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DALL’ITALIA
Domenica 5 Dicembre 2004
n. 44
ATTUALITÀ
il nostro
tempo
La politica, la cultura (laica e cattolica), l’informazione: sguardi sulla ormai lunga crisi della società nazionale nell’età berlusconiana
Italia popolare
e il suo sogno
ANTONIO SASSONE
«Una azione politica
nuova» è il progetto dei
cattolici popolari, che raccolgono «voci e attese di
singoli e gruppi che si sentono isolati e senza più
radici per la perdita di
riferimento alla tradizione popolare e democratica
cristiana». L’appello, che
rievoca quello di Sturzo ai
«Liberi e forti» e si rifà all’insegnamento di De Gasperi, ma principalmente
e naturalmente al Magistero della Chiesa, è partito da «Italia popolare», un
movimento che ha i suoi
leader in Alberto Monticone, docente universitario e senatore, in Gerardo
Bianco, ultimo segretario
del Ppi con nove legislature alle spalle, e Lino Duilio, oggi inseriti nella Margherita di Rutelli, Parisi (e
Prodi), forse con disagio,
lontani però dalla tentazione di aderire a un indistinto gruppo misto.
A Roma, dopo una convention di due giorni (della Margherita si è visto solo Franco Marini), è stato
annunciato che il movimento assumerà le vesti
di partito. Nel frattempo i
tre leader sono stati acclamati presidenti e segretario generale. «Daremo una tesserina e metteremo su una struttura»,
ha precisato Duilio. Gerardo Bianco ha promesso manifestazioni di qualità e «qualcosa di inedito». Già aperti siti Internet. Ma bisognerà trovare
i mezzi.
La moderna visione dei
promotori, e la presenza
insolita di giovani, sono
garanzia di futuro. «Adesso per il domani» è uno degli slogan. La proiezione è
l’Europa. Il contesto il centro-sinistra. Sono respinte tentazioni disgreganti.
«Non cerchiamo spazi», recita il documento programmatico, «o identità.
Vogliamo condividere difficoltà e speranze, offrire
solidarietà», per «rinvigorire» il sistema democratico, oggi «fragile e involuto» al punto da preoccupare. Vengono chiamate alla riscossa le energie
latenti che, a livello locale, non trovano modo di
esprimersi. Il primo banco
di prova saranno le prossime elezioni regionali.
L’obiettivo fondamentale è quello di valorizzare
«la centralità della persona, nella libertà e nella
democrazia». La politica,
in sostanza, deve essere
partecipazione. Prima bisogna cercare il consenso
e poi il potere, da esercitare come servizio per il
bene comune, promuovere i diritti umani, operare
per la convivenza pacifica,
per la giustizia sociale e
l’equa distribuzione delle
risorse. Mentre qualcuno
oggi dice: «Datemi il potere e avrò il consenso».
Irrinunciabili sono anche
la tutela della vita, il primato della famiglia, l’economia solidale e il lavoro
giovanile. Niente autoritarismi, insomma, ma sistema di autonomie.
Ha detto Monticone:
«Oggi prevalgono potenti
interessi corporativi. Si inclina verso forme di rappresentanza democratica
oligarchica, se non subdolamente autoritaria». I riferimenti sono palesi. Tanto
più che come punti fermi
vengono indicati la necessità del solidarismo e la
preferenza per un federalismo modello Germania. «Non temiamo ardite
riforme istituzionali», ha
detto sempre Monticone,
«ma avversiamo ciò che divide l’anima del nostro popolo». La politica non si
esaurisce nel voto, ma è
impegno quotidiano di uomini e donne che desiderino rendere «la comunità
civile luogo di realizzazione di tutti i diritti umani».
«ltalia popolare» opta
per il sistema proporzionale, si colloca nell’ambito del centro-sinistra, non
si contrappone ai partiti
nazionali e non vuole essere né un partitino, né una
corrente. «Le correnti», ha
detto Giancarlo Chiappello, coordinatore per il Piemonte e la Val d’Aosta,
consigliere comunale a
Moncalieri, «sono tutto,
meno che qualcosa di nobile». Accanto all’esaltazione dei valori, si pone
il rifiuto della devolution,
cui si contrappone «il municipalismo cristiano e le
forme di aggregazione», simili a quelle da cui nacque, ai tempi di Giolitti e
dopo la seconda Guerra
mondiale, il movimento
politico dei cattolici. A
questo non risponde la
nuova Costituzione, che
pertanto, ha anticipato
Monticone, non potrà non
essere sottoposta a referendum.
