CORRIEREdegliITALIANI MERCOLEDÌ 8 NOVEMBRE 2006 INTERVISTA A TU PER TU 3 A colloquio con il direttore d'orchestra Nello Santi INTERVISTA Talento, studio e umiltà nel pentagramma del maestro La stagione del bel canto a Zurigo di LUCA BERNASCONI Qual è il destino che l’ha portata a Zurigo? Un contratto per 6 recite de La forza del destino di Verdi nel mese di settembre del 1958. Invece delle 6 previste, ne feci 5, ma mi fu poi chiesto di tornare il mese successivo per restare fino a dicembre. Il contratto fu prolungato fino a giugno e in seguito si è trasformato in una presenza permanente. L’Opernhaus di Zurigo è legata al suo nome. Come è cambiato il tempio della lirica in tutti questi anni? Posso dire che a Zurigo il pubblico è preparato grazie al fatto di girare vari teatri d’Europa - da Vienna a Berlino, da Parigi a Milano. Non bisogna poi dimenticare tutti quei grandissimi musicisti che si sono fermati a Zurigo per un certo tempo, come Wagner e Brahms, e che hanno lasciato una loro impronta contribuendo a formare una tradizione musicale. Al mio arrivo nel 1958 l’Opernhaus viveva una fase di cambiamento: non si voleva più rappresentare le opere soltanto in lingua tedesca, ma in lingua originale. Questo nuovo orientamento significava anche poter avere i migliori artisti esistenti. Da quel momento il teatro dell’opera è indubbiamente cresciuto. Lei ha inaugurato la stagione del bel canto a Zurigo. Se ne sente in qualche misura ambasciatore? Questa frase la pronunciò a suo tempo Beniamino Gigli: non sono gli ambasciatori a fare politica, ma chi col canto gira il mondo diffondendo la lingua e la musica del Bel Paese. Un vero e proprio apostolato. Nelle scuole di oggi l’educazione musicale, intesa anche come educazione alla vita, è purtroppo sempre più relegata in secondo piano. Purtroppo oggi prevalgono la televisione e il pallone. Connubio perfetto è la partita di calcio in televisione. In ogni caso, chi è nato con qualche predisposizione verso una qualsiasi forma d’arte, non c’è televisione o pallone che tenga, nel senso che presto o tardi emergerà. Naturalmente chi ha certe potenzialità deve essere da un lato capace di metterle a frutto, dall’altro deve attorniarsi di persone che abbiano lo stesso interesse e con le quali sia possibile sviluppare il proprio pensiero musicale. La vita odierna è, soprattutto per i più giovani, disseminata di tentacoli. Quando ho cominciato io gli studi la vita era molto diversa. Anzitutto sono nato e cresciuto in un piccolo paese, in tempi di guerra, nel quale c’era soltanto un cinema che proiettava un film per un’intera settimana. Non rimaneva perciò che studiare, essendo in fondo lo studio una liberazione. Ora, al di là delle condizioni nelle quali ci si trova a vivere, lo ribadisco, sono convinto che la persona nata per esprimersi artisticamente riesca a venir fuori. Per farlo, bisogna naturalmente perseverare e credere in ciò che si fa, accompagnati però sempre dall’umiltà che toglie di mezzo quel sentimento di superiorità nei confronti degli altri. I buoni maestri sono indispensabili, ma ad un certo punto bisogna avere la forza di sganciarsene per fare in modo che emerga la propria personalità artistica. Essere, non dico in disaccordo, ma in polemica con i propri maestri è salutare. Se i maestri sono accorti, sanno capire se un allievo splenderà di luce propria o se invece rimarrà nell’ombra vivendo semmai di luce riflessa. Inoltre, i buoni maestri devono essere in grado di non rovinare le doti musicali di un allievo, sia egli un cantante, un musicista o un direttore d’orchestra. - Anche gli occasionali frequentatori del Teatro dell’Opera di Zurigo lo avranno certamente visto sul podio mentre dirigeva un’opera