Domenica
La
DOMENICA 16 MAGGIO 2010/Numero 275
di
Repubblica
la società
Fenomenologia della minigonna
ANAIS GINORI
cultura
Achille Campanile, maestro di nonsense
PAOLO MAURI
I due inferni
di New Orleans
La marea nera che devasta le coste
della Louisiana. E il libro-verità
ILLUSTRAZIONE DI GIPI
di Dave Eggers che narra i retroscena
sconvolgenti dell’uragano Katrina
DAVE EGGERS
Z
eitounsi svegliò dopo le nove, stremato dagli ululati dei
cani. Quel giorno voleva trovarli a tutti i costi. Dopo aver
pregato, percorse in canoa il giardino inondato. I cani
sembravano vicinissimi. Attraversò la strada e svoltò a
sinistra su Dart Street. Appena qualche casa più in giù, trovò esattamente ciò che cercava.
Conosceva bene quella casa. Si avvicinò pagaiando, e i cani impazzirono. I loro guaiti disperati provenivano dall’interno.
Ora doveva trovare un modo per entrare. Il primo piano era allagato, ragione per cui i cani — a occhio e croce due — dovevano essere intrappolati al piano di sopra. Vicino alla casa c’era un albero con
molti rami. Ci si avvicinò e legò la canoa al tronco.
(segue nelle pagine successive)
spettacoli
FEDERICO RAMPINI
«N
NEW YORK
on esiste fede pari a quella di chi costruisce
case lungo la costa della Louisiana», dice Abdulrahman Zeitoun. E questo muratore siriano-americano continua a costruire. Il 29
agosto 2005 era nella sua New Orleans quando la furia dell’uragano
Katrina fece saltare gli argini. Ci rimase quando l’80% della città era
allagata. Restò nell’orrore che seguì: i 1500 morti, i due milioni di profughi nell’intera regione del Golfo. Zeitoun è ancora lì che costruisce
oggi, mentre la Louisiana assorbe lo shock della marea nera, quella
che alcuni hanno previsto (o sperato) diventi «la Katrina di Barack
Obama». In questi cinque anni Zeitoun ha visto due volte l’Apocalisse, due catastrofi si sono accanite contro la sua terra promessa.
(segue nelle pagine successive)
Ridere kosher, i comici ebrei americani
MONI OVADIA e VITTORIO ZUCCONI
i sapori
Benvenuti nell’era del post-pane
LICIA GRANELLO e MARINO NIOLA
l’incontro
Peter Brook, quando il teatro è ribelle
LEONETTA BENTIVOGLIO
Repubblica Nazionale
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 16 MAGGIO 2010
la copertina
Per la seconda volta in cinque anni
New Orleans è al centro di un’apocalisse
E mentre la marea nera avanza verso la costa
e mette alla frusta il governo Obama, un libro
Inferni
di Dave Eggers di cui pubblichiamo un brano
in anteprima racconta la storia degli abusi
commessi dal governo Bush durante
le terribili giornate dell’uragano Katrina
Zeitoun, un uomo nel disastro
DAVE EGGERS
(segue dalla copertina)
i issò sull’albero, arrampicandosi finché non riuscì a
scorgere una finestra al primo piano. Non vedeva i cani,
ma li sentiva. Erano in quella casa, e molto vicino. L’albero su cui era salito si trovava a circa tre metri dalla finestra. Saltare era impossibile. Troppo lontano. In quel
momento vide un’asse di legno, larga trenta centimetri
e lunga quattro o cinque metri, che galleggiava nel cortiletto accanto alla casa. Scese dall’albero, raggiunse l’asse con la canoa, la portò
vicino alla casa e l’appoggiò contro l’albero. Poi risalì sui rami, e sollevando l’asse creò un ponte tra l’albero e il tetto. Si trovava a circa
cinque metri da terra, due metri e mezzo dalla superficie dell’acqua.
Il ponte che aveva creato non era troppo diverso dalle impalcature di cui si serviva ogni giorno al lavoro, e così, dopo averlo saggiato
rapidamente con un piede, lo attraversò e raggiunse il tetto.
Una volta lì, forzò una finestra e s’introdusse in casa. I latrati si fecero più forti e frenetici. Attraversò la stanza in cui era entrato, sentendo i cani farsi sempre più isterici. Percorrendo il corridoio del primo piano, li vide: due cani, un labrador nero e un incrocio più piccolo, chiusi in una gabbia. Non avevano cibo, e la ciotola dell’acqua
era vuota. Sembravano sufficientemente esasperati da poterlo mordere, ma Zeitoun non esitò. Aprì la gabbia e li lasciò uscire. Il labrador si fiondò fuori dalla stanza, l’altro indietreggiò nella gabbia impaurito. Zeitoun si fece da parte per lasciargli spazio, ma lui rimase
dov’era.
Il labrador non poteva andare da nessuna parte. Corse in cima alle scale, ma subito vide l’acqua ad appena pochi centimetri sotto il
primo piano. Tornò da Zeitoun, che nel mentre aveva pensato cosa
fare.
«Aspettatemi qui» disse loro.
Riattraversò il ponte di legno, scese dall’albero salendo sulla canoa, e tornò a casa sua. Si arrampicò sul tetto, entrò dalla finestra e
scese i pochi scalini che non erano stati sommersi. Sapendo che
Kathy teneva sempre il freezer pieno di carne e verdure, si protese e
recuperò due bistecche, affrettandosi a richiudere lo sportello per
impedire al poco freddo rimasto di disperdersi. Tornò sul tetto, prese due bottiglie di plastica piene d’acqua e le gettò con le bistecche
S
nella canoa. Scivolò a bordo e tornò dai cani.
Di nuovo lo sentirono avvicinarsi, stavolta facendosi trovare in attesa oltre la finestra, con le teste che spuntavano da dietro il davanzale. Sentendo l’odore della carne, benché congelata, attaccarono ad
abbaiare e scodinzolare come matti. Zeitoun gli riempì la ciotola dell’acqua, e loro ci si avventarono. Riempiti i serbatoi, passarono alle bistecche, che masticarono finché la carne non si fu ammorbidita. Zeitoun rimase a osservarli per qualche minuto, stanco ma felice, finché
non cominciò a sentire altri latrati. C’erano altri cani, e lui aveva un
congelatore pieno di cibo. Tornò a casa sua per organizzarsi.
Caricò sulla canoa altra carne, quindi si mise in cerca degli altri animali abbandonati. Quasi subito, appena si fu allontanato da casa,
sentì altri latrati, stavolta più attutiti, provenienti grosso modo dallo
stesso punto in cui si trovavano i primi due cani.
Si avvicinò, chiedendosi se per caso in quella casa non ce ne fosse
un terzo. Ancorò di nuovo la canoa all’albero, prese due bistecche e
si arrampicò. Da un ramo a mezza altezza si voltò verso la casa vicina,
quella a sinistra, e vide altri due cani che saltellavano dietro una finestra.
IL LIBRO
Zeitoun di Dave Eggers esce
il 28 maggio da Mondadori
(traduzione di Matteo Colombo,
312 pagine, 17,50 euro)
È un’opera di non fiction basata
sui racconti di Abdulrahman
e Kathy Zeitoun. Lui è un siriano
immigrato negli Usa;
lei un’americana convertitasi
all’Islam. Abdulrahman diviene
vittima delle autorità Usa
Nel caos della New Orleans
in ginocchio a causa dell’uragano
Katrina, viene accusato
di essere un affiliato di Al Qaeda
Sfilò l’asse dalla prima casa e la spostò verso la seconda. I cani, vedendolo arrivare, cominciarono a saltare e girare in tondo furiosamente.
Poco dopo, Zeitoun riuscì ad aprire la finestra ed entrare. I due cani gli balzarono addosso. Lanciò le bistecche, e quelli ci si avventarono, dimenticandosi completamente di lui. Doveva procurare dell’acqua anche a loro, per cui tornò a casa a prendere altre bottiglie e
una ciotola.
Zeitoun gli lasciò la finestra aperta abbastanza da far entrare un po’
d’aria fresca, dopodiché riattraversò l’asse e dall’albero si calò nella
canoa. Impugnato il remo ripartì, pensando che fosse ora di chiamare Kathy.
Mentre remava, notò che l’acqua si stava facendo più sporca. Era
diventata scura, opaca, striata di nafta e benzina, piena di detriti, cibo, immondizia, vestiti, pezzi di case. Ma l’umore di Zeitoun era alto.
Si sentiva rinvigorito da ciò che era riuscito a fare per quegli animali,
dal fatto di averli potuti aiutare, e che quattro cani destinati a morire
di fame ora sarebbero sopravvissuti perché lui era rimasto, e perché
aveva comprato quella vecchia canoa. Non vedeva l’ora di dirlo a
Kathy.
Arrivò alla casa in Claiborne Avenue a mezzogiorno. Todd non c’era, e la casa era vuota. Entrò a telefonare.
«Oh, grazie a Dio!» esclamò Kathy. «Dio, grazie, grazie, grazie.
Dov’eri finito?». Lei e i figli stavano ancora viaggiando verso Houston.
Accostò.
«Di cosa ti preoccupavi?» le chiese Zeitoun. «Te l’avevo detto che
avrei chiamato a mezzogiorno. È mezzogiorno adesso».
«Chi era quell’uomo?» chiese lei.
«Che uomo?».
Kathy gli spiegò che, quando al mattino aveva provato a telefonare, le aveva risposto qualcun altro. Zeitoun rimase turbato. Mentre
parlavano, cominciò a guardarsi intorno. Non c’erano segni di furto
o effrazione. Niente serrature forzate o finestre rotte. Che l’uomo in
questione fosse un amico di Todd? Disse a Kathy di non preoccuparsi, che avrebbe indagato.
Kathy, ora più calma, fu felice di sapere che suo marito era riuscito
ad aiutare i cani, che si sentiva utile. Ma non voleva assolutamente
che rimanesse ancora a New Orleans, e pazienza quanti cani da nutrire o persone da salvare avesse.
«Voglio che tu venga via, sul serio» gli disse. «Dalla città arrivano no-
Repubblica Nazionale
DOMENICA 16 MAGGIO 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
La caccia al “terrorista”
mentre la gente annega
FEDERICO RAMPINI
(segue dalla copertina)
ome il medico solo di fronte alla peste nel
romanzo di Albert Camus, nella tragedia
Zeitoun ha provato la sua umanità. E
contro questo eroe indifeso si è accanita la logica assurda della ragion di Stato. La sua storia è
troppo perfetta per essere un romanzo. Perciò
Dave Eggers, l’enfant prodige di San Francisco,
ha lasciato in un angolo il genio letterario; per
raccontare la storia di Zeitoun si è fatto umile
cronista. Ha represso lo sdegno, rinunciato all’invettiva. I nudi fatti sono più che sufficienti.
Nell’agosto di cinque anni fa, la moglie Kathy
e i quattro figli di Zeitoun fuggono per tempo di
fronte all’avanzata di Katrina. Lui da solo decide di restare in città. Quando New Orleans è
sommersa, salta sulla sua canoa, si aggira in
quel paesaggio sconvolto. Ci sono anziani abbandonati, a cui porta le prime provviste. Soccorre i cani che abbaiano disperati, sentono l’odore della morte. Il primo giorno Zeitoun salva
cinque persone. «Non aveva mai sentito tanta
energia, tanto senso di uno scopo nella vita.