Di fronte alle sfide epocali, al terrorismo crescente e radicalizzato, alle troppe guerre e ingiustizie, bisogna tornare al
buon governo, alle buone
leggi. Perciò cristiani e
La pubblicità:
monopolio tv
MARIO BERARDI
A fianco,
Alcide De
Gaperi
Sopra, a
sinistra
Alberto
Monticone
e, a destra,
Gerardo
Bianco
A centro
pagina, il
direttore de
«Il Foglio»,
Giuliano
Ferrara
cattolici popolari avvertono l’esigenza di rompere
gli indugi. A questo colloquio romano, che si è
concluso con la messa serale nella chiesa del Gesù, hanno partecipato nutrite delegazioni da quasi
tutte le regioni e esponenti di spicco dell’associazionismo e del volontariato. Per il Piemonte anche
don Sabino Frigato, rettore del pontificio ateneo
OPINIONE
salesiano di Torino, che ha
illustrato i fattori di un moderno partito a ispirazione cristiana: laicità e non
confessionalità, responsabilità personale, cittadinanza attiva che supera la falsa questione “con
chi o contro chi”. Presenti anche Luigi Campiglio,
economista dell’Università cattolica di Milano, Antonio Da Re, ordinario di
Filosofia morale nell’Uni-
versità di Padova, e molti
altri docenti, militanti di
base.
Nostalgie, certo. Rammarico. Rimpianti. Forse
anche rabbia. Ma soprattutto volontà di fare, di
cambiare. Dalla tribuna
qualcuno ha detto: «Come popolare vero nell’Ulivo mi sento defunto. Nella Margherita ibernato da
tre anni». Altri hanno detto: «Fateci sognare».
Dopo il dibattito Ferrara-Rusconi
Il gemito dei laicisti
superati dalla storia
GIORGIO BOBBIO
Il recente dibattito svoltosi a Torino tra due suoi
esponenti di primo piano,
Giuliano Ferrara e Gian
Enrico Rusconi, ha costretto la cultura laica, o
meglio laicista, a guardarsi nello specchio, a scoprirsi con qualche ruga e
a constatare di non essere più così graniticamente univoca come sino a ieri si era creduto. Sì, perché quella cultura che ab
immemorabili è considerata l’unica possibile e la
sola abilitata a dettare legge in ogni ambito dell’agire umano, questa cultura
oggi si sente come percorsa al proprio interno da
più di un’incertezza e da
qualche dubbio sul proprio ruolo.
Certo, molti dei suoi fautori, forse la maggioranza,
sono ancora sicuri delle
nuove «magnifiche sorti e
progressive» della cultura
laica e sicuri di considerare «residui inerziali della storia» gli esiti di altre,
a loro giudizio non più
plausibili, opzioni culturali. Ma sempre più avvertibili scricchiolii che investono il complessivo impianto di questa cultura
non possono essere sottovalutati, senza peraltro
farsi eccessive illusioni
sulla loro reale incidenza.
Il sospetto che il citato dibattito sia stato strumen-
talizzato ad altri fini che
quelli implicitamente dichiarati e che si sia ridotto a mero gioco delle parti
non può far dimenticare
certi ripensamenti, taluni
di vecchia data, come il
crociano «perché non possiamo non dirci cristiani»,
altri dell’altro ieri, quali le
riserve di Norberto Bobbio
sulla permissivissima legge sull’aborto, che da tempo percorrono come un
fiume carsico il sottosuolo di tutta la cultura laica
e che oggi stanno per sfociare nel mare magnum di
un sofferto revisionismo,
al punto che taluno comincia a domandarsi se
non sia il caso di abbandonare il «vivere come se
Dio non esistesse» per abbracciare il suo contrario,
vale a dire il «vivere come
se Dio esistesse».
Ben venga, ovviamente
tutto quanto svecchia una
visione del mondo, dell’uomo e della storia tipicamente italiana e pro-
Libretto
di Natale
Il Messaggio
natalizio
del Cardinale
alle famiglie
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vinciale, residuo storico,
questo sì, dell’epoca ante,
intra e post risorgimentale
ormai consegnata agli archivi, ben venga ma senza
ignorare il drammatico ritardo con cui questo svecchiamento, oltretutto faticosamente, si sta verificando. Per questa cultura il confronto con quella
che si suole definire cultura cattolica, meglio sarebbe dire “dei cattolici”, è
decisamente perdente. Infatti mentre la cultura cattolica, chiamiamola così
tanto per intenderci, si è
liberata dalle panie che
la tenevano avvinghiata al
suo passato, non altrettanto ha saputo fare la
cultura laicista.
In questi decenni la cultura cattolica ha fatto
passi da gigante nell’analisi dell’attuale temperie
culturale e politica e nel
prospettare possibili interventi, se non risolutivi, di certo ben fondati. Di
contro la cultura laica an-
naspa e non riesce neanche a rendersi conto che il
dibattito che oggi la intriga, con l’inevitabile conflitto tra le sue varie anime, costituisce solo un
aspetto, certo non secondario, di una questione
ben più ampia che riguarda la sua evidente incapacità di usare il sestante per conoscere la
propria posizione rispetto all’odierna situazione,
ai problemi ad essa connessi e alle prospettive
aperte da scenari mai prima d’ora avutisi, quelli ad
esempio, di cui si è occupata la Settimana sociale
dei cattolici italiani.
