Domenica l’attualità Poveri d’Italia tra vergogna e carità La di DOMENICA 22 GIUGNO 2008 EDMONDO BERSELLI e MIRIAM MAFAI la memoria Repubblica Un museo per l’acciuga, oro sotto sale NICO ORENGO e CARLO PETRINI Poesie, invettive, lettere ai figli, parole d’amore A otto anni dalla morte, scopriamo le passioni intime di un grande attore FOTO DILETTA D’ANDREA Gassman segreto RODOLFO DI GIAMMARCO «L ROMA o so, vi ho rotto molto i coglioni;/ un fatto, badate, biunivoco;/ datemi atto: io l’ho scontato, l’equivoco/ di aver amato l’Alfieri e il Manzoni/ (ma voi, d’altronde, cosa amate davvero?)./ Fu amor sincero il mio, ma d’esito retorico,/ pletorico, fanatico, ché fanatico/ e importuno, indecente, è l’italiano...». E via così apostrofando, insolentendo, versificando, satireggiando, ma soprattutto scrivendo. Perché Vittorio Gassman, l’autore di questo frammento, è stato uno dei più grandi attori italiani di parola del Novecento, ma è stato anche un inguaribile e generoso grafomane. Nella sua casa a un passo da piazza del Popolo, la moglie Diletta D’Andrea ha conservato fedelmente ogni appunto, ogni inedito, ogni abbozzo, ogni nota a margine, ogni epigramma, ogni pensiero famigliare che Gassman depositò in forma di pizzino su qualunque superficie, da un quaderno nero a un foglio volante, da un bloc-notes dei radiotaxi a una pagina della Settimana Enigmistica, da una carta intestata a una carta bollata. Un fitto, vario e prezioso repertorio di creatività intima cui nessuno ha mai finora avuto accesso, e che soltanto a una settimana dall’ottavo anniversario della morte dell’artista, scomparso il 29 giugno del 2000, ci è stato dato di consultare, e in minima parte riprodurre, per privilegio concessoci da Diletta che ha condiviso la vita di Gassman per trentadue anni. (segue nelle pagine degli Spettacoli) ALESSANDRO GASSMAN il racconto I Tutti in barca con l’Avvocato stintivamente mi viene da ripensare all’ultima frase che m’ha detto mio padre, la sera prima di partire, di andarsene. Io ero a casa sua, gli ho cucinato la cena, Diletta era uscita un attimo, e abbiamo mangiato parlando del più e del meno, e certo lui era stanco, ma sembrava la solita stanchezza, e io ridevo, perché anche nei momenti di bassa io ridevo e lo facevo ridere. Ero già sulla porta, stavo per uscire, e mi disse: «Ricordati, spegni sempre la luce». Non era una semplice raccomandazione. Sì, c’era il senso della morigeratezza, e lui era allucinato dall’iperconsumo elettrico, ma lì c’era anche la sua filosofia dell’esistenza. Molti della sua generazione avevano vissuto la guerra e la povertà, e lui s’imponeva un rispetto maniacale dell’economia, a costo di spendere e spandere pur di far risparmiare gli altri. Poi, chiudere l’interruttore voleva dire fai un po’ di fatica, fai un gesto, non essere pigro, fra due atteggiamenti scegli quello che ti costa un piccolo sforzo in più. E ho fatto mia la lezione. Ma il consiglio di smorzare la luce andava pure letto in chiave di riservatezza, artigianato: era un modo per dare peso al lavoro nell’ombra, il suggerimento a non lasciare mai il teatro, che ha un voltaggio minore di cinema e tv. E anche questa scelta m’appartiene. (segue nella seconda di Spettacoli) PIERO OTTONE e CINZIA SASSO i luoghi Il Kailas, la montagna degli dei RAIMONDO BULTRINI e REINHOLD MESSNER cultura Sorella quercia, vecchia quanto l’uomo MAURO CORONA e LUCA VILLORESI i sapori Non chiamatela “cucina molecolare” FERRAN ADRIÁ e LICIA GRANELLO Repubblica Nazionale 32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 GIUGNO 2008 l’attualità FOTO ALINARI Quarto stato MIRIAM MAFAI erano una volta i “poveri”. Assistiti, perseguitati o reclusi a seconda dei luoghi, dei tempi e delle leggi. Racconta Giovanni Villani, all’inizio del secolo Quattordicesimo, di una distribuzione di sei denari per ogni povero della città di Firenze. Si decise di rinchiuderli per tutta la notte nella diverse chiese della città e poi farli uscire uno alla volta, all’alba, per consegnare a ognuno i sei denari. Un paio di secoli dopo, in Francia come in Inghilterra i “poveri” venivano di forza rinchiusi in ospizi più simili a carceri che a luoghi di assistenza. (Foucault sostiene, giustamente, che il Diciassettesimo secolo è l’epoca della grande reclusione dei poveri). Dovranno passare altri secoli perché i “poveri” vengano considerati (non do- C’ Ricordo ancora con sofferenza le settimane nelle quali dovevamo preparare i pacchi dono per il Natale Pacchi molto modesti: un giocattolo, un dolce, un chilo di zucchero e di pasta, un golfino di lana. Un pacco per ogni famiglia, o uno per ogni bambino? vunque ma certamente in Europa e in Italia) cittadini come gli altri. Più sfortunati degli altri, ma titolari della stessa dignità e degli stessi diritti di coloro che poveri non sono. Si passa così dal principio della carità, della beneficenza, dell’assistenza ai bisognosi, o addirittura della loro reclusione, al principio che prevede per tutti i cittadini, poveri e non poveri, l’accesso a servizi primari, come l’istruzione e la salute. È un passaggio storico di straordinaria importanza. È il passaggio a quello che chiamiamo welfare e che anche la nostra Costituzione prevede, esplicitamente, nel capitolo dedicato ai rapporti etico-sociali. Giustamente Nadia Urbinati ha osservato che con la nuova Finanziaria e la distribuzione ai pensionati poveri di una “card” per gli acquisti di alimenti di prima necessità, viene introdotto nel nostro paese un principio diverso, che, se nell’immediato può offrire un sollievo, sia pure modestissimo, ai più bisognosi, di fatto stravolge il principio di uguaglianza garantito dalla nostra Costituzione. Con l’adozione di questa misura torna infatti a configurarsi nel nostro sistema una specifica categoria di “poveri”, non titolari di uguali diritti in materia di salute e assistenza, ma bisognosi e destinatari di un intervento “compassionevole”. Si torna così indietro di molti decenni, a un’epoca che sembrava finita per sempre. L’epoca della beneficenza, della carità, dei “poveri” individuati e classificati come tali. Ricordo i “poveri” dell’immediato dopoguerra a Roma, negli anni della grande fame e della tbc. Davanti ai portoni delle “cucine popolari” , gestite generalmente dalla S. Paolo o dall’Onarmo si mettevano pazientemente in fila, in attesa di una minestra, uomini donne ragazzi logorati dalla miseria. I poveri che, privi di un lavoro e di qualsiasi reddito, avevano diritto a un piatto di minestra e a qualche altra forma di assistenza furono per anni accuratamente censiti. E veniva loro garantita grazie a quella tessera di riconoscimento una distribuzione, sia pure saltuaria, di un sussidio o di un capo di vestiario. Ho vissuto personalmente questa esperienza quando, nei primi anni Cinquanta sono stata assessore al Comune di Pescara. Da poco era finita la guerra. La città portava, e avrebbe portato ancora per anni, i segni delle distruzioni e del passaggio degli eserciti amici e nemici. La Caserma Cocco ospitava ancora cen- Vergogna e carità Quando in Italia c’erano i poveri VECCHI A destra, l’interno di una cucina friulana a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta; in alto a sinistra, un anziano seduto nel 1959 in una foto dal titolo Casi della vita tinaia di sfollati che vivevano lì, con i loro bambini, le loro malattie, i loro ricordi e le loro speranze in alloggi improvvisati, ogni famiglia separata dall’altra soltanto da tende fatte di coperte militari e di lenzuola. Il Comune doveva garantire a quelle famiglie un minimo di assistenza sanitaria. In tutti i municipi allora, e anche nel nostro, esistevano speciali “elenchi dei poveri” cui la comunità “compassionevole” doveva una sia pur minima assistenza. I Comuni pagavano dunque i “medici condotti”, a disposizione dei poveri per le visite mediche e le relative prescrizioni. E i Comuni, secondo le loro possibilità, erano tenuti a erogare agli iscritti a quegli elenchi le medicine ritenute indispensabili. Di tanto in tanto garantivamo pure un sussidio, una piccola cifra in danaro di fronte a situazioni particolarmente disperate. I Comuni più generosi o più ricchi riuscivano anche a distribuire ai figli di quei po- Repubblica Nazionale DOMENICA 22 GIUGNO 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33 BAMBINI La nuova Finanziaria ha introdotto la “social card”, una tessera-sconto per gli acquisti di prima necessità Un sollievo momentaneo per le famiglie bisognose ma anche un duro colpo al principio che garantisce Nella foto grande, scarpe rotte ai piedi di bambine a Oliveto Lucano nel 1950; in basso, niente scarpe per i bambini di Africo, in Calabria, nel 1948 FOTO OLYCOM uguale dignità e diritti a tutti senza deleghe alla beneficenza e alla compassione Una carta ricaricabile per dire addio al welfare EDMONDO BERSELLI overi con la “social card”: fra gli applausi generali per le trovate del ministro dell’Economia Giulio Tremonti, non si sentono grandi critiche per misure di governo che consegnano la povertà a una fascia sociale codificata elettronicamente. Come se nessuno si accorgesse che in questo modo, con la patente da poveri, la povertà cessa di essere un problema collettivo, di una comunità stratificata dalle opportunità ineguali del mercato, e diventa una questione definita da un rapporto personalistico, diretto, materiale, senza le mediazioni astratte del welfare state. E così i poveri si preparano a diventare un indistinto sociale: non sono una classe marxiana, assomigliano piuttosto a un Lumpenproletariat amorfo, privo di rappresentanza politica e costretto ad affidarsi alla benevolenza “compassionevole” del sovrano. Ma questa non è la società moderna, quella che viene dai conflitti del Novecento, e più giù dalla rivoluzione industriale e dalle Poor Laws inglesi, dal cancelliere Bismarck che voleva trasformare i turbolenti socialisti tedeschi in placidi pensionati del Reich. Non siamo dentro la grande invenzione novecentesca dello stato sociale, non c’entrano Beveridge e l’assistenza «dalla culla alla tomba». Con i poveri “patentati”, resi riconoscibili alla cassa del supermercato dalla nuova tessera del pane, rientriamo trionfalmente, fra gridolini entusiasti, nell’ancien régime, cioè nella società d’ordini. Se hai la sfortuna di nascere nella fascia più bassa della società, ci sarà qualcuno che si premurerà di spedirti una carta annonaria, rigorosamente anonima fino alla cassa del supermarket, dove la tua povertà verrà riconosciuta e di fatto segnalata a tutto il quartiere. I poveri otterranno sconti e mance, sugli alimentari, sull’elettricità e il gas, senza che risulti chiaro che questa non è la solidarietà cattolica, e nemmeno la ridistribuzione socialista: è l’elemosina del terzo millennio, l’effetto della questua petrolifera, altrimenti detta “Robin Tax” da una comunità intellettuale che ha abdicato alle proprie funzioni, e si è dimenticata che fino a ieri predicava le virtù equilibratrici della concorrenza e il prezzo come unico indicatore di un equilibrio sul mercato. Tutte storie. Ciò che sta avvenendo nella nostra società è l’abrogazione dei poveri come categoria sociale, quindi come problema politico, in quanto la soluzione della questione della povertà avviene identificando categorie facili, pensionati anziani, stereotipi della sconfitta collettiva, per offrire qualcosa che assomiglia più a una ricarica telefonica che al soddisfacimento di un’esigenza reale. Non è questione di fare l’elogio del tempo andato; ma anche il welfare «particolaristico e clientelare» realizzato nell’Italia democristiana conteneva un elemento di crescita sociale. Le case popolari del programma di Amintore Fanfani erano un complemento urbanistico dell’industrializzazione; lo Statuto dei lavoratori redatto dal giurista Gino Giugni e portato a dignità legislativa dal ministro socialista Brodolini era la risposta alla modernizzazione economica e produttiva degli anni Sessanta e Settanta. La macchina della sanità pubblica costituiva la risposta, burocratica ma alla lunga efficace, se si guarda anche solo al banale indicatore della durata della vita media, ai bisogni di una società che chiedeva diritti di fronte ai rischi di una trasformazione socioeconomica profondissima. Ora invece il povero sembra consegnato alla sua sorte presumibilmente immutabile. È povero e resterà povero. Sembra di risentire, in modo un po’ grottesco, gli echi di concezioni malthusiane, o paretiane, leggi ferree, un positivismo che spiega come tutto il reale sia razionale, e quindi non sarà il caso di impegnare energie e risorse nel tentativo di cambiare ciò che in fondo è immutabile. Si sentono risuonare per le contrade dell’Italia di oggi gli echi della «triste scienza», la dismal science di Carlyle, 1851. Come se non ci fossero stati Roosevelt, Keynes, il Labour, le socialdemocrazie, insomma la modernizzazione secolare, laica, europea, industriale, scientifica e tecnologica della politica. L’assistenza personale si risolve infine con le badanti venute dall’Europa centro-orientale; il livello di consumi più elementare viene tutelato dalla estemporanea disponibilità del governo (che, essendo discrezionale, naturalmente domani può essere ritirata). Ci vuole poco a osservare che questo significa cristallizzare la società in segmenti immutabili. I poveri d’altro genere, non anziani e non con pensioni al minimo, restano fuori dalle categorie e dai redditi da sostenere. Non ci sono “social card” per loro. Alla fine, viene fuori che per intervenire sugli equilibri sociali ci vuole sempre una filosofia. E la filosofia dei poveri per decreto, per statistica, per