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DONATO MARGARITO!
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Il cittadinismo: una filosofia politica in frantumi!
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INTRODUZIONE!
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Nei primi giorni del mese di dicembre del 2009, ho cominciato
a stendere questo diario politico. L’intenzione era quella di
proseguirlo per un periodo congruo e con una certa regolarità.
Invece il diario s’interrompeva alla fine dello stesso mese. Ho
poi cercato riprenderlo nell’estate dell’anno successivo, però
l’interesse era talmente vacillante che non c’è stato seguito. Il
tutto si è risolto in una cartella appena, peraltro inconclusa. !
In questo diario, come si può facilmente notare, io ho assunto,
come modalità espressiva, l’aforisma, tuttavia privo della sua
vocazione più intima, che è quella della sintesi stringente. Ho
preferito l’uso di un aforisma, accompagnato dall’analisi e da
un minimo di ricognizione critica. !
Ne è venuto fuori un diario sul sistema-Italia che, però, ad un
certo punto si interrompe bruscamente. In questi giorni, nel
rileggerlo, ho trovato molto attuali e pertinenti le osservazioni
che vi sono svolte e di un certo interesse quelle che indagano il
cittadinismo. Ho ritenuto di offrirle alla lettura del navigatore,
sia pure in una forma frammentaria.!
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AFORISMI E ANALISI!
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2 Dicembre 2009 !
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Il craxismo sembra morto e sepolto. In realtà molti suoi seguaci hanno trovato riparo
e carriere nel berlusconismo. In questi mesi, tuttavia, pare sempre più evidente una
sua riedizione nella linea di Casini. Stesso potere d’interdizione, medesimo pendolare
ondivago, stessa voglia di sfondamento al centro e medesima spregiudicatezza tra i
due poli. Si tratta di un neo-craxismo temerario perché la tendenza schiacciante al
bipolarismo, sempre più egemonica, non credo che lasci alcuno spazio di manovra né
a questo ritorno da farsa all’intuizione energumena di Craxi, né ad altro. Forse, si
tiene poco conto del fatto che, in Italia, di più al nord e al sud, il centro non è la casa
della borghesia e dei ceti medi produttivi, ma di dirigenze spregiudicate e sovversive
che trovano, sotto l’uscio, la plebe, la folla, la paura delle moltitudini. Paradosso: il
moderatismo è di centro solo a parole? Credo proprio di sì. Del resto già Gramsci
aveva segnalato il sovversivismo delle classi dirigenti. Peraltro, questo neo-craxismo
non proviene da una politica socialista, ma dal centrodestra. Scappa da un abbraccio,
con il signore di Arcore, nel quale moltissimi socialisti di Craxi si sono rifugiati da un
quindicennio, ricevendo, com’è noto, carriera e poltrone. Alcuni uomini politici del
P.D. (leggi D’Alema e Veltroni) che hanno, aspramente, avversato il craxismo, a suo
tempo, oggi, invece, trafficano volentieri con la sua metamorfosi democristiana. !
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D’Alema e il dalemismo sono, oramai, una cosa sola. E questo è preoccupante per il
P.D., credo. Non che nell’ultimo ventennio non si fosse notata da tanti la posizione di
inossidabile papismo di D’Alema nella sua comunità, non importa quale fosse. Anzi
era sembrata molto evidente. Oggi, però, quel papismo osservato in prevalenza dagli
addetti a lavori ha dato luogo ad una vulgata, ragion per cui è percepibile come tale
anche dalla massa. E così lui appare come l’indiscusso padrone del P.D. Dunque, un
padrone, dall’altra parte: Berlusconi e un padrone, da questa parte: D’Alema. A me,
però, pare che vi sia una differenza sostanziale. La sovranità di Berlusconi è percepita
come “popolare”, mentre quella di D’Alema si sospetta di elitarismo. Forse, questo
dipende dal fatto che, una volta decantati tutti i legami con la tradizione comunista e
con la cultura politica di sinistra, gli sia, però, rimasto l’elemento più autoritario, il
centralismo democratico, certo più celato, più arcano, adesso, ma non meno insidioso
perché, nonostante il frenetico attivismo per la discussine interna e le primarie nel
P.D., le decisioni sembrano risalire ad un “dispotismo” democratico. Questa diagnosi
non mi meraviglia molto. Dal benservito a Natta, D’Alema agisce come un “leninista
di destra” che raggiunge gli scopi nella sua comunità. Naturalmente la percezione
“popolare” di Berlusconi è solo populismo reazionario. La precisazione è doverosa, a
scanso di equivoci. Da questa parte, non c’è il centrodestra, ma la “destra reazionaria
e padronale” di Berlusconi e Bossi. Fini è già lontano e, forse, anche perdente con la
sua idea di “destra liberale” e fedele alle istituzioni. !
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L’economia sociale di mercato è un ossimoro. Non ricordo chi l’ha scritto, ma è un
giudizio acuto e anche fondato. Penso che il ricorso al trucco retorico sia in parte
un’ideologia nel senso della mistificazione, in parte un’espressione dotata di buone
intenzioni. Probabilmente per abbellire il significato e così ingannare con più facilità.
L’economia odierna è un’economia di mercato, con annessi e connessi. Essa è reale.
Lo è ancora di più, iper-reale, se si potesse dire, nell’attuale fase in cui i mercati si
sono mondializzati, com’è noto, insieme alle trappole occulte delle bolle finanziarie.
Si può apprezzare o criticare ed entrambe sono cose legittime, ma è così. L’economia
sociale è un’altra cosa che vive nell’ipotesi oppure, forse, nell’utopia. Nessuno nega
che possa avere delle aspettative ideali, però non c’è nella realtà. L’economia sociale
di mercato è una mostruosità terminologica e finanche un non-senso, ma contiene un
meccanismo simbolico, tipico delle società nelle quali l’idolatria è di massa e le paure
generalizzate. Essa infatti assolve ad una funzione sociale normalizzante e somiglia
molto alla fabula di Nietzsche. Così tutti si rassicurano pensando che si sta andando
verso il meglio e che i poteri costituiti stanno provvedendo alle loro attese, con spirito
di giustizia e di equità. Questa è la grande commedia in atto, nella democrazia del
populismo reazionario.!
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Da un po’ di tempo a questa parte Giulio Tremonti ripete con insistenza: il mercato
quando è possibile, lo Stato quando è necessario. La crisi mondiale gli ha fatto venir
meno la fiducia nel capitalismo autosufficiente e nell’ideologia del neo-liberismo che,
per quasi un ventennio, ne è stato il “pensiero unico”, una dogmatica turgida che ha
cantato le magnifiche e progressive sorti del mercato. Tremonti era uno del coro. Ora,
invece, pare abbia cambiato opinione o smussato, di molto, le sue convinzioni. In
realtà, il suo punto di vista, anche se non indossa stabilmente la medesima dottrina
economica, è comunque dalla parte del capitale e non certo del mondo del lavoro.
Oggi l’intervento dello Stato serve per ripianare i debiti delle banche, accollarsi una
parte della crisi e scaricarne un’altra sulle condizioni sociali dei lavoratori, diventate
un’apocalisse. Troppo facile, troppo comodo. Dopo tanti anni, nel corso dei quali le
politiche economiche keynesiane sono state a dire poco derise, sostituite da ben altre
ricette, ci si dimentica troppo facilmente della macelleria sociale, provocata in tutta
Europa. La verità è che, nell’epoca della globalizzazione, il capitalismo non è più in
grado di essere autosufficiente e, quindi, non possiede più quella potenza necessaria
per svilupparsi, ciclicamente, nella logica del “mercatismo”. Anzi, ha bisogno dello
Stato nazionale, di essere sorretto da provvedimenti, implicitamente, protezionistici
per reggere la “concorrenza mondiale”. Tremonti non chiama, però, questa politica
“assistenzialismo”. L’assistenzialismo è solo quello che si fa per il Sud!
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5 Dicembre !
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Non capisco l’assunzione del cittadino come soggetto e anima della democrazia. Non
capisco l’espressione stessa “diritti di cittadinanza” tanto in voga e francamente trovo
una grande illusione in coloro che sperano in una rigenerazione del sistema politico
attraverso il dinamismo “civico” del citoyen. Quanti scrivono trattati e costruiscono
politiche su tale astrazione sono, in realtà, vittime di un inganno. Essi ritengono che il
cittadino sia una cosa in più e migliore dell’individuo, una specie di evoluzione etica.