Ma, attenzione, compito della cultura dei cattolici non è quello di compiacersi di ciò che accade
nel campo di Agramante,
ma se mai con la massima
discrezione, senza supponenza e senza iattanza,
di aiutare la cultura laica
ad uscire dall’impasse nel
quale è venuta trovarsi.
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€ 0,55
Il Congresso nazionale
dei giornalisti a St. Vincent, la Federazione editori e, soprattutto, l’Antitrust hanno lanciato nei
giorni scorsi un messaggio comune: la pubblicità
tv minaccia il futuro dei
giornali (quotidiani e periodici), con una distorsione abnorme delle risorse.
L’Authority presieduta
da Giuseppe Tesauro ha
fornito dati inquietanti sul
2003: su 100 euro di investimenti pubblicitari la
tv ne ha ottenuti ben 61
(quasi tutti a Mediaset e
Rai), la carta stampata solo 30, mentre gli altri strumenti (radio, cinema, affissioni) raggiungono il 9.
È una situazione che non
ha precedenti nel mondo
occidentale e l’Antitrust la
giudica illegittima e monopolistica. Inoltre la situazione è destinata ad aggravarsi con la nuova legge
Gasparri.
La Federazione editori,
sulla base di questa ferma
posizione dell’Antitrust, ha
denunciato Mediaset e Rai
per “posizione dominante”
all’Authority per le telecomunicazioni, sottolineando come Mediaset rastrelli
il 60 per cento della pubblicità televisiva, la Rai il
30, lasciando quindi le briciole agli altri operatori. In
cifre: oltre 8 mila miliardi
di lire nel 2003 a MediasetRai, solo 5 mila alle centinaia e centinaia di testate
giornalistiche della carta
stampata, dai quotidiani
ai periodici; e il sindacato
dei giornalisti ricorda che
la maggioranza dei colleghi
lavora nella carta stampata: in altre parole la distorsione pubblicitaria è desti-
Il ministro Maurizio Gasparri
nata a colpire anche l’occupazione nel settore informativo.
Antitrust, editori e giornalisti hanno un bersaglio
comune: Berlusconi, proprietario di Mediaset e controllore della Rai (gli attuali
consiglieri di amministrazione sono tutti di nomina
governativa, mentre il “padrone legale” è il ministro
del Tesoro). Ma già il Presidente della Repubblica,
inascoltato, e la larga maggioranza del Parlamento
europeo avevano sottolineato questi forti ostacoli
al pluralismo dell’informazione, in una società di
mercato in cui la pubblicità è la principale risorsa
aziendale. I nodi politici irrisolti non scompaiono con
il tempo, anzi, si aggrovigliano ulteriormente, anche per il permanere del
conflitto di interessi del
presidente del Consiglio.
Il documento dell’Authority, autorità dello Stato,
apre infatti un nuovo conflitto tra il capo del governo
e la magistratura antimonopolistica. Gasparri ha risposto duro a Tesauro, affermando che le leggi sono
di competenza del Parla-
mento; ma il ministro delle Telecomunicazioni non
può ignorare che lo Stato
democratico e liberale si
regge sulla divisione dei poteri (legislativo, esecutivo,
giudiziario); il voto popolare non cancella questa diversità di funzioni, perché
avremmo altrimenti la “dittatura della maggioranza”,
ovvero un regime stampo
sudamericano.
La denuncia dell’Antitrust appare poi di particolare rilievo per la “tenuta” della carta stampata,
con i suoi 20 milioni di lettori quotidiani, 32 milioni
di “settimanali”, 28 milioni di “mensili”. Non è un
mistero, e se n’è parlato al
congresso di St. Vincent,
che anche grandi media
come il «Corriere della Sera» e «La Stampa» hanno
problemi di quadro economico; non parliamo poi
dell’editoria “minore” che
pure rappresenta una voce insostituibile di libertà e
di espressione delle comunità locali, dei gruppi politici, sociali, religiosi.
Vorremmo chiedere al
ministro Gasparri: «Il grande fratello» o «L’isola dei famosi» meritano di più, sul
piano civile, etico e democratico, dei giornali di Cuneo e Biella o di «Famiglia
cristiana» e «Il Sole 24 ore»?
Perché questa guerra ormai aperta verso la carta
stampata? Una società liberal-democratica non regge senza un autentico pluralismo dell’informazione;
per questo la critica al duopolio Mediaset-Rai non è
socialista ma liberale. Nella storia italiana la “battaglia” contro i monopoli porta nomi indiscutibili: Einaudi, Epicarmo Corbino,
don Sturzo.