sempre, non è proprio quella che sembra più adatta a un paese che vuole crescere. P Ci vollero molti anni e molte battaglie per conquistare, nel 1978, quel sistema sanitario che proteggeva (e protegge ancora, sia pure tra mille critiche e insufficienze) ricchi e indigenti, pensionati e disoccupati veri un “pacco dono” in occasione del Natale o della Befana. Ero arrivata a Pescara convinta di fare una esperienza politica. E mi trovavo, all’improvviso, a dover organizzare l’assistenza per gli sfollati, per i poveri della città, e per i loro bambini. Ricordo quella esperienza, lo confesso, come un incubo. Stretta com’ero tra le legittime rivendicazioni di quei “poveri” che ogni giorno premevano alla porta dell’assessorato e le ristrettezze del bilancio municipale. E ricordo ancora con sofferenza le settimane nelle quali dovevamo preparare i pacchi dono per il Natale. Pacchi molto modesti: un giocattolo, un dolce, un chilo di zucchero e di pasta, un golfino di lana. Un pacco per ogni famiglia, o uno per ogni bambino? (Decidemmo, alla fine, di darne uno per ogni bambino, dopo una lunga discussione con l’assessore al Bilancio). Per chi allora, come me, si occupava dei nostri “poveri”, provvedendo a ga- rantire loro una visita medica, le medicine più urgenti e qualche e sussidio, era un mito, una leggenda quel Servizio sanitario che, subito dopo la guerra, era già stato istituito in Inghilterra. Per garantire, si diceva, una eguale assistenza a tutti i cittadini, ricchi o poveri. Un mito, un sogno, quasi una leggenda. Noi andammo avanti per anni con l’elenco dei poveri, un residuo quasi medioevale (ma guai se non ci fosse stato nemmeno quello…). Oltre all’elenco dei poveri, funzionava da noi, il sistema delle mutue, che, con diverse regole e trattamento a seconda delle categorie, garantiva l’assistenza medica e le medicine a coloro che avessero una occupazione e alle loro famiglie. Ci vollero molti anni, e molte battaglie politiche per conquistare, finalmente, nel 1978, quel sistema sanitario universale che proteggeva (e protegge ancora, sia pure tra mille critiche e insufficienze) in modo uguale ricchi e poveri, lavorato- ri, pensionati e disoccupati. Torniamo all’oggi. La decisione del governo Berlusconi di distribuire ai pensionati al minimo una speciale “carta povertà” per coprire una spesa per alimentari di quattrocento euro in un anno assomiglia terribilmente a quel pacco dono che cinquant’anni fa la sottoscritta (e molti altri assessori come lei) distribuivano, a Natale o alla Befana, ai figli dei loro poveri. Niente di male, all’apparenza. Ma uno sgradevole sentore di passato, di un tempo in cui la “beneficenza” era chiamata a colmare i buchi di una società nella quale non esistevano ancora diritti uguali per tutti, di un’epoca in cui le ragazze di buona famiglia venivano educate a regalare gli abiti smessi ai loro poveri. Niente di male, all’apparenza. Salvo il fatto che quella società “compassionevole” pensavamo di essercela lasciata alle spalle, a vantaggio di una società nella quale tutti hanno uguale dignità e diritti. Repubblica Nazionale 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA la memoria Mestieri DOMENICA 22 GIUGNO 2008 Per secoli è stato un commercio esclusivo degli ambulanti piemontesi. Scendevano in Liguria e tornavano con il loro carico prezioso a imbandire le tavole di case dove la polenta veniva strofinata sul pesce appeso al soffitto. Ora il museo multimediale Seles, nel Cuneese, ricorda le fatiche di quegli spartani lavoratori Acciuga, febbre dell’oro sotto sale BOTTI Sopra, Giacomo Salomone, acciugaio, visiona un carico a Milano nel 1949 Qui a destra, una botte per le acciughe CARLO PETRINI a mia generazione, i sessantenni nati e cresciuti nella provincia italiana, ha assistito agli ultimi giri di giostra di un universo lavorativo rapidamente scomparso costituito dai mille mestieri dell’artigianato ambulante. Nell’Italia del dopoguerra, una società troppo povera e saggia per conoscere lo spreco, mai si sarebbe gettata una sedia perché sfondata o un paiolo perché bucato. Si sarebbe atteso il ritorno in città del ramaiolo che avrebbe rappezzato il recipiente e dell’impagliatore che avrebbe lavorato di fino usando un semplice coltello e una fascina d’erba essiccata trasportata in spalla. Accanto a questi ed altri ambulanti spiccava, di gran lunga più caratteristico e atteso, l’acciugaio, quasi sempre nativo della cuneese Valle Maira. Naturale dunque che il Museo Seles, il Museo multimediale dei mestieri itineranti consacrato alla memoria di questo microcosmo lavorativo sia stato pensato e realizzato nel cuore della Valle, a Celle Macra, nella ex chiesa di San Rocco. Chi vorrà inerpicarsi fino a qui, percorrendo la strada che da Dronero conduce in alta Valle, potrà conoscere quali furono i mestieri ambulanti praticati dai valligiani e immergersi nel mondo degli acciugai, la cui spartana esistenza è resa tangibile dall’esposizione dei loro abiti e strumenti di lavoro, dal carretto alle stadere dalla carta paglia alle casse in legno norvegese. L’elemento più suggestivo e didatticamente efficace dell’allestimento museale curato dallo studio Allasia e finanziato dalla regione Piemonte è dato dalle videointerviste agli ultimi acciugai. Cinquanta anni fa l’acciuga, ancora considerata pesce povero, era poco costosa e quindi molto diffusa. Non molto era passato da quando nelle misere cucine del settentrione affamati commensali strofinavano sottili fette di polenta all’acciuga appesa a un filo sopra il tavolo. Mi sono sempre chiesto perché il commercio ambulante di acciughe per secoli sia stato esercitato in una condizione di quasi monopolio dai valligiani nativi di Dronero e dintorni, in fondo più L isolati di tanti altri. C’è chi ipotizza che il commercio delle acciughe sia figlio casuale e fortunato di una delle tante vie del sale che dalla costa ligure irradiavano verso le regioni dell’interno: il sale, alimento prezioso, era infatti trasportato in barili nascosto sotto strati di acciughe per eludere i gravosi dazi doganali. C’è chi immagina che un bottaio, recatosi a lavorare in Liguria, sia tornato nella valle natia con un paio di botti colme di acciughe rivelatesi lungo il tragitto merce redditizia. Altri fanno compiere questo tragitto a un cavié, il venditore di capelli, altro commercio in cui questi valligiani erano specializzati nei secoli scorsi. Non lo sapremo mai con certezza. Sappiamo invece che per secoli ogni anno a settembre, subito dopo la conclusione dei lavori nei campi, numerosi agricoltori, ritirata la falce e affidati gli armenti alle donne di casa, si trasformavano per sei, otto mesi in acciugai, anciué. Spingendo i loro carretti scendevano in pianura dirigendosi nelle aree territoriali che la pratica aveva rigidamente assegnato: i valligiani di Celle verso il Milanese, quelli di Paglieres e Soglio verso il Torinese, quelli di Santa Margherita alla volta dell’Astigiano. Era un’occupazione esclusivamente maschile, spesso intrapresa in tenera età, con un unico, breve tirocinio che consisteva nell’imparare le strade e la vita di strada. Prima dell’avvento dei grossisti erano numerosi gli acciugai che si recavano di persona nei porti liguri, Genova in primis, per acquistare il pesce. Per verificare la bontà del prodotto — scrive Diego Crestani nel suo Anciuie e cavie ‘d la val Mairo: mestieri dell’emigrazione stagionale alpina — si usavano due sistemi. Si conficcava in fondo al barile una sottile asta di legno che impregnatasi dell’odore del pesce e annusata con attenzione rivelava eventuali cattivi odori. Oppure si introducevano le mani tra le pareti della botte e il pesce per sollevarlo verificandone la qualità. L’acciugaio doveva fare attenzione alla quantità del sale utilizzato, che non doveva essere eccessiva per non incidere troppo sul peso (il sale, pur costando meno, finiva con l’essere pagato al prezzo del pesce) ma neppure limitata, pena il de- terioramento del prodotto. Fondamentale per esercitare il commercio ambulante era il carretto di frassino su cui caricare le latte con le acciughe. Questo era costruito in Valle Maira da alcuni artigiani specializzati in grado di garantirne contemporaneamente la leggerezza e la robustezza: un carretto di quaranta, cinquanta chili era in grado di sopportare carichi di due, tre quintali su strade spesso non dissimili da mulattiere. In un apposito cassetto era riposta la stadera, per noi piemontesi lo scandai. Il bagaglio dell’acciugaio, acutamente tratteggiato da Aldo Rodino e Fulvio Barberis nel loro Il mare sotto sale, era miserando ma funzionale: due sacchi di tela, uno più leggero in cui l’anciuériponeva scarpe, fazzoletti e biancheria intima e uno più robusto nel quale si sarebbe infilato se la notte lo avesse sorpreso lungo la strada. Unico riparo contro le perturbazioni atmosferiche un ombrello. Repubblica Nazionale DOMENICA 22 GIUGNO 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 L’INAUGURAZIONE Il Museo Seles - Museo multimediale dei mestieri itineranti, vuole essere il punto di raccolta delle testimonianze e della documentazione di tutti gli acciugai della Valle Maira che hanno avuto nei comuni di Dronero, Celle di Macra e Paglieres la loro culla d’origine. Il museo, allestito all’interno della ex chiesa di San Rocco a Celle di Macra (Cn), sarà inaugurato il 28 giugno alle 15 con un convegno sul mestiere dell’acciugaio a cui parteciperanno tra gli altri Carlo Petrini, rappresentanti dei consolati di Spagna e Norvegia, esperti di pesca e l’acciugaio Michele Ghio Per informazioni 0171-999190; www.comune.dronero.cn.it STADERA A destra, Giuseppe Nasari, acciugaio, pesa il prodotto a Voghera (Pavia) negli anni Cinquanta A destra e a sinistra, la stadera e il porta stadera BANCHETTO Nella foto in basso, l’acciugaio Giovanni Delpui dietro il suo banchetto a Bergamo negli anni Cinquanta A PIEDI Sopra, B. Mattalia, acciugaio con il suo carretto, in una foto scattata a Savigliano (Cuneo) negli anni Trenta. A sinistra, il classico carretto blu degli ambulanti L’ambulante effettuava sempre lo stesso percorso avendo come stella polare del suo cammino la successione di mercati settimanali e delle fiere annuali. Perennemente in viaggio spingeva il carretto macinando chilometri. Batteva i cascinali di campagna ove barattava un cartoccio di pesce con vitto e alloggio, perlustrava le città appostandosi agli angoli delle vie ove lanciava il suo grido, unico e inimitabile, caratteristico e col tempo divenuto famigliare a tanti della mia generazione. Ormai quegli uomini Carretti blu sotto le stelle dal mare alle piccole Alpi dalle giacche unte e scolorite sono scomparsi dalle nostre città. E non sono scomparsi, come mi piacerebbe pensare, perché la dura vita di montagna è divenuta meno dura coi suoi figli sollevandoli di questa gravosa corvée annuale. Sono scomparsi perché è cambiato il mondo e forse è un bene che sia così. Eppure, quando le acciughe al verde fanno la loro comparsa sulla tavola come non ripensare a loro, a quegli uomini dalle giubbe stazzonate e al loro grido: anciué anciué anciué! NICO ORENGO S ullo scudo dell’Achille degli acciugai, Vulcano ha scolpito le stelle e le costellazioni che accompagnavano i contrabbandieri di sale e poi di acciughe dal mare al di là delle piccole Alpi, verso il Piemonte, la Lombardia e il Veneto, illuminandone i sentieri, i viottoli, i passi. Straducole che partivano da Nizza per la valle Lantosca e la val Vesubia, seguendo il tracciato San Martino di Vesubia, Entracque, Valdieri, Cuneo, attraversando il colle delle finestre o quello di Pagarì, o anche salendo per la val Tinea, verso Demonte o prendendo da Ventimiglia per il colle di Tenda. Sotto le stelle e le costellazioni Vulcano ha poi inciso i nomi delle grandi famiglie che dalla fine dell’Ottocento han profumato d’acciuga le pianure italiane: Martini, Pomero, Simondi, Del Pui, Arneodo, Einaudi, Reineri. E accanto ad ogni nome, il caross d’anciué, il carretto dell’acciugaio, quello, come ricordava Lalla Romano, che si costruiva nella frazione Tetti di Dronero. Un carretto colorato di blu, come le finestre e le porte di Provenza, a ricordare il mare e a tener lontane le mosche, vero gioiello in frassino, a due ruote con stanghe e cinghia da passare a tracolla, lame sul retro a far d’appoggio e la cassetta dove chiudere, la notte, la «stadera», la bilancia, insieme ai fogli di spessa carta gialla, nella quale incartare il pesce. La lunga odissea degli acciugai rivivrà fra documenti, foto nel museo che, allestito da Roberta Allasia, aprirà, con l’aiuto della Regione Piemonte, nell’ex chiesa di San Rocco, il 28 e 29 giugno nella borgata Chiesa di Celle di Macra. Un percorso che dai tempi eroici, quelli dei contrabbandieri del sale, nascosto sotto uno strato d’acciughe, arriva all’oggi, senza più carretto ma fatto di inscatolamento, container e grande distribuzione. Seguendo la trasformazione della figura dell’acciugaio e della sua fatica su strade non asfaltate, cercando le aie delle cascine, i mercati paesani, i giorni di fiera, le rapine, giornate di nebbia e notti di gelo. Sono gli anni Cinquanta che segnano il mutamento della figura dell’acciugaio, quando al carretto comincia ad attaccare una bicicletta e vicino alle latte del pesce azzurro affianca scatole di dadi per brodo e burnie di olive in salamoia. Alla bici poi sostituiscono la moto e più avanti nel decennio l’Ape e l’automercato. È il periodo d’oro in cui allargano il mercato di vendita e quello di approvvigionamento. Gli acciugai della val Maira hanno un patentino, una licenza di vendita, presa negli anni