginocchiere rigorosamente borchiate WARHOLIANA La t-shirt firmata da Pepe Jeans è di cotone con stampa: ovviamente Andy Warhol Moda Rock Repubblica Nazionale DOMENICA 16 MAGGIO 2010 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47 TESCHIO SU PELLE Basta un teschio d’argento per trasformare l’elegante borsa di pelle John Richmond in un’icona rock JEFF BECK Aviator sul naso, il chitarrista inglese fotografato nel 1975 STILE DIVA Lacci, pelle nera e placche: ecco i tronchetti Gucci in stile diva del rock L’OCCHIALE POP GRAFFITARO L’orologio con il disegno in stile graffitaro per Marc Ecko Watches Il brevetto Aviator venne depositato il 7 maggio 1937: occhiali che seguendo l’incavo dell’occhio proteggevano i piloti da raggi infrarossi e ultravioletti Furono chiamati “Ray Ban” da “bannish rays”, ovvero che bandisce i raggi. Registrati come “Large Metal” diventarono per tutti “Aviator”. Con oltre due milioni di paia venduti ogni anno sono il modello più popolare al mondo Ora arrivano sei nuovi modelli: metal glide, craft, spirit, titanium, ultra gold e tech Il decalogo della moda rock La pelle nera I jeans lisi La T-shirt con i buchi Le borchie, i teschi, le catene Gli occhiali scuri Gli stivaletti a punta o zatteroni La giacca da smoking vintage I pantaloni neri super slim Gli occhi truccati I capelli senza mezze misure ISPIRATO Anche un sandalo Geox può ispirarsi allo stile rock: l’importante è che sia nero e con borchie ALCOLICA È confezionata in una speciale edizione “rock” la bottiglia Vodka Absolut, tutta pelle e borchie A New York la festa Ray Ban Quelle due gocce sui nasi delle star GIOVANNI CIULLO L BLONDIE NEW YORK o sapesse il luogotenente John MacCready, che gli occhiali protettivi a goccia con lenti verdi in vetro minerale li chiese più di ottant’anni fa dopo aver attraversato l’Atlantico sul suo pallone aerostatico, non ci crederebbe. Eppure da allora i mitici Aviator hanno davvero cambiato mestiere: nati per difendere i piloti d’alta quota dai raggi ultravioletti, hanno finito per accompagnare più spesso le rockstar — Mick Jagger, Bruce Springsteen, Blondie, Eric Clapton — sotto il flash dei paparazzi. Non è un caso che mercoledì scorso il modello di Ray Ban più popolare al mondo (oltre due milioni di pezzi venduti nel 2009, con numeri in continua crescita) abbia festeggiato se stesso e sei nuovissime versioni, rivoluzionate nei materiali e nei colori, non in un hangar dell’Air Force One, ma nella Music Hall di Williamsburg, cattedrale della musica indie di Brooklyn, New York. Quattrocento ospiti e celebrities (Chlöe Sevigny, Mark Ronson, Juliette Lewis, Sean Lennon...) e sul palco un bel pezzo della storia del rock di ieri e oggi per un marchio che da dieci anni parla italiano (Luxottica l’ha comprato dall’americana Bausch&Lomb). Hanno aperto i Free Energy (rock band dell’anno con l’album Stuck on Nothing) ma l’evento più atteso era l’esibizione di Iggy Pop con gli Stooges (il loro Fun House, 1970, contribuì a far nascere la leggenda del rock’n’roll). Spettacolo allo stato puro: Iggy a petto nudo davanti al microfono, stessa energia di sempre, prima invita il pubblico a salire sul palco e poi si lancia in tuffo sulla folla adorante. «Il legame con la musica è nel dna di Ray Ban e dagli anni Settanta a oggi cosa c’è di più rock degli Aviator, il nostro modello più popolare?», dice Sara Beneventi, brand director di Ray Ban. «Abbiamo pensato a questo evento come a una festa, non un lancio promozionale. Gli artisti non sono nostri testimonial, la location è un vero tempio della storia della musica. Abbiamo celebrato sia Ray Ban che il rock». Con l’occasione