Io, invece, ritengo che il cittadino sia un individuo assai involuto. Perché? Perché la
tendenza all’affermazione di sé, data per fisiologica nella sfera della sopravvivenza
sociale soggettiva, viene trasferita, tale e quale, in una sfera, quella della statualità
politica, che dovrebbe essere per definizione quella del bene comune e dell’interesse
collettivo. La cittadinanza non può che essere utilitarismo e il cittadino un animale
egoistico. Ma, se la politica accetta di essere lo specchio di ciò, la democrazia non ha
vita lunga poiché, nella sua stessa carne, abita il bellum degli interessi indisciplinati
come un terribile cancro. Che questo impulso viscerale nella politica c’è e ci sia
sempre stato non c’è alcun dubbio, però la politica buona contiene, in se stessa, anche
l’antidoto. Questo antidoto è sovra-individuale, in ogni senso (anche in quello della
cittadinanza) e si chiama “soggetto collettivo”, cioè quell’io-noi che sa raccogliere gli
interessi generali dell’umanità, i beni comuni, i bisogni degli oppressi e della natura e
li fa diventare politica. Un tempo si diceva classe. Oggi bisognerebbe dire qualcosa di
analogo e di più perché la classe non basta. Però dà un’idea, meglio di quanto faccia
il concetto di cittadino. In fondo il cittadino è considerato “soggetto” della politica, in
maniera eguale, sia dalla destra che dal “cosiddetto” centrosinistra. Il “cittadinismo”
è questo, un fenomeno negativo di generico qualunquismo.!
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Nessuno studia più la reazione. E mi pare, anzi, che sia andata in declino la stessa
espressione “essere reazionario”. Persino l’altra, in qualche modo consorella, anche
se più temperata, mi riferisco a “essere conservatore”, non ha avuto migliore fortuna.
Il che è davvero molto strano. Non ci sono nel linguaggio della sinistra, nemmeno di
quella estrema, radicale e no-global. Persino la destra si definisce progressista e non
mancano le occasioni in cui i leader di questo schieramento accusano le posizioni del
cosiddetto centro sinistra di essere posizioni conservatrici. Che in Italia il P.D. si sia
ancorato, sia nella materia etica che in quella economica e costituzionale, su posizioni
inconfondibilmente moderate non c’è alcun dubbio, però che l’addebito venga dalla
destra populista è davvero paradossale, mi pare. L’evanescenza del lessico politico
non è affatto casuale, è anzi il sintomo di una latitanza della coscienza politica e di un
panorama della politica stessa, ritenuto a torto, indifferenziato e omologato. In realtà,
la reazione c’è sempre stata nella storia. E c’è anche oggi. Qualcuno pensa di poterla
occultare divulgando la falsa propaganda della “fine delle ideologie” e considerando,
quindi, la reazione più che un fatto storico una fantasia sovrastrutturale. Nell’ultimo
ventennio molti si sono convinti della fondatezza di ciò e si tratta spesso, appunto, di
“cittadini” del cosiddetto centrosinistra, il cui democraticismo è talmente generico e
fatuo da non essere in grado di cogliere le questioni centrali. Dal dopoguerra fino alla
contestazione e, direi, fino agli anni settanta e anche un po’ oltre, il contratto sociale
in Italia, segnato da un negoziato ad alta tensione tra capitale e lavoro, tra reazione e
sinistra, ha consentito alle forze popolari di ottenere conquiste graduali grazie alla
presenza organizzata dell’“intellettuale collettivo”. Questo non provocò la scomparsa
dei reazionari e dei conservatori. Anzi, essi rimasero viventi e collegati aspettando le
buone occasioni. Molti reazionari rimasero tali e quali in attesa della vendetta, altri
attenuarono la posizione nel conservatorismo, ma la risma in sostanza era identica.
Quanto ai cosiddetti “conservatori illuminati” è molto difficile stabilirne il profilo e
l’azione. A mio avviso, sono due le concomitanze storiche, entrambe “positive”, se
considerate in se stesse, alle quali la reazione ha saputo collegare un’ascesa rapida :
la caduta del muro di Berlino e l’indagine contro la corruzione di “Mani pulite”. Da
qui, comincia il ritorno all’ancien règime. Perché la reazione non è altro e, sempre,
che questo. In Italia la reazione ha significato anche neo-fascismo, stragismo e
bombe. Le forze “popolari”, “progressiste” e di “sinistra”, quelle che sono legate alla
democrazia parlamentare e antifascista non hanno saputo, però, rigenerarsi di fronte a
quelle due circostanze.!
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Il berlusconismo può essere battuto dall’antiberlusconismo, ma uno schieramento che
include di tutto e di più, come quello attuale, non è detto che, arrivando al governo,
sappia estirpare, davvero, il berlusconismo imperante. Per esempio, che sappia farlo
nelle politiche del lavoro, nell’ambientalismo, nella rinascita del sud, nelle complesse
questioni etiche, nella concezione neoliberista del mercato, nella materia fiscale, nel
conflitto di interessi, nella salvaguardia degli assetti istituzionali e costituzionali, nel
ripristino del ruolo centrale del Parlamento contro ogni tentazione populista, bipolare,
decisionista e autoritaria, nella lotta contro ogni forma di criminalità organizzata.
Sono le prime cose che mi vengono in mente. Il berlusconismo è già diventato moda
e attrazione. Come moda riesce a influenzare fortemente la “mentalità”, non soltanto
della massa, smaniosa di proporsi alle competizioni elettorali municipali, ma anche la
piccola borghesia e il mondo delle libere professioni e dei mestieri artigianali che si
identificano con il modello vincente e sentono di poterlo imitare. Quanto agli effetti
di attrazione, bisogna precisare che, in molti aspetti del programma, lo “spirito” del
berlusconismo è già entrato nelle idee dei democratici e nei loro propositi. Le tante
tappe di una rincorsa moderata verso il “centro” portano a questo. Quando si marcia,
contro Berlusconi, tutti insieme, bisogna fare molta attenzione perché “l’astuzia della
storia” può riservare scottanti delusioni e traumi incancellabili. Il disincanto è dietro
l’angolo. !
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7 Dicembre !
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Prima ho detto il “cosiddetto” centrosinistra (più volte). L’ho fatto per poter spiegare
bene l’espressione e illustrare alcune mistificazioni che le sono intorno. Intanto mi
sento di dire che è un ossimoro, anche questo. Ma non mi pare che qualcuno l’abbia
già detto o scritto. Ciò significa che è diventata di una tale un’ovvietà, l’espressione
in questione, che nessuno si sogna di sospettare che, nella credenza “centrosinistra”,
ci sia un Giano bifronte, un meccanismo ingannevole che permette all’aspetto di un
lato di negare l’altro e viceversa. Infatti centro e sinistra si negano entrambi, anche se
un “bipolarismo” imposto ed estraneo alla storia nazionale e un sistema elettorale, la
cui natura è essenzialmente oligarchica, come quello maggioritario, li hanno sposati,
ma è evidente che centro e sinistra non sono San Francesco con la povertà, anzi essi
si respingono se si guarda il “contenuto” e la “volontà” dell’uno e dell’altro. In tal
senso, si può dire che ci sia, direi, un’intesa inconscia tra il P.D. (che si ritiene l’asse
portante dello schieramento “centro” più “sinistra”) e il P.D.L. che a sua volta risulta
il contenitore principale dello schieramento “centro” più “destra”. Tutto ciò conviene
a entrambi e l’ideologia della semplificazione del quadro politico, tanto invocata, è
per i due schieramenti la base dell’intesa inconscia. Ma, se teniamo conto del fatto
che Berlusconi non ha più le truppe di Casini, il neo-craxiano e che D’Alema non ha
più le truppe delle varie “sinistre” (l’unica differenza è che Berlusconi le vorrebbe
eccome, mentre dall’altra parte, essendo il “veltronismo” diventato timone fisso per i
democratici, le sinistre, non solo non sono desiderate, ma anzi “trucidate” e “incluse”,
nel contempo) il quadro generale cambia radicalmente. Infatti, lo schieramento di
Berlusconi è la Destra, mentre quello di D’Alema è il Centro. Quello che non c’è, o
che è piccolo e ininfluente, oppure che marcia verso la sua “morte” è la Sinistra. La
manifestazione di ieri, benché autoconvocata, contiene queste contraddizioni e questi
equivoci. Stavano tutti lì a manifestare, uniti contro Berlusconi, quelli di “centro” e
quelli di “sinistra”, senza rendersi conto, ahimé, che il loro entusiasmo era mescolato
con il lutto della Sinistra ed era un entusiasmo di cittadini. Tutto ciò che conduce a
questa morte è reazionario. E i cittadini di ieri lo erano. La manifestazione era tutta
P.D. Lo era nell’anima. !