di Verdi: la bacchetta energica che volteggia nell’aria, il suo volto privo di espressioni plateali assorto nelle note. Nello Santi è uno dei maggiori direttori d’orchestra viventi che ha da poco compiuto 75 anni e che, infaticabile, continua a dirigire con passione. Profondo conoscitore e raffinato interprete del repertorio operistico italiano, il Maestro Santi ha calcato i podi dei più importanti teatri del mondo, dal Covent Garden al Metropolitan dove nel 1997 ha celebrato i suoi 35 anni di carriera dirigendo brani tratti da 16 opere diverse. Qualcuno ricorderà il Requiem di Verdi da lui diretto alla presenza del pontefice Giovanni Paolo II in occasione del cinquantenario del bombardamento nucleare su Hiroshima. All’Opernhaus di Zurigo approdava nel 1958, e da allora è diventato il nume tutelare del bel canto in terra germanofona. Nello Santi è un uomo la cui stazza potrebbe inizialmente incutere qualche timore che invece si dissolve d’immediato appena gli si stringe la mano e si comincia a dialogare con lui. Mani grandi che, racconta il direttore veneto, gli ricordano proprio quelle di sua madre poste sui suoi occhi di infante la prima volta che lo portarono a vedere Rigoletto. Il piccolo Nello, al vedere il baritono che viene gettato a terra, inizia a commentare a voce alta e la madre gli impedisce perciò la vista. È un breve ricordo che il Maestro narra con sentimento felice. La sua giovialità e giocosità nel raccontarsi sono espressioni della sua natura più autentica. Lo abbiamo incontrato nel suo camerino dell’Opernhaus di Zurigo per ripercorre, a grandi linee, un’esistenza fatta di musica e ad essa dedicata. Qual è stata la prima scintilla che ha acceso la sua passione per la musica? Sono nato in una casa in cui la musica era molto presente, soprattutto grazie a mio padre che ne era un vero appassionato. Alla mia nascita ho trovato una collezione di vecchi dischi che ancora oggi sono conservati nella casa dei miei genitori ad Adria dove vive mia sorella con la sua famiglia. Era l’estate del 1935 - l’altro ieri, praticamente - quando eravamo in vacanza ad Asiago. Lì mi hanno portato a vedere un Rigoletto allestito all’aperto. È stata questa la prima opera che ho visto e che in seguito ho riascoltato sul disco del fonografo di casa, dirigendomela. In quell’occasione ricordo di aver detto che da grande avrei fatto il direttore d’orchestra e che avrei iniziato la mia carriera proprio con Rigoletto. Come ha poi coltivato il suo talento naturale? A 7 anni ho iniziato a frequentare la scuola di pianoforte dalle suore. L’anno successivo sono passato all’Istituto Musicale di Adria che oggi si chiama Liceo Musicale parificato. Purtroppo in Italia sono state soppresse le scuole private che non consentono più alcuna differenza di sorta. È questo un livellamento che a mio avviso ha nuociuto, poiché la distinzione garantiva la qualità. Comunque, ho iniziato in quell’istituto nel 1939, interrompendo però per via della guerra, e in seguito riprendendo lo studio. Ad Adria ho avuto la grande fortuna di studiare con un ottimo professore di violoncello che aveva insegnato al Conservatorio di Pesaro sotto la direzione di Mascagni e anche di Zandonai. È lui ad avermi insegnato la teoria. Nel 1946, a 15 anni, ho sostenuto i primi esami seri. In precedenza avevo in ogni caso sempre suonato e strimpellato insieme ad un trio composto da pianoforte, violino e violoncello. Suonavamo arie d’opera, perché in Italia la cultura musicale non era quella d’oltralpe fatta di Mozart, Bach e Beethoven. Nel 1946 ho iniziato a studiare con il maestro Coltro, bravissimo, allievo di Gianfrancesco Malipiero. ZURIGO Il Maestro Nello Santi ha calcato i podi dei più importanti teatri