sono stati presentati i sei nuovi modelli che, eccetto quello in carbonio che arriverà a Natale, saranno disponibili in Italia già da giugno. «Gli Aviator rappresentano circa il 20% dei 16 milioni di Ray Ban che vendiamo ogni anno. L’obiettivo per il 2010 è ambizioso, ma non lontano: vorremmo arrivare a quota 18 milioni». Intanto la festa degli Aviator e del rock continua. Si replica a Londra, il 26 maggio, con i New York Dolls, i Big Pink e le Plasticines. Al secolo Deborah Harry, nel 1978 ERIC CLAPTON Uno dei grandi del rock, qui nel 1977 DON FELDER Lo storico chitarrista degli Eagles fotografato nel 1977 © RIPRODUZIONE RISERVATA IGGY POP & THE STOOGES La band anni ’70 è stata protagonista dell'evento Ray Ban a New York Repubblica Nazionale 48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 MAGGIO 2010 l’incontro A ottantacinque anni, porta ancora con sé lo spirito ribelle di quando si fece espellere dall’università a causa dei primi esperimenti teatrali Ora la nuova sfida del grande regista è “Il Flauto magico” di Mozart, lontano da ogni effetto speciale Perché nell’era di web e tv, «oggi solo il teatro è il luogo fatto per condividere un’esperienza non raggiungibile davanti al gelo di uno schermo» Maestri Peter Brook L’ ni, tradusse la Carmen di Bizet in un’opera lieve e disadorna, ricreata per trovare «la sorgente della narrazione e la finezza della partitura» all’opposto dell’artificialità del melodramma. Un manifesto contro le varie Carmen «ridondanti di balletti, festosità forzate, automatismi da grand spectacle»; e nella stessa prospettiva anti-effettistica, il regista inglese ha riletto il Don Giovanni, montato nel ’98 al Festival di Aix-enProvence e accolto nello stesso anno dal Piccolo a Milano. Nato nel 1925 a Londra da una famiglia di ebrei russi, questo spericolato contestatore della tradizione teatrale, che paradossalmente è oggi il più «classico» e puro tra i numi della scena internazionale, avverte per la prima volta «l’importanza del semplice» da bambino, di fronte a un piccolo teatro di cartone dai colori netti e con figurine terse «che trovavo tanto più convincenti del mondo là fuori». A diciassette anni, studente a Oxford (il padre lo vorrebbe laureato in legge), si fa espellere dall’università grazie ai primi, burrascosi esperimenti teatrali, e ha già messo in scena Anche Shakespeare era costretto ad arrangiarsi Malgrado la mancanza di fondi e l’idiozia dei governanti l’arte resta lo spazio del possibile FOTO CONTRASTO incontro con Il Flauto Magico di Mozart pare un accadimento naturale e inevitabile nel viaggio di ricerca di quel purista del gioco scenico che è Peter Brook, probabilmente il massimo regista teatrale vivente, attratto dalle dimensioni più elevate ma anche più sensuali e contingenti dell’espressione artistica. Brook è l’interprete per eccellenza della genialità del semplice, il cantore di un’essenzialità che da miraggio diviene contenuto. Da tempo insegue la rappresentazione distillata del cuore delle cose, quello catturato dal suo amato Shakespeare, o raccolto dalla magia bambina eppure sapientissima di Mozart, dove la sfera del naïf si fa iniziatica e rituale, come nel Flauto. «In ogni musica mozartiana emerge la voce di un uomo che ha cinque anni e ne ha pure cento o mille, perché dimostra di aver compreso e attraversato tutto, ogni esperienza della vita», afferma Brook. «Nel Don Giovanni affiora il Mozart più passionale, l’amante del sesso e delle donne, ma anche il colpevole oppresso dal rimorso, che teme il rogo dell’inferno e ciò nonostante scherza nell’intrecciare i generi in un’opera buffa e drammatica, giocosa e