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Questa analisi, però, sembra smentita dal lessico politico quotidiano. Il P.D. non
perde occasione per definirsi di “centro” e di “sinistra”. Gli conviene, così fa incetta
di voti. Prende quelli di “centro” e prende quelli di “sinistra” (pur essendo diventato
il Centro). Votano questo partito quei soggetti che, invece di valorizzare la differenza
programmatica tra “centro” e “sinistra”, preferiscono ammucchiarsi sulla comunanza
dei “diritti” richiesti perché si sentono tutti cittadini e, quindi, tutti un “popolo”, direi
come un’essenza metafisica. In realtà, il P.D., prima annienta la sinistra organizzata
ed autonoma, determinandone, nei fatti, la progressiva estinzione e, poi, si annette
quell’opinione pubblica che, genericamente, manifesta simpatia per un sentimento
politico di sinistra. Ecco perché in precedenza ho detto che il P.D. rompe, dal Centro,
con le sinistre esibendo una energumena “volontà di potenza” verso le formazioni più
piccole, trucidandole e, in parte, includendone l’habitat che vi è loro intorno. In tal
senso, si può dire che il veltronismo è ripreso e continuato dal dalemismo e che,
anzi, la “Costituzione legale” del P.D. è diventata la rottura con le sinistre e con la
Sinistra. Questo è possibile perché il cittadino scorge, nel P.D., anche un mondo che
sta alla sua sinistra, cioè una formazione politica che lo include persino come
simpatizzante di quel mondo. Errore tragico e fatale, vittime di un’illusione. E’ l’antiberlusconismo ad ogni costo che acceca il cittadino quanto l’idea confusa di
cittadinanza. Ma c’è da aggiungere che, su questo lessico mistificato, c’è una specie
di intesa inconscia tra i democratici e il P.D.L.. Infatti, è proprio l’avversario di
quest’ultimi a legittimare la fondatezza del carattere denominativo della parola
“sinistra”. Infatti, nella polemica tra i due schieramenti, Berlusconi definisce i suoi
avversari o comunisti o sinistra. Lo fa non a caso, naturalmente, perché, in questo
modo, rimuovendo la parola “centro”, effettua una semplificazione che gli serve per
proporre il bersaglio preferito all’odio fanatico della “destra reazionaria”,
fomentandone gli spiriti animali, a lungo rimossi e rafforzando le manie vendicative
di rivincita sociale. La manipolazione ideologica e comunicativa nelle parole di
Berlusconi, seguite ovviamente dai suoi cloni, è molto evidente: il P.D., partito di
centro, viene definito di sinistra e addirittura composto da comunista. Dunque, due
menzogne, da una parte e dall’altra, per una legittimazione. I democratici mentono
nell’autodefinizione di se stessi, mentre Berlusconi e i suoi cloni mentono nella
denominazione del loro avversario. La realtà è invece un’altra. In Italia la pattuglia
dei comunisti è molto ridotta e la sinistra inesistente. (“Sinistra”, con la maiuscola,
evoca un “mondo vitale” di giustizie sociali, un sapere di sfondo, direbbe Habermas,
incentrato sull’emancipazione collettiva, mentre le “sinistre” sono quelle operanti e
organizzate. Con “sinistra”, al singolare e con la minuscola, si vuole indicare,
genericamente, l’insieme “empirico” delle piccole formazioni, oggi presenti in Italia
e, di fatto, emarginate dal Parlamento e, scarsamente influenti, sui conflitti sociali). !
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Alberto Asor Rosa ha denunciato il “silenzio” degli intellettuali. Il fenomeno appare
allo studioso di letteratura assai negativo, se confrontato ad altre epoche di impegno
politico degli intellettuali, di interventismo diretto della cultura nel conflitto sociale e
politico, insomma di vera e propria “militanza” nel partito, oppure ai suoi margini di
molti scrittori e pensatori. La mia impressione è che Asor Rosa rimpianga la “figura
umanista” dello scrittore che ama sentirsi la “coscienza critica” della classe oppressa
e, dall’alto, di questo “primato colto” pretende di esercitare una qualche funzione di
guida sul processo di emancipazione in corso. Tale rimpianto non è esente da un certo
romanticismo, forse molto mediato nel discorso, ma di certo esistente, a mio parere.
E’ difficile dare spiegazioni ad un fenomeno così complesso. Asor Rosa non esamina
nel suo libro il cambiamento radicale di “statuto” dell’intellettuale, a partire almeno
dagli anni ottanta del secolo scorso. La figura che, in qualche modo, egli rimpiange
appartiene alla stagione di una “rottura storica” tra la società italiana in via di forzata
e caotica industrializzazione e il ri-posizionamento della classe colta (una piccola
borghesia del sapere) in quelle dinamiche. E’ un ri-posizionamento che avviene, in
gran parte, per “ribellione” rispetto alle “tendenze oscurantiste” di un paese, come
l’Italia, notoriamente tradizionalista e conservatore. Ma, su quella scia progressista,
con il passare degli anni e, forse, anche con le sopraggiunte delusioni del processo
storico in merito alle proprie aspettative, sancite da una militanza nutrita da esaltanti
illusioni, ha finito per prevalere l’assestamento piccolo-borghese nelle “istituzioni”
del sapere, oppure nei “poteri” della politica. Così, gli intellettuali impegnati hanno
rinunciato alla ribellione e, anche, alla liberazione degli oppressi, preferendo altre
vie, come le posizioni dirigistiche nell’Università, nel mondo della grande editoria e
nei giornali più influenti. Il rimpianto intellettuale, militante e pure impegnato,
diventa un funzionario, un manager di successo, talvolta molto potente ed anche
molto ricco. Un simile “addetto” alla riproduzione dello status quo è chiaro che
decide di stare in silenzio. Cosa potrebbe mai dire? !
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11 Dicembre !
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La “Costituzione materiale” non basta più a Berlusconi. Questa subdola forzatura gli
è stata utile per vanificare i meccanismi “classici” di funzionamento della democrazia
parlamentare e antifascista. Ciò è avvenuto nella lunga fase di transizione che segna il
passaggio alla democrazia autoritaria e populista (vale la pena di ricordare che essa fa
comodo, intendo dire il suo “nuovo congegno” autoritariamente bipolare, non solo a
Berlusconi, ma anche a D’Alema). La fase attuale, però, è un’altra ed è da collocare
proprio in queste ultime settimane, nelle quali lo scontro istituzionale e politico tra
Berlusconi e il Presidente Napolitano, tra Berlusconi e il Presidente Fini e, poi, tra
Berlusconi e l’opposizione democratica, tra Berlusconi e la magistratura è diventato
incandescente. Si può dire che l’affermazione esplicita di Berlusconi, in una sede
prestigiosa ed europea, nella quale ha prima denunciato la “politica eversiva” del
partito dei giudici, tendente ad espropriare il popolo italiano della sua sovranità e poi
preannunciato una “riforma della Costituzione” per porre fine a questa situazione,
annuncia la nuova fase. Essa indica una trasformazione della democrazia autoritaria e
bipolare in una prospettiva iper-monarchica. Il processo non è ancora compiuto, ma
le intenzioni appaiono abbastanza chiare. Non credo che la riforma costituzionale
preannunciata da Berlusconi (che è meglio chiamare “anti-riforma”) consista soltanto
in una riproposizione del vecchio lodo Alfano e nella reintroduzione dell’immunità
parlamentare. Non escludo, è ovvio, che entrambi siano nella testa di Berlusconi e dei
suoi avvocati. Tuttavia, credo che essi rappresentino più una tattica immediata di tipo
difensivo che la vera strategia di Berlusconi. La vera strategia consiste in una serie di
provvedimenti che prevedono un drastico ridimensionamento dell’autonomia della
magistratura, uno svuotamento di funzioni di alcuni organi istituzionali di garanzia e
controllo e l’elezione diretta del premier. Se a tutto ciò aggiungiamo il bipolarismo, il
maggioritario, l’attuale sistema elettorale, la manipolazione di ampi settori dei media
e la propaganda costante sulle capacità “miracolose” del sovrano nella sua attività di
governo, allora possiamo accorgerci che il paese, in maniera sonnolenta e stordito, si
sta incamminando verso il Presidente-monarca. Anzi, in tal caso, il Presidente che ha
l’investitura popolare del voto concentra nella sua figura un’autorità molto più grande
e quindi con maggiori poteri decisionisti del vecchio monarca dell’assolutismo regio,
la cui legittimazione a governare era molto più fragile provenendo, come si sa, solo
da presupposti ereditari e dinastici. Non chiamo questo sistema un “presidenzialismo
autoritario” (il quale può anche continuare ad avere un certo rapporto “formale” con
l’impalcatura simbolica della democrazia), bensì un “decisionismo ipermonarchico” (il quale si esprime sia mediante la “volontà dispotica” del Presidente
che mediante il principio del rex fecit legem. E, in questo caso, anche l’impalcatura
viene modificata, e drasticamente indebolita. Il che non significa che “qualcosa” del
vecchio sistema democratico non venga lasciato in piedi come
alibi e
giustificazione).!