C’era bisogno di lui». Al terzo giorno del disastro, quando le acque luride e puzzolenti si gonfiano di cadaveri che galleggiano, Zeitoun ha il
primo contatto surreale con lo Stato. Due vecchi vicini di casa, i coniugi Williams, devono essere portati via ma la sua canoa è troppo piccola. Lui rema in cerca di aiuti e finalmente avvista dei soldati. Lo cacciano: «Non è il nostro mestiere». Hanno radio ricetrasmittenti ma dicono di non poterle usare. Passano altri cinque
giorni. Il 6 settembre Zeitoun è in casa quando
fanno irruzione cinque uomini e una donna in
tuta mimetica, con fucili automatici M-16. Lo
caricano su un battello militare. Da quel momento comincia per lui il vero incubo, un’altra
tragedia nascosta dentro la storia di Katrina.
Una vicenda crudele e sconosciuta.
Tutti associano l’inondazione di New Orleans con il punto più basso dell’Amministrazione Bush: l’indifferenza, l’incompetenza, la
disorganizzazione. Uno spettacolo da Terzo
mondo nel cuore dell’America. Il ritardo inspiegabile degli aiuti, le vittime abbandonate.
Ma in mezzo a quella débacle, si scopre, ci fu anche uno sprazzo di paranoica efficienza. L’agenzia della protezione civile dopo l’11 settembre 2001 era finita dentro la Homeland Security, un superministero degli Interni. E dai vertici della Homeland Security durante l’agonia
di New Orleans arriva un avvertimento che
sembra tragicomico, se non avesse conseguenze tanto sinistre. L’uragano può essere
“sfruttato” da gruppi di terroristi. In vari modi:
«Sequestro di ostaggi, attacchi a rifugi di sfollati, attacchi elettronici o sostituzioni di persone
atte a impersonare responsabili dell’ordine».
Così, mentre centinaia di cittadini americani
muoiono annegati in telecronaca diretta, ripresi sugli schermi della Cnn, mentre nello stadio Superdome gli sfollati impazziscono di fa-
ILLUSTRAZIONE DI GIPI
C
Si allontanò,
chiedendosi quante
persone fossero
rimaste in città
Se Frank era
rimasto, e anche
Todd e Charlie
avevano superato
la tempesta
senza andarsene,
di certo dovevano
essercene a decine
di migliaia...
Proseguì, sapendo
che avrebbe dovuto
sentirsi stanco
Eppure non lo era
affatto. Non si era
mai sentito più forte
tizie terribili. Gente che ruba, uccide. Rischi che ti succeda qualcosa
di brutto».
Zeitoun percepì la sua preoccupazione. Ma del caos di cui parlava,
lui non aveva visto traccia. Ammesso che fosse vero — e Kathy sapeva benissimo quanto i media fossero portati a ingigantire — doveva
essere concentrato nel centro. Lì da lui, disse, era tutto così silenzioso e calmo, così strano e surreale, che correre rischi era impossibile.
Forse, aggiunse, c’era davvero una ragione se era rimasto, se aveva
comprato quella canoa. Se in quel preciso momento si trovava in
quella particolare situazione.
«Sento che devo stare qui» disse.
Kathy tacque.
«È la volontà di Dio».
A quello, sua moglie non seppe come rispondere.
Passarono a parlare di questioni pratiche. A casa di Yuko il cellulare di Kathy non prendeva bene, e così diede a Zeitoun il numero fisso. Lui se lo annotò su un pezzetto di carta e lo lasciò accanto al telefono in Claiborne Avenue.
«Appena arrivi a Phoenix, trova una scuola per i bambini» le disse.
Kathy alzò gli occhi al cielo.
«Naturalmente» rispose.
«Vi voglio bene, diglielo» concluse Zeitoun, poi si salutarono.
Ripartì, e subito vide Charlie Ray, il vicino della casa a destra. Era
un falegname sui cinquant’anni, con gli occhi azzurri, nato a New Orleans, un tipo simpatico e alla mano che Zeitoun conosceva da anni.
Sedeva nella sua veranda come se fosse una giornata qualunque.
«Sei rimasto anche tu» disse Zeitoun.
«Eh, già».
«Ti serve qualcosa? Acqua?».
Charlie non aveva bisogno di nulla, ma presto forse ne avrebbe
avuto. Zeitoun promise che sarebbe ripassato più tardi, quindi si allontanò, chiedendosi quante persone fossero rimaste in città. Se
Frank era rimasto, e anche Todd e Charlie avevano superato la tempesta senza andarsene, di certo dovevano essercene a decine di migliaia. Zeitoun non era stato l’unico a sfidare la sorte.
Proseguì, sapendo che avrebbe dovuto sentirsi stanco. Eppure
non lo era affatto. Non si era mai sentito più forte.
Copyright © Dave Eggers, 2009
© 2010 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. Milano
me sete e caldo, a due passi da lì inizia la costruzione di un carcere. Nella stazione abbandonata degli autobus di linea Greyhound, l’esercito deporta centinaia di detenuti dal penitenziario Angola, per dei lavori forzati molto
speciali. Bisogna tirar su in fretta una prigione.
La Guantanamo segreta dell’uragano Katrina.
Zeitoun ci starà quasi un mese. «Un talibano,
uno di al Qaeda», dice un soldato dopo aver visto la sua faccia da arabo. Un mese senza poter
parlare con la moglie, che non sa più nulla di lui.
Senza avvocati. Accusato di aver saccheggiato
una casa: la sua. Come lui ci sono altri 1.200 detenuti, a maggioranza neri. Saranno rilasciati
senza scuse, né indennizzi, senza uno straccio
d’inchiesta per capire come sia potuto succedere. L’uragano Katrina ha sospeso i diritti civili e la Costituzione. Alla fine la moglie di Zeitoun,
Kathy, dovrà sentirsi perfino riconoscente per
un gesto di umanità, quando un funzionario
della Giustizia «per compassione» restituisce la
patente al marito. L’unico documento rimasto
nel portafoglio, dal quale sono spariti dopo l’arresto i contanti e le carte di credito.
La storia vera di Zeitoun, degna di Kafka e di
Camus, è più d’un atto di accusa contro un episodio storico, contro un governo. Diventa la
metafora di una condizione umana aggrappata a un gesto d’amore, a una testimonianza, a
uno straccio di solidarietà: di fronte a un’astrazione insensata quale appare lo Stato.
Oggi Obama fa del suo meglio perché la marea nera della Louisiana da disastro ecologico
non si trasformi in un disastro politico. Il bilancio delle vittime non è paragonabile. Gli aiuti
sono stati più veloci. Ma resta un divario incolmabile tra la logica dello Stato — bisognerà pur
continuare a trivellare, l’America avrà ancora
bisogno di compagnie che estraggono petrolio
offshore — e il volto umano di quest’ultima catastrofe. Charles Robin, l’erede di cinque generazioni di pescatori, dice: «Katrina ci ha scavato la fossa. Eravamo lì dentro, annaspavamo
per uscirne, e ci arriva addosso questa marea
nera». John Richie, un artista del French Quarter, quando ha sentito che i capelli servono ad
assorbire il petrolio, è andato a donare la sua
criniera bionda. Shannon Powell, musicista
jazz al Preservation Hall, parla a nome di tanti:
«Cosa possiamo fare noialtri contro questa Cosa orrenda? Ci svegliamo ogni mattina e non
sappiamo come difenderci». Il disastro stavolta non è arrivato di schianto ma accerchia lentamente, come la peste, tutto ciò che è vivo nel
Golfo. Le inchieste del governo e del Congresso, le cause contro i petrolieri, viste dalla Louisiana sono riti beffardi. Cinque anni dopo Katrina il 41 per cento dei bambini di New Orleans
continua a soffrire di anemia: il doppio rispetto ai senzatetto nel resto degli Stati Uniti. «Nel
linguaggio umano — disse nel 2005 lo scrittore
di New Orleans Richard Ford — manca una parola per dire la morte di una città».
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Repubblica Nazionale
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la società
Donne sull’orlo
ANAIS GINORI
L
PARIGI
a libertà femminile è incominciata a poco a poco, con un orlo che
lentamente si alza, svelando prima le caviglie, poi le ginocchia, infine le cosce. La gonna è qualcosa di più di un
semplice pezzo di stoffa. Ogni centimetro guadagnato o perso ha segnato una nuova tappa
nel cambiamento sociale. A campana, a portafoglio, lunga o mini, strettissima o con lo
spacco, nelle sue infinite geometrie e trasformazioni ha accompagnato il cammino delle
donne per secoli, rispecchiando la decenza e la
morale dell’epoca. Indumento femminile per
eccellenza, definisce il genere sessuale sin dall’antichità. «Già nella Bibbia viene menzionato il divieto per le donne di vestirsi da uomo»,
ricorda Christine Bard, autrice di Ce que soulève la jupe, storia politica di questo capo vestiario.
Sotto alla gonna, come suggerisce il titolo del
libro, si nascondono le fantasie erotiche degli
uomini ma anche, a livello sociale, la gerarchia
tra i sessi. In Francia, fino agli anni Sessanta un
prete poteva rifiutare la comunione a una donna con i pantaloni, e non è ancora stata abrogata un’ordinanza che vieta alle donne di uscire a Parigi indossando i calzoni. Solo nel 1980 il
parlamento ha autorizzato le deputate a presentarsi in pantaloni: merito della comunista
Chantal Leblanc che, respinta dagli uscieri, ha
preteso che cadesse l’ultimo tabù.
Per secoli, indossare la gonna è stato un obbligo, il marchio di un’inferiorità. «Un vestito
DOMENICA 16 MAGGIO 2010
In principio
fu la veste bisex
per eccellenza
Col tempo
è diventata
molto più
che un semplice
pezzo di stoffa,
segnando
il confine tra i sessi
e le molte tappe
dell’emancipazione
femminile
Ora, in Francia,
un libro
ne ripercorre
la lunga storia
Che al di là
delle apparenze
è tutta politica
La gonna
da prigione
a bandiera
di libertà
IL LIBRO
Ce que soulève
la jupe di Christine
Bard, pubblicato
in Francia
(Autrement,
170 pagine,
17 euro), traccia
una storia politica
della minigonna,
dagli anni
Sessanta a oggi
FOTO GETTY IMAGES
aperto, segno della disponibilità del corpo
femminile, da contrapporre a quello chiuso e
protetto degli uomini», spiega Bard, docente di
storia contemporanea all’università di Angers.
«Anche da un punto di vista pratico, significava una costrizione, c’era l’idea di intralciare il
movimento». Le gonne erano pesanti, sovrapposte alle sottane, si trascinavano a terra. Alla
fine dell’Ottocento, la prima suffragetta francese, Hubertine Auclert, fondò la “Lega per le
gonne corte”: insieme al diritto di voto, rivendicava anche quello di liberare le gambe. Nel
1897, durante un incendio al Bazar de la Charité di Parigi, morirono centodieci donne e solo sei uomini. Secondo le femministe dell’epoca, le vittime non erano riuscite a scappare per
colpa delle loro gonnelle. È proprio nella Belle
Epoque che viene inventata la gonna-pantalone, per andare in bicicletta o fare sport. La guerra dà un’altra spallata alle convenzioni. Mentre gli uomini sono in trincea, le donne devono
lavorare. In fabbrica, portano i pantaloni. Fumano, slacciano busti e corpetti, si tagliano i
capelli. Le chiamano le garçonnes, maschiacci.
Intanto, l’orlo si accorcia. Nel 1925 arriva fino al ginocchio, negli Stati Uniti vengono persino varate leggi per fissare l’altezza della gonna. La rivoluzione è cominciata. Anche se negli
anni Trenta con la Grande Depressione e l’avvento del nazismo la moda ricambia e torna il
«rispetto delle differenze» tra uomini e donne.