invasa da presagi metafisici. In ogni istante Mozart è il mistero della morte e un’esuberanza vitale travolgente». A proposito del Flauto si tende spesso a evocare il Mozart votato alla massoneria, «ma sono idee che servono solo ad appesantire il tutto. La verità è che la musica mozartiana è qui per noi con ineffabile ricchezza, dimostrandoci che il compositore non fa alcuna propaganda di concetti filosofici o teorie; piuttosto vuole e sa comunicarci un sentimento che corrisponde alla sua iniziazione spirituale e al tempo stesso è generoso nel farci percepire il Papageno che è in lui: il magnifico buffone, l’eterno fanciullo, la risata che affranca l’esistenza dalle briglie delle convenzioni». Brook metterà in scena il suo Flauto Magiconel teatro delle Bouffes du Nord, sede del Centre International de Créations Théâtrales che ha fondato a Parigi nei primi anni Settanta: un ex padiglione industriale dalle atmosfere slabbrate e fascinose, a pochi passi dalla Gare du Nord. Debutto il 9 novembre di quest’anno, con repliche fino a tutto dicembre; e dal 22 febbraio al 19 marzo 2011 lo spettacolo arriverà al Piccolo Teatro Strehler di Milano, coproduttore dell’impresa. «Il mio unico punto di partenza sarà la musica di Mozart, senza premesse figurative. Ogni regista che affronta Il Flauto si chiede: quale stile scenografico caratterizzerà l’allestimento? Una complessa scena d’epoca, con ingranaggi che consentono trasformazioni a vista? Una cornice moderna, con le vistose tecniche e possibilità di Broadway? O qualcosa di super-contemporaneo, con proiezioni e video, come va di moda oggi? Invece qui alle Bouffes eviteremo tutto questo, cominciando da un grado zero dell’immaginazione, e affidandoci solo all’ispirazione di una musica profondamente umana, che abbiamo riadattato insieme al musicista Franck Krawczyk e che verrà eseguita al pianoforte da Alain Planès, forse con l’intervento di qualche altro strumento, sulla base della riduzione del libretto che ho fatto con Marie-Héléne Estienne. In scena ci sarà un piccolo gruppo di cantanti giovani, aperti e disponibili a un lungo lavoro d’improvvisazione sui personaggi che stiamo per iniziare adesso». Il risultato finale durerà appena un’ora e mezza, «perché bisogna avere il coraggio d’intervenire sulle lungaggini e assurdità del librettista Schikaneder, l’impresario che commissionando a Mozart il Flauto cercava un successone per il suo teatro di periferia, e che costruendone la trama pensava soprattutto a un ruolo comico per sé, quello di Papageno». Sbrogliando, asciugando, depurando, in vista di un’azione «intima e leggera, che illumini la linee della musica come se le si ascoltassero per la prima volta», Brook, in questo Flauto Magico («forse lo intitoleremo semplicemente Un Flauto»), si avventurerà nella medesima «distillazione» realizzata nella Tragédie de Carmen, con cui negli anni Ottanta, suscitando le ire dei meloma- titoli di Shakespeare, Marlowe e Cocteau quando, a ventidue anni, viene assunto come direttore delle produzioni alla Royal Opera House Covent Garden di Londra, contesto che gli si rivela orripilante, con scenografie ammuffite e soprani elefantiaci e immoti. Un regno di vieux monstres gonfi di gestualità retorica e «venerati da un pubblico senza criterio, pronto a sorbirsi qualsiasi caduta di gusto. Per questo in seguito ho rifiutato sempre le regie operistiche. Solo arrivando nell’ambiente delle Bouffes du Nord ho capito che avrei potuto esplorare una lirica diversa, come adesso questo Flauto, nel quale la vicinanza tra pubblico e interpreti permetterà allo spettatore di accedere alla magia e alla tenerezza