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Alberto Asor Rosa ci dice che non c’è più l’intellettuale militante ed ha ragione. Però
ciò non significa che non esiste più la “condizione intellettuale” nelle società di oggi.
Se si riesce a coglierla, anzi, forse si riesce anche a capire, non solo il silenzio in cui
versano oggi gli intellettuali, ma anche il loro possibile risveglio, la loro reazione,
ammesso che queste non ci siano già. Una prima cosa l’abbiamo già detta e consiste
nel fatto che gli intellettuali tacciono perché sono diventati addetti alla riproduzione
dello status quo. Chiamo questo fenomeno “managerizzazione”. L’altro fenomeno,
che investe la “classe colta”, è quello della “massificazione” con esiti, per ampi pezzi
di questo ceto, che hanno un evidente carattere “proletarizzante”. E’ una classe colta,
addetta alla riproduzione di se stessa, dei suoi ambiti di vita minimi ed elementari e lo
fa con la faticosa “ansia” dell’insuccesso, con la schiena piegata nelle dipendenze più
estreme e brutali, con la “paura” dell’imminente termine dell’impiego precario, con
la convivenza prolungata in un “rischio” onnipresente che logora a dismisura e
stritola. E sono insegnanti, ricercatori, liberi professionisti, laureati, esperti,
specializzati, tecnici Essi sono in silenzio per “troppa dignità”, oppure parlano,
parlano tanto, ma le loro “voci” non giungono e non si sentono nemmeno. Esse sono
oscurate da altre voci più forti e più ascoltate. La loro caratteristica è quella di vivere
il lavoro precario come un “esodo infinito”, in un’instabilità “barocca” di spazi,
uffici, volti, usanze e climi. E senza creare legami particolari perché il precario vive
le sue relazioni con la coscienza dell’interruzione, del tempo che non ci sarà. Ciò li
costringe a non avere radici profonde, a non costruire memorie forti, a non vivere
affetti permanenti. Questi sono i due poli della “condizione intellettuale” odierna. Se
si guarda al loro compito dal punto di vista di “un funzionalismo sistemico”, gli uni e
gli altri cooperarono alla riproduzione simbolica della società, ma è indubbio che gli
intellettuali dell’esodo e delle memorie stroncate, delle paure persistenti e della
coscienza di non avere tempo configurano un trauma e un disordine attraverso i quali
aspirano ad “altro”. Certo, è un “altro” che non possiede, ancora, la “forza decisoria”
della politica per diventare negoziato e lotta, ma questa “mondanità allegorica” di
sofferenze a ripetizione, prima o poi, produrrà prassi politica e dottrina.!
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Ezio Mauro, il Direttore di “Repubblica”, ha oggi evocato lo “stato d’eccezione” di
Schmitt per commentare le tensioni politiche inerenti l’attuale momento. Dunque, se
il sovrano è colui che decide sullo stato di eccezione per porvi fine e rimedio, allora
Berlusconi si starebbe preparando ad un gesto estremo: la “decisione dispotica” per
salvare la situazione e, soprattutto, per salvarsi. La citazione colta sembra abbastanza
appropriata, ma le analogie, a mio avviso, sono insussistenti e, quindi, la ritengo, nei
fatti, una forzatura interpretativa. Io ritengo che il pensiero politico laico e di sinistra
non possa prendere la dottrina di Schmitt, che è teorico del nazismo e applicarla ad
un esame della situazione odierna con tanta disinvoltura. Ezio Mauro è un Direttore
intelligente e leggo, sempre, con grande interesse e gusto le cose che scrive, spesso
ricche di acume e senso critico, ma in questo caso penso che l’associazione sia di un
profilo non accettabile. Si deve fare molta attenzione a richiamare la dottrina di
Schmitt. Se il ricorso ad essa dovesse diventare troppo frequente la “teologia
politica” diventerebbe o potrebbe diventare una “comoda pezza d’appoggio” sia per
analizzare le controversie politiche insanabili che per applicarvi decisioni autoritarie,
ritenute necessarie per il superamento dell’impasse in cui si cristallizza il dualismo.
Però, in questo caso la soluzione è il regime. Al contrario, penso che non ci sia, nella
politica corrente, compresa quella italiana, alcuno “stato d’eccezione” che richieda il
risoluto decisionismo di un capo per sciogliere le controversie e fondare una nuova
legalità, generata dal suo “atto violento” (in questo caso, quella generata dal temuto
“pugno di ferro” di Berlusconi contro la magistratura). In realtà, l’unico “stato
d’eccezione” che si può condividere e io condivido (meglio denominarlo, quindi,
“stato di emergenza”, o “stato di rischio per l’umanità”) è quello che riguarda i (già
tanto compromessi) presupposti biologico-ambientali per la riproduzione della vita
umana e naturale. Ma di questo la politica corrente non sembra interessarsi. !
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Non credo che il berlusconismo sia stato studiato adeguatamente: esso si compendia
nel “culto della personalità” in un sistema di vita “borghese”, in un’epoca matura sul
piano dello sviluppo econo-mediatico e in un “popolo-nazione” come l’Italia che non
è nuova in sperimentazioni e, anzi, anticipazioni, assai discutibili. Insomma, per dirla
in maniera sbrigativa, in una situazione gravata da tante stanchezze, la più grave delle
quali risulta la stanchezza verso la democrazia e le sue istituzioni. Gli elementi che lo
compongono sono: a) il mito “dannunziano” dell’eterna giovinezza, con annessi e
connessi, intendo dire con sfrenato e incontrollabile narcisismo e identificazione di
massa, costruita e volontariamente perseguita; b) il mito dell’efficientismo pratico nei
piani d’azione che vengono predisposti in azienda, come nel governo, nella politica,
nel partito, nelle televisioni e nel calcio; c) la riduzione del tempo a presente e della
storia a oggi e della cultura passata a oblio e dei padri a fantasmi e della sinistra al
male; d) un comportamentismo amorale, fondato su una doppiezza cosciente e su una
“recita”sistematica, che consenta di fare “l’atto avventuroso” e quanto è in contrasto
con il “lecito” e il “legale”, nell’intento di far diventare tale condotta modello, moda
diffusa e riuscendovi anche. Più avanti, si aggiungerà: e) la struttura del partito che
può apparire “tribale”, nell’asse diretto dell’identificazione carismatica tra il leader e
suoi sostenitori iscritti, ma che in realtà è una corazza di ferro, indiscutibile, costruita
con i materiali di un’organizzazione tutta verticale e f) l’intenzione inconscia del
capo, permanentemente vissuta e nello stesso tempo trattenuta in un equilibrio, molto
difficile, sia dentro la persona che dentro il potere. E, infine, segnalo g) l’assunzione
di una religione comoda, neo-pagana, fondata sulla dissociazione tra principi e fatti e
su un’intesa stipulata dalle reciproche convenienze, tra Chiesa e Berlusconi, che
derivano essenzialmente da un terreno clerico-reazionario e da antico regime. !