Una scelta di responsabilità ecclesiale
L’8 per mille
e i pregiudizi
Il sostentamento dei 38 mila sacerdoti diocesani italiani
è affidato dal 1984 alla comunità dei fedeli anche attraverso le offerte intestate all’Istituto centrale sostentamento
clero. Queste offerte non sono ancora molto conosciute:
oggi i donatori sono circa 150
mila. Abbiamo chiesto al professor Luca Diotallevi, sociologo dell’Università Roma 3,
il suo parere sulle offerte per
il sostentamento dei sacerdoti.
Qual è il suo punto di vista
sullo sviluppo delle offerte
per il sostentamento dei sacerdoti in Italia?
«Dal punto di vista sociologico, ma anche da quello
pastorale, ‘firme per l’8 x mille’ ed ‘offerte per i sacerdoti’
sono due cose molto diverse, e dunque a questa sua
domanda si deve dare una
duplice risposta. Le ‘firme per
l’8 x mille’ hanno a che fare
con l’identità, le ‘offerte per i
sacerdoti’ con la responsabilità. Le prime esprimono un
sentimento profondo ma anche semplice. Per firmare è
sufficiente anche solo essere
consapevoli che della Chiesa, in qualche misura, ci si
può fidare, o che – in fondo,
in fondo – ci si sente ‘cattolici’.
Altro è invece essere disposti ad assumere delle responsabilità verso la Chiesa,
soprattutto se tali responsabilità mi sono richieste dalla
Grande Chiesa, che in larga
parte non posso conoscere,
e non solo dalla mia ‘chiesuola’.
Su queste basi, non deve
stupire il livello elevatissimo
della percentuale di coloro
che firmano per la Chiesa
cattolica, e quello infinitesimale – a confronto – di coloro che fanno offerte per il
sostentamento dei sacerdoti. La nostra è una Chiesa di
identità più che di responsabilità, di somma (di chiesuole) più che di appartenenza
profonda e cosciente. I dati e
la mappa delle ‘firme’ e delle
‘offerte’ ci mostrano bene tutto ciò.
Si può solo aggiungere che
non ci sarà da stupirsi se,
nel prossimo futuro, le ‘firme’
per la Chiesa subiranno una
certa contrazione (non si può
sempre andare al massimo,
e poi tira un’aria che fa pensare ad una inversione del
moto pendolare della opinione pubblica rispetto alla religione in Italia e non solo: ad
anni ’70 ed ’80 di distacco
sono seguiti anni ’80 e ‘90
di simpatia, ma quest’ultima
fase – come la precedente,
non può durare in eterno).
Ci sono differenze tra preti
e laici sulle opinioni in merito
al sostentamento dei sacerdoti?
«Si, e forse anche un po’
buffe. Molti preti hanno pudore a porre apertamente e direttamente la questione del
loro stipendio perché pensano che i laici non accettino
di finanziare la Chiesa. Molti
laici, che stimano i preti e
che non disdegnano assolutamente che la Chiesa abbia
tutti i mezzi – anche finanziari – per assolvere alla propria missione, ritengono che
i preti siano pagati dal Vaticano.
Quale può mai essere il
fondamento reale della ritrosia del clero a porre apertamente la questione del proprio sostentamento se si pen-
sa che tra il 50% ed il 60%
degli italiani adulti ogni anno
dona soldi alla Chiesa? Basterebbe che una piccola
quota di questo flusso andasse alle ‘offerte per i sacerdoti’ per risolvere il problema
del sostentamento senza attingere al gettito prodotto dalle ‘firme per l’8 xmille’».
Come inserire il tema delle offerte nella vita economica della parrocchia?
Mettendo a bilancio il sostentamento del clero di ciascuna parrocchia. Affidando
al Consiglio parrocchiale per
gli Affari economici il compito di attivare il, per altro, modesto flusso economico che
copra quella quota di remunerazione del clero che non
viene dalla percentuale che il
clero stesso ha diritto di trattenere dalle offerte ordinarie
dei fedeli.
Se poi ci sono dubbi sinceri, testi della Cei come «I valori del sovvenire» e la «Nota
pastorale» sulla parrocchia
possono ampiamente diradarli.
A suo avviso, quali sono i
valori e i meriti delle offerte?
«Mostrare il carattere «incarnato» della comunione
ecclesiale, le cui comunità
hanno una vita non priva della dimensione economica; riconoscere responsabilità e
dunque anche dar ‘voce in
capitolo’ a tutti i fedeli sulla
vita (anche) economica della parrocchia; spingere ad un
aumento di trasparenza della stessa; fare del sacerdote
qualcosa di più simile ad un
componente della comunità
che non ad un prefetto mandato dallo ‘Stato’ a presidiare
un territorio e per questo anche pagato dallo ‘Stato’».
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