La direttrice della rivista femminista La
Française scrive allora: «La gonna, simbolo e
strumento dell’ineguaglianza tra i sessi, rimane un feticcio difficile da toccare senza creare
scandalo». Ma è questione di poco. Le donne si
appropriano dei pantaloni a partire degli anni
Sessanta, con i mitici tailleur di Coco Chanel e
i jeans americani che spopolano tra le intellettuali di Saint-Germain-des-Près.
Ma proprio in quegli anni la gonna ritrova la
sua forza sovversiva. Da simbolo di oppressione, diventa emblema della liberazione sessuale. Nel 1959, Yves Saint-Laurent svela il ginocchio di una modella durante una sfilata. Da
Londra arriva la “mini” di Mary Quant. Per
Chanel è un indumento «sporco». Lo stilista
André Courrège manda invece la minigonna in
passerella, dedicandola alle «Donne del Duemila». Due visioni si contrappongono, e non è
solo questione di moda. A proposito del duello
Chanel-Courrège, il filosofo Jean Baudrillard
scrive: «Il corpo è diventato il nostro più gran-
de oggetto di consumo». Una questione politica. Tanto che Georges Pompidou è costretto a
risponderne in campagna elettorale. Favorevole o contrario alla minigonna? «La moda
cambia, io mi adeguo», dice, sapendo che ormai è impossibile schierarsi. Sua moglie Claude, rompe la tradizione, entrando all’Eliseo in
pantaloni.
«Ancora oggi portare la gonna non è un gesto banale, senza conseguenze», osserva Christine Bard. «Implica una consapevolezza del
proprio corpo. È un potente rivelatore dei rapporti sociali tra maschi e femmine, e tra le stesse femmine». Dal 2005 esiste in Francia un
“movimento della gonna” nato in un liceo della Bretagna, dopo che una ragazza era stata stuprata perché «vestiva troppo sexy». Da quell’e-
pisodio è nato un progetto di educazione civica che si ripete ogni anno in decine di scuole, la
“Primavera della gonna e del rispetto”. Il capo
di vestiario è il pretesto per parlare d’altro. Di
tolleranza e pregiudizi, di violenza non solo fisica ma verbale, di autodeterminazione del
proprio corpo. L’obiettivo è scardinare l’equazione gonna uguale puttana. «Per molti giovani rappresenta ciò che era nell’antichità: un vestito aperto, quindi sinonimo di disponibilità
sessuale», racconta Bard. «Le ragazze che si vestono così si sentono più esposte, in pericolo».
A celebrare le giovani neofemministe con la
gonna è arrivato l’anno scorso anche un film.
Isabelle Adjani nei panni di un’insegnante
prende in ostaggio i suoi alunni e chiede come
riscatto al governo una giornata della gonna,
LA FOTO
La copertina
di Life,
21 agosto 1970
Repubblica Nazionale
DOMENICA 16 MAGGIO 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
MARY
QUANT
Anni ’60,
la stilista
inglese
inventa
la minigonna
TWIGGY
L’icona
della moda
degli anni
Sessanta
è sempre
in mini
“Da 30 anni,
nei miei 600 saloni,
la mia passione
è rendere sublimi
i capelli di ogni donna”.
BRIGITTE
BARDOT
Da Piace
a troppi in poi
ha mostrato
le gambe
al cinema
Franck Provost rende la sua professionalità
accessibile a tutte le donne creando
la linea Expert di shampoo, balsamo e maschera.
JANE FONDA
Barbarella
e la squillo
di Klute
sono i suoi
personaggi
in mini
Formule professionali, nel grande formato salone,
a un prezzo accessibile.
LADY DIANA
Ha rotto
gli schemi
alla corte
inglese
anche
in minigonna
affinché le sue alunne «non vengano trattate
come mignotte quando la indossano». Scoprire le gambe è di nuovo un atto militante, la rivendicazione di un diritto. È questa la parte del
corpo più nascosta delle donne. «Nel Medioevo — ricorda Bard — si potevano ostentare
profondi decolleté, però mai centimetri di pelle dal busto in giù». Nonostante tante trasformazioni, la gonna costituisce ancora una trasgressione all’ordine. «Il pantalone, invece, si è
rapidamente spoliticizzato: da cinquant’anni
fa è di uso comune tra le donne».
Nel Ventunesimo secolo l’indumento femminile potrebbe servire all’affermazione dell’identità transgender. «Dalle prime gonne per
uomini create da Jean-Paul Gaultier negli anni
Ottanta — ricorda la storica — si è creata una
nuova sensibilità tra giovani uomini che chiedono di impadronirsi di questo capo vestiario.
Credo sarebbe un bene tornare all’idea che è
unisex». Gonna, dal latino gunna, in origine era
infatti una veste, anche maschile, che copriva
il corpo. La parola gonna, fa notare la storica,
eredita tuttora una connotazione negativa.
Qualche mese fa, il cardinale André VingtTrois aveva commentato a proposito del sacerdozio femminile: «Non basta indossare una
gonna, occorre avere qualcosa nella testa». Dopo quella battuta, delle cattoliche progressiste
si sono unite per denunciare pubblicamente
l’oscurantismo nella Chiesa. Hanno creato il
“Comitato della Gonna”. Là sotto c’è davvero
un mondo.
In PROFUMERIA e
nei SUPERMERCATI
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Repubblica Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 16 MAGGIO 2010
CULTURA*
Una vedova va al cimitero ogni giorno fino a quando non muore
sulla tomba del marito. Titolo: “Tanto va la gatta al lardo”
È uno dei motti fulminanti dell’autore di “Centocinquanta
la gallina canta”, maestro del nonsense, precursore di Ionesco, umorista
per natura. Ora un epistolario rivela il suo privato: l’ansia per un libro in uscita,
la stima di Montale, il timore di Cardarelli, la collaborazione con Zavattini
CAMPANILE
Le lettere assurde
PAOLO MAURI
a sera del 17 ottobre 1930 andò in scena al teatro Manzoni di Milano L’amore fa fare questo ed altrodi Achille Campanile. Un maestro si traveste da bambino per meglio insegnare a un altro
bambino. La regia era di Guido Salvini
e a recitare c’erano, tra gli altri, Vittorio De Sica, che
di Campanile era parente, e Giuditta Rissone. Una
buona parte del pubblico — il teatro era stracolmo
— cominciò a rumoreggiare, gli altri applaudivano.
Raccontano le cronache che persino i carabinieri di
servizio discutessero tra di loro. A un certo punto
qualcuno vede Pirandello in un palco, insieme al
drammaturgo Dario Niccodemi (La nemica etc).
C’è una vera ovazione per Pirandello. Campanile si
stufa, si affaccia alla ribalta e grida: ma l’autore sono io! Viene sommerso dai fischi. Raccontò poi che
Pirandello lo aveva guardato con odio e Pirandello
stesso, scrivendo a Marta Abba, ricordò l’episodio,
parlando di «fiasco colossale di quella scipita buffonata del Campanile» e degli applausi rivolti a lui. La
rappresentazione fu interrotta. Tre anni dopo, al
Barberini di Roma, gli attori della compagnia Za
Bum n.8 si rifiutarono di continuare dopo il primo
atto, mettendosi a recitare un’altra commedia. Una
cosa mai vista. Questa volta Campanile ricevette la
solidarietà da diversi colleghi. Anche da Pirandello.
Il teatro di Campanile, che Ionesco riconobbe tra
i propri padri nobili, non era per tutti. Nel ’25 in via
degli Avignonesi a Roma Anton Giulio Bragaglia gestisce il Teatro degli Indipendenti e chiede un testo
a Campanile: vien fuori di getto Centocinquanta la
gallina canta. Chi ama l’opera buffa e il “riso scemo”
L
RICORDI
A destra: Campanile
a dieci mesi;
con la moglie
Giuseppina Bellavita
Sopra, il padre
dello scrittore,
Gaetano Campanile
Mancini nel 1920
Il genio folle
nascosto
nella battuta
di Campanile può ora seguirne la lunga vicenda attraverso l’epistolario dello scrittore, Urgentissime
da evadere, ben curato da Silvio Moretti e Angelo
Cannatà, per l’editore Aragno (528 pagine, 25 euro),
con l’avvertenza che il Nostro scriveva lettere malvolentieri e dunque qui si ritroveranno soprattutto
le lettere dei suoi principali interlocutori. Che furono molti e, se così possiamo dire, sceltissimi, a testimonianza del fatto che Campanile era una presenza importante nel panorama letterario italiano, anche prima che le nuove generazioni lo riscoprissero a partire dal ’71, quando Einaudi pubblicò in volume i suoi lavori teatrali. Lo leggevano in tanti: Cecchi, Baldini, Ojetti, Montale, D’Amico…
Nel ’27 Enrico Dall’Oglio gli pubblica il primo romanzo Ma che cosa è quest’amore?. Andrà a ruba e
sarà anche ben recensito da Pancrazi sul Corriere. Il
10 giugno l’editore lo rassicura, presiederà lui stesso all’ultima revisione dell’opera, comunque «se Ella ci tiene la prego di essere a Milano lunedì mattina
per licenziare le prime novantasei pagine prima
d’andare in macchina». Come tutti gli autori, anche
Campanile segue con apprensione la sua creatura.
Il 18 luglio (il romanzo era uscito da tre giorni) l’editore cerca di rasserenarlo: «Ho ricevuto tutto: l’espresso del 14, la lettera iraconda del 15, il telegramma pacificatore del giorno 16, la successiva
lettera del giorno 16…». Con Dall’Oglio ci sarà poi
una frattura, ricucita solo moltissimi anni dopo.
Campanile passerà a Treves, poi a Mondadori e infine a Rizzoli, per citare solo i suoi principali editori. Ma in molti lo cercano e lo corteggiano per avere
qualcosa di suo. Valentino Bompiani che pubblica
un Almanacco letterario gli chiede, nel ’27, qualcosa di originale. E gli suggerisce «una serie di “inter-
Repubblica Nazionale
DOMENICA 16 MAGGIO 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
FOTO DI GRUPPO
Sotto, Campanile
(il primo da sinistra)
con i colleghi
della redazione
del Travaso;
a sinistra, una lettera
di Malaparte
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CARTEGGI
A sinistra,
un biglietto scritto
da Campanile
a Franco Zeffirelli;
sopra, una lettera
di Vincenzo
Cardarelli
Tutte le immagini
di queste pagine
sono tratte
dal volume
Urgentissime
da evadere
a cura di Silvio
Moretti e Angela
Cannatà
(Aragno Editore)
viste fulminanti” apocrife di non molte ma vivaci
battute». Campanile, introdotto dal padre Gaetano
alla Tribuna come correttore di bozze, ha ben presto rivelato le sue doti di battutista. Arriva la notizia
che una vedova, solita a recarsi ogni giorno sulla
tomba del marito, muore anch’essa proprio lì. E il
giovane Campanile titola: «Tanto va la gatta al lardo», sicché il critico teatrale Silvio D’Amico, che curava la terza pagina del giornale, commenta: questo
è un pazzo o un genio.
Probabilmente Campanile era un po’ tutte e due
le cose. L’assurdo richiede genialità e un po’ di follia e non a tutti la cosa piaceva. Vincenzo Cardarelli lo mette in guardia: «Caro Campanile, leggo sulla
Fiera letteraria il pezzo che mi riguarda e mi compiaccio di constatare come finalmente lei sia riuscito a scrivere su me qualcosa di garbato. Io sono un
suo vecchio estimatore e in qualche momento mi
sono persino illuso che noi fossimo diventati amici.
Veda di non turbare in seguito, se le sarà possibile,
con scherzi avventati, questi miei sinceri e umanissimi sentimenti a suo riguardo…». La lettera è del
giugno 1927: Campanile ha ventotto anni, Cardarelli una quarantina.