Trenta, che gli consente di vendere in cinque provincie, da Cuneo ad Asti, ad Alessandria, a Pavia e a Milano. Molti prendono la residenza a Milano e da lì, a scacchiera, si dirigono verso il Bergamasco e il Bresciano, poi sull’Emilia e il Veneto, incrementando la vendita anche del baccalà e dello stoccafisso. Per l’approvvigionamento hanno una predilezione per la Spagna del Nord, in Cantabria. È lì che all’inizio del Novecento si è trasferito da Dronero un grande acciugaio, Rovera, che ha messo su una fabbrica di inscatolamento e conservazione. E proprio l’Università di Cantabria ha censito, lungo il secolo, la presenza di almeno trenta industrie dell’inscatolamento, provenienti dal Piemonte, dalla Campania e dalla Sicilia. Oggi è ancora lì che i grossisti fanno lavorare il prodotto anche se molta pesca dell’acciuga viene dalla Scandinavia e dalla Croazia, in seguito all’inquinamento delle coste spagnole e all’impoverimento del mare ligure e siciliano, mentre i nomi delle famiglie ormai entrate nella storia ma attive oggi rimangono quelli dei Salomone, di Salomone lo sciau, di Mattalia di Celle Macra, di Del Pui di Asti, di Ghio del Vallone Margherita, di De Maria nel Bergamasco. E i paesi simbolo sono Celle Macra, Paglieres, Lattulo, Moschieres e poi San Michele di Piazzo. «Meglio un’acciuga in olio e limone che un’aragosta con la maionese», si dice lungo la Valle Maira. Concorda Michel Bras, settimo cuoco nella lista dei cento più acclamati al mondo, per via di quel suo ristorante nell’Aubrac, quando all’Enoteca di Canale, poche settimane fa, i suoi più giovani colleghi Palluda e Camia gli hanno offerto un agnolotto piemontese dal quale faceva capolino una deliziosa acciuga. Repubblica Nazionale 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA il racconto Lungo corso DOMENICA 22 GIUGNO 2008 Yacht a motore, slanciati velieri da corsa, motoscafi di varia foggia: la passione di Gianni Agnelli per i natanti è cosa risaputa. Così come infinita è l’aneddotica legata al suo andare per mare Un libro, pubblicato per beneficenza, raccoglie adesso gli affettuosi ricordi dei suoi marinai Un giro in barca con l’Avvocato PIERO OTTONE iorno di Pasqua del 1992, golfo di Genova. I velieri arrivati dai cinque continenti partono per la regata di Colombo, nel quinto centenario della scoperta. È una splendida giornata di primavera, migliaia di barche di ogni tipo fanno festa intorno ai velieri, una kermesse mai vista prima. Non poteva mancare Gianni Agnelli, per l’occasione re del mare: ci sarà anche lui. La sua flotta al completo, F 100, grande yacht a motore, Extra Beat, grande veliero da corsa, e motoscafi vari, è schierata davanti a Portofino. Ed ecco comparire sopra il monte, di buon mattino, l’elicottero, che viene a posarsi sulla coperta di F 100. Lui scende, con Marella e col fedele Brunetto. Comincia una giornata memorabile: trasferimenti fra una barca e l’altra, per vedere tutto quello che c’è da vedere, in mezzo alla folla; colazione di mezzogiorno, mentre il promontorio sfila davanti agli oblò; tanti bordi, avanti e indietro. Poi, al tramonto, le istruzioni. La sua flotta personale farà rotta su Calvi, in Corsica: un centinaio di miglia, arriverà domani mattina. Intanto l’elicottero compare come per miracolo sulla montagna. Preleverà Gianni e Marella, col fedele Brunetto, che andranno a dormire a casa. Domani mattina saranno di nuovo all’aeroporto di Torino, questa volta prenderanno l’aereo, anche loro andranno a Calvi. Torneranno su quelle stesse barche. Non potevano stare a bordo e andarci per mare, con un’incantevole navigazione notturna? Potevano: ma sarebbe stato troppo semplice. C’erano, in quella memorabile giornata, tutti gli ingredienti del personaggio: l’amore per il mare, la voglia di vedere sempre tutto, la gioia di vivere, l’irrequietudine; e infine la stravaganza, da Re Sole. Qualità che si ritrovano adesso negli appunti di un libro, In mare con l’Avvocato, che lo dipinge dal vivo. Come era dunque, Gianni Agnelli, quando andava per mare? Certamente amava le barche, e ha sempre navigato molto, di giorno e di notte. Quando di ritorno da un viaggio gli enumeravo i miei scali, lui li conosceva tutti: «Li conosco», diceva, «metro per metro». A cominciare dalla Costa Azzurra, naturalmente: e poi la Grecia, la Turchia, l’Africa, i Caraibi; l’oceano, fino al Baltico; e specialmente, negli ultimi tempi, la Sardegna e la Corsica, con tutte le baie e gli scoglietti intorno a Calvi, dove aveva una splendida casa, ricavata, se non sbaglio, da un antico convento. Aveva anche grande estro per la scelta delle barche, da quel Tomahawk elegante, col quale partì un giorno lontano dalla Costa Azzurra per portare a Capri la famosa Pamela Churchill, amore di gioventù (il viaggio fu interrotto, Pamela si ferì al volto), fino a Capricia e Agneta, sontuose, e all’ultima, Stealth, che i nipoti, John e Lapo, tengono a Genova. Gli piaceva stare al timone, naturalmente: con un certo disinteresse per i congegni di bordo (una volta, su Capricia, gli chiesi come funzionassero i verricelli: scoprii che lo ignorava). Gli piaceva il tempo fresco, il vento forte. Ma come si stancava presto! L’irrequietudine non lo abbandonava neanche in barca. Un esempio, in un capitoletto del libro: mese di settembre, viene una telefonata, l’Avvocato arriverà nella notte. Arriva, si parte. Per dove? Annuncia: per la Corsica. E va a dormire. Dopo due ore si alza, tira il boccaporto, si affaccia, chiede dove sono. Si vede ancora la costa, a poppa: bene, dirigiamoci verso Napoli. Si cambia rotta. Passa un’altra ora, si affaccia di nuovo in coperta: dove siamo? Più o meno dove eravamo prima, solo qualche miglio più avanti. Nuovo ordine: giriamo, torniamo in continente. E così si va a Portofino. La mattina, bagno a Paraggi. Ma il cielo è grigio, si torna a Torino. Il racconto mi ricorda un altro episodio, non incluso nel libro perché avviene in aereo, non per mare: partenza da Torino per Saint Moritz, ma il tempo è brutto, si cambia in volo e si va a Nizza, poi il tempo è brutto anche a Nizza, si prosegue per Corfù, ma ormai è tardi, si atterra a Roma. Irrequieto: e anche un po’ dispettoso, qualche volta. A Barcellona va alla corrida, dice al marinaio di turno di aspettare in macchina. Passano due ore, finalmente lui ricompare, e chiede con indifferenza: «Come va?». Il marinaio non si trattie- G ne, dice che, se avesse saputo che doveva aspettare tanto tempo, sarebbe andato a fare un giro per la città. «Allora ho fatto benissimo», ribatte lui. «Sicuramente ti saresti perso». Dispettoso, e non solo coi marinai. È di scena Henry Kissinger, l’unico identificato col nome, fra i tanti ospiti che i marinai hanno visto sfilare a bordo. Siamo a Tangeri, per i grandi festeggiamenti di Michael Forbes, personaggio del jet set. Al momento di tornare a bordo, la passerella è molto ripida perché c’è bassa marea. L’ex segretario di Stato americano non osa affrontarla, anche perché, dice, ha bevuto qualche bicchiere. Breve conciliabolo: come recuperarlo? Non si può aspettare l’alta marea. Alla fine un marinaio, ex pescatore, suggerisce di far sedere il personaggio e di farlo scivolare a bordo, come se fosse una cassetta di pesce. L’Avvocato assiste divertito; poi, quando Kissinger arriva poco dignitosamente a destinazione, tutto contento di essere sano e salvo, gli dice: «Henry, hai tantissime doti eccelse. Ma certamente non hai il piede marino». Capisco il buon umore di Kissinger, nonostante tutto: si stava bene, sulle barche di Agnelli. L’armatore, sia pure irrequieto e imprevedibile, sia pure capriccioso ed esigente, aveva sempre il tono giusto, sapeva comandare ed esigere senza mai dare ordini, come un sovrano di altri tempi. Non era quello il suo charme? Agnelli è stato l’italiano più famoso del suo tempo, non per quel che ha fatto ma per quel che era, per la vitalità, per la CAPRICIA Due alberi comprato da Agnelli nel 1971 Costruita in Svezia nello stesso cantiere dell’Agneta, acquistata 12 anni prima F 100 Costruito nei cantieri CRN di Ancona nel 1983, il grande yacht a motore appartiene oggi alla figlia Margherita AL TIMONE Gianni Agnelli negli anni Trenta al Forte dei Marmi, in Versilia. Nella foto grande, al timone negli anni della maturità gioia di vivere, per l’eleganza. E anche per le battute, di chi guarda divertito, qualche volta anche un po’ irresponsabile, come va il mondo. Eccoci a Montecarlo, per il Gran Premio. Una voce dal pubblico grida: «Avvocato, ho duemila azioni Fiat e sono molto preoccupato». La risposta è pronta: «Figuriamoci io!». Concludo con una nota personale. Apprendo da questo libro (lui non me l’aveva mai detto) che un giorno Agnelli è al timone di Extra Beat, sulla Costa Azzurra. Come gli accade spesso, ama rischiare, è spericolato. Naviga troppo vicino alla costa. Il comandante lo scongiura di allargare, i fondali sono bassi, la barca pesca sei metri. «Non ti preoccupare», lui risponde. «Queste coste le conosco a memoria. Ci ho passato gran parte della mia giovinezza». E prosegue imperturbabile verso Villefranche. Il comandante è sulle spine. Finalmente l’inevitabile colpo sul bulbo, la barca si incaglia. Non sarà poi difficile rimetterla a galla. Ma tutti zitti per qualche minuto, fino a quando lui rompe il silenzio: «Questo è un punto dove dovevo passare senza problemi, lo conosco troppo bene», dice. «Forse ho capito che cosa è successo: hanno fatto dei lavori di restauro alla villa e hanno gettato in mare gli scarti edilizi, compresi i calcinacci». L’episodio mi interessa, e mi diverte anche un tantino, per via di un precedente. Ho già detto che Agnelli aveva la battuta pronta, amava prendere in giro. Un giorno mi cantò le lodi di quella che sarebbe stata la sua ultima barca, Stealth: costruita, mi diceva, con materiali extraleggeri, quindi superveloce. Gli chiesi: «Ma è sicura? Se è così leggera…». «Sicurissima», rispose perfidamente, come se si fosse aspettato la domanda. «Se non la si porta sugli scogli…». Il riferimento era evidente: qualche tempo prima, davanti a Casablanca, avevo portato sugli scogli, per l’appunto, la mia barca. EXTRA BEAT Vela costruita in Germania nel 1988 Come tutte le ultime imbarcazioni dell’Avvocato, è fatta per la velocità STEALTH Elegantissima e veloce, di fabbricazione inglese, anno 1996, è stata l’ultima della lunga serie di barche di Agnelli Repubblica Nazionale DOMENICA 22 GIUGNO 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 ‘‘ Un tuffo a buon mercato Il bagno con i jeans? Certo non è il massimo Ma sicuramente è più economico ‘‘ Navigando verso l’isola di Saint Honorat Gli inattendibili A tre categorie di persone non bisogna mai dare ascolto: meteorologi, medici e analisti di borsa Ascoltando cattive previsioni meteo I proventi delle vendite andranno alla ricerca sul cancro Frammenti di vita di bordo dell’ultimo mito italiano CINZIA SASSO Q MILANO uesta volta non è un anniversario. Né, a raccontarlo, è la sorella prediletta, un cortigiano deferente, un amico potente. No, stavolta è che Alfredo non ne poteva più. Alfredo Meocci ha 57 anni, ne aveva 19 quando ha cominciato a lavorare con Gianni Agnelli e praticamente non ha mai smesso: ora è sull’F 100, non l’ultima, ma forse la più amata delle tante barche dell’Avvocato, ancorata a La Spezia, ereditata dalla figlia Margherita. «Deh», racconta con quell’accento forte di Porto Santo Stefano, quello per cui Agnelli lo chiamava «l’ultimo dei toschi», «in ogni porto tutti sempre a chiedermi com’era l’Avvocato, cosa faceva l’Avvocato, cosa diceva l’Avvocato». E allora ecco che, invece che fermarsi a raccontare uno a uno quarant’anni di ricordi, Alfredo il marinaio ha pensato di scriverli e il risultato è questo libro In mare con l’Avvocato. Gianni Agnelli raccontato dal suo equipaggio (edizioni Il Sole 24 Ore, 126 pagine, 16 euro), che sarà presentato giovedì allo Yacht Club di Milano (ore 11.30, piazza Baiamonti al numero 4). Il luogo, certo, non rende giustizia all’armatore. Abituato alle acque chiare della Costa Azzurra, al vecchio porto di Calvi, alle baie isolate dell’Egeo, anche al mare di Ponza e, solo per un Capodanno, a quello dei Caraibi, l’Avvocato avrebbe storto il naso. Ma questo di Milano non è che il primo appuntamento: quelli come lui, che amano il mare forse più di ogni altra cosa, troveranno il libello in ogni porto e nelle serate silenziose potranno cercare curiosità, aneddoti, battute, personaggi, frammenti di vita dell’ultimo mito italiano. Con un’avvertenza: non cerchino, tra le righe, il pettegolezzo volgare, inconfessabili segreti su simpatie, amori, idiosincrasie. Alfredo e gli altri che per tanti anni sono stati al suo servizio, hanno fatto propria la signorilità di Agnelli e anche ora, a cinque anni dalla morte, tengono alta con orgoglio la bandiera del rispetto della privacy. Questo, dunque, non è il libro di un qualsiasi maggiordomo da casa reale inglese, ma una sorta di omaggio a un «padrone» amato e rispettato. Tanto che perfino i diritti delle vendite andranno a nobili indirizzi: alla Fondazione per la ricerca contro il cancro di Candiolo e alla Fondazione Umberto Veronesi, affinché li usino per battere quel male che ha portato via l’Avvocato ma anche suo fratello Umberto e Giovannino, il nipote prediletto. È straordinario come questa raccolta di semplici flash di vita quotidiana formi un quadro coerente con quello che fino ad oggi si sa del carattere, delle passioni, dei vezzi, della personalità di Agnelli, così come raccontati da biografi ben più titolati. La sua inquietudine, la passione per la velocità, la curiosità, l’ossessione per la noia, l’ironia, la