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13 Dicembre !
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Stamattina ho partecipato a Lecce alla riunione fondativa di “Sinistra e Libertà”. In
molti, tra i compagni, si aspettavano questa svolta. Porre fine alla fase “costituente”,
troppo lunga e dispersiva e passare, finalmente, alla costituzione effettiva del partito
nuovo, invocato a più riprese e con insistenza. Dal dibattito, sono rimasto in parte
deluso, però, dal momento che gli interventi più applauditi e che hanno ricevuto una
calorosa approvazione, persino nei “giovani” presenti, sono stati quelli che, in forme
rozzamente spontaneistiche, hanno prodotto della becera antipolitica, rievocando temi
cari a Pannella e Di Pietro e mi fermo qui, per non essere più pesante. Ho ascoltato
una polemica pretestuosa, fatta di pregiudizi infantili e di resistenze pre-politiche, con
cui si mettevano sul patibolo i politici senior, le figure istituzionali, le gerarchie
organizzative di partito, i dirigenti di partito considerati detentori di un autoritarismo
decisionale. Insomma, un punto di vista che proveniva più dai critici della “casta” che
da una coscienza politica degna di questo nome e capace di analizzare e distinguere.
Quale casta politica ci poteva essere lì? Non occorre, certo, essere sofisticati analisti
politici per capire che lì c’erano reduci e superstiti, veterani dell’ideale e nostalgici di
un’età dell’oro solo sognata e che i dirigenti pigliatutto, in realtà, erano dei poveracci
che, a livello di volontariato, si prendevano l’onere e la fatica di “organizzare”. La
“casta” significa carriera, poltrone, potere, soldi e privilegi. Nessuno, in quella sede,
possedeva tali requisiti per poter essere incluso in una classificazione così spregevole.
E allora perché manifestare questo risentimento? Forse, il populismo tanto in voga o
un certo “dipietrismo” di sinistra sono entrati tra di noi? Non voglio crederlo, ma se è
così, è una cosa molto grave. E ai giovani, senza assecondarli paternalisticamente e
con un affetti impropri, bisognerebbe far sapere, anche a costo di essere impopolari,
che essere comunisti o di sinistra non è un’improvvisazione. Non basta origliare gli
spifferi della storia per trovare in se stessi una rotta così impegnativa. Ora, al di là
degli umori e delle occasioni, è evidente che siamo davanti ad un problema: quale
deve essere il rapporto tra dirigenza e base degli iscritti, tra partito ben strutturato con
i suoi organismi territoriali eletti e partecipazione dell’opinione pubblica, del mondo
associativo e del volontariato, della società civile e della rete. L’ideologia politica di
Nichi Vendola è per una rigenerazione della politica che deve avvenire attraverso il
“partecipazionismo”. Però, questo non significa rinuncia a priori all’organizzazione e,
quindi, ad un ceto politico dirigente, la cui fisionomia, tuttavia, non può prescindere
dall’apertura e dal rinnovamento continui. Altrimenti, scusate, perché avete detto di
volere il partito? Un partito non può esistere senza dirigenza. !
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Non mi sfuggono, naturalmente, le patologie della politica e anche della democrazia.
Risultano anzi abbastanza chiare. E’ evidente che, nei confronti della cattiva politica,
scatta necessariamente l’antipolitica. Quindi, l’antipolitica è anche una politica. Essa
risulta sprofondata tra i detriti fangosi di tante demagogie, di tanti settarismi, di tanti
qualunquismi, di tanto nazionalismo razzista e di tanti giustizialismi. Sono “le paure”,
sia quelle provenienti da cause reali che quelle diffuse artatamente dalla propaganda
forcaiola che inducono le “voci” della gente ad esprimersi in un plebeismo aggressivo
e antisolidale. Noi dobbiamo saper distinguere attraverso l’interpretazione critica di
ciò che ci circonda. Dobbiamo sapere chi è casta e chi non lo è. Ma dobbiamo anche
sapere che la scorza esteriore e tanto visibile dell’antipolitica non ci deve interessare
perché essa alimenta, semmai, il populismo della destra reazionaria e del dipietrismo.
Noi dobbiamo pervenire ad un piano più profondo, di riconoscimento dell’essenziale,
poiché anche in quel plebeismo aggressivo e antisolidale c’è una sofferenza taciuta e
sublimata nella parola bellicosa e, persino, dei bisogni così rimossi e negati che si
finisce per ritenerli, ormai, irrimediabilmente perduti. Questo deve essere il terreno di
“Sinistra e Libertà” per programmare la sua politica: la sofferenza sottaciuta delle
persone, i loro bisogni così negati da essere ritenuti perduti. Noi dobbiamo ridestare
un sentimento d’amore delle persone verso se stesse e gli altri. La drammatizzazione
dello scontro politico, intesa in senso verbale e personale, non ci deve interessare.!
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Ritornando al dibattito domenicale, un compagno ha sostenuto un’opinione alla quale
io ho dovuto ribattere. Dobbiamo fare nostro l’antiberlusconismo perché è diventato,
diceva, una mentalità diffusa, un sentimento popolare, una specie di moda. Per poco
non diceva una “religione civile”. Possibile che i compagni non capiscano che, su
questo argomento, c’è un’egemonia molto forte dei democratici e un’altra egemonia,
in forme qualunquiste e plebee, che è quella di Di Pietro? Possibile che non si
capisca che il tema non è abbordabile nemmeno per utilitarismo elettorale? E poi noi
mica dobbiamo pensare ad una rinascita della politica attraverso l’antiberlusconismo?
La nostra strada deve essere molto diversa. Certo, siamo antiberlusconiani, ma questo
non deve diventare una religione civile, una crociata permanente contro il nemico. Al
compagno ho detto chiaramente che la destra reazionaria si nutre e si avvantaggia di
un antiberlusconismo dilagante. Pare, anzi, che il popolo lo ami di più. Scrivo queste
cose in forma di diario la sera del 13 dicembre, dopo che mia figlia mi ha informato
dell’aggressione a Silvio Berlusconi e dopo aver visto alla televisione quella scena
così tremenda. Il gesto, dunque, va condannato senza se e senza ma. La violenza è
incompatibile con la politica. Non riesco proprio a comprendere le farneticazioni di
Di Pietro e le tante (troppe) manie omicide, apparse sul web. Il “buon senso” che pare
manchi a tanti sconsiderati ed anche a leader come Di Pietro non aiuta certo la causa,
ma l’avversario. Pertanto, la nostra religione civile deve essere la “non-violenza”. E’
questo il terreno nel quale la politica ritrova “un’etica” che è anche “prassi”. !
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Franco Cassano insiste sull’“alternativa mediterranea”. Lo fa in un recente libro che
associa l’analisi dell’atavico problema con una proposta decisamente interessante. Si
tratta di un ri-posizionamento della “questione meridionale” in un’Europa del Sud e
mediterranea. E’ auspicabile che essa penetri quanto prima nell’agenda politica dei
popoli interessati e anche dei singoli Stati. Non sarà facile. Cassano si occupa, non da
oggi, di questa prospettiva. Mi pare fin dai tempi del fortunato pensiero meridiano. In
seguito essa è stata approfondita e studiata mettendola alla prova con la teoria della
decrescita di Latouche, con la geopolitica di Zolo e con il conflitto centro-periferia di
Wallerstein. L’alternativa mediterranea è, credo, la migliore risposta sia all’egoismo
“padronale” e “nordista” della destra attuale che alle manie secessioniste della Lega
Nord. Certo la riproposizione della questione meridionale secondo il canone scontato
e tante volte abusato della tradizione meridionalista non tocca né convince l’opinione
pubblica, compresa quella del Sud che versa tante volte in condizioni di indigenza. Si
deve prendere atto di ciò ed essere innovativi. Cassano ci esorta ad esserlo per non
essere cancellati, definitivamente, non solo dalla questione italiana, ma anche dalla
questione europea: essendo ormai diventate entrambe, “centri” di potere concentrato
e di interessi congiunti e collegati in un’ottica di potenti trans-nazionalità. Si tratta di
“centri”, le cui politiche accentuano l’esclusione delle periferie più deboli e lontane e
concentrano in una commistione sistemica le aree più forti e meglio attrezzate sul
piano tecnologico. Cassano sostiene, invece, che la “via dell’autonomia (per i tanti
sud, n.d.a.) è quella che punta sul plusvalore che viene dalla cooperazione, dalla
costruzione di una nuova area geopolitica e geoeconomica, di un nuovo centro capace
di affiancare quelli esistenti”. E, si potrebbe anche aggiungere, di competere con essi
e negoziare, da posizioni, in qualche misura, riconosciute e autorevoli. Tutto questo,
ovviamente, è condivisibile. Mi chiedo, però, come e quando, può entrare nell’agenda
politica e se, perché ciò avvenga, serve una classe dirigente degna di questo nome,
oppure una rete di cittadini. !