Il 27 ottobre 1930, Lando Ferretti, capo ufficio
stampa di Mussolini, lo informa che sarà ricevuto da
“S. E. il Capo del Governo” a palazzo Venezia lunedì
10 novembre alle ore 17. Quando il fascismo cadde,
Campanile ironizzò sul fatto che Mussolini era stato capace di governare contro quaranta milioni di
italiani: non se ne trovava più uno che fosse stato fascista. Ma fascista non era stato nemmeno lui: si
considerava un apolitico. Gli capitò invece, molti
anni dopo, di lavorare per un quotidiano comunista, lui che proprio comunista non era e non si sen-
tiva. Era Milano-Serache nel ’49 lo assunse come inviato. Ricordò nei suoi diari che quel giornale era
ben strano e il direttore non aveva autorità sui suoi
redattori e nemmeno sugli uscieri: anzi un usciere,
essendo capocellula del partito, dava del tu al direttore e controllava gli articoli facendo fare delle modifiche. Informato della cosa, Campanile teneva
d’occhio un usciere, ma era… quello sbagliato.
Come inviato speciale Campanile, che aveva lavorato per La Gazzetta del Popolodi Ermanno Amicucci e per La Stampadi Curzio Malaparte, si era anche trasformato in giornalista sportivo seguendo il
Giro d’Italia e il Tour. Naturalmente a modo suo.
Così come molto campanilesca è l’intervista al Mostro di Loch Ness che soffre di solitudine e alla fine
muore. Fittissima è la corrispondenza con Zavattini col quale condivise la direzione del Settebello, settimanale umoristico che insidiava il Bertoldo. C’è
anche una lettera del professor Di Lauro, già insegnante di Campanile al liceo ginnasio Mamiani di
Roma. A lui l’undicenne Achille portò il quaderno
con la tragedia di Rosmunda messa in versi. Alboino la invita a bere nel cranio di suo padre e lei: «Caro Alboino/ bere non posso/tutto quel vino/dentro
quell’osso».
Oggi si fanno anche convegni sul nonsense e l’editore Salerno ha appena stampato gli atti di un simposio tenutosi a Cassino tre anni fa. C’è anche un
contributo su Campanile di Barbara Silvia Anglani,
che ricorda un Campanile lettore dell’assurdo nella realtà. Ecco la sua reazione alla morte di un bambino: «Ma guarda un po’ quel bambino, così piccolo e già morto… È ammirevole a quell’età, non lo neghiamo: è un caso di precocità sorprendente».
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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la memoria
Patrioti
DOMENICA 16 MAGGIO 2010
Si chiamava Antonia Masanello, con il marito raggiunse
le camicie rosse, si spacciò per maschio e combatté
dalla Sicilia al Volturno guadagnandosi il grado di caporale
Poi la morte per tisi e un lungo oblio. Fino a quando
il suo paese, in Veneto, ne ha recuperato la storia
per raccontarla nell’anniversario dell’Unità d’Italia
La guerriera di Garibaldi
l 23 maggio del 1862 usciva su Lo
Zenzero, «giornale politico popolare» di Firenze, un articolo, breve ma commosso, intitolato semplicemente Antonia Marinello.
L’anonimo articolista si rivolgeva
ai «Popolani miei carissimi». Domandava loro se avessero visto «jeri l’altro sera
quella bara che portava un cadavere all’ultima dimora», e se sapessero chi fosse la persona morta: «...dissero una Garibaldina... Non sapete altro?... Dunque
ascoltate». Chi ascoltò, e lesse, apprese
che la morta era Antonia Marinello, «che
appena attaccata la guerra nell’Italia
Meridionale assieme a suo marito corse
I
Sulla sua tomba questi
versi: “Era bella,
era bionda, era piccina
ma avea cuor da leone
e da soldato”
colà nelle file del Generale Garibaldi».
Una vivandiera, dunque? «No, vi ho detto che combatté, che vuol dire che col
suo fucile in spalla fece tutto quel che fecero quei generosi giovani», dalla Sicilia
al Volturno. E lo fece sotto mentite spoglie, facendosi passare per il fratello del
consorte, dato che l’arruolamento delle
donne non era consentito. Così, per
molto tempo, «i suoi camerati non si erano avveduti, che essa era una femmina».
Antonia, o Tonina, esule veneta, era
morta due giorni prima di tisi a Firenze,
dove abitava con il suo compagno in una
«delle più umili casette che sono alla
piazza de’ Marroni». Di lì a poco, in luglio,
avrebbe dovuto compiere ventinove anni. Al suo funerale andarono in tanti. E a
quella folla dovette unirsi anche Francesco Dall’Ongaro, uno dei poeti più amati del Risorgimento. Non molto tempo
dopo dedicò un canto struggente, musicato in seguito da Carlo Castoldi, alla giovane che aveva indossato la camicia rossa dell’Esercito Meridionale di Giuseppe
Garibaldi. Scrisse: «L’abbiam deposta la
garibaldina / all’ombra della torre a San
Miniato». E ancora, parafrasando Dante:
«Era bella, era bionda, era piccina, / ma
avea cuor da leone e da soldato». I versi
vennero incisi sulla lapide nel cimitero
delle Porte Sante di San Miniato. Di Tonina, come ormai la chiamavano affettuosamente, parlò persino un quotidiano di New Orleans, The Daily True Delta.
Il 10 agosto di quel 1862 raccontò di «an
italian heroin», un’eroina italiana, fra
cronaca e leggenda. Poi su di lei cadde il
silenzio. E venne dimenticata.
L’oblio durò a lungo. Fino a quando a
Cervarese Santa Croce, un paese in provincia di Padova, tra il fiume Bacchiglione e i Colli Euganei, Giovanni Perin, poeta «per diletto» in lingua veneta, suo figlio
Piero, scultore, entrambi scomparsi, e
soprattutto Alberto Espen, storico e bibliotecario, hanno cercato di riportare
un po’ alla luce la storia della garibaldina. Il suo vero nome era Antonia Masanello. Nata a Cervarese nel 1833 in una
famiglia contadina, aveva cominciato
giovanissima a cospirare contro gli austriaci con l’uomo con il quale si sarebbe
sposata, che verosimilmente si chiamava Marinello. Pare che i due fossero stati
incaricati di aiutare chi voleva espatriare dal Lombardo-Veneto e raggiungere il
Piemonte. Non si ha notizia di quando
Tonina, il suo compagno e la loro
figlioletta, che nel frattempo
era nata, passarono a loro
volta il confine. Sorvegliati
dalla polizia, sospettati di
professare idee liberali e
mazziniane, prossimi
LA PARTENZA
Nel maggio 1860,
Antonia Masanello (raffigurata
qui sopra) e il marito
si imbarcano a Genova
alla volta della Sicilia
L’INQUADRAMENTO
Antonia si arruola
come Antonio Marinello
e viene inquadrata
nel terzo reggimento
della Brigata Sacchi
LE BATTAGLIE
Dalla Sicilia al Volturno,
Antonia partecipa
alle battaglie al seguito
di Garibaldi. Ottiene
il brevetto da caporale
LA FINE
Congedata con onore,
Antonia si trasferisce
con marito e figlia
a Firenze. Muore povera
nel 1862, a ventinove anni
a essere arrestati, nei primi mesi del 1860
riuscirono a riparare a Modena.
Si stava preparando l’impresa garibaldina in Sicilia. Lasciata la figlia a Modena da un amico, Tonina e il marito corsero a Genova. Lì seppero che erano appena salpati il “Piemonte” e il “Lombardo”. Non si persero d’animo. S’imbarcarono nel giro di qualche settimana, forse
con la spedizione guidata dal pavese
Gaetano Sacchi, una delle tante che
avrebbero portato rinforzi e armi a Garibaldi. Lei si arruolò come Antonio Marinello e venne inquadrata nel terzo reggimento della Brigata Sacchi, facendo tutta la campagna di liberazione.
Fu la sola donna garibaldina del 1860,
oltre alla moglie di Francesco Crispi, che
aveva seguito i Mille dallo scoglio di
Quarto? Per quanto concerne le truppe
regolari, non si sa. Vestiva la divisa delle
Guide, ma senza nascondere la sua bellezza, la contessa Martini Giovio della
Torre, che si era invaghita del Generale.
C’era qualcuno che conosceva la reale
identità di Tonina? Si dice che ne fossero
a conoscenza soltanto il maggiore Bossi
e il colonnello Ferracini, altre fonti aggiungono Francesco Nullo, bergamasco, il «più bello dei Mille», e lo stesso
Eroe dei Due Mondi, che avrebbero visto
sciogliersi i suoi capelli biondi, dapprima raccolti sulla nuca, nel furore di uno
scontro.
Rammentò Lo Zenzero che Tonina
«quando gli toccava o gli veniva ordinato montava le sue guardie, faceva le sue
ore di sentinella a’ posti avanzati — il suo
servizio di caserma; insomma faceva
tutto ciò» con «disinvoltura e coraggio».
Nella sua monografia su Cervarese Santa Croce, Espen afferma che gli ufficiali
dicevano che Tonina «avrebbe potuto
comandare un battaglione se la sua condizione di donna non gliel’avesse impedito». Vennero la gran battaglia del Volturno, il trionfo di Garibaldi, di Bixio, di
Cosenz, di Medici, di Dezza, di Türr, dei
picciotti siciliani, di Sacchi. La garibaldina ottenne, il brevetto da caporale e il
congedo con onore. Arrivò il giorno della smobilitazione. I piemontesi incassa-
rono l’Italia fatta dalle camicie rosse e le
mandarono a casa.
Tonina e il marito andarono a prendere la loro bambina, trasferendosi a Firenze. Vissero in povertà. A un certo punto lei si ammalò. Era una malattia, disse
Lo Zenzero, «acquistata nelle fatiche della guerra». Spirò «nelle braccia del marito lasciandolo nel pianto in terra d’esilio». Ada Corbellini, una poetessa di Parma deceduta anche lei giovane, a ventisei anni, in una notte di luglio del 1863
compose una lirica in cui espresse il desiderio di essere sepolta accanto alla
tomba di Tonina, a San Miniato. Ora le
spoglie della garibaldina non sono più
all’ombra della torre. Nel 1957 vennero
traslate nel cimitero fiorentino di Tre-
“Poteva comandare
un battaglione,
se la sua condizione
di donna non glielo
avesse impedito”
spiano. Aveva dato la vita per fare l’Italia.
E ovviamente l’Italia la dimenticò. Solamente Cervarese Santa Croce, il suo paese, la ricorda. Nella biblioteca comunale
c’è una scultura, opera di Piero Perin,
che ne immagina il viso. È il volto della
“Masenela”, come si dice in veneto, che
Giovanni Perin, il papà dell’artista, aveva descritto così: «Tra i tanti eroi della nostra storia/ registrar dovemo la Masenela/ per conservar viva la memoria/ de sta
gueriera dona, forte e bela».
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FOTO SCALA
MASSIMO NOVELLI
Repubblica Nazionale
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 16 MAGGIO 2010
SPETTACOLI
Tre americani su cento hanno origini ebraiche
ma tra i comici di mestiere il rapporto è ottanta
su cento. Ora un libro di Lawrence J. Epstein,
con la prefazione di Moni Ovadia,
spiega perché lo straziante sorriso
del ghetto ha conquistato il mondo
1
2
Fanny Brice
Milton Berle
Non mi sono mai piaciuti
gli uomini che ho amato,
e non ho mai amato gli uomini
che mi sono piaciuti
A teatro ho visto una commedia
così brutta che da una poltrona
si è alzato un signore che ha gridato:
“C’è un attore in sala?”