voglia infantile di scherzare, anche la supponenza e l’egocentrismo, erano l’unico bagaglio che Agnelli portava con sé quando, ricavata mezza giornata di tempo, telefonava a Walter, il suo capitano: arrivo con l’elicottero, usciamo. E nulla importava che il mare fosse grosso, il tempo da lupi. Troppo era una parola fuori dal suo vocabolario. La raccolta comincia negli anni Sessanta, quando Agnelli non ha ancora quarant’anni e non è ancora il signore della Fiat, naviga sul G.A. Trenta e improvvisa party all’americana con magnifiche signore in abito da sera costrette a mangiare con le mani acciughe impanate e fritte però accompagnate da champagne. «Ruba» al largo un’aragosta intrappolata in una nassa e fa calare nella cesta, sigillate nel cellophane, le ventimila lire che sono il prezzo di mercato. Gli anni Settanta sono meno spensierati, ora è lui al comando dell’azienda, la barca è il G.A. Cinquanta, poi arriverà il Capricia, un venti metri con le vele marroni costruito in Svezia. Gioca ancora, però. Sfugge ai gendarmi francesi a Saint Tropez e ai greci nel canale di Corinto. Trova il modo di divertirsi anche quando è colpito dal primo infarto: al medico che lo segue a New York, e che è preoccupato per le sue condizioni, organizza una serata in buona compagnia. E dopo l’incidente sugli sci, per smentire il medico che pronostica un futuro senza piste, si fa fotografare — lui, che odia le fotografie — sulle nevi di Saint Moritz. Agli amici organizza trappole perfide: chiede al cuoco di far intravedere pranzi prelibati e poi fa servire un uovo al tegamino. A quelli che non ama va peggio: «Stasera prepara palle di toro per il nostro ospite. Non c’è niente di meglio che dare due coglioni a un coglione». Viaggia in motorino senza casco e si fa scudo con uno degli amici più cari, completamente calvo. Con l’equipaggio è inflessibile sulla divisa: a casa Agnelli, e nelle barche, quindi, solo pantaloni lunghi e camicia e poco importa che loro implorino di avere i bermuda e una T-shirt, come i colleghi inglesi. Ancora, storie minime: quella notte al night a Formentera, quando due giovani piuttosto su di giri si confessano l’un l’altro: «Devo aver sniffato troppo, mi è sembrato di vedere l’avvocato Agnelli». E poi la sfilata dei personaggi celebri: il compleanno di Michael Forbes a Tangeri, ospite sull’Extra Beat il segretario di Stato americano Kissinger; i complimenti al navigatore solitario Giovanni Soldini dopo il salvataggio di Isabelle Autissier («Sei l’unico uomo al mondo ad essere stato capace di trovare una donna in mezzo al mare»); l’incontro sull’F 100 con Michel Platini e la previsione, in tempi non sospetti, «tu farai altro nella vita». Repubblica Nazionale 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 GIUGNO 2008 i luoghi La venerano gli hindu, la adorano i buddisti, la divinizzano gli antichi sciamani del Tibet, la agognano i giainisti indiani Pellegrinaggi È una remota cima himalayana di 6.714 metri considerata sacra da quattro religioni, che da secoli attrae schiere di viaggiatori. Tra di essi, straordinarie figure di occidentali di cui un libro racconta adesso l’ossessione e le traversie Kailas, la montagna degli dei asse del mondo è una montagna. Non la più alta sulla terra. Forse non la più bella. Ma la più sacra. La venerano gli hindu, la adorano i buddisti, la divinizzano gli antichi sciamani bön del Tibet, la agognano i giainisti indiani. Chi non ha mai sentito parlare del Kailas forse non conosce nemmeno la leggenda del Monte Meru o Sumeru, il centro dell’universo primordiale tra cielo e inferi, coi suoi sette continenti disposti come petali di un fiore di loto circondati dai mari e dall’ultima catena di vette oltre le quali s’affaccia il vuoto cosmico. Del mitico Meru il Kailas è considerato la manifestazione fisica, affollato di dèi come l’Olimpo dei greci. La sua cima ha la forma di un tempio, di un fallo, di una cupola, dove gli antichi Puranas collocano il dio Shiva e la sua consorte Parvati uniti in un eterno amplesso. Tra mito e realtà, qui nascono quattro grandi fiumi dell’Asia, l’Indo, il Sutlej, il Brahmaputra, il Karnali. Ai suoi piedi giace il più alto lago del mondo, il magico Manasarovar, e dalle sue pendici si sono irradiate civiltà antiche come lo Shang Shung, antenato del Tibet. Il Kailas è ancora visibile, a discrezione delle nubi, per i coraggiosi pellegrini disposti a sopportare le fatiche del viaggio e gli umori politici dei governanti cinesi che aprono e chiudono le frontiere di una L’ delle regioni più impervie dell’Himalaya. Geograficamente appartiene all’altipiano Gangdisé, a 1300 chilometri dalla capitale Lhasa. Un giro attorno ai suoi 51 chilometri di circonferenza equivale per i devoti delle quattro religioni a ripulire i peccati di una vita per cominciarne una nuova, alleggerita della pesante bisaccia di un vecchio karma incrostato di desideri inesauditi e attaccamenti terreni. Per la spiritualità orientale il karma è il frutto delle azioni passate, ma non è un solco già tracciato per sempre, né un destino indelebilmente scritto nelle stelle. A ogni alba, in ogni istante dell’esistenza si può intraprendere un nuovo percorso, scalare una nuova montagna. «Vuoi sapere chi eri, guarda chi sei adesso. Vuoi sapere chi sarai, guarda ciò che fai ora», diceva 2500 fa Buddha Sakyamuni. Chi non crede nei miracoli, ma nel potere della mente di trasformare il proprio mondo interiore ed esterno, può leggere Il Monte Sacrodi John Snelling, un’istruttiva guida di esplorazioni e pellegrinaggi al Kailas tra pochi giorni disponibile in versione italiana (Il Saggiatore). Il libro si apre col racconto del missionario italiano Ippolito Desideri ai primi del 1700; per i successivi tre secoli, non c’è stato un viaggiatore che sia tornato a valle senza un’impressione indelebile. Come scrive Lama Anagarika Govinda nel suo celebre La via delle nuvole bianche: «La fratellanza (tra i pellegrini del Kailas) è simile a un ordine religioso. Anche se privo di voti e dogmi, esso è fonte di ispirazione per il resto della vita, perché (i pellegrini) sono stati faccia a faccia con l’eternità, hanno visto il paese degli dèi». Il mito si è perpetuato nei secoli per le intrepide prove richieste da questa cima maestosa e simbolica, che non permette di dissacrare il suo punto più alto (6.714 metri), rimasto inviolato per millenni anche da scalatori ambiziosi e atei. Come se i protettori invisibili della sua purezza avessero costruito un’invalicabile barriera che costringe gli uomini a girargli attorno con fatica e determinazione, compresi gli arroganti e gli scettici. Uno tra tutti, l’inglese Arnold Savage Landor, che Nessuno ha il diritto di scalarne la vetta REINHOLD MESSNER a millenni il Kailas è per i tibetani la montagna sacra che rappresenta il principio maschile, uscita per prima dall’acqua e attorno a cui si sono formate le terre. Da tremila anni i pellegrini ci camminano attorno. Milarepa, poco meno di mille anni fa, si era ritirato da quelle parti a meditare. Era l’epoca del contrasto tra religione bön e la nuova visione lamaista del mondo. Uno yogi bön lo sfidò a raggiungere per primo la vetta del Kailas. Milarepa attese, meditando in una caverna alla base della montagna, che l’avversario si arrampicasse sul grande canalone ghiacciato che solca la parete sud. Quando lo vide vicino alla vetta, salì su un raggio di sole e in un attimo lo precedette. Lo yogi, impressionato, cadde. Il significato del racconto è chiaro: la montagna non dev’essere «conquistata», un concetto scomodo per l’alpinismo moderno. Milarepa non esclude che qualcuno in futuro possa salire, ma aggiunge che dovrà farlo sui raggi della luna. Mai il Kailas dovrà essere «conquistato». Negli anni Ottanta l’area era del tutto vietata. Si poteva andare all’Everest, allo Shisha Pangma, non al Kailas. Io ho un vecchio amico, a Zurigo, medico, che spesso mi ha seguito al campo base. Cacciatore, avventuriero, una persona molto interessante. A lui più volte avevo detto che l’unica montagna alla quale ero veramente interessato era quella. Molto più di tutti quelle superiori agli ottomila metri. Mi incuriosiva il perché la gente locale ne fosse così affascinata. Nell’84 ricevo una sua telefonata: «Come si chiama questa montagna?», mi fa. «Kailas», gli rispondo. «Avrai il tuo permesso», ribatte lui. Io non ci credevo, ma così è stato. Il mio amico aveva tra i suoi pazienti un ministro cinese, che era riuscito a far guarire. Come ricompensa, aveva ottenuto da lui un permesso per aggirare il Kailas in cinque persone. E addirittura un’opzione per salirlo, l’anno seguente. Ma quando sono andato là e ho capito finalmente quanto quella montagna contasse per migliaia di fedeli tibetani, ho rifiutato. Eravamo i primi occidentali dopo la conquista del Tibet da parte della Cina. È stata una bella spedizione, non facile. Siamo arrivati e subito ci hanno detto che non c’erano le auto. Un amico, importatore della Toyota, ce ne ha fatte mandare due a Lhasa. Tutto ha funzionato bene, ma quando siamo ripartiti i cinesi ci hanno detto che le due jeep non potevano più essere esportate: abbiamo dovuto regalargliele. Quella volta ho fatto un primo giro del Kailas, da solo, in un giorno. E mi sono reso conto che la continuazione naturale era il contorno del lago Manasarovar, il principio femminile per i tibetani. Senza fermarmi, ci avrò messo diciotto ore. Poi in tre giorni li ho rifatti, l’uno e l’altro, con i miei amici. Negli anni Novanta sono tornato per un documentario della Zdf, la seconda rete televisiva tedesca. Mi sarebbe piaciuto tornare l’anno prossimo, con i miei bambini e la mia signora, ma adesso è un po’ difficile. Vedremo dopo le Olimpiadi, che cosa faranno i cinesi. (Testo raccolto da Leonardo Bizzaro) D tentò di dare il suo nome al Brahmaputra attribuendosi ingiustamente la scoperta delle fonti. Landor scrisse letteralmente col sangue le sue note scientifiche di viaggio, dopo essere stato arrestato per aver trasgredito i divieti delle autorità e aver costretto uno dei suoi portatori tibetani a leccargli le scarpe per chissà quale offesa. Landor è la più clamorosa eccezione tra le figure descritte nel libro, uomini e donne di ogni nazionalità che hanno rispettato il Kailas e la sua sacralità anche se costretti a camuffarsi da fachiri e sadhu ai tempi in cui il monte era interdetto agli uomini bianchi. L’alpinista italiano Reinhold Messner è stato l’unico straniero a completare il periplo della montagna in giornata, contro i tre giorni di rito. Tutti gli altri hanno camminato lenti e tranquilli, inquieti o timorosi, un piede dopo l’altro al suolo e la mente rivolta al cielo. Con le sue storie Snelling mette in guardia però dallo scrutare troppo in alto senza sviluppare lo sguardo interiore, verso quell’ineffabile centro del cosmo identificato nel Kailas ma che risiede in realtà dentro ogni individuo. Dopo aver scalato il Cervino il celebre alpinista inglese Edward Whymper disse: «Più in alto non c’è nulla da vedere; sta tutto sotto». Potrebbe essere il motto dei protagonisti di questo libro, che attraverso i secoli hanno percorso in senso orario il kora, il circuito rituale paragonato a un’iniziazione tantrica, a «un giro completo della ruota della vita». O anche al ritorno verso quel “«punto immobile del mondo che ruota» descritto da Eliot, al «luogo del cambiamento creativo» indicato da Jung. Le avventure, sempre rocambolesche, a volte tragiche, a volte esilaranti dei protagonisti di questi innumerevoli viaggi alla montagna per secoli proibita agli occidentali, sono curiosamente raccontate da uno scrittore che al Kailas non è mai stato. L’inglese Snelling, scomparso nel 1991, le ha raccolte infatti a Londra scartabellando tra librerie e archivi della Royal Geographic Society o intervistando alcuni suoi contemporanei al loro rientro, con l’animo ancora intriso di percezioni spesso «impossibili da descrivere Esploratori, curiosi santi e avventurieri hanno compiuto attraverso le epoche un percorso terreno e metafisico in cerca dell’illuminazione spirituale Mt. Kailas 6.714 m C I N A Burang Silgadhi Jumla N E P A L Kathmandu Lucjnow Gorakhpur LE IMMAGINI Nella pagina di destra, dal basso verso l’alto, visioni del monte Kailas: all’orizzonte, nella catena himalayana e infine dalle sue pendici Nella striscia di ritratti a centro pagina volti di pellegrini nei paraggi della grande montagna sacra a parole». Tra i numerosi racconti di esploratori, curiosi, santi e avventurieri che hanno documentato questo percorso metafisico e terreno, Snelling assegna un posto particolare all’esperienza descritta da un saggio indiano, Bhagwan Sri Hamsa, che raggiunse il Kailas nel 1908. Nel suo The Holy Mountain Sri Hamsa offre «il più completo resoconto di un reale evento spirituale di una certa profondità». Molte volte Hamsa aveva tentato di raggiungere il suo guru Dattatreya nella dimensione dell’estasi visionaria, a prezzo di sacrifici immensi, scalando pendii ghiacciati, schivando valanghe, sprofondando nella neve e nel fango. Quando raggiunse il lago Gauri Kund alle pendici del Kailas sedette su una roccia nell’attesa di un segno, un darshan del maestro, deciso a illuminarsi o morire in meditazione. Sentì dapprima la sua voce, ma voleva «vederlo» e dopo averlo visualizzato a lungo aprì gli occhi e se lo trovò davanti. Si prostrò ai suoi piedi e «Dattatreya lo sollevò, lo abbracciò e lo accarezzò, poi gli diede un mantra e lo iniziò alla Realizzazione del Sé». Sri Hamsa racconta allora: «Mi ritrovai riflesso ovunque in tutto l’universo! C’era una totale armonia piena di saggezza, infinito amore eterno e