del mondo, dal Covent Garden al Metropolitan. Con lui ho fatto studi serissimi di musica e di composizione. In seguito ho frequentato il Conservatorio Pollini di Padova, sebbene sempre sotto la guida di Coltro. A 20 anni ho iniziato a dirigere pur non avendo ancora terminato l’iter di studi. Fu Coltro a suggerirmi di mettermi a dirigere se mi si fosse presentata l’occasione perché sosteneva, giustamente, che per imparare a dirigere bisogna dirigere. È la solita, vecchia storia: la pratica vince su qualunque grammatica. Quali sono le doti necessarie per diventare un direttore d’orchestra del suo calibro? Se me lo chiede per la mia stazza, è un conto, sennò... Scherzi a parte, credo vada tenuto sempre presente il pensiero di Robert Schumann secondo cui chi opera in campo musicale o, più in generale, artistico, non deve mai darsi delle arie, perché almeno 10 prima di lui si sono già comportati in quel modo, inutilmente. La parola che non mi stancherò mai di ripetere è umiltà! Ci vuole l’umiltà di mettersi davanti allo specchio e di riconoscere i propri sbagli dai quali imparare. Essere critici con se stessi e anche esigenti è necessario per potersi migliorare costantemente. Ancora oggi vedo direttori che cambiano le partiture perché ritengono che l’autore abbia sbagliato. Pur ammettendo un eventuale errore da parte del compositore, perché allora insistere a dirigere quel pezzo? Meglio accantonarlo, dico io. Per me correggere un autore significa arrivare soltanto a degli arbitri perché ciò che è stato scritto non può essere cambiato in nessun modo. Certamente. Tuttavia, l’interpretazione svolge un ruolo importante. Quali sono allora le costrizioni da un lato, dall’altro le libertà dell’interprete? Io sono assolutamente d’accordo di rispettare il testo e di proporlo secondo quella che è la mia cultura musicale che si è formata attraverso lo studio, sempre però sotto il severissimo controllo del momento in cui una determinata composizione ha visto la luce, del sentire dell’artista, della mentalità dell’epoca in cui è stata creata. Naturalmente lo stesso pezzo interpretato da due direttori risulterà diverso semplicemente perché sono due persone differenti, anche qualora avessero studiato nella stessa scuola e con gli stessi insegnanti. Per dirigere come fa Lei quasi sempre a memoria i titoli del repertorio melodrammatico o sinfonico, bisogna aver interiorizzato completamente un’opera? Significa anzitutto essere dotati di memoria visiva, sebbene sia fondamentale immedesimarsi nella composizione, pensare sempre all’autore e ha ciò che in qualsiasi passaggio ha voluto trasmettere. Bellini ha scritto Casta Diva ben 9 volte, altro che scrittura di getto. Per me è perciò indispensabile rivivere quello che ha sentito e sofferto in solitudine il compositore nel momento di comporre un’opera. La genialità di un artista coincide con la difficoltà di fronte alla quale si trova il direttore d’orchestra che genio non è, e che deve appropriarsi di quell’universo di note. Quando la sua bacchetta dirige, la sua mimica facciale resta impassibile. Una scelta del genere è finalizzata a dare esclusivamente rilievo alla musica? Il direttore d’orchestra è come un mimo: meno gesti fa, meglio è. Basti ricordare il magnifico Marcel Marceau nel riprodurre un abbraccio: braccia incrociate dietro la schiena e rivolto di spalle al pubblico senza quindi mostrare il viso. Allo stesso modo il direttore d’orchestra deve ridurre al minimo i gesti e possibilmente fare sempre gli stessi in uno medesimo passaggio musicale. Quando ci si trova a dirigere per la prima volta un’orchestra, bastano 10 minuti ai musicisti per capire se il direttore è in grado di svolgere il suo compito, così come in