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Nell’articolo di oggi su “Repubblica”, Ilvo Diamanti paventa che il Carroccio diventi
una Lega nazionale. A mio avviso, ciò è già avvenuto. L’alleanza tra Lega Nord e
P.D.L. è la nuova lega nazionale. Gli sprovveduti pensano che questo non è possibile
per i rapporti di forza tra i due partiti. Troppo grande il P.D.L. per lasciarsi mangiare
dalla Lega Nord, semmai sarà vero il contrario, pensano in molti, affidandosi ad una
riflessione politica molto banale. In realtà, i rapporti politici non sempre sono regolati
dalle “quantità”, in senso dozzinale. Talvolta, però, succede il contrario nel senso che
i rapporti politici sono regolati da “meccanismi qualitativi” che rimangono occulti,
ma abbastanza operativi nella “stanza dei bottoni”, con esiti pratici molto consistenti.
E’ questo il caso in questione. Oggi, la Lega Nord esercita per il medium del P.D.L.
un potere nazionale. Tutte le altre “microleghe” che nascono qua e là, come funghi,
nel Mezzogiorno, per motivi opportunistici, mi sembrano davvero ridicole. E pure di
destra. Non bisogna meravigliarsi, però, di questo paradosso: che una forza politica,
decisamente anti-nazionale, oggi, assuma i panni di un rilievo nazionale di governo e
che venga anche ostentato. E’ la nuova strategia “gattopardesca” del secessionismo.
E, anche qui, i polentoni imparano (e bene) dai vizi dei meridionali. !
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L’antiberlusconismo è la tomba dei democratici e di Di Pietro e, con loro, di tanti altri
ancora, magari inconsapevoli. Se la drammatizzazione dello scontro politico continua
e se Berlusconi si decide per le elezioni anticipate, esse si trasformano (anzi è già
avvenuta questa trasformazione) in un plebiscito che gli sarà di sicuro favorevole. In
questo caso, in Italia si passerà ad una Repubblica “monarchica”. Rimarrà in piedi la
scorza formale della Repubblica, ma il potere reale, dalle istituzioni con meccanismo
di controllo democratico, verrà concentrato, di fatto, nelle mani di una sola persona.
Ecco perché ho parlato in precedenza di ipermonarchia. Nel caso in cui, fra qualche
mese, non ci saranno le elezioni anticipate, non è difficile prevedere uno “strappo” di
tipo autoritario tra Berlusconi e la Repubblica parlamentare. Ma questo è un corso
diverso, più caotico e forse da “guerra civile” con modalità imprevedibili. Il P.D. e Di
Pietro pensano, forse, di avere davanti un uditorio civile che assimilano all’opinione
pubblica e che le loro “categorie di analisi” siano le medesime di chi li ascolta. Non
hanno compreso che davanti si trovano la folla, una multitudo di individui che “ama”
Berlusconi, con il cuore e con la mente. !
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21 Dicembre!
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Il “cittadinismo” è una filosofia politica che va indagata in maniera molecolare. I suoi
requisiti di fondo (indichiamone qualcuno in maniera sommaria, senza precludere che
vi possano essere delle aggiunte successive) sono questi. C’è quello del “misticismo
delle regole” che viene invocato e praticato in forme esasperate ed esasperanti fino ad
imboccare la strada di un settarismo farneticante. C’è, legata organicamente a questo,
l’idea che le “decisioni” devono essere, sempre, “passaggi obbligati”, non importa se
poi si rivelano tardivi, intempestivi e innocenti. Io chiamo questo secondo requisito
un “formalismo procedimentale minuzioso”, così perfetto nell’iter da rivelarsi, a mio
avviso, senza conclusioni in senso politico. Anche qui, se si vuole segnalare il nobile
sentire, c’è tanta innocenza e puritanesimo, ma non prassi, non “forza decisoria”, non
c’è la politica come irruzione nel mondo. Il terzo requisito, davvero centrale, è quello
che io chiamo “l’egolatria dell’io-cittadino”, il fatto cioè che, ad un certo punto, il
suo parere si autoproclama, nel procedimento decisionale, indispensabile fino al
punto da ritenere nullo qualsiasi deliberato adottato o in corso di adozione. Questo
“congegno ideologico” del cittadinismo ( i tre elementi messi assieme e osservati
nella dinamica storica) si traduce in un “comportamentismo” diffuso, sul piano
dell’azione politica, che si nutre di fraintendimenti. Il primo consiste nello scambiare
la “dialettica” tra i gruppi dirigenti di partito e la “base”, o cittadini, o società civile, o
“rete” o girondini o come altro la si vuol chiamare in una “antinomia” irreversibile tra
“casta” e base, o meglio tra la sanità romantico-populista assoluta e indiscutibile della
base o cittadini e le strategie autoreferenziali, carrieriste, autoritarie, corruttrici e
senza merito alcun di coloro che, tante volte, sono definiti con disprezzo apparato o
ceto politico oppure “casta”. Qualcuno vuole spiegare che vi sono tanti dirigenti
politici bravi, dotati, che hanno servito la causa, che non hanno rubato, che non si
sono arricchiti, che si sono messi a disposizione delle vertenze locali, dei precari e
delle lotte ambientali, che ci hanno rimesso del proprio senza lagnarsi, che l’hanno
presa nel culo, che insomma non sono assolutamente “casta” e non lo sono mai stati?
Il secondo fraintendimento consiste nello scambiare la partecipazione, secondo la
logica della situazione (il che significa con gli ostacoli inevitabili, con i rapporti di
forza in corso, con la mappa del consenso organizzato, con l’influenza schiacciante
dei leader piccoli e grandi, con le regole che una comunità politica si dà e tanto altro
ancora) con il “partecipazionismo dei cittadini” che significa di fatto: io decido, senza
di me non si decide che è, penso, una maniera assai paradossale con la quale, prima,
si invoca la regola per prevalere nel procedimento decisionale e, poi, la si affossa con
manovre di vero e proprio isterismo e di sgradevole sabotaggio, non appena ci si
accorge che la maggioranza si sta determinando mediante decisioni diverse. In questo
tipo di fraintendimento l’io “egolatrico” del cittadino diventa anche “autarchico”,
direi fisiologicamente. Ognuno di noi può valutare quanto una simile identità chiusa
abbia in se stessa un contenuto altamente “disfattista” per una struttura, invece, superorganizzata come il partito. Per quanto concerne il primo fraintendimento, si può
facilmente capire che molte cose agiscono sull’io-cittadino e lo influenzano
profondamente come l’antipolitica, il noto libro dei due giornalisti sulla casta, un
certo plebeismo giustizialista e vi aggiungerei, anche, un generico democraticismo
come quello delle primarie e dintorni. Queste questioni, che concernono il
“cittadinismo”, sono tutte riassumibili nel programma di “democrazia dei cittadini”,
di cui tante volte si è sentito parlare negli ultimi vent’anni. Io, però, non sono affatto
convinto del “cittadinismo” che, anzi, considero, nel suo intimo, una risposta
“conservatrice” e, quindi, debole, molto debole, alla “distruzione cesarista” della
democrazia repubblicana del popolo e delle classi. La cosa curiosa è, purtroppo, che
persino l’aria che respirano tanti ragazzi di sinistra e non solo ragazzi, quando li senti
parlare, è proprio questa cosa insulsa che viene dai requisiti, prima illustrati, del
“cittadinismo”. E l’equivoco sta anche a sinistra. Serve tanta coscienza politica,
compagna Sgrena e tanto buon senso nell’applicazione delle regole. !