beatitudine eterna! Tutto era verità, saggezza e beatitudine». Bhagwan offrì al maestro tutto ciò che aveva: un solo biscotto. Dattatreya ne mangiò la metà e restituì l’altra metà come prasad (offerta di cibo sacro). Ben pochi tra i pellegrini giunti al Kailas hanno però potuto vantare esperienze analoghe. Il più triste e commovente tra i fallimenti è quello raccontato un secolo fa da un viaggiatore americano di nome Edwin Gilbert Schary, ossessionato fin dall’adolescenza dall’idea di incontrare i «Mahatma del Tibet». Una notte Schary sognò una mappa del mondo e un dito che la attraversava dal Bengala all’Himalaya, indicandogli un percorso e una grotta con i numeri nove e cinque, che lui presumeva indicassero la data del 5 settembre. Correva l’anno 1918. Per l’ennesima volta dopo i suoi precedenti e quasi mortali pellegrinaggi sul Kailas, Schary si camuffò da indiano e affrontò la fatica, il freddo, le tempeste, la fame, i briganti, gli animali selvaggi per raggiungere in tempo il luogo dell’appuntamento coi Mahatma. Niente lì attorno gli ricordava il posto del sogno, finché sulla parete di una gola montana creata da sassi franati ecco finalmente la visione agognata. Ma quale fu la delusione quando, dopo averla raggiunta, scoprì che «era soltanto una grotta, niente di più e niente di meno ed era vuota... Crollai sulla mia coperta con un senso di totale sconforto.» Per tre giorni rimase in questo stato di prostrazione, infine scrisse: «Ho capito che devi cercare in te stesso la liberazione. Ogni uomo costruisce la propria prigione... È l’agire che ci porta la goia e il dolore». A dispetto della saggezza apparentemente raggiunta, Schary continuò a cercare come un folle vagabondo i Mahatma tra i monti del Tibet. «Sporco, malvestito, ricoperto di piaghe doloranti», racconta un agente commerciale britannico di Gyantse, «Schary si trascinò fino al cancello principale di Gyantse, e parlando indostano chiese alla sentinella di lasciarlo entrare». Credendolo un mendicante tibetano la guardia stava per cacciarlo, finché un ufficiale vide che era davvero un bianco «in condizioni disastrose, infestato da parassiti, denutrito e molto malato». Ma Schary ancora non si era dato per vinto. Pensava di non aver fatto abbastanza penitenze e tentò di raggiungere nuovamente il Kailas attraver- so il Kashmir. Fu arrestato e rispedito indietro, tornò a San Francisco con 5 centesimi in tasca, e da allora svanì nel nulla senza lasciare la minima traccia di sé. Snelling addita la sorte del povero Schary ad esempio per quanti intraprendono una ricerca spirituale senza preparazione. Ma quel pellegrino sognatore aveva in fondo usato le stesse parole riferite dal saggio indiano Bhumananda al celebre orientalista e tibetologo italiano Giuseppe Tucci durante il loro incontro al Kailas: «Dio è qui dentro di noi e non lì sulla montagna, la montagna non è che un ammasso di pietre. Le persone non possono elevarsi immediamente ai livelli della nostra contemplazione, la via dello spirito è una ascesa, alcuni iniziano a salire da una grande distanza, altri da più vicino [...] Ma anche se i sentieri sono diversi, il punto d’arrivo è uno solo». Tucci fu uno dei numerosi studiosi profondamente condizionati dalla mistica della Montagna sacra, più del suo altrettanto celebre precursore, lo svedese Sven Hedin, che scoprì attorno al Kailas la sorgente dell’Indo e del Bramaputra e che si ritirò dal mondo per morire solo e dimenticato dopo le contestazioni di accademici gelosi. L’italiano ebbe più appoggi e fortuna, conosceva la lingua antica degli altipiani e il significato simbolico delle scritture dove si descrivono i poteri delle divinità dei luoghi. Oltre a credere — come sostiene Edward Conze — di essere stato tibetano in qualche vita precedente. Citando Radhakrishna scrisse che «è bello inginocchiarsi dove altri si sono inginocchiati», specialmente in un luogo come il Kailas a suo dire «sacro dagli albori della storia». Peccato che l’umiltà mostrata al cospetto della montagna scomparisse quasi del tutto dopo i suoi trionfali rientri in patria. Nella nostra realtà qui in basso non c’è montagna capace di trasformare gli uomini, ed è semmai vero il contrario. In fondo le chiusure dei tibetani prima e dei cinesi poi (tranne i monasteri e gli stupa distrutti durante la Rivoluzione culturale) hanno forse risparmiato al Kailas la triste sorte di altri analoghi luoghi sacri del pianeta. Repubblica Nazionale FOTO CORBIS RAIMONDO BULTRINI DOMENICA 22 GIUGNO 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 IL LIBRO Il Saggiatore manda nelle librerie il 26 giugno il volume di John Snelling Il monte sacro. Pellegrini e viaggiatori alle pendici del Kailas (prefazione di Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama del Tibet, introduzione di Mariachiara Tallacchini, traduzione di Rossana Di Nola, 376 pagine, 22 euro) L’autore, viaggiatore e studioso delle religioni, scomparso nel 1991, fu segretario della Buddhist Society britannica. Il libro è un lungo racconto dello straordinario magnetismo esercitato dal Kailas su generazioni di pellegrini e di viaggiatori occidentali, irresistibilmente attratti dal simbolismo della montagna sacra Repubblica Nazionale 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 GIUGNO 2008 È il simbolo dell’età dell’oro perduta Era sacra a Giove e Thor. Ci ha sfamato Ci ha protetti e ci ha dato un rifugio Il suo legno ci ha dato lavoro per secoli. Il suo inchiostro è nei disegni di Leonardo. Ora che la sua era è finita un libro CULTURA* racconta la pianta che ci assomiglia L’antica sorella dell’uomo LUCA VILLORESI a storia della quercia, in fondo, è la storia dell’uomo. E, per raccontarla dall’inizio, bisogna riandare ai tempi dei nostri avi balanofagi. La dieta all’epoca non era granché: ghiande a pranzo, a cena e a colazione; con un contorno che, se c’era, arrivava come e quando capitava. La qualità della vita, a modo suo, doveva tuttavia essere abbastanza alta se è vero che miti e leggende rimpiangono quell’albore della civiltà chiamandolo l’Età dell’oro. L’uomo, si narra, viveva in semplicità, senza affanni, trovando la garanzia della sua sopravvivenza nei frutti (più precisamente: le balane) di un albero che evidentemente non poteva non radicarsi nella memoria collettiva fino a diventare un archetipo, una reminiscenza che aleggia in tutte le culture, dall’Oriente all’Occidente. Uno dei primi simboli elaborati dalla psiche primitiva; ma anche, più concretamente, il filo conduttore di quella civiltà del legno che, iniziata dopo la fine della vita nomade, tra i dodici e i quindicimila anni or sono, è andata avanti fino all’avvento della civiltà del carbone e del petrolio, un paio di secoli or sono. William Bryant Logan, autore de La quercia. Storia sociale di un albero (Bollati Boringhieri, 256 pagine, 25 euro), è un arboricoltore, uno che gli alberi li coltiva. E forse proprio per il suo approccio pratico, concretamente interdisciplinare, ha potuto riannodare le mille tracce di una storia che si perde nella notte dei tempi. Partendo da dove si dovrebbe partire: dal sapore della ghianda. Che non è cattiva; ma, di certo, nemmeno buona. Diciamo che, eliminato l’amaro del guscio, una balana non sa di niente; però nutre, sfama, sazia. In alcuni paesi (Stati Uniti, Corea, Spagna, Algeria) le ghiande rientrano ancora, come una curiosità culinaria, nella preparazione di qualche antica ricetta; alcune migliaia di anni or sono, però, rappresentavano ancora la base dell’alimentazione umana. Erano abbondanti. Potevano essere ridotte a farina, conservate, trasportate. E, per avere la conferma di questo legame ancestrale tra uomo e quercia, basta consultare la mappa degli areali occupati dal genere Quercus: la dislocazione dei boschi coin- L Resta l’eredità di un ricordo inscritto nei nomi dei luoghi, nei modi di dire o nei cognomi: Barker, Tanner, Becker... Ghiandai, Della Rovere cide con i luoghi che hanno visto nascere le grandi civiltà stanziali. Gli uomini si stabilivano dove crescevano le querce. Una sorta di simbiosi; destinata a durare anche dopo l’avvento del frumento e di nuovi regimi gastronomici. La quercia non detiene record particolari. Non è la più alta: una sequoia può doppiare una quercia raggiungendo i cento metri di altezza. Né la più longeva: un pino della California passa i quattromila anni, mentre una quercia si ferma a duemila. Una sequoia, tuttavia, vive solo in una fascia costiera fresca e mite; un pino della California in montagne dove non esistono parassiti. Le querce, viceversa — più caldo o più freddo, più secco o più umido — si sono insediate in tutta la fascia temperata. Sono flessibili. Si adattano, si convertono. E in questo, forse, somigliano all’uomo. Le querce si combinano, mischiano il dna, si ibridano. Una capacità di cambiare che spiega la variabilità di un genere che, a seconda dei vari autori (anche un esperto talvolta distingue difficilmente una varietà dall’altra), conta tra le duecentocinquanta e le quattrocentocinquanta specie: Quercus robur, ilex, pubescens... coi relativi nomi volgari (la quercia è il nome di albero più diffuso nel mondo), nazionali, regionali, provinciali: rovere e roverella, cerro, farnia, sughera... Navi, mobili, tetti, botti, utensili, combustibili. Nella civiltà del legno la materia prima per eccellenza veniva dalla quercia. E la storia della quercia è anche la storia delle arti e dei lavori che le ruotavano attorno. Dal taglialegna al carbonaio, dal mastro d’ascia al conciatore. Ognuno con la sua sapienza e i suoi trucchi del mestiere. Dal boscaiolo, che deve saper scegliere e preparare i tronchi al carpentiere, calato nei dettagli delle venature che si trasformeranno in giunti, ossature, incastri. O il bottaio che, Repubblica Nazionale DOMENICA 22 GIUGNO 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 La comare del bosco che ci insegna a vivere MAURO CORONA li uomini sono alberi e gli alberi sono uomini. Se osserviamo le piante con onestà verso noi stessi ci possiamo riconoscere nell’una o nell’altra. La loro forma, il portamento, la carta d’identità, viso (corteccia) e capelli (foglie), rivelano in ogni albero uno di noi. Però è difficile riconoscersi. A furia di recitare la commedia quotidiana, crediamo di essere l’albero che non siamo. Ho sempre guardato gli alberi non dal lato botanico o scientifico ma attraverso il loro carattere. Perciò, quando tiro in ballo la quercia, trovo sempre da dire con tutti. Tutti sono convinti che la quercia sia una pianta dal valore assoluto. Non è così. Pur restando una bella persona, la quercia non è assoluta come un larice o un cirmolo. La quercia, dopo una certa età, diventa la signora spara-sentenze pronta a dirti cosa fare o non fare ogni minuto. Per dirla con lo scultore Marino Marini una «Pomona». Alta, grossa, sempliciotta, la quercia pare una chioccia sempre intenta a tenere i pulcini sotto le ali. La quercia è la madre che ha condotto la famiglia in porto. Cresciuti i figli, ha trovato loro lavoro, li ha sistemati, accasati, sposati. Ora, sfiancata e resa pesante dalla vita, con le forme perse per strada, vigila sul bosco, controlla gli accadimenti, sovrintende alle vite altrui come il capocantiere sul lavoro. Preoccupazioni e ansie giovanili l’hanno abbandonata, ora ha tempo per curiosare, annusare, begare e, soprattutto, ruffianare. Di scarsa cultura, banalotta e provinciale, nel bosco pare una di quelle massaie da cortile, mani ai fianchi e grembiule unto, che parlotta con le vicine di tutto e tutti, e sa sempre in anticipo quando una ragazza è incinta o una sposa fa le corna al marito. Non ha grandi emozioni, la quercia, però sta lì, a registrare quel che succede, a morbosare, a spiare gli amori di rapina che poi riferisce alle comari con quel bigottismo e senso dello scandalo tipici di chi non può più commettere certi peccati. «La gente», cantava De André, «dà buoni consigli quando non può più dare cattivo esempio». Si può permettere vita pacifica, la quercia, non ha problemi di salute, è stagna, forte, stabile. La quercia muore sempre di vecchiaia. È una matrona a corsa piana, non ha pensieri, non si crea problemi, non ha obiettivi lontani, men che meno difficili. Cose, queste, che preservano la salute nel tempo. Molte persone, che s’ammalano causa pensieri e preoccupazioni, dovrebbero fare un po’ le querce. Ma non ci riescono, sono altri alberi. Quando venne scelta come simbolo di un partito la quercia si montò la testa, gli alberi del bosco invece si misero a ridere. E a dire: «Si vede che quelli non la conoscono. Quelli non distinguono un’automobile da un faggio, cosa volete che sappiano di piante». La quercia ha anche cose buone, di alcune ho pure invidia. Per esempio, invidio il suo non prendersela mai, la sua pacifichezza, la salute ottenuta dal non crearsi problemi. Le invidio la serenità data dal non cercare di emergere, dal non volere gloria o fama a tutti i costi. Non le invidio quel cinismo nell’ignorare i dolori del mondo. Le invidio, invece, le dormite che si fa, soprattutto d’inverno. Alla fine, con tutti i suoi difetti, la quercia è un albero che sa vivere senza crearsi grattacapi, ha tempo libero: un grande lusso in quest’epoca frenetica. Allora credo che ognuno di noi, qualche volta, vorrebbe essere un po’ quercia. G FOTO ©COSTA/LEEMAGE LA COLLANA Si intitola La quercia. Storia sociale di un albero (traduzione italiana di Lorenzo Stefano Borgotallo, 256 pagine, 25 euro) il saggio di William Bryant Logan che sarà in libreria il 3 luglio. Fa parte di una nuova collana di Bollati Boringhieri dal titolo Oltre i giardini dedicata ad alberi, boschi