1 FANNY
6 I FRATELLI
BRICE
Sopra, l’attrice
interpreta
Baby Snooks
nel 1949
2 MILTON
MARX
5
Chico,
Harpo,
Groucho
e Zeppo
L’attore
al microfono
della Cbs
nel 1944
5 ED
BROOKS
7
Il regista
del film di culto
Frankenstein
Junior
LA COPPIA
SWING
WYNN
Il comico veniva
chiamato
“The Perfect Fool”
dal titolo di un film
Gracie Allen
e George
Burns
7 nel 1935
VITTORIO ZUCCONI
i quante lacrime è inzuppato il sorriso del ghetto, di
quante paure è lastricato il
sentiero della risata che
dall’Europa dei pogrom ha
raggiunto e conquistato i
palcoscenici di New York, gli studios di
Hollywood. Eppure è in quella dolorosa
speranza trascinata attraverso l’Atlantico
nelle stive fetenti dei vapori, nei termitai
umani della Lower East Side di Manhattan
il segreto per capire che cosa abbia spinto
tre generazioni di immigrati ebrei a diventare comici, a soffrire per far ridere e dunque farsi accettare e amare. Magari soltanto per cercare quella che Henry Bergson,
nel proprio saggio sulla risata, chiamava
«la passeggera anestesia del cuore».
Oggi sembra normale che nell’America
che ride, tanti uomini e donne che la intrattengono abbiano nomi ebrei o li nascondano dietro pseudonimi “anglo”. Da
Woody (Konigsberg) Allen ai fratelli Marx
(il loro vero nome), dalla regina dell’umorismo femminile più feroce Joan Rivers
(Rosenberg) all’immenso Mel Kaminski,
in arte Mel Brooks, nei cento anni trascorsi fra lo sbarco nel 1899 a New York della famiglia di Benjamin Meyer, che divenne il
patriarca della comicità kosher facendosi
chiamare Jack Benny, e il trionfo di Jerry
Seinfeld, che orgogliosamente usò il proprio cognome come bandiera del suo
show (scritto da Larry David, altro
ebreo) nel 1998, c’è una storia di risate strazianti. Un viaggio di ansie e di
dilemmi culturali e umani che finalmente un incantevole saggio,
Riso kosher di Lawrence J.
Epstein (titolo originale: The
Haunted Smile, il sorriso tormentato), tradotto da Sago-
3 MEL
BERLE
D
Ridere
Kosher
FOTO GETTY IMAGES
6
ma editore, racconta.
Fu per primo il New York Timesad avvedersi in una inchiesta del 1979 di questo
dato sbalorditivo. In una nazione dove
erano appena il tre per cento, gli ebrei erano l’ottanta per cento dei comici in attività,
dai clubbini di spogliarello a Chicago agli
hotel casinò di Vegas, dal lungomare di
Atlantic City agli studi della televisione.
Passando per gli aberghi resort dei monti
Catskills, quei mega hotel dove un cameriere chiamato Jerry Lewis, nato Levitch,
scoprì la propria capacità di far ridere inciampando e rovesciando un vassoio di cibo kosher addosso al rabbino che recitava
le preghiere del “Shabbes”, del sabato. Rise anche il rabbino.
Dipanare la matassa di questo sensazionale successo è impossibile e rischioso,
perché tesse ragnatele di luoghi comuni,
di generalizzazioni e sotto sotto di razzismo, che alla fine non spiegano come generazioni di uomini e di donne abbiano
saputo solleticare il “funny bone”, l’osso
della risata. Se c’è un filo rosso che lega l’umorismo familiare e affettuoso di un Myron Cohen che sfotteva la mamma oculata massaia («andava dal fruttivendolo e
chiedeva: quanto vengono due cetrioli?
Cinque cent. E uno solo? Tre cent. Bene, mi
dia quello da due») alla ribellione autodistruttrice del tormentato Leonard Schneider, Lenny Bruce, primo e unico comico
satirico a essere condannato al carcere per
scurrilità, questo filo è nella spia di quei nomi d’arte sovrapposti al nome autentico.
Il dramma universale dell’immigrato,
che si contorce sempre fra i desideri opposti di integrarsi e di mantenere la propria
identità, si tende fino a spezzarsi, come nel
caso di Lenny Bruce Schneider, morto in
rovina per overdose. Il percorso della comicità, la ricerca di quella risata che significa accettazione («semplicemen-
Repubblica Nazionale
DOMENICA 16 MAGGIO 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
L’autoironia, un passe-partout
nella società del melting pot
MONI OVADIA
orizzonti e prospettive, che inaugurava nuovi e dirompenti strumenti di comunicazione come radio,
cinema e televisione. La prima società di massa, la
prima società dello spettacolo, il primo e gigantesco
melting pot, con tutte le sue angosce, insicurezze ed
esplosive contraddizioni, aveva un bisogno vitale di
qualcuno che esorcizzasse i conflitti, le intolleranze,
le violenze incendiarie per farle deflagrare nelle risate invece che nelle aggressioni. I comici e gli umoristi
ebrei offrirono come “vittime” sacrificali dei loro micidiali strali se stessi e i buffi e sgangherati tipi tragicomici della loro gente, con i guai e le disavventure
che ne scandivano l’esistenza. Progressivamente insegnarono alla società statunitense, minoranze e
maggioranze, a ridere di se stessa, contribuendo così a creare un territorio culturale ed esistenziale comune. I nomi di questi “eroi” della comicità sono
troppo noti perché si debba elencarli, fanno parte
della topografia sociale e culturale degli Stati Uniti,
ma anche di quella di tutto l’Occidente. Il loro spirito è entrato anche nel paesaggio interiore di tutti noi
e, in qualche misura, ha contribuito a formarci.
egli Stati Uniti l’intera temperie culturale del
Novecento è stata fortemente influenzata
dalla minoranza ebraica, ma per ciò che attiene al mondo dello spettacolo e ancor di più a tutte le
forme del comico e dell’umoristico, la vastità della
presenza ebraica ha dell’inverosimile e persino del
miracoloso [...] L’umorismo nel mondo ebraico (ma
non solo nel mondo ebraico) è sempre stato ben di
più e ben altro che un modo per divertirsi e ridere, è
stato una Weltanschauung, una filosofia, uno strumento ermeneutico e una delle forme del pensiero
sociale che ha permesso agli ebrei di attraversare i
momenti più tragici della loro esistenza senza che la
loro identità ne venisse demolita. Il tratto saliente
dell’umorismo e della comicità ebraica è l’autodelazione, il ridere di se stessi, dei propri guai, delle proprie angosce e paure anche sul limitare dell’abisso o
della tomba, mai cedendo alla logica della volgarità
o della violenza. Questa attitudine è nata dalla convergenza di tre particolari fattori: esilio, sradicamento, persecuzione, condizioni esistenziali tutte difficili ma foriere di eccezionali sollecitazioni.
Un’attitudine, si diceva, divenuta una seconda
natura e un passe-partout per l’accesso in una società in piena e dinamica trasformazione, ricca di
N
3
Mel Brooks
Per ogni dieci ebrei
che si battono il petto,
Dio ne ha creato uno che diverta
quelli che si disperano: sono io
CANTOR
8
IL DUO
STORICO
9
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Harpo Marx
8 EDDIE
L’attore
in una scena
di Whoopee
film del 1930
© Moni Ovadia, 2010
Jerry Lewis
e Dean Martin
in una foto
del 1955
te non si può odiare chi ti fa ridere e questo
i comici lo capiscono subito», dice l’italoamericano Jay Leno) offre un surrogato di
sicurezza e di calore a chi ben poco ne conobbe. Jackie Mason, nato Jakob Moshe
Maza, portava questo calvario dell’identità anche dentro se stesso, in famose satire della psicoanalisi: «Il mio analista mi ha
detto che mi farà trovare il vero me stesso.
Bravo dottore, e se poi scopro che non mi
piaccio lei mi restituisce i soldi?». Lui aveva imparato a calcare la mano sul proprio
ebraismo, forzando l’accento yiddish, il tedesco reinventato dalle comunità ebree
nell’Europa Centrale e Orientale, fino a
farli diventare parte dell’inglese americano d’ogni giorno. Parole come schlepp, faticare, meshugge, pazzerello, schlock, patacca, schmuck, minchione, sono passate
dai ghetti di Varsavia ai club di Manhattan.
E lo schlemiel, l’inetto, l’eterno perdente, è
il personaggio classico della cultura popolare ebraica che Woody Allen ha trasferito
nei suoi monologhi e poi nei suoi film.
Proprio in uno dei capolavori di AllenKonisberg, Zelig, l’angoscia dell’identità
impossibile raggiunse la propria maturità,
con l’uomo che è tutto per tutti e dunque
nessuno. L’autoironia, l’autoanalisi, l’autodeprecazione sono state l’arma che ha
reso tanti di questi artisti amati e accettabili, come ora sta accadendo con una nuova generazione di comici afroamericani.
Nella spietata autocommiserazione («chi
non sa fare le cose le insegna, chi non sa insegnare insegna ginnastica, chi non sa fare né insegnare veniva scelto come professore nella mia scuola», recitava Woody)
c’era la lama di una satira sociale accettabile e non offensiva soltanto perché a doppio taglio, che ferisce chi la impugna prima
di chi la riceve. Ma sempre, anche nei più
giovani come Jerry Seinfeld, con il sospetto che sotto la pelle si nasconda la carne vi-
9
Come ci si può divertire
in una festa in cui le birre
sono calde e le donne
sono fredde?
Eddie Cantor
Jerry Lewis
Il matrimonio è tentare
di risolvere in due problemi
che non sarebbero mai sorti
se fossi rimasto da solo
La felicità non esiste
Di conseguenza
non ci resta che provare
ad essere felici senza
Zelig, lo strano caso
dei comici ebrei
Riso kosher
di Lawrence J. Epstein
(Sagoma Editore,
trad. di Alessandra
Olivieri Sangiacomo,
350 pagine, 18 euro)
La prefazione è di Moni
Ovadia. Sagoma
partecipa al Salone
del libro di Torino
Woody Allen
- Dottore, mio fratello
crede di essere una gallina
- Perché non lo interna?
- E poi le uova chi me le fa?
Groucho Marx
Si può ridere del passato
purché si sia
abbastanza fortunati
da sopravvivervi
IL LIBRO
4
va. In un famoso episodio del dentista che
si converte all’ebraismo soltanto per poter raccontare le barzellette sugli ebrei
senza passare per antisemita, quando il
medico chiede a Seinfeld se le sue battute
lo offendessero come ebreo, Jerry risponde asciutto: «No, lei mi offende come comico».
Nessuno dei suoi predecessori avrebbe azzardata una risposta che insieme
sferza il dentista idiota e rifiuta la suscettibilità etnica e culturale che la barzelletta razzista dovrebbe far scattare. I suoi
vecchi, quelli che battevano il circuito
delle vacanze con blande prese in giro dei
tic e delle patologie familiari («il becchino
chiama il genero della donna morta e
chiede: dobbiamo imbalsamare, cremare o seppellire sua suocera? Faccia tutte e
tre, per non correre rischi») o che ripetevano i classici sketch coniugali cercavano
l’inoffensività come rifugio.
Per le femmine, le regine della comicità
kosher, matrioske che portavano e portano dentro di sé la doppia condizione alienante di ebree e di donne, l’umorismo
non poteva che essere ancora più graffiante e cattivo. Joan Rivers, nata Rosenberg, caricatura della vacua signora dello
shopping e della vanità ingioiellata, reci-
ta con gusto la parte della sguaiata ricca e
sfacciata: «In fatto di relazioni sessuali
con gli uomini, sono molto selettiva: se
non respirano, non li prendo». Mentre
Roseanne Barr, rarissima ebrea cresciuta
nello Utah dei mormoni, trovò un immenso successo nella parodia della
“jewish mother”, della mamma e casalinga bruttina, sovrappeso, ansiosa ma insoddisfatta di fronte a un marito indifferente e assente. «Non ho ancora capito
quale sia il mio lavoro — recitò in un episodio della sua serie Roseanne — ma se
quando mio marito torna a casa trova tutti i bambini ancora vivi, credo di avere fatto il mio dovere».
Non c’era bisogno di essere ebrea, di
essersi addestrati alla polemica con il Signore nelle scuole talmudiche, di avere
vissuto il cammino della lacrime da Leopoli o Byalystock perché le donne capissero lo humour acre della Barr. Il filo della
comicità tessuto da questi artisti è divenuto parte dell’arazzo americano. Il Mel
Brooks che si permette di schiaffeggiare la
sussiegosa, incestuosa “intellighenzia”
artistica di Manhattan con il suo meraviglioso The Producers,nel quale un’orrenda apologia in forma musical di Hitler
conquista il pubblico, si permise di inter-
4 WOODY
ALLEN
10
Il primo film,
Prendi i soldi
e scappa
è del 1969
I TRE
MARMITTONI
Larry Fine,
Moe Howard
e Curly
10 Howard
pretare in una parodia dei western un
grande capo Sioux che parlava yiddish
stretto e senza sottotitoli.
Ma ormai, cento anni dopo la marea
umana che si riversò sui pontili di
Manhattan, prima che fosse costruita Ellis Island, quando in meno di trent’anni il
numero dei residenti ebrei di New York
passò da ottantamila nel 1885 a un milione e mezzo nel 1910, anche il riso amaro è
divenuto “mainstream”, parte della corrente maestra. Seinfeld è, come già lo era
Allen, più il classico nevrotico newyorchese egoista, il Peter Pan della generazione post baby boom, lontano davvero
un secolo dai “tenements”, dei falansteri
dove future stelle come George Burns vivevano rubando la frutta dalle bancarelle
e poi rivendendola sottocosto alle loro
mamme.
I loro padri, fonte di infinito materiale
per i monologhi e i copioni, («ci sono tanti comici ebrei perché ci sono stati tanti
padri ebrei», scherzava ma non troppo
Carl Reiner, il regista) quasi sempre
abietti fallimenti come il padre dei Marx,
sarto soprannominato “Taglia Sbagliata” perché prendeva tutte le misure a occhio e le sbagliava, sono stati impiegati,
funzionari, professionisti come i loro colleghi anglo, italiani, ispanici o irlandesi.
Lo yiddish è un ricordo di famiglia, ormai
diluito nello slang. Ci sarà certamente
una quarta generazione di comici popolarissimi con cognomi ebraici non più
mimetizzati, ma faranno ridere perché
faranno ridere, perché ci sarà sempre
qualcosa, qualcuno da sfottere, per l’orrore degli assolutisti e dei potenti. Ma la
lezione di questo secolo di risate amare
sarà entrata nel tessuto di una cultura libera e multietnica: imparare a ridere con
gli altri, non degli altri.
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Repubblica Nazionale
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 16 MAGGIO 2010
i sapori
Evoluzione
Intolleranze alimentari, diete tiranne,
scarsa qualità delle pagnotte
industriali hanno aperto la strada
a una molteplicità di surrogati
del cibo per antonomasia,
sempre più presenti sugli scaffali
dei supermercati e sulle tavole
di famiglia. E i nuovi chef
24%
Le fibre in una
fetta Wasa
si sono affrettati a cogliere
la moda, trasformando
questi “rimpiazzi” in primattori
dell’alta gastronomia
Post
Pane
LICIA GRANELLO
500mila
I celiaci
in Italia
28
Le calorie in una
cialda di riso
erauna volta il pane. E c’è ancora, sempre più costretto in categorie che non gli dovrebbero appartenere. Da una parte, le pessime
michette precotte, che nel giro di poche ore si trasformano in corpi contundenti o chewingum di farina. Dall’altra, i carissimi pani super salutari tutti fibre, dall’alto peso specifico e irrimediabilmente punitivi nel gusto. In mezzo, le forme profumate e ariose dei pani d’autore, lievito naturale e forno a legna. Irresistibili.
È per molti versi colpa delle cyber-pagnotte, se il presente-futuro del pane è punteggiato di cialde e sfogliette, schiacciatine di
crusca e snack integrali, grissini light e cereali estrusi. Perché negli anni, la scelta degli ingredienti — farina e lievito, in primis —
ha subito un crollo. Per spendere meno, ovviamente, ma anche e
soprattutto per contrarre al minimo i tempi di fermentazione.
Gran parte delle sostanze usate per standardizzare la produzione — dagli acceleratori di lievitazione agli anti-muffa — non sono
rintracciabili dopo la cottura in forno. Ma il nostro corpo, purtroppo le avverte fin troppo bene. Così, intolleranze e allergie sono cresciute in maniera esponenziale, ben al di là delle ipersensibilità di cui
statisticamente soffre una minima parte della popolazione. E allora,
via libera ai piccoli grandi sostituti del pane che fu. A metà tra ansia da
imminente prova-costume e necessità medica,
i sacchettini leggiadri e impalpabili confinati fino a
qualche anno fa nei tristanzuoli negozi di dietetica, oggi (anche
grazie agli investimenti dei grandi
marchi) campeggiano negli scaffali
della grande distribuzione.
Qualità in ribasso e nutriceutica
— il business di inizio millennio che
lega industria farmaceutica e alimentare — non danno scampo: da
una parte, bocconcini e ciabatte
men che mediocri, dall’altra il rassicurante post-pane curativo e dietetico. Certo, la produzione massificata non giova né all’immagine né alla sostanza
dei nuovi prodotti: utilizzare grani antichi, lavorare le farine con macine a pietra,
capaci di preservare la parte germinativa, impastare con acque surgive, fa la differenza anche in alimenti nati più per surrogare che per ingolosire. In più, basterebbe leggere le etichette per sapere che la quota calorica è quasi la stessa: semplicemente, non siamo abituati a pesare il pane, né a pensarlo come alimento a sé
stante. Non a caso, Milano — città-regina di diete e show-food — getta nella spazzatura ogni giorno quasi due quintali di pane. Un dato che, allargato all’Italia intera, farebbe lievitare lo spreco a quasi 300mila tonnellate l’anno, cifra insopportabile nel Paese dove cinquant’anni fa si incidevano a croce le forme da infornare
per sottolinearne la sacralità (e per migliorare la lievitazione).
Ancora una volta, la nuova cucina riesce a legare nuove tendenze e alta gastronomia. Se assaggiate i grissini di carruba di Matias Perdomo (Pont de ferr, Milano)
o le cialde di mais di Antonino Cannavacciuolo (Villa Crespi, Orta, Novara), scoprirete che il post-pane può riuscire attraente e goloso quanto il suo antenato. Basta non pretendere di fare scarpetta.
C’
Cialde, grissini
e cracker
largo ai dietetici
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DOMENICA 16 MAGGIO 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
Villareggia (To)
itinerari
Terracinese
trapiantato
a New York,
Roberto Caporuscio
è il pizzaiolo-patron
di Kesté, pizzeria
d’autore nel cuore
del West Village
Tra le sue ricette
più popolari, la focaccia
realizzata con un mix
di farine senza glutine
Roma
Monterenzio (Bo)
Al confine tra le province di Torino
e Vercelli, terra-madre delle risaie
piemontesi, si stanno diffondendo
piccole realtà agrobiologiche
Produzione di risi integrali e, in scia,
cialde, gallette, grissini
Nella capitale, l’arte bianca di tradizione
ebraica si esprime nei forni certificati
Kosher, dove la stretta osservanza
della Torah si coniuga con pruduzioni
sane e golose, e dove il pane azzimo
regna sovrano
Nella campagna emiliano-romagnola
esistono alcune tra le realtà biologiche
più importanti d’Italia. I “coltivatori
di biodiversità” trasformano i cereali
non raffinati, macinati a pietra,
in snack e tarallini
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
VILLA MATILDE
Viale Marconi 29, Romano Canavese
Tel. 0125-639290
Camera doppia da 175 euro,
colazione inclusa
MORPHEUS ROOMS
Via Palermo 36
Tel. 06-48913750
Camera doppia da 80 euro,
colazione inclusa
PALAZZO LOUP
Via S. Margherita 21, Loiano
Tel. 051-6544040
Camera doppia da 120 euro,
colazione inclusa
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
GARDENIA
Corso Torino 9, Caluso
Tel. 011-9832249
Chiuso martedì,
menù da 45 euro
GLASS HOSTARIA
Vicolo de' Cinque 58
Tel. 06-58335903
Chiuso lunedì,
menù da 40 euro
MARCONI
Via Porrettana 29, Sasso Marconi
Tel. 051-846216
Chiuso domenica sera e lunedì,
menù da 50 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
LA FINESTRA SUL CIELO
Via Rondissone 26, Villareggia
Tel. 0161-455511
BOCCIONE
Via del Portico d’Ottavia 1
Tel. 06-6878637
ALCE NERO E MIELIZIA
Via Idice 299, Monterenzio
Tel. 051-6540211
Cialde
Soffietti
Wasa
Riso, mais, farro, in versione
sbiancata o integrale, con o senza
sale: solo cereali soffiati nei dischi
rotondi e leggerissimi. Nella versione
dolce, metà superficie è cosparsa
di cioccolato bianco, latte e fondente
Hanno l’aspetto di piccole sfere
impalpabili, le palline di mais soffiato,
commercializzate in sacchetti tipo
snack. Variante con verdure
essiccate ed erbe per aumentare
l’effetto drenante
Nate in Svezia nel 1919, le croccanti
fette rettangolari di segale integrale
(da oltre 10 anni di proprietà Barilla)
sono diventate un marchio-simbolo
della moderna dietetica mondiale,
grazie al contenuto di fibre proteiche
È senza lievito (dal greco a-zymos)
il pane delle tradizioni rituali ebraica
(matzah) e cristiana (l’ostia
eucaristica). Nella ricetta originaria,
l’impasto di acqua e cereali integrali
viene cotto su pietra o a legna
Azzimo
Tortillas
Chapati
Grissini di riso
Cracker di miglio
Il pane messicano, fatto di sola masa
harina (finissima farina di mais)
e acqua calda, steso sottile e cotto
in padella, si trasforma in leggerissimi
triangoli da infornare con formaggio
e peperoni piccanti (nachos)
Le leggerissime focaccine indiane
di farina integrale (ma anche miglio,
orzo, grano saraceno), acqua e sale
(o zucchero, nella versione dolce)
vengono cotte su piastra di ferro
unta con burro chiarificato (ghee)
Niente glutine nei friabili bastoncini
messi a punto come sostituti
del pane per la dieta quotidiana
di celiaci e intolleranti alle farine
Realizzati con o senza lievito,
vantano un basso impatto calorico
Sono croccanti e alcalinizzanti
(ideali contro l’acidità di stomaco)
le sfoglie a base del cereale coltivato
in Oriente ed Egitto, tradizionale
di molte cucine tra Africa e Asia,
simile al frumento, ma privo di glutine
La lunga marcia da alimento-base a ghiottoneria
MARINO NIOLA
on abbiamo che cinque pani. Lo dicono gli apostoli a Gesù. E il
figlio di Dio risponde con il celebre miracolo della moltiplicazione sfamando cinquemila bocche. Oggi ad essere in cinquemila sono i pani con tutti i loro derivati. Ma questa volta la moltiplicazione è opera del mercato. È un miracolo economico. Che ha progressivamente trasformato l’alimento per antonomasia, il minimo vitale della sussistenza in uno sterminato catalogo di fantasie da forno.
Forme e pezzature sempre più minute, sempre più ricercate. Con
buona pace del pane comune, sopraffatto da uno tsunami di pani speciali. Alle olive, al sesamo, ai semi di papavero, di finocchio, al pomodoro, alle noci, all’uvetta, alle erbe, allo zafferano, allo zenzero. E chi
più ne ha più ne metta.
Nella civiltà del benessere, insomma, non si vive di solo pane. Ma
piuttosto di panini, soffiate, coppiette, michette, ciriole, grissini, tarallini, crackers, schiacciate, pancarré, panbrioche, scrocchiarelle,
brezel, bagel, sfoglie, gallette. Piaceri leggeri, fragranti, golosi, fatti per
stuzzicare il palato più che per riempire la pancia. È il trionfo del postpane. Specchio di un edonismo di massa che moltiplica gli sfizi come
i vizi, le preferenze come le intolleranze. E parcellizza il pane proprio
come il lavoro. Pani monoporzione per un’umanità sempre più single, alimenti interinali a misura di un popolo di partite iva.
Il fatto è che il pane non è più la base della nostra piramide nutrizionale ed è diventato poco più di un surplus voluttuario. Sempre più
N
L’appuntamento
A Valderici, Trapani,
dal 19 al 27 giugno,
“Unpanicunzatu Fest”
Nato su Facebook grazie
alla comunità virtuale
“Fiero di essere siciliano”,
è stato concepito come
un grande laboratorio
gastro-culturale a cielo
aperto. Si prepareranno
in diretta i pani di tutte
le culture presenti in Italia
elaborato e costoso, proprio come quelle focacce condite e filoni farciti che una volta arricchivano la tavola dei signori, accanto a carni e
pesci prelibati. Ghiottonerie condannate dalla Chiesa in quanto simboli del peccato di gola, di un mangiare da ricchi epuloni. Un segno
morale e politico che resta impresso in nomi come kaiserbrot, herrenbrot, pane del prete, pane del principe, pan ducale, galletta del re.
O nell’etimologia di parole potenti come Lord, che in origine significa
il custode del pane ben lievitato. E come Lady che nell’inglese antico
designava per antonomasia la donna che impasta, nostra signora della lievitazione.
Mentre i contadini e le plebi urbane, i dannati della terra che assaltavano i forni per la fame, non avevano null’altro che pane. E certo non
di quello bianco, fragrante e profumato. Ghiande, crusca, segale, miglio, farro, orzo, tutto era buono per far pagnotte. Era questo il nero nutrimento dei poveri cristi, quello che non a caso compare nelle rappresentazioni dell’Ultima Cena. O nelle immagini dell’umile grotta di
Betlemme dove spesso accanto alla Vergine c’è una gerla di pane scuro. Quello che adesso chiamiamo integrale e che abbiamo elevato a
emblema supremo di salute e di salvezza. In un cortocircuito tra fibra
vegetale e fibra morale. E così noi epuloni buonisti, cerchiamo di far
quadrare il cerchio tra edonismo e temperanza comprando a prezzi
da ricchi alimenti da poveri. È il contrappasso della gola che cerca di
redimere le sue colpe. Nel nome del pane.
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46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 16 MAGGIO 2010
le tendenze
Chiodi fissi
Giubbotti in pelle, borchie,
zatteroni e magliette strappate
Dagli happening
degli anni Settanta
alle ultime passerelle
lo stile più ribelle della storia
torna riveduto e corretto
Almeno quanto basta
a non cadere nel ridicolo
BORCHIATI
VERTIGINOSO
Sono d’argento
gli orecchini Chanel
Ma non per questo
rinunciano
alle piccole
borchie
Tacco
vertiginoso
e pizzo
d’ordinanza
per lo zatterone
in stile rock
Dolce&Gabbana
SFRANGIATO
Il mini jeans
Diesel sfrangiato,
a suo modo
un classico
(per chi se lo
può permettere)
AGGRESSIVO
Un mocassino,
ma con tacco
dodici centimetri,
quello firmato
Miu Miu: in
vernice e reso
aggressivo
dalle miniborchie
MICHELA GATTERMAYER
ock’n’roll is here to stay».
Perché? Ovvio, «Can never die». Così cantava
Neil Young nel 1979. E
non è che tutti ci credessero. Oggi, invece, è assolutamente evidente. Lo dice anche Greil Marcus, forse il critico musicale più famoso del mondo, che paragona il rock a Moby Dick e a Il Grande
Gatsby.
E nella moda? Pelle nera, borchie, zatteroni, capelli in piedi, magliette strappate e jeans lisi sono
ormai un grande classico. Esattamente come la
camicia bianca, il tubino, il trench e la collana di
perle. E non è esagerato dirlo. Alle ultime sfilate era
su tutte le passerelle, quindi non fa più tendenza
perché il rock è il modo più facile e immediato per
attualizzare qualsiasi stile. Basta guardarsi in giro,
per la strada: l’eleganza da manuale è praticamente sparita e la gente è convinta di dover dare
spettacolo. Esattamente come faceva Elton John
(che per una vita tutti hanno preso per i fondelli
per via degli occhiali stranissimi, ora assoluta-
«R
Quando
la trasgressione
è un classico
mente normali) o Mick Jagger (con le sue giacchette di pelle smilze e i jeans da orchite, ora quasi una divisa). Sono sempre loro le icone a cui ispirarsi, assieme a Lou Reed, Jim Morrison, i Sex Pistols... Pensavano di essere trasgressivi, invece
sono diventati come Jacqueline Kennedy o Grace
Kelly, un look book da imitare.
Che dire? Da una parte piacciono l’estremismo, le esagerazioni, il gioco perché sono indici
della libertà di cui gode la moda, uno dei pochi fortunati settori non colpiti dalla censura, almeno
per ora. Dall’altra è certo che una vittima sacrificale c’è, ed è il buon gusto. Perché il rock è anche
un grande trappolone. Non basta saper strimpellare quattro note con una chitarra elettrica per fare un bel concerto. Allo stesso modo non basta
possedere un paio di pantaloni da biker o degli stivali cattivi per essere “giusti”. Anzi, si può diventare ridicoli. Qualche consiglio? Scegliere solo un
dettaglio rock: per intenderci, mai giacca e pantaloni di cuoio coordinati, borchie come collane,
bracciali o sulle scarpe, nero total e trucco pesante tutto assieme. Se avete il chiodo, mettetelo con
una gonna longuette, quasi bon-ton. Se i leggings
sono di pelle, indossateli sotto un vestito romantico. Se volete i jeans sdruciti, date loro dignità con
una bella giacca. Se vi piacete con rossetto e smalto viola, usateli per far arrabbiare il solito tailleur.
Il rock perderà lo shock ma diventerà chic.
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ESSENZIALI
Bracciali
Oviesse
colorati,
semplici
ed essenziali:
sono le borchie
a rimarcare
lo stile
METALLO E PELLE
Pantaloni
Philippe Plein
da citazione
rock: in pelle
con ginocchiere
rigorosamente
borchiate
WARHOLIANA
La t-shirt firmata
da Pepe Jeans
è di cotone
con stampa:
ovviamente
Andy Warhol
Moda
Rock
Repubblica Nazionale
DOMENICA 16 MAGGIO 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47
TESCHIO SU PELLE
Basta un teschio
d’argento
per trasformare
l’elegante
borsa di pelle
John Richmond
in un’icona rock
JEFF BECK
Aviator sul naso,
il chitarrista inglese
fotografato nel 1975
STILE DIVA
Lacci, pelle nera
e placche:
ecco i tronchetti
Gucci in stile
diva del rock
L’OCCHIALE POP
GRAFFITARO
L’orologio
con il disegno
in stile
graffitaro
per Marc Ecko
Watches
Il brevetto Aviator
venne depositato
il 7 maggio 1937:
occhiali che seguendo
l’incavo dell’occhio
proteggevano i piloti
da raggi infrarossi
e ultravioletti
Furono chiamati “Ray Ban”
da “bannish rays”,
ovvero che bandisce
i raggi. Registrati
come “Large Metal”
diventarono per tutti
“Aviator”. Con oltre
due milioni di paia venduti
ogni anno sono il modello
più popolare al mondo
Ora arrivano sei nuovi
modelli: metal glide,
craft, spirit, titanium,
ultra gold e tech
Il decalogo
della moda rock
La pelle nera
I jeans lisi
La T-shirt con i buchi
Le borchie, i teschi, le catene
Gli occhiali scuri
Gli stivaletti a punta o zatteroni
La giacca da smoking vintage
I pantaloni neri super slim
Gli occhi truccati
I capelli senza mezze misure
ISPIRATO
Anche un sandalo
Geox può ispirarsi
allo stile rock:
l’importante
è che sia nero
e con borchie
ALCOLICA
È confezionata
in una speciale
edizione
“rock”
la bottiglia
Vodka Absolut,
tutta pelle
e borchie
A New York la festa Ray Ban
Quelle due gocce
sui nasi delle star
GIOVANNI CIULLO
L
BLONDIE
NEW YORK
o sapesse il luogotenente John MacCready, che gli occhiali protettivi a goccia
con lenti verdi in vetro minerale li chiese più
di ottant’anni fa dopo aver attraversato l’Atlantico sul suo pallone aerostatico, non ci
crederebbe. Eppure da allora i mitici Aviator hanno davvero cambiato mestiere: nati
per difendere i piloti d’alta quota dai raggi
ultravioletti, hanno finito per accompagnare più spesso le rockstar — Mick Jagger,
Bruce Springsteen, Blondie, Eric Clapton
— sotto il flash dei paparazzi. Non è un caso che mercoledì scorso il modello di Ray
Ban più popolare al mondo (oltre due milioni di pezzi venduti nel 2009, con numeri
in continua crescita) abbia festeggiato se
stesso e sei nuovissime versioni, rivoluzionate nei materiali e nei colori, non in un
hangar dell’Air Force One, ma nella Music
Hall di Williamsburg, cattedrale della musica indie di Brooklyn, New York. Quattrocento ospiti e celebrities (Chlöe Sevigny,
Mark Ronson, Juliette Lewis, Sean Lennon...) e sul palco un bel pezzo della storia
del rock di ieri e oggi per un marchio che da
dieci anni parla italiano (Luxottica l’ha
comprato dall’americana Bausch&Lomb).
Hanno aperto i Free Energy (rock band
dell’anno con l’album Stuck on Nothing)
ma l’evento più atteso era l’esibizione di
Iggy Pop con gli Stooges (il loro Fun House,
1970, contribuì a far nascere la leggenda del
rock’n’roll). Spettacolo allo stato puro: Iggy
a petto nudo davanti al microfono, stessa
energia di sempre, prima invita il pubblico
a salire sul palco e poi si lancia in tuffo sulla
folla adorante. «Il legame con la musica è
nel dna di Ray Ban e dagli anni Settanta a oggi cosa c’è di più rock degli Aviator, il nostro
modello più popolare?», dice Sara Beneventi, brand director di Ray Ban. «Abbiamo
pensato a questo evento come a una festa,
non un lancio promozionale. Gli artisti non
sono nostri testimonial, la location è un vero tempio della storia della musica. Abbiamo celebrato sia Ray Ban che il rock». Con
l’occasione sono stati presentati i sei nuovi
modelli che, eccetto quello in carbonio che
arriverà a Natale, saranno disponibili in Italia già da giugno. «Gli Aviator rappresentano circa il 20% dei 16 milioni di Ray Ban che
vendiamo ogni anno. L’obiettivo per il 2010
è ambizioso, ma non lontano: vorremmo
arrivare a quota 18 milioni».