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Bisogna studiare bene il berlusconismo per capire in che maniera si può rompere
l’intesa di tipo carismatico tra il leader e la sua massa. Di solito, si ricorre alla tanto
abusata formula del populismo per focalizzare il fenomeno e coglierne la specificità.
Intanto, bisogna, però, avvertire che l’io sia quando è individuo che consuma e imita
che quando si muta in un cittadino che sceglie, decide e si schiera, accetta di risiedere
nella reggia del populismo trovandola la sua casa naturale. Tuttavia, il caso di specie
(Berlusconi) e il peculiare rapporto tra populismo e cittadinismo, fanno capire che il
“populismo odierno” non sia più quello di matrice otto-novecentesca, il quale a me
sembra assai intriso di emozioni irrazionali, di romanticismo passivo e di ripetuti
transfert per colmare miserie individuali piuttosto vistose. Non voglio affermare che
nel populismo odierno, manchi un tale trasporto sentimentale. Di sicuro, c’è, ma è più
un veicolo, un medium linguistico-comunicativo, però la sostanza è, ormai, diventata
un’altra cosa, cioè il suo meccanismo carismatico si è laicizzato, direi razionalizzato.
Tale processo induce a due importanti novità rispetto alle esperienze canoniche del
fascismo e del nazismo (la realtà politica dello stalinismo meriterebbe nel merito una
trattazione a parte). Una la troviamo dalla parte delle masse innamorate e l’altra dalla
parte del leader-dittatore. La tesi qui sostenuta è che la razionalizzazione del carisma
(nozione eversiva, ovviamente, rispetto a Weber) produce novità in entrambi i lati. La
massa adorante e innamorata diventa un’opinione pubblica attiva, sotto la spinta del
contenuto cittadino, mentre nel fasci-nazismo era gregge ubbidiente e niente di più. A
sua volta il leader-dittatore, proprio per le premesse razionali del cittadinismo, non
vuole far sconfinare il suo autoritarismo verso la brutale tirannia, bensì esercitare il
potere con atti di “benevolenza” (un riferimento potrebbe essere quanto avanzato da
Fitoussi sul “dittatore benevole”). Quindi, per tornare alle nostre riflessioni politiche,
la figura dell’iper-monarca va così considerata, non come un despota feroce e senza
scrupoli, ma come un numero uno che si compiace di benvolere e addirittura amare.
Il populismo ha, dunque, cambiato le sue vesti e, dopo la stagione tetra del disincanto
diffuso e di massa, non poteva che essere così. E’ probabile che, sul modello italiano,
l’Europa e non solo, vada verso una “dittatura”, non visibile ma vivibile, vale a dire
dolce, attenuata sia dal rito quotidiano della democrazia formale che dal consumismo
diffuso e dal permissivismo continuo. Resa tale, addirittura, e ciò non meravigli, dalla
stessa “volontà” del dittatore che si concede, al suo popolo-pubblico, benevolo e non
tiranno, concessivo e non persecutore. Ogni confronto con le dittature novecentesche
è infondato, non solo con quelle italo-tedesche, ma anche con quella sovietica. Oggi e
domani, il male non sarà evidente: non ci sarà il piano golpista, non ci sarà sangue,
non ci saranno confinati ed esiliati, non ci saranno leggi esplicite di censura, non ci
sarà la sovversione. Tutto avverrà, se avverrà davvero, con il sorriso e l’amore, con il
consumo e le ballerine, con la dovuta discrezione e con lo stesso spettacolo di sempre
che riprenderà le scene consuete, senza modificare alcunché del palco e del libretto e
dei camerini. Una sola regola, però: niente terrore, niente paura. Anche questa sottile
intenzione inconscia è berlusconismo. Forse anche una tentazione.!
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24 Dicembre!
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Il “cittadinismo”, in via di principio, non richiede una classe dirigente poiché tutti i
cittadini si sentono io-Dio, cioè dirigenti a tutti gli effetti, anche se non selezionati da
nessuno, né scelti mediante procedure democratiche. Talvolta, spontaneisticamente,
(ma sarebbe più giusto dire qualunquisticamente), essi si autoproclamano migliori dei
loro dirigenti (che, in realtà, sono frutto delle loro stesse decisioni congressuali), che
considerano espressione di rampantismo e carrierismo, esponenti autoritari e anche
corrotti di un ceto politico, diventato una casta chiusa e autoreferenziale e quant’altro
di negativo si possa attribuire loro. Il cittadino si sente dirigente e nega la dirigenza e,
per questo, risulta sospettoso e litigioso nei confronti di ogni struttura organizzativa
di partito. Però, nel contempo, vuole il partito e non sa farne a meno, anche se lo fa
oggetto di vilipendio continuo e sistematico. In questa fase, dunque, si combatte una
“guerra civile” permanente tra dirigenti e diretti, tra tesserati ed eletti che, per la
verità, non è dato riscontrare nei partiti di centrodestra e nemmeno nell’Italia dei
valori. Insomma il cittadino associato è, nello stesso tempo, il fondamento del partito
organizzato, ma anche la sua più corrosiva delegittimazione. Questo spiega, almeno
in parte, perché non ci sono più né dirigenti popolari, né leader, talmente autorevoli,
da configurarsi come sintesi di un popolo e incarnarsi in una tradizione già nota. Si
potrebbe dire che Berlinguer sia stato l’ultimo leader di tale prestigio. Oggi, è Nichi
Vendola che raccoglie ampie simpatie popolari, mentre Bertinotti viene percepito
come sofisticato e D’Alema è decisamente l’opposto di un leader popolare, data la
sua ben nota antipatia. Quello di Casini, invece, è un partito-leader: nessuna scossa e
molto mediatico. Per il P.D.L. siamo alla falange macedone. Ma c’è tanta forza in
esso. Il partito, appunto, è l’altra componente del berlusconismo.!
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Apprendo dalla carta stampata e anche da alcuni programmi televisivi di successo che
l’odio è una componente politica “legittima” nell’ambito di una contesa in atto. Ora,
in seguito all’aggressione subita da Berlusconi, era scontato che il dibattito politico si
sarebbe indirizzato in questa direzione, ma le corbellerie espresse sul tema sono state
davvero tante. Che nel corso della storia, la manifestazione di questo sentimento sia
stata molto frequente nella lotta politica è fuori discussione, ma assumerlo come fatto
paradigmatico è assurdo e anche sbagliato. Qui, non è in discussione la violenza che,
nel determinare epoche e fasi, costituisce storicamente una politica, talvolta l’unico
strumento di liberazione degli oppressi, ma un’ossessiva limitazione di sé e degli altri
nell’agire e nel pensare, mediante il meccanismo dell’odiare, che si configura come
antipolitica. Se, quindi, è riscontrabile la legittimazione storica della violenza, questo
non è possibile nel caso dell’odio, del quale si può solo prendere atto che c’è stato nel
tempo, senza legittimarlo in nessuna maniera. Ma davvero si crede che, dato il livello
delle tensioni odierne e dell’estrema militarizzazione dei conflitti, la violenza e l’odio
possano essere considerate risposte, reazioni oppure addirittura soluzioni? Io credo di
no. Lo credo per la violenza, figuriamoci per l’odio. Invece, è la non-violenza che
può possedere una grande “forza decisoria” in un senso politico nuovo. Del resto, in
un solo modello teorico l’odio può ricevere legittimazione ed è quello che considera
il rapporto politico secondo lo schema “amico-nemico” di Schmitt. Meglio Gramsci,
con la tematica del “consenso”, inteso come costruzione culturale e Ghandi con la sua
rivoluzione pacifica.!