e paesaggi che sarà presentata mercoledì 25 giugno alle 19 al Vivaio Riva in via Arena 7 a Milano seguendo i consigli impliciti in un legno che già suggerisce con la sua conformazione il come farsi tagliare e modellare, è arrivato di generazione in generazione a fissare, empiricamente, la forma ideale di un contenitore, la vecchia botte, che Keplero tentò inutilmente di migliorare. Nessun albero è capace di mantenere rami così lunghi e pesanti, così a lungo e così saldamente. La quercia, ha scoperto la scienza moderna, tende naturalmente a distribuire le sollecitazioni sulla linea dell’intera superficie: se su un punto si verifica una pressione eccessiva l’albero la controbilancia sviluppando nuovo legno. L’hanno chiamato assioma di sollecitazione uniforme. E sta alla base della tecnologia che realizza le viti chirurgiche per le fratture ossee. La quercia dà buoni consigli. E molti aiuti concreti. Teofrasto sosteneva che «sulla quercia ci sono più cose che su qualunque altro albero». Ghiande, legno, la corteccia indispensabile alla concia delle pelli... Senza dimenticare le galle — quelle palline prodotte dalle punture di un insetto — che per secoli hanno fornito la base degli inchiostri che si ritrovano nei disegni di Leonardo o nella dichiara- zione di Indipendenza americana. La quercia, molto concretamente, rappresenterà per un paio di millenni sia la principale fonte energetica della società umana, sia la materia prima indispensabile a ogni tipo di costruzione, a partire dalle navi che, in molti casi, arrivavano a utilizzare il legno di tre o quattromila querce. Vittima della sua stessa generosità la regina della foresta non poteva, si direbbe, non diventare una presenza sempre più rara, sia nel paesaggio agrario che in quello cittadino dove l’unica quercia utilizzata sembra essere il leccio sempreverde. Il declino, tuttavia, non è stato causato solo dal super sfruttamento, dalla competizione ecologica con l’uomo, che proprio dall’ambiente più amato dalle querce (il versante caldo delle pendici collinari) si procaccia campi arabili e terreni edificabili, o dalla nota lentezza di un albero che spinge i selvicoltori a preferirle le conifere, più veloci e produttive. Sul tramonto di un’epoca aleggia anche qualcosa che ha a che vedere con la cultura, la religione, l’idea dello spazio e del tempo. L’inizio della fine per l’albero sacro a Giove e a Thor, comincia con l’avvento del cristianesimo, una religione che priverà la quercia e altri venerabili alberi della loro anima pagana. La fine della fine potrebbe invece essere simbolicamente annessa alla fine dell’era della botte: un contenitore ottimale per ogni tipo di merce che poteva essere spostato facendolo rotolare. Un secolo or sono, in Inghilterra, solo per stipare le aringhe, si producevano ancora un milione di botti all’anno. Poi sono nati i bracci meccanici. E con loro i contenitori squadrati, stile container. La botte, figlia della quercia, apparteneva a una società piena di curve; uccisa dal trionfo del rettilineo. Resta, se non altro, l’eredità di un ricordo inscritto in ogni risvolto della società, nei nomi dei luoghi, nei modi di dire, o nei cognomi delle famiglie: Barker, Tanner, Becker... Logan, un anglosassone, enumera centinaia esempi tratti dalla sua cultura. Ma, proprio in quanto presenza universale calata, di volta in volta, in un ambiente specifico, la quercia può ancora suggerire a ognuno di noi — «Vedi tu quel burattino attaccato penzoloni a un ramo della Quercia grande?» — la sua personale antologia: Ghiandai, Della Rovere, la Madonna della Quercia, la Quercia delle Cinque passere... Repubblica Nazionale 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 GIUGNO 2008 SPETTACOLI Nessuno aveva mai avuto accesso allo sconfinato laboratorio dell’artista, gelosamente custodito dalla moglie Diletta D’Andrea. Per la prima volta, a otto anni dalla scomparsa il 29 giugno del 2000, ecco gli appunti, le poesie, i sogni, le testimonianze dolorose della depressione VERSI Qui sopra, la raccolta Tre tempi di poesia pubblicata da Vittorio Gassman nel 1941. Nella bandella si legge: «Genovese, diciottenne, studente in Giurisprudenza a Roma; nessuna e tutte le posizioni letterarie; un caos di idee nuove e strane; una necessità di parlare e meglio gridare a squarciagola...» Le mille parole nascoste del grande Mattatore RODOLFO DI GIAMMARCO (segue dalla copertina) birciamo una specie di testamento spirituale del capotribù Vittorio: «Restate come siete, perché mi piacete così. Paola sappia che l’ho amata e stimata sempre, che sempre mi ha infuso una particolare serenità e tenerezza. Lo stesso vale per Vittoria, che ho sempre pensato pure se mi ha avuto vicino meno degli altri. Alessandro sa il bene che gli ho voluto, la mia fiducia nella sua grazia e nei suoi talenti. Jacopo è stato la stella cometa della mia maturità. E tu, Diletta, sei tautologicamente diletta. Datevi tutti da fare e spaccate il culo al mondo. Siete cinque (cinque, e non quattro) figli, compreso Emanuele, e una colonnella. Spaccate, ma con amore, amore che io non ho sempre praticato ma che so essere la più grande e potente delle energie». Trascriveva i suoi sogni che, da buon mattatore che era, paiono mini-sceneggiature o micro-atti unici. Metteva nero su bianco le sue fameliche note di costume sul teatro e sui teatranti, dando spazio a una profonda stima per un altro da sé come Carmelo Bene, nato lo stesso suo giorno dell’anno, il primo settembre. Annotava pensieri sulla depressione («Nulla fa incazzare di più un depresso che sentirsi citare — come consolazione — i tanti grandi che hanno sofferto di quel male. Il depresso si scambierebbe volentieri con un imbecille sereno... «). Documentava con ironica fiscalità i suoi sentimenti, come quando nell’ottobre del 1970 chiese per iscritto la mano a Diletta, per poi sposarla in dicembre. «Tutto cominciò con una lunga chiacchierata a S ‘‘ Nel piccolo studio, con la finestra che dà sui tetti di Roma, i classici della letteratura e del teatro, dai tragici greci ai contemporanei bordo piscina al Torneo Tognazzi», lei ricorda. «Io ero educatamente in crisi con Luciano Salce. Vittorio si presentò con un costume di scena, una giacca tigrata a rigoni neri e viola. Bevemmo. Mi chiese se ci potevamo dare appuntamento la sera successiva, davanti allo zoo. Ci andai col cuore così. Facemmo un salto a Fiumicino per mangiare, e lì c’era un notissimo politico dc con una puttana. Andammo avanti due anni di nascosto. Poi lo dissi a Luciano, cui ho sempre voluto bene. Mi rispose: “Ma te lo meriti?” e subito aggiunse: “Vivi la tua storia”. E la nostra prima casa in comune fu questa, la mia, accanto a piazza del Popolo. Poi abbiamo vissuto ai Parioli, poi a via Appennini (nell’abitazione lasciata da mia madre, dove il destino aveva voluto che già fossimo coinquilini quando io avevo 13 anni e lui arrivava atletico ma goffo in piscina, e in ascensore stava a testa bassa), poi a via Flaminia Vecchia, tornando alla fine in quest’attico al centro». Qui Vittorio Gassman aveva per sé uno studiolo che è rimasto impressionantemente uguale, con la scrivania che dà le spalle al finestrone sui tetti di Roma, con le coste dei libri che foderano nello stesso modo lo spazio (Flaubert, Cervantes, Pavese, Hugo, Pound, Diderot, Rabelais, Verlaine, Rousseau, Alfieri, Beckett, Brecht, Camus, Brancati, Brusati, Ce- chov, Eduardo, Goldoni, Ibsen, Molière, Marlowe, Pasolini, Patroni Griffi, Pinter, Pirandello, i tragici greci, Testori, il manuale dell’attore del Morrocchesi, Wilcock, Shakespeare, Strindberg, Goethe ma anche Calvino, Eco, Bioy Casares e centinaia e centinaia di altri). «Ho sempre stimato il latino più del greco. Il greco è musicale, si attaglia perfino alle canzoni. Ma il latino è chiaro e sintetico. Il primo ha fascino, il secondo persuasione»: è uno dei tanti giudizi gassmaniani su lingue e culture che affiorano come Minima Moralia nelle paginette dense di una calligrafia quasi elementare per nitidezza. E ci sono ovviamente i fascicoli con commenti, studi, analisi logiche ed etimologiche dei testi da lui messi in scena. Ma il collezionista avrebbe un brivido fuori catalogo maneggiando l’introvabile suo volumetto Tre tempi di poesia che lui si pubblicò da solo a 19 anni non ancora compiuti, nel 1941, con un trittico di proprie liriche concettuali e sofferte, e prefazione di Luigi Squarzina, già suo amico e sostenitore. Così come ha una veste unica, con fotocopie di un’edizione Lerici e copertina fatta a mano dall’autore, il romanzo breve Luca dei numeri, sempre risalente agli anni Quaranta, con l’intuizione di un personaggio folgorante. Speculari a quelle inquietudini giovanili piene di a Dio Sempre Te chiamo quando tocco il fondo, so il numero a memoria e ti disturbo come un maniaco abbarbicato al telefono; lascio un messaggio se sei fuori. Perdona Perdonami di tutto So che a volte cancelli a qualche fortunato il debito che tutti con te abbiamo La bolletta falla pagare a me, ma dimmi almeno che non farai tagliare la mia linea: ti prego, quando echeggerà quell’ultimo e dolorante squillo, Dio — per Dio! — non staccare: rispondimi! Appunto manoscritto su foglio di carta a quadretti Repubblica Nazionale LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 FOTO DILETTA D’ANDREA DOMENICA 22 GIUGNO 2008 OCCHI CHIUSI Nella foto qui accanto (e in quella di copertina), Vittorio Gassman in un ritratto fotografico di Diletta D’Andrea Tutti i documenti inediti riprodotti in queste pagine, i libri, i manoscritti, le foto (ad eccezione dei tre ritratti di Guido Harari nelle pagine successive), la poesia a Dio, la lettera al figlio Jacopo, sono conservati nell’archivio privato di Diletta D’Andrea e si pubblicano per sua gentile concessione ONIRICO presentimenti, affiorano tra cartelline, faldoni e miniere di annotazioni da cassetto gli interrogativi sulla morte e su Dio, sull’esserci e non esserci più. «Alle tre di notte, quella notte, mi svegliai», rammenta Diletta D’Andrea, «e il medico legale disse che era morto proprio alle tre, e io tutte le notti fino ad oggi non vedo l’ora di andare a dormire perché vado a vivere con lui, perché sento che mi vuole vicino. Lo dice anche Steiner, che il sogno è una dimensione della vita. Lui, Vittorio, in sogno mi dice: sai com’è qua? tutti in fila, con la valigetta, io senza dire chi sono, palazzi alti con tante stanzette, e poi arriva Lui, non parla e ti guarda, e io chiedo di poterti telefonare, faccio il tuo numero, e però poi mi metto a piangere, e attacco». Prepotentemente caricaturato, Gassman troneggia anche nel bagno di casa, dove ben sette suoi ritratti ti occhieggiano da ogni lato, infrangendo ogni intimità. Tutto era a misura sua, tutto era programmato, tutto era messo a punto come un copione a orologeria. Come vari pizzini, ritagli e promemoria documentano. «Progettava l’anno, i mesi, la settimana, la giornata. Se una cosa saltava, si scombinava il resto. Scriveva “Giocare con Jacopo dalle 12,00 alle 12,30”, e lo faceva. Una volta trovai la dicitura “Voluttà”, capii che significava sesso, che mi riguardava, e senza dirglielo gli scombussolai l’orario, divertendomi a confessarglielo dopo. Era ossessionato dagli oggetti, dalle cose, dai conti di casa che teneva di persona lui stesso. Reprimeva con la maniacalità la sua intima tendenza al disordine. Ho cataste di sue pianificazioni, di sceneggiature mai realizzate, di registrazioni di suoi spettacoli, di critiche. Esiste una Fondazione che porta il suo nome, i cui soci fondatori sono la famiglia, Gianni Letta, Walter Veltroni, Carla Fendi, Giovanni Malagò. Spero che arrivi un sostegno pubblico concreto, all’altezza Gassman scriveva, annotava, appuntava ovunque. Qui sopra, sogni trascritti sulle pagine della Settimana Enigmistica: «Faccio una scena di film con Altman (?), comunque uno che crede in me...» dell’impegno che per decenni ha spinto Vittorio a diffondere la cultura del teatro a tu per tu con varie generazioni». Rimarrà invece di dominio privato tutto il mistero del Vittorio Gassman che amava essere vici- “Era ossessionato dagli oggetti, dalle cose, dai conti di casa che teneva lui stesso Reprimeva con la maniacalità la sua intima tendenza al disordine” no agli altri, che mantenne per anni (anche in casa) un ragazzo gravemente mutilato, o che a Volterra passava molto tempo in totale anonimato coi detenuti, o che dava danaro a chiunque glielo chiedesse per lettera. Così come rimarranno sconosciute certe sue angosce. «Cose che lo colpirono e che non hanno riscontro sulla carta: una perdita di qualche tassello della sua sicurezza alla fine degli anni Ottanta, o, all’ultimo, il fatto che il suo Dante televisivo fosse trasmesso all’una di notte». Diletta è però anche depositaria di felicità mai rivelate. «Come quella volta che lui prese a Venezia il Leone alla carriera, e noi al ricevimento eravamo bellissimi, e uno s’avvicinò e disse: “Lei, Gassman, è depresso perché è un templare che ha smarrito lo scopo, e lei (rivolgendosi a me) è una strega buona che lo aiuta, voi siete stati marito e moglie sempre, e lo sarete ancora nei secoli dei secoli”, e Vittorio si girò e sentenziò: “Mi farai diventare piccolo così”, e rise, rise come sapeva fare solo lui». RIFLESSIONI In alto nella pagina di sinistra, riflessioni sparse annotate su un blocco del Pronto Taxi o fogli di quaderno. Il tema qui è la depressione, di cui Gassman soffriva negli ultimi anni della vita: «Meglio la pena che questo vuoto?...» L’ultimo appunto del gruppo, in basso, è il manoscritto della poesia a Dio trascritta qui a sinistra Repubblica Nazionale 