Intanto la festa degli Aviator e del rock
continua. Si replica a Londra, il 26 maggio,
con i New York Dolls, i Big Pink e le Plasticines.
Al secolo
Deborah Harry,
nel 1978
ERIC CLAPTON
Uno dei grandi
del rock,
qui nel 1977
DON FELDER
Lo storico chitarrista
degli Eagles
fotografato nel 1977
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IGGY POP & THE STOOGES
La band anni ’70 è stata
protagonista dell'evento
Ray Ban a New York
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48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 16 MAGGIO 2010
l’incontro
A ottantacinque anni, porta ancora
con sé lo spirito ribelle di quando
si fece espellere dall’università
a causa dei primi esperimenti teatrali
Ora la nuova sfida
del grande regista
è “Il Flauto magico”
di Mozart, lontano da ogni
effetto speciale
Perché nell’era di web e tv,
«oggi solo il teatro
è il luogo fatto per condividere
un’esperienza non raggiungibile
davanti al gelo di uno schermo»
Maestri
Peter Brook
L’
ni, tradusse la Carmen di Bizet in un’opera lieve e disadorna, ricreata per trovare «la sorgente della narrazione e la finezza della partitura» all’opposto dell’artificialità del melodramma. Un manifesto contro le varie Carmen «ridondanti di balletti, festosità forzate, automatismi da grand spectacle»; e nella
stessa prospettiva anti-effettistica, il regista inglese ha riletto il Don Giovanni,
montato nel ’98 al Festival di Aix-enProvence e accolto nello stesso anno dal
Piccolo a Milano.
Nato nel 1925 a Londra da una famiglia di ebrei russi, questo spericolato
contestatore della tradizione teatrale,
che paradossalmente è oggi il più «classico» e puro tra i numi della scena internazionale, avverte per la prima volta
«l’importanza del semplice» da bambino, di fronte a un piccolo teatro di cartone dai colori netti e con figurine terse
«che trovavo tanto più convincenti del
mondo là fuori». A diciassette anni, studente a Oxford (il padre lo vorrebbe laureato in legge), si fa espellere dall’università grazie ai primi, burrascosi esperimenti teatrali, e ha già messo in scena
Anche Shakespeare
era costretto
ad arrangiarsi
Malgrado la mancanza
di fondi e l’idiozia
dei governanti
l’arte resta
lo spazio del possibile
FOTO CONTRASTO
incontro con Il Flauto Magico di Mozart
pare un accadimento naturale e inevitabile nel viaggio di ricerca di quel purista
del gioco scenico che è Peter Brook, probabilmente il massimo regista teatrale
vivente, attratto dalle dimensioni più
elevate ma anche più sensuali e contingenti dell’espressione artistica. Brook è
l’interprete per eccellenza della genialità del semplice, il cantore di un’essenzialità che da miraggio diviene contenuto. Da tempo insegue la rappresentazione distillata del cuore delle cose,
quello catturato dal suo amato Shakespeare, o raccolto dalla magia bambina
eppure sapientissima di Mozart, dove la
sfera del naïf si fa iniziatica e rituale, come nel Flauto. «In ogni musica mozartiana emerge la voce di un uomo che ha
cinque anni e ne ha pure cento o mille,
perché dimostra di aver compreso e attraversato tutto, ogni esperienza della
vita», afferma Brook. «Nel Don Giovanni affiora il Mozart più passionale, l’amante del sesso e delle donne, ma anche il colpevole oppresso dal rimorso,
che teme il rogo dell’inferno e ciò nonostante scherza nell’intrecciare i generi
in un’opera buffa e drammatica, giocosa e invasa da presagi metafisici. In ogni
istante Mozart è il mistero della morte e
un’esuberanza vitale travolgente».
A proposito del Flauto si tende spesso a evocare il Mozart votato alla massoneria, «ma sono idee che servono solo ad appesantire il tutto. La verità è che
la musica mozartiana è qui per noi con
ineffabile ricchezza, dimostrandoci
che il compositore non fa alcuna propaganda di concetti filosofici o teorie;
piuttosto vuole e sa comunicarci un
sentimento che corrisponde alla sua
iniziazione spirituale e al tempo stesso
è generoso nel farci percepire il Papageno che è in lui: il magnifico buffone, l’eterno fanciullo, la risata che affranca l’esistenza dalle briglie delle convenzioni».
Brook metterà in scena il suo Flauto
Magiconel teatro delle Bouffes du Nord,
sede del Centre International de Créations Théâtrales che ha fondato a Parigi
nei primi anni Settanta: un ex padiglione industriale dalle atmosfere slabbrate e fascinose, a pochi passi dalla Gare
du Nord. Debutto il 9 novembre di quest’anno, con repliche fino a tutto dicembre; e dal 22 febbraio al 19 marzo
2011 lo spettacolo arriverà al Piccolo
Teatro Strehler di Milano, coproduttore dell’impresa. «Il mio unico punto di
partenza sarà la musica di Mozart, senza premesse figurative. Ogni regista che
affronta Il Flauto si chiede: quale stile
scenografico caratterizzerà l’allestimento? Una complessa scena d’epoca,
con ingranaggi che consentono trasformazioni a vista? Una cornice moderna,
con le vistose tecniche e possibilità di
Broadway? O qualcosa di super-contemporaneo, con proiezioni e video, come va di moda oggi? Invece qui alle
Bouffes eviteremo tutto questo, cominciando da un grado zero dell’immaginazione, e affidandoci solo all’ispirazione di una musica profondamente
umana, che abbiamo riadattato insieme al musicista Franck Krawczyk e che
verrà eseguita al pianoforte da Alain
Planès, forse con l’intervento di qualche altro strumento, sulla base della riduzione del libretto che ho fatto con
Marie-Héléne Estienne. In scena ci sarà
un piccolo gruppo di cantanti giovani,
aperti e disponibili a un lungo lavoro
d’improvvisazione sui personaggi che
stiamo per iniziare adesso». Il risultato
finale durerà appena un’ora e mezza,
«perché bisogna avere il coraggio d’intervenire sulle lungaggini e assurdità
del librettista Schikaneder, l’impresario che commissionando a Mozart il
Flauto cercava un successone per il suo
teatro di periferia, e che costruendone
la trama pensava soprattutto a un ruolo
comico per sé, quello di Papageno».
Sbrogliando, asciugando, depurando,
in vista di un’azione «intima e leggera,
che illumini la linee della musica come
se le si ascoltassero per la prima volta»,
Brook, in questo Flauto Magico («forse
lo intitoleremo semplicemente Un
Flauto»), si avventurerà nella medesima «distillazione» realizzata nella
Tragédie de Carmen, con cui negli anni
Ottanta, suscitando le ire dei meloma-
titoli di Shakespeare, Marlowe e Cocteau quando, a ventidue anni, viene assunto come direttore delle produzioni
alla Royal Opera House Covent Garden
di Londra, contesto che gli si rivela orripilante, con scenografie ammuffite e
soprani elefantiaci e immoti. Un regno
di vieux monstres gonfi di gestualità retorica e «venerati da un pubblico senza
criterio, pronto a sorbirsi qualsiasi caduta di gusto. Per questo in seguito ho
rifiutato sempre le regie operistiche. Solo arrivando nell’ambiente delle Bouffes du Nord ho capito che avrei potuto
esplorare una lirica diversa, come adesso questo Flauto, nel quale la vicinanza
tra pubblico e interpreti permetterà allo spettatore di accedere alla magia e alla tenerezza dell’opera».
Dopo l’intensissima e fruttuosa direzione della venerabile Royal Shakespeare Company e un gran numero di
successi applauditi nel mondo, Brook,
molto famoso negli anni Sessanta, rigetta l’appeal del teatro “borghese” per
puntare a un’esperienza teatrale “diversa”, lanciata in palcoscenici en plein
air e in grado di scoprire testi e autori
inusuali e di occupare spazi-camaleonte come le Bouffes, «un po’ cortile, un
po’ casa e un po’ moschea». Lo scopo ultimo è un teatro necessario, portatore di
«quell’emozione chiamata dagli inglesi
the suspension of disbelief: qualcosa
che, come nella tragedia greca, sospenda l’incredulità di chi sta guardando». In
vista di tale obiettivo, Brook fa rivivere la
leggenda di Prometeo tra le rovine di
Persepoli, evoca la cultura tribale africana (Les Iks), attinge alla tradizione
persiana (La conferenza degli uccelli),
s’immerge nella sterminata densità del
pensiero indù (il Mahabharata), svela la
straordinaria vitalità del teatro politico
sudafricano, indaga i testi “neurologici”
di Oliver Sacks accanto a Cechov, a
Beckett e all’irrinunciabile Shakespeare. E non rinuncia all’affondo nei guasti
provocati dal fanatismo religioso, come
nello spettacolo del 2005 Tierno Bokar,
ispirato a una storia dello scrittore del
Mali Amadou Hampaté Bâ. La nuova
versione inglese di questo pezzo, intitolata Eleven and Twelve, sarà quest’anno
al Festival di Spoleto (2, 3 e 4 luglio).
«Tierno Bokar è eloquentissimo sull’Islam e sui nessi tra religione e politica.
Ogni africano ha una sua religiosità, alimentata da un forte rapporto con la natura, che assume forme diverse tra cui
l’islamismo. All’inizio della vicenda
Tierno Bokar, nel suo villaggio, vive in
un’oasi di felicità e saggezza. Ma ad alterare la situazione giungono conflitti
tribali e intolleranze, causa di faide e
massacri. Ed è qui che l’opera si apre al-
la Storia, nella linea di Shakespeare»,
genio miracoloso che nel suo teatro sa
collegare i vari piani dell’esistenza,
«quello volgare o popolare, quello sociale e politico, e quello metafisico, in
un passaggio continuo tra cielo e terra».
Ma esiste il pubblico che recepisce
tutto questo? La scena teatrale non è forse cambiata radicalmente, in un impoverimento progressivo, tra l’indifferenza o lo spregio dei governanti e l’assottigliarsi del dialogo con le grandi platee,
che sembrano sempre più lontane dal
suo tipo di ricerca? «Parlare di pubblico
in generale è un’astrazione, non esiste
un unico interlocutore, ci sono tanti individui diversi. Oggi il pubblico teatrale
è un’élite, parola che negli anni Sessanta era politicamente scorretta, mentre
adesso è altro. Grazie alla televisione e a
Internet non c’è più alcuna élite nella
comunicazione e nell’arte, nessun prodotto artistico è inaccessibile, e il teatro
come élite vuol dire un luogo rigenerante e positivo fatto per chiunque abbia voglia di andarci nel desiderio di
condividere un’esperienza non raggiungibile nell’isolamento e davanti al
gelo di uno schermo».
Quanto ai governi che nella crisi tagliano i contributi alla cultura, «il solo
modo per fronteggiare tutto questo»,
sostiene Brook, «è prendere esempio
dai massimi maestri di tutti i tempi:
Shakespeare e Mozart erano due lavoratori costretti ad arrangiarsi con gli
strumenti che avevano a disposizione,
l’uno creando un teatro popolare, l’altro accettando le commissioni dei suoi
sponsor, ma entrambi senza compromettere l’autenticità e l’onestà della rispettiva ricerca. Malgrado la mancanza
di fondi e l’idiozia dei governanti, l’arte
resta il luogo del possibile».
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LEONETTA BENTIVOGLIO
Repubblica Nazionale
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