dell’opera». Dopo l’intensissima e fruttuosa direzione della venerabile Royal Shakespeare Company e un gran numero di successi applauditi nel mondo, Brook, molto famoso negli anni Sessanta, rigetta l’appeal del teatro “borghese” per puntare a un’esperienza teatrale “diversa”, lanciata in palcoscenici en plein air e in grado di scoprire testi e autori inusuali e di occupare spazi-camaleonte come le Bouffes, «un po’ cortile, un po’ casa e un po’ moschea». Lo scopo ultimo è un teatro necessario, portatore di «quell’emozione chiamata dagli inglesi the suspension of disbelief: qualcosa che, come nella tragedia greca, sospenda l’incredulità di chi sta guardando». In vista di tale obiettivo, Brook fa rivivere la leggenda di Prometeo tra le rovine di Persepoli, evoca la cultura tribale africana (Les Iks), attinge alla tradizione persiana (La conferenza degli uccelli), s’immerge nella sterminata densità del pensiero indù (il Mahabharata), svela la straordinaria vitalità del teatro politico sudafricano, indaga i testi “neurologici” di Oliver Sacks accanto a Cechov, a Beckett e all’irrinunciabile Shakespeare. E non rinuncia all’affondo nei guasti provocati dal fanatismo religioso, come nello spettacolo del 2005 Tierno Bokar, ispirato a una storia dello scrittore del Mali Amadou Hampaté Bâ. La nuova versione inglese di questo pezzo, intitolata Eleven and Twelve, sarà quest’anno al Festival di Spoleto (2, 3 e 4 luglio). «Tierno Bokar è eloquentissimo sull’Islam e sui nessi tra religione e politica. Ogni africano ha una sua religiosità, alimentata da un forte rapporto con la natura, che assume forme diverse tra cui l’islamismo. All’inizio della vicenda Tierno Bokar, nel suo villaggio, vive in un’oasi di felicità e saggezza. Ma ad alterare la situazione giungono conflitti tribali e intolleranze, causa di faide e massacri. Ed è qui che l’opera si apre al- la Storia, nella linea di Shakespeare», genio miracoloso che nel suo teatro sa collegare i vari piani dell’esistenza, «quello volgare o popolare, quello sociale e politico, e quello metafisico, in un passaggio continuo tra cielo e terra». Ma esiste il pubblico che recepisce tutto questo? La scena teatrale non è forse cambiata radicalmente, in un impoverimento progressivo, tra l’indifferenza o lo spregio dei governanti e l’assottigliarsi del dialogo con le grandi platee, che sembrano sempre più lontane dal suo tipo di ricerca? «Parlare di pubblico in generale è un’astrazione, non esiste un unico interlocutore, ci sono tanti individui diversi. Oggi il pubblico teatrale è un’élite, parola che negli anni Sessanta era politicamente scorretta, mentre adesso è altro. Grazie alla televisione e a Internet non c’è più alcuna élite nella comunicazione e nell’arte, nessun prodotto artistico è inaccessibile, e il teatro come élite vuol dire un luogo rigenerante e positivo fatto per chiunque abbia voglia di andarci nel desiderio di condividere un’esperienza non raggiungibile nell’isolamento e davanti al gelo di uno schermo». Quanto ai governi che nella crisi tagliano i contributi alla cultura, «il solo modo per fronteggiare tutto questo», sostiene Brook, «è prendere esempio dai massimi maestri di tutti i tempi: Shakespeare e Mozart erano due lavoratori costretti ad arrangiarsi con gli strumenti che avevano a disposizione, l’uno creando un teatro popolare, l’altro accettando le commissioni dei suoi sponsor, ma entrambi senza compromettere l’autenticità e l’onestà della rispettiva ricerca. Malgrado la mancanza di fondi e l’idiozia dei governanti, l’arte resta il luogo del possibile». © RIPRODUZIONE RISERVATA ‘‘ LEONETTA BENTIVOGLIO Repubblica Nazionale