46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 GIUGNO 2008 Un uomo normale, segnato dalla perdita del genitore all’età di 14 anni, pronto al divertimento con gli amici, attratto dalle donne belle ma non appariscenti, silenzioso e traboccante di talento. In sette avverbi, FOTO GUIDO HARARI/CONTRASTO la testimonianza del terzogenito Alessandro Ricordo di Vittorio, un padre con cui ridere ALESSANDRO GASSMAN (segue dalla copertina) aratterialmente era una persona lontana dalla sua immagine. Diceva «Sono timido» e tutti ridevano, eppure non era sempre smanioso di protagonismo. Ricordo i nostri viaggi in macchina Roma-Milano senza una parola tranne «Pipì?» e «Panino?». Era un uomo normale, aveva un mondo suo interno e chiuso, e sono convinto che se la sua carriera fosse stata diversa, se Dino Risi gli avesse offerto nel film Il sorpassoil ruolo di Trintignant, lui per indole si sarebbe dimostrato più vicino a quel personaggio. Quando viaggiavamo noi due, io ero più Gassman di lui. Ero l’addetto alla sdrammatizzazione. Era circondato da persone che lo adoravano e assecondavano, ma io alla prima a Genova del Moby Dick con lui che entrava con la banda e le musiche di Piovani, con Daniel Ezralov, e con un argano che lo issava sul porto a esprimere una potenza mostruosa, me ne uscii fuori: «Papà, guarda che se metti anche dei fuochi d’artificio, ti si nota di più», ottenendo che s’abbandonasse a una risarella irrefrenabile. Adorava le caricature che gli facevo, accentuando i lati grotteschi e lividi di cui per primo era cosciente. E aveva le sue incompatibilità. Diceva di odiare tutto ciò che è pittoresco. Al tramonto guardava il mare e non si capacitava di quanto piacesse a tutti il fatto che sull’acqua non succedesse nulla. Non capiva la bellezza della contemplazione della natura, della pura osservazione. Non riceveva emozioni dai quadri, li collezionava ed era ben consigliato, ma le tele che aveva erano per lui più brutte di ogni singolo artista. *** Emotivamente era stato segnato, secondo me, dalla perdita del padre a 14 anni. Un distacco fondamentale, se poi lo commentò dicendo che s’era accorto di poter diventare attore al suo funerale, all’addio a un genitore che non avrebbe più incontrato, e io l’ho spiato nel suo dolore più vero, più profondo, quando facevo il macchinista in Macbeth, e lui a un certo punto piangeva. Ha sempre cercato radici che non conosceva. Insieme, a Firenze, mettemmo in moto una ricerca araldica, e sperava in un barone o un cardinale ma rimase C deluso. Spuntò fuori, e lo si legge anche nel libro scritto da mia sorella Paola, l’esistenza di un Leopold Gassman compositore minore di Salisburgo, maestro di Haydn e in contatto con Mozart e Salieri, uno di cui ho trovato in Austria — dove vicino a Salisburgo ho preso una casetta — due cd con l’operina La contessina su libretto di Goldoni e alcune arie viennesi. * * * Amichevolmente gli ho conosciuto soprattutto la risata con Villaggio e Tognazzi, sempre generosi e affiatati con lui, diversi ma predisposti a volergli bene, semplici ma capaci di viaggiare sulle Facemmo una ricerca araldica. Sperava in un barone o un cardinale, ma trovò solo un musicista minore stesse sintonie. Quanto lo divertivano. * * * Sentimentalmente, al di là di certe esuberanze non parlava di sesso come i maschi, credo avesse preferenze per donne mai appariscenti, per facce belle, per una femminilità tenera da proteggere, e da cui farsi proteggere, donne di una carineria stuzzicante come Diletta, mia madre o la Ferrero. Aveva un atteggiamento moderno nei confronti dell’omosessualità, e ci scherzava, ma era molto rispettoso dei modi d’essere sensibile. * * * Creativamente era un fenomeno, ave- va scritto a 21 anni il romanzetto Luca dei numeri e continuò sempre a dire che era un attore costruito e non naturale, che il suo vero talento sarebbe stato nel fare l’avvocato, e che scrivere gli permetteva di rientrare nel personaggio silenzioso che in fondo era, di esorcizzare i mali della vita (un po’ alla Flaiano), e forse la cosa che a volte m’imbarazzava era il suo parlare di sé, della famiglia, trascinando tutti noi in una variante di Affabulazione, e il «suo» Camper che facemmo assieme si rivelò un tira e molla perché non andasse in profondità, ma d’altronde il piacere di stargli accanto era forte, sempre. Non CAPOTRIBÙ Qui sopra, Gassman con il figlio Alessandro A sinistra, con Alessandro, Jacopo e l’attrice Sabrina Knaflitz, che diventerà la moglie di Alessandro Nella foto a colori a destra, Gassman con la moglie Diletta D’Andrea e Jacopo neonato SU REPUBBLICA TV VITA E PENSIERI Il video a cura di Giulia Santerini con gli scritti inediti di Vittorio Gassman e la “Dark Room”, intervista “in nero” ad Alessandro Gassman da oggi online su Repubblica Tv (www.tv.repubblica.it) Qui sopra, due pagine da un quaderno Smemoranda a copertina blu, a righe, dal contenuto più disparato Negli appunti qui riprodotti, si va da note di lettura su Schopenhauer («Ho riletto con piacere in un passo di Schopenhauer...»), ad appunti autobiografici («Il bordello non mi ha mai attirato molto. Ho dovuto frequentarlo un poco da giovane, quando giocavo a pallacanestro...»), all’onnipresente tema della depressione («Il depresso si scambierebbe volentieri con un imbecille sereno...») Repubblica Nazionale DOMENICA 22 GIUGNO 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47 RITRATTI Nelle tre foto grandi a sinistra, Vittorio Gassman in tre ritratti di Guido Harari. «Era una persona lontana dalla sua immagine», scrive in questa pagina il figlio Alessandro. «Diceva “sono timido” e tutti ridevano, eppure non era sempre smanioso di protagonismo» In questa lettera del luglio 1999 a Jacopo, il più piccolo, l’attore descrive quel che hanno in comune i “Gassman doc” VITTORIO GASSMAN T una questione di contatto fisico, perché anzi da lui ho ereditato un rifiuto verso le persone che ti toccano troppo. * * * Affettivamente oggi è presente davanti a me quando leggo, mi riappare nei libri, soprattutto scorro un testo di Bernhard cui mio padre assomigliava per la lotta al pressappochismo e alla mediocrità. Preferiva che si recitasse male piuttosto che benino. Non mi capita più di incontrare uno come lui. Mi manca perché faceva lo stesso mio mestiere ma mi manca soprattutto per la sua dolcezza, per la sua figura di mostro dal cuore tenero che io soprannominavo «la Cosa». ALPÀGO, 30 LUGLIO ‘99 i risparmio il «caro Jaco», che ne dici? È una formula vecchia, priva di quell’ironia un po’ ribelle che dà sapore ai nostri colloquî. È soprattutto riduttiva. Ti preciso invece il menù che stasera mi regalo qui, agli 850 metri del Dolada di Alpago, raffinatissima casa-restaurant e tappa di qualche giorno prima di issare i miei pigri polmoni verso le alture di Cortina: salmone al finocchietto con purea di mele e ràfano; genziane all’astice tartufato di Norcia; agnello pagottino in salsa d’anice; mela glassata con sorbetto di castagna. Vini? al livello, of course. Come minimo, un Sauvignon Alteni di Bràssica e un Amarone Monte Olmi del ‘95. [...] Al piano di sopra, in un angolo della mia cameretta, ho un televisore vecchiarello che a tratti s’interrompe con educazione proteggendomi dalle cazzate degli anchor-men, dei quiz, delle zingare e dei coatti di rito. È — come dire — quasi troppo; forse il Paradiso esiste davvero, come sostiene non mi ricordo quale incallito porporato; esiste assomiglia a questa locanda profumata di leccornie, di aromi e di inusitati silenzî. «Un po’ pallosa, anche...» suggerirai con acume. Ma non lo è, appunto, anche il Paradiso? Alla lunga — intendo — tutto quello svolazzare di angeli bianco vestiti e i concerti pomeridiani obbligatori a base di Bach e Haendel e le meditazioni, le estasi... No, il Paradiso non è mai stato il mio traguardo definitivo; sei o sette giorni, semmai, come qui al Dolada. Ancora più sconsigliabile è l’Inferno (perdonami se in queste mie letterine indulgerò per dovere e abitudine a una succinta serie di consigli e sconsigli). L’Inferno proprio no: come dice Flajano, è una residenza pessima, caratterizzata da cucina dozzinale, picconate nel culo e soprattutto una «maggioranza di italiani che rompono i coglioni agli altri». Per eliminazione non resta che il Purgatorio, il quale — se ci pensi bene — si propone come quel naturale proseguimento della vita a cui, non voi ragazzi, ma certo noi vegliardi cautamente aspiriamo. Ecco, il pranzo volge al termine, al tavolo accanto due anziani turisti inglesi riassumono la loro soddisfazione in una deliziosa sequela di mugolii e ruttini, più in là una coppietta palesemente clandestina di Belluno o Treviso si attarda su un’ultima “ombra” di vin santo. E io sento scattare nel mio profondo la trappola antica della timidezza, mi chiedo se avrò il coraggio di lasciare il tavolo per primo, affrontare lo slalom che mi porti all’uscita, fra gli sguardi sia pur distratti dei commensali... Non mi dilungo; tu, Jacopo, li conosci bene, no?, questi brividi del disagio incongruo che venano — non del tutto spiacevolmente, bada — i più comuni eventi della nostra quotidianità. [...] Dai, confessa, sotto que- “Cari figli miei forzuti e fragili proprio come me” FAMIGLIA E LAVORO Qui sopra, alcuni scritti intimi indirizzati ai famigliari Dall’alto, la scherzosa domanda di matrimonio a Diletta D’Andrea dell’ottobre 1970 (le nozze avverranno nel dicembre di quell’anno); una poesia alla moglie, su carta intestata, datata 8 febbraio 1998; un testo dedicato all’ultimogenito Jacopo, «figlio finale magico, figlio dei prodigi». Seguono la satirica «formula di commiato» Ex pectore («Lo so, vi ho molto rotto i coglioni...») e una pagina di quaderno rivolta a Carmelo Bene: «Ciao, Carmelo, mi piacerebbe un giorno rifare una chiacchierata con te...» sto profilo sei anche tu un Gassman doc, forzuto e fragilissimo, virile e complessato insieme. Tutti i miei figli lo sono, anche se grazie al cielo sembrate tutti attrezzati a vincere la vita. A proposito, ti sono piaciuti i canguri nel tuo attuale viaggio in Australia? O magari li hai trovati deludenti sul piano culturale? [...] Tua sorella Paola porta con eleganza decine di filtri e griglie difensive, l’ho vista liberarsene solo le due o tre volte che mi è riuscito di sbronzarla. Vittoria ha fatto a pezzi un bel mucchietto di psicoanalisti, e ha preso due brillanti quanto inconciliabili lauree: la prima in Lettere, per poi scoprire che gli alunni a cui insegnava le facevano un po’ senso; la seconda in Medicina, ma subito si è accorta che in realtà trova faticosi i malati (ora ha risolto, prepara alla professione i medici principianti. E innoverà la medicina del globo). Alessandro... Che dire di Alessandro? È bravo e simpatico, piace alle donne in modo vergognoso: ma sogna di fare l’agricoltore, e ha paura delle oche (sic!). Su Emanuele e il suo mix di forza e vulnerabilità, l’altalena di sfida e affetto che lo lega a me, il discorso si farebbe lungo [...]. Ma Emanuele — come te del resto — ha una madre che funge egregiamente da correttivo, tanto che se si degnerà le cederemo l’ultimissima parola. Io ho avuto un iter coniugale piuttosto variegato, ma non ho mai osato l’incesto; quindi Diletta è proprio di sangue diverso, ed è cosa buona perché la sua salute razionale ci protegge tutti, abbiamo in casa ciò che occorre per delle eccellenti trasfusioni. [...] Ogni tanto, è chiaro, dovremmo normalizzarci un tantino, giusto per non compromettere la salute. Che so, se durante il tuo viaggio, invece di snobbare i canguri per le loro carenze intellettuali, te ne fossi allegramente ingroppato uno (una, va, una bella aussie dai fianchi prosperosi!) mi renderesti davvero felice. Quanto a me, nella prossima missiva vedrò di eliminare un po’ di parentesi, trattini, puntini e parabole elucubrate. Ti stringo forte papà Ah, dimenticavo. Per questo che forse tra due o dieci anni potrebbe diventare un libro, avrei già trovato due editori intenzionati a stamparlo. Paraculi da niente, questi Gassman! Repubblica Nazionale 48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 GIUGNO 2008 i sapori Coniugare ricerca sperimentale e pratica culinaria è un’idea antichissima. Ma oggi i geniali allievi della scuola di Adriá hanno talmente raffinato strumenti e tecniche che cibi e alimenti si trasformano in forme mai viste. Come il gelato estemporaneo all’azoto liquido, Nuovi menù la pasta senza farina o la maionese senza uova Cucina d’avanguardia Liofilizzati LICIA GRANELLO Grazie alla tecnica di sottrazione dell’acqua dagli ingredienti base, si ottengono cubetti o granulati che mantengono profumo, sapore e colore originari, senza additivi aggiunti Servono a impreziosire insalate, gelati, cioccolatini Si possono reidratare «I Alginato Si estrae da alghe (Luminaria, Fucus, Macrocystic…) che crescono nelle aree delle acque fredde di Gran Bretagna, Americhe e Nuova Zelanda. Reagendo con un sale di calcio, forma una pellicola che avvolge, rendendoli sferici, creme liquide e succhi di frutta Agar-agar Il giapponese kanten è un gelificante ottenuto da un’alga rossa diffusa nei mari orientali Rispetto alla classica colla di pesce, resiste fino a ottanta gradi (a patto di non usare ingredienti acidi) permettendo la realizzazione di gelatine ed emulsioni calde n sé, l’idea di coniugare ricerca scientifica e pratiche di cucina non è affatto nuova: il grande classico di Pellegrino Artusi, monumento della cucina domestica italiana, non si intitola forse La scienza in cucina?». Il professor Massimo Montanari, illustre storico dell’alimentazione e ideatore della Festa Artusiana (in programma questa settimana a