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Pietro Scoppola considera la “democrazia dei cittadini”, da lui avanzata per costruire,
dapprima, l’Ulivo e poi il P.D., come una “democrazia di cristiani”. L’equazione, a
dire il vero, convince, sia nella parte positiva che include tanti praticanti devoti che in
quella zavorra, assai diffusa, di doppia morale e fariseismo di tanti atei devoti. Per lui
il nesso tra democrazia e cristianesimo è inscindibile e, ancor di più, lo si capisce in
Italia. Ma la visione politica di Scoppola è tutta laica. La democrazia dei cittadini
coincide con il processo di partecipazione dei cittadini stessi che avviene attraverso le
associazioni di base e la rete diffusa, la scoperta di un ruolo centrale degli elettori, il
ricorso alle primarie per la scelta dei candidati e una simbiosi interattiva tra partito,
eletti e cittadini. Le cose, però, storicamente parlando, sono andate diversamente da
come Scoppola se le immaginava. La genealogia che doveva consentire ai cittadini di
dar vita all’Ulivo e poi da questo far nascere il P.D. non c’è stata. E’ vero che è nato il
P.D., ma dall’eclisse dell’Ulivo e dal disfacimento dell’Unione e non dalla base dei
cittadini o rete, bensì da un’operazione verticistica, condotta da un ceto politico più
che navigato. Un dato rilevante di questo partito è il conflitto permanente tra vertice e
base, tra dirigenti e cittadini, tra eletti e cittadini. Insomma, i cittadini sono contro il
partito. E la pantomima delle primarie (quando sono state fatte hanno avuto un rilievo
del tutto formale) non ha attenuato il conflitto interno, anzi lo ha inasprito e di molto.
Oggi, anche per le pressioni interne, tra le più disparate e dissocianti culture politiche
che vi convivono, il P.D. è in uno stato di confusione totale. L’unico elemento, che
tiene uniti gli ambiti, è l’attesa del traguardo.!
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27 Dicembre!
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Stamattina i giornali hanno dato una notizia di quelle che mettono subito malumore.
Si sentiva già nell’aria, però si pensava che un ravvedimento dell’ultima ora avrebbe
cambiato le cose. Purtroppo, così non è stato. Emiliano, il gladiatore di Bari, pare che
abbia accettato di candidarsi, come Presidente, alle Elezioni Regionali del 2010,
senza se e senza ma. Una guerra fratricida tra lui e Vendola. La Puglia è in subbuglio
e anche tantissimi pugliesi. Lo stesso P.D. pugliese è segnato da forti contrasti interni,
qualcuno minaccia la scissione, qualcun’altro il ricorso alla magistratura. Perché tutto
questo? Semplice: perché i pugliesi non sono padroni della Puglia. Chi vuole così?
Massimo D’Alema. Infatti, il “leninista di destra”, prima si è sbarazzato dell’Unione
e di quel che ne rimaneva in piedi (proprio come Veltroni), poi ha fatto l’inciucio con
Casini a livello nazionale e, questa, pare essere la formula dell’anti-berlusconismo
vincente. Dunque: in Puglia le prove generali e poi l’intesa verrà estesa alle Politiche,
quando ci saranno. Il fondamento di questo “patto scellerato” è l’annientamento della
sinistra e (di Vendola). L’asse, dunque, complessivo del sistema politico italiano si
sposta, ancora di più, su scenari peggiorativi, configurandosi come un conflitto tra
“reazionari di destra” e “reazionari di centro”. Saranno in grado i “cittadini”, oggi in
subbuglio, che si definiscono di sinistra o di centrosinistra di capirlo e di votare di
conseguenza? Se l’obiettivo è di battere Berlusconi, a tutti i costi, è difficile che lo
comprendano.!
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Il patto scellerato tra D’Alema e Casini è una politica? Io dico di no! Si può battere
Berlusconi senza politica? Io rispondo ancora di no. Non è la semplice aggregazione
quantitativa e numerica che può vincere il berlusconismo. Questa è tecnica dozzinale,
pura illusione, pantofolismo da ebeti, mania da trucchettari. Attraverso questa strada
si ritorna a perdere perché, senza politica, questo è l’esito inevitabile. Può essere che,
in Puglia, vi sia uno “stato d’eccezione” perdurante, in nome del quale è richiesta una
soluzione immediata, il decisionismo di un uomo forte che ponga fine al pericolo e,
nel contempo, s’impadronisca del potere e rifaccia la legalità? Crede, davvero, Ezio
Mauro che, qui, vi sia uno “stato d’eccezione” che possa giustificare una così grave
lesione della volontà democratica dei pugliesi? Ma, per favore, non scherziamo. Qui,
non solo non c’è lo “stato d’eccezione”, ma quello che c‘è davvero è una meschinità
che si riconosce benissimo e che si chiama il neo-craxismo di Casini. Egli, da astuto
democristiano, ha saputo piazzare la sua merce, a carissimo prezzo, al leninista di
destra. Ma, questa, insisto, non è politica. Né in Puglia, né altrove. Il “berlusconismo”
non si vince così. Col trasformismo di Casini si va incontro alla bancarotta. Mi
chiedo com’è possibile che i democratici non riescano a comprendere la “cecità” del
loro pragmatismo? E’ un pragmatismo che viene dall’ansia di governare e questo dice
già molte cose sulla composizione interna del P.D. e su certe spregiudicatezze. E’
proprio questo stato di ansia che ha, di fatto, consegnato a Casini una centralità nelle
trattative che ricorda il cinico opportunismo di Craxi. Anzi, una guida dal momento
che l’agenda del P.D. è fortemente condizionata da Casini. Tutto ciò è incredibile, se
si pensa ai rapporti di forza. Insomma, una cosa è mantenere salda la coalizione ed
avviare consultazioni per allargarla, un’altra cosa è smantellarla e concepire un nuovo
disegno politico, fondato sul trasformismo proprio e dei propri alleati (compreso
quello di Di Pietro). L’egemonia neo-craxiana di Casini è chiara e i democratici ne
sono succubi, così il bel Pierferdinando può fare quello che vuole: nel Lazio con il
P.D.L., in Campania anche, in Puglia con D’Alema, in Lombardia con Formigoni,
nelle regioni rosse da solo e in Piemonte al migliore offerente. Se le cose stanno così,
non è detto che il modello pugliese possa essere, domani, esteso a livello nazionale.
Domani è un altro giorno, potrebbe dichiarare Casini. Da notare che la base sociale
che lo sostiene è assai eterogenea: c’è il cittadino del ceto medio e delle professioni,
quello dell’ex apparato democristiano, i cittadini trombati del PDL e certi giovanotti
di buona famiglia e belle speranze. Il loro tratto comune è questo: sono nemici giurati
del comunismo e della sinistra. E si richiamano, inoltre, ad un moderatismo, intriso di
clericalismo propagandistico nella materia etica, ma nelle relazioni politiche, come
già detto, la loro spregiudicatezza è totale.!
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Estate 2010!
Un’estate decisamente movimentata, ricca di colpi di scena e sorprese, ma andiamo a
due grosse affermazioni (infondate) che ho sentito. Molti autorevoli dirigenti del P.D.,
tra cui Veltroni, Franceschini e mi pare anche Bersani hanno sostenuto che è giunta la
fine del berlusconismo. Ovviamente, hanno salutato l’evento (e non soltanto loro)
come una liberazione del paese, quasi festanti. Costoro non capiscono o fanno finta di
non capire che il berlusconismo ha impregnato la società italiana, che i ceti medi si
sono ri-plasmati sul modello dell’uomo di successo, che non sono poche le
convinzioni di Berlusconi già diventate costume diffuso e credenza condivisa, che il
narcisismo delle masse è alimentato dall’adorazione verso il suo stile di vita riuscito,
che in sostanza il principe di Arcore ha colonizzato i mondi vitali dell’immaginario
collettivo. Berlusconi non è solo una moda, è molto di più. Non è solo un sistema di
vita, in prevalenza agognato più che esercitato dalla moltitudine (che, invece, vive in
frustrazioni inenarrabili), è un comportamento che si fa epocale il quale si è insediato
alla radice dell’uomo e non soltanto degli industriali, ma anche di consistenti pezzi
popolari della società italiana, forse più in questi che in quelli. E’ peraltro l’emblema
vivente dell’antiparlamentarismo, antica pulsione della destra reazionaria e titolare
supremo della cosiddetta Costituzione materiale, possiede in ogni famiglia italiana un
forno funzionante parecchie ore al giorno che sforna, in continuazione, il pane caldo
dei sogni e incarna del populismo una versione voluttuaria, compensativa, maschilista
e taumaturgica. E’ morto il berlusconismo? Non credo. Una cosa così è scesa tanto in
profondità negli italiani che può essere accostata al segno di affetto che ancora oggi
gli italiani provano per Mussolini. Il berlusconismo, dunque, come il fascismo? Non
sto dicendo questo. Oppure il berlusconismo, una forma di neo-fascismo? Queste
assimilazioni meccaniche non mi convincono. !
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