quei 10 minuti al direttore è dato sapere se l’orchestra sa suonare. Una volta che le due parti si sono trovate, tutto fila per il verso giusto. Che cosa deve fare il direttore d’orchestra perché vi sia una perfetta fusione tra orchestra, canto e palcoscenico? Deve saper dirigere! Oltre a ciò, deve però anche saper prevedere che cosa potrebbe accadere. Quando sono voltato da una parte e già sento che dall’altra potrebbe venire a crearsi un problema, intervengo. Lei ha dichiarato che i direttori d’orchestra devono dimostrare perché fanno questo mestiere. Come lo dimostra Nello Santi? Ripeto che la parola determinante per me, quando si è chiamati a dirigere, è umiltà. Il fatto è che l’orchestra è come un unico strumento che bisogna appunto saper suonare, guai a maltrattarlo. È perciò fondamentale amare l’orchestra, mai assumere nei suoi confronti un atteggiamento astioso. Soltanto instaurando questo rapporto, l’orchestra eseguirà tutto ciò che le viene richiesto. In che cosa consiste la creatività di un direttore d’orchestra? Il direttore non crea proprio nulla, esegue, realizza, interpreta. La creatività è soltanto del compositore. In Francia si usa dire che il direttore "a fait la création": un modo di dire che io non condivido. Inoltre, mai dire che si è scoperto qualcosa che il compositore non aveva visto. Chi si lancia in certe affermazioni è perché, a mio avviso, non ha capito un granché. Io sento profondamente mio il concetto dell’umiltà. Lei è stato direttore d’orchestra nei più importanti teatri del mondo. Quali sono gli elementi che accomunano le sue diverse esperienze? Premetto che ho sempre avuto tanta fortuna nel poter dirigere delle ottime orchestre. Ciò detto, l’elemento comune a tutte le mie diverse esperienze è stata l’ostilità iniziale appena mettevo piede sul podio. Una volta superato questo primo scoglio, l’atteggiamento ostile cede il posto alla fase del dialogo che si fa vieppiù profondo. Umiltà, amore per l’orchestra, volontà di dialogo: sembrano perfetti consigli per un giovane direttore d’orchestra agli inizi della carriera. Soprattutto quando si tratta di una produzione, è indispensabile crescere assieme, con l’orchestra, il coro, il teatro. Si deve capire che è un lavoro collettivo e che a ognuno spetta una parte ben precisa. Naturalmente ci possono essere dei contrasti con un musicista che non condivide ad esempio la mia interpretazione: potrebbe anche avere ragione, e in quel momento è necessario essere disposti a discutere i dubbi interpretativi. Per farlo, io salgo sul podio delle prove sempre preparato. In quale misura il libretto di un’opera, quindi la parola, influisce sulla direzione dell’opera stessa? Bisogna partire dal principio che la sillaba, non la parola, è il pretesto per fare della musica. La parola dà certamente il significato a un’opera lirica, ma a chi dirige o suona interessa capire che cosa abbia provocato nella genialità musicale del compositore una determinata storia che viene rappresentata. Quando sul palcoscenico un personaggio invece di morire canta è perché la morte viene espressa in musica. Prendiamo l’esempio di Mozart che, malatissimo, compone musica allegra: significa che il suo genio si poneva al di sopra delle sue difficoltà di salute. Pensiamo ancora al finale de Il Trovatore in cui Eleonora muore avvelenata e che viene sottolineato da un terzetto meraviglioso. La morte è vista da un genio che la interpreta a modo suo e non secondo le consuetudini. Di fronte a queste atmosfere di gioia che si vengono a creare in momenti in cui la parola è dichiaratamente triste, al pubblico non resta che godere ciò che un genio ha prodotto nonostante la parola dei libretti. Il Teatro dell’Opera di Zurigo.