Forlimpopoli), promuove senza dubbi di sorta ricerca e sperimentazione in ambito culinario. In principio, si chiamò «cucina molecolare». Non voleva testimoniare null’altro che l’esigenza scientifica di investigare le trasformazioni degli alimenti in seguito a cotture, marinature, conservazioni. La caramellizzazione da frittura sopra i 140 gradi, nota come reazione di Maillard, è un esempio perfetto di cucina molecolare. Davide Cassi, il fisico parmigiano autore de Il gelato estemporaneo (insieme al cuoco Ettore Bocchia) ha ritrovato diari di inizio Novecento in cui gli scienziati raccontavano il divertimento di fare il gelato con l’azoto liquido tra un esperimento e l’altro. Proprio il fumo dell’azoto raffreddato a -196 gradi nella realizzazione di praline, creme gelate e insalate croccanti, ha trasformato agli occhi dei clienti chef e pasticcieri in tanti piccoli Mago Merlino. La scarsa informazione ha fatto il resto, ricreando sotto il cielo della cucina contemporanea la frattura che vent’anni fa divideva fautori di Sacchi e difensori di Trapattoni. Amanti dei bucatini all’amatriciana guardano con orrore i frequentatori degli alginati, mentre in realtà eguali dovrebbero essere i desiderata: esaltazione delle materie prime, scoperta di sapori nuovi, adeguamento della cucina alle esigenze della quotidianità. La vera differenza sta nei modi: si può ripetere pedissequamente il ricettario d’antàn o provare soluzioni differenti, che si parli di tecniche o di nuove (solo apparentemente, in molti casi) sostanze. Una ricerca continua che vanta un merito ulteriore: quello di superare l’impasse delle sempre più numerose patologie legate all’alimentazione. Per esempio, Carlo Cracco ha scoperto come cambiare consistenza al tuorlo per stenderlo a mo’ di sfoglia e farne una meravigliosa pasta senza farina (per la felicità dei celiaci), grazie a una particolare marinatura in sale e zucchero. Una tecnica messa a punto dopo aver sprecato alcune centinaia di uova. «Per fortuna costano poco!», ama spiegare ai Erbe selvatiche, cappesante, aceto balsamico Il piatto godurioso creato dallo chef marchigiano Mauro Uliassi. Rifinitura con sale nero, ottenuto disidratando in camera d’essiccazione acqua d’alto mare tinta col nero di seppia, poi frantumata in scagliette Lezione di fisica Il ristorante diventa laboratorio commensali basiti dal gusto dei suoi spaghetti di solo rosso alla carbonara. Al contrario, lecitina di soia e agar-agar permettono di elaborare maionesi e zabaioni senza un grammo d’uovo, altro alimento a rischio. Senza farina anche le tagliatelle fredde di Oliver Glowig: dopo aver aromatizzato il latte con una marinatura calda di mozzarelline affumicate, basta una piccola aggiunta di gelatinizzante e un’adeguata refrigerazione per ottenere una liscissima, consistente mattonella di latte affumicato da tagliare con un coltellino affilato per farne un gomitolo di pasta golosissima. Altro capitolo, quello degli strumenti, tra la riscoperta di quelli iper-classici come il sifone — con cui fare delle sfiziose mousse dolci o salate senza panna — e l’invenzione di super-mantecatori, forni a lenta essiccazione, termostati per lente cotture sottovuoto al vapore, fino alle siringhe multiple con cui formare micro-palline sferificate, per arricchire di rhum o gin i cocktail, o di polpa di frutta i dessert. Il problema è quando polveri e utensili vengono usati come scorciatoie per improvvisare una cucina étonnante. Così, quelli di Selecta, la società bolognese che distribuisce i kit di additivi naturali messi a punto al Taller — il laboratorio-atelier barcellonese dei fratelli Adriá — supportano la vendita ai ristoratori con educational e seminari, proprio come fanno gli Adriá in Spagna. Chi non teme i ragionatissimi azzardi della miglior cucina d’avanguardia, si lasci guidare dai passaparola dei gourmet più curiosi: dal gelato di fegato grasso del milanese Giancarlo Morelli, al Giardino Zen di Loretta Fanella, sarà una bellissima estate di stupori&sapori. Repubblica Nazionale DOMENICA 22 GIUGNO 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49 Ravioli di zucca con calamari Ventresca di ricciola con carbone di nero di seppia Passata fredda di lattuga Uovo, pomodoro, parmigiano e limone Il sottobosco Carlo Cracco Cracco, Milano Ricetta inusuale e fascinosa per i ravioli di pasta, farciti di purea di zucca, e cotti a secco in una pentola a doppio fondo con rosmarino rovente Profumo d’incenso e gusto morbido, arricchito da grani di senape e piccoli calamari Pino Cuttaia La Madia, Licata, Agrigento Sdoganati da semplice colorante, i sacchettini di nero di seppia, essiccati e profumati con olio affumicato al timo, hanno la consistenza di una meringa, dal sapore minerale e salmastro Si sposano con la ventresca di ricciola cotta a bassa temperatura Oliver Glowig Capri Palace, Anacapri Piatto simbolo dell’estate mediterranea, quello di Oliver Glowig, serio e creativo chef tedesco (con moglie caprese) del Capri Palace, di Anacapri La passata fredda di lattuga si sposa benissimo con scampi crudi e tagliatelle di latte affumicato Nico Romito Il Reale, Rivisondoli, L’Aquila Un gioco di rimandi. L’uovo, infornato un’ora a 61 gradi e raffreddato per bloccare la cottura delle proteine, viene servito a 55 gradi con mousse di parmigiano fredda, cialda di pane croccante, pomodoro candito al timo e limone Loretta Fanella Enoteca Pinchiorri, Firenze La pasticciera allieva di Cracco e Adrià ricompone il bosco con una base di yogurt su cui fioriscono marmellata di mirtilli, briciole di caramella mentolata, gelato, biscotto al tè verde, germogli, fiori, funghetti di meringa, tronco e gelatina di cioccolato Sono un cuoco, non uno scienziato rifiuto l’etichetta “molecolare” FERRAN ADRIÁ e devo dar retta alle domande che spesso mi fanno nelle interviste, tutto il mondo culinario mi considera il pioniere, o il creatore, o il massimo rappresentante della cucina molecolare. Non esagero se dico che in nove interviste su dieci si fa riferimento a questo fatto, benché in realtà non abbia mai detto nulla al riguardo né, ovviamente, ritengo che la mia cucina sia “molecolare”. Per questo vorrei mettere per iscritto le mie opinioni su questo argomento. Prima di tutto, però, ci tengo molto a ricordare che il lavoro degli scienziati merita il più grande rispetto e la massima ammirazione, perché realizzano da secoli un lavoro di enorme serietà, per cui sarebbe imperdonabile perdersi in argomentazioni frivole. Il termine “cucina molecolare” fu preceduto da un altro, quello di “gastronomia molecolare”. Verso la metà degli anni Ottanta, diversi scienziati appassionati di gastronomia (Nicholas Kurti, Harold McGee e Hervé This tra gli altri) cominciarono a interessarsi ai processi fisici e chimici che avevano luogo in cucina. Si trattava di un movimento che voleva spiegare il perché di queste reazioni, e al quale diedero il nome di “gastronomia molecolare”. Di fatto, si trattava di una pratica corrente da decenni nell’industria alimentare, ma in questo c’era una novità fondamentale, e cioè che si concentrava sulla cucina. Divulgarono le loro ricerche e le pubblicarono anche con successo, ma, salvo rare occasioni, non ci fu purtroppo alcun rapporto con i grandi cuochi. Dobbiamo mettere le cose nel loro contesto. La gastronomia molecolare non ha mai fatto alcuna ricerca su quanto oggi fa la differenza tra la cucina di dieci anni fa e quella odierna, a partire dai nuovi idrocoloidi (addensanti, gelificanti, emulsionanti, ecc). Affermare che l’uso di questi prodotti sia cucina molecolare è un’operazione volta solo a confondere il pubblico, esattamente come affermare che un cuoco elabora una spuma o un gelato salato obbedendo a una ragione scientifica. Nel nostro caso, fino al 2003 i nostri contatti con il mondo scientifico sono stati sporadici, conoscendo Harold McGee e Hervé This solo grazie a qualche congresso. Perciò, non possiamo dire che le nostre creazioni — nate a partire da una ricerca prettamente culinaria — hanno avuto un appoggio scientifico. Per fare un altro esempio, quando nel 1998 abbiamo scoperto che l’agar-agar poteva sopportare delle temperature molto alte e abbiamo creato la gelatina calda, questa scoperta si fondava puramente sull’osservazione, senza alcuna base scientifica. A partire dal 2003 abbiamo cominciato a collaborare con Pere Castells, scienziato e amante della gastronomia. Questo ci ha portato a creare la “Fundación Alicia”, che si dedica alla ricerca gastronomica e alla diffusione di abitudini alimentari salutari (per esempio, abbiamo fatto scuola di cucina per trecento bambini fra i tre e i dodici anni). Con Pere abbiamo realizzato ciò che avevamo già tentato tante volte con altri scienziati, ovvero stabilire un dialogo e un sistema di lavoro. Abbiamo lavorato molto seriamente per un anno e mezzo, rendendoci conto di quanto sia difficile stabilire questo dialogo. Tra i frutti concreti di questa collaborazione c’è, per esempio, la pubblicazione del Léxico Científico Gastronómico, uno strumento con il quale abbiamo cercato di creare un ponte tra i due mondi. Ma torniamo al mio ruolo di “pioniere” della cucina molecolare. Su questo devo essere radicale: credo si tratti soltanto di un’operazione di marketing. Non possiamo confondere il pubblico, affermando che la cucina molecolare è un tipo di cucina. In effetti, per quanto si vogliano conoscere i processi scientifici che si verificano in cucina, si tratta di due cose diverse. La ricerca rappresenta un contributo importante del cucinare, perché cucinare significa conoscere — la storia, le tecniche, i prodotti, la tradizione e la modernità, i processi culinari — pensare, sperimentare, riflettere, scegliere e anche fare ricerca scientifica. Se per raggiungere il risultato finale è necessario consultare la scienza, o studiare libri di storia o di qualsiasi altra disciplina creativa, ben venga: si tratta di una conoscenza in più, che va ad aggiungersi alla nostra filosofia di cucina. Questa confusione è stata uno dei motivi che ci hanno spinto a redigere la Síntesis de nuestra cocina: ventitré argomentazioni con cui abbiamo tentato di definire il nostro modo di intendere e di praticare la cucina. Questa sintesi ci è stata utile per molte cose: per esempio, ci ha aiutato a capire che il ruolo della ricerca e della scienza, pur essendo importante, si limita a uno solo dei ventitré punti che la compongono. La cucina è di più, o è un’altra cosa. Se qualche cuoco vuole definire il suo lavoro “cucina molecolare”, è libero di farlo. Ma non è il caso nostro. S L’APPUNTAMENTO Appuntamento super goloso oggi a Fontanellato (Parma) alla Rocca Sanvitale. In programma il campionato internazionale di gelato estemporaneo. Protagonista l’azoto liquido abbattuto a –196 gradi Le basi crema o frutta così raffreddate e mantecate assumono una consistenza più setosa e aromatica della preparazione normale A supervisionare il premio, aperto a gelatieri e semplici appassionati, Davide Cassi, docente di Fisica della materia all’Università di Parma e gastronomo Traduzione di Luis Moriones Venezia itinerari Il talentuoso Enrico Bartolini – chef-patron de “Le Robinie”, di Montescano, Pavia – la settimana scorsa ha deliziato gli ospiti della “Festa a Vico” con la crema bruciata montata al sifone, meringhe alla lavanda, ciliegie candite e sorbetto di mirtilli Bologna Roma Protagonista della nuova stagione dei grandi ristoranti d’albergo, lo chef stellato Corrado Fasolato propone una cucina piena di sapori e fantasia Tra i suoi piatti più riusciti, il risotto mantecato al cocco con scampi crudi e schiuma al cren Dopo anni di immobilismo gastronomico, la città gode delle nuove idee di cuochi come Marco Fadiga, Mario Ferrara, Gianluca Esposito, Massimiliano Poggi Qualche chilometro più in là, i fratelli Leoni primeggiano in creatività Nel cuore storico di una città in perenne ondeggiamento fra tradizione e nuove spinte gourmand, Anthony Genovese delizia i suoi clienti con piatti affascinanti: strepitosi i suoi gnocchi alle ostriche con emulsione di burrata DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE ALLE FONDAMENTE NUOVE Cannaregio 5086 Tel. 041-5289997 Camera doppia da 70 euro, colazione inclusa BLUE ANGEL B&B Via San Vitale 126 Tel. 051-231008 Camera doppia da 60 euro, colazione inclusa ANTICA LOCANDA Via del Boschetto 84 Tel. 06-484894 Camera doppia da 115 euro, colazione inclusa DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE MET DEL METROPOLE HOTEL Riva degli Schiavoni 4149 Tel. 041-5205044 Chiuso lunedì, menù da 70 euro IL SOLE via Lame 67, Trebbo di Reno Tel. 051-700102 Chiuso sab. a pranzo e dom., menù da 60 euro IL PAGLIACCIO Via dei Banchi Vecchi 129a Tel. 06-68809595 Chiuso lun. e mart. a pranzo, menù da 65 euro Repubblica Nazionale DOMENICA 22 GIUGNO 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51 le tendenze Non solo moda COMPAGNI DI SCUOLA LA MOSTRA IL PROFUMO Viktor Horsting e Rolf Snoeren, i due stilisti olandesi, si incontrano nel 1988 alla scuola d’arte e iniziano a lavorare in team nel 1993 dopo aver vinto un concorso di moda The House of Viktor & Rolf al Barbican di Londra fino al 21 settembre, ripercorre quindici anni di carriera. Gli abiti sono stati riadattati per 111 bambole Flowerbomb è il secondo profumo della maison prodotto nel 2004, sei anni dopo Le parfum La bottiglia a forma di granata è stata disegnata da Fabien Baron 2000-01 2003-04 2001-02 2005-06 Ann Catherine Lacroix indossa un modello di Bells, la quinta collezione di alta moda Douglas Coupland, autore di Generation X, scrisse il programma Fu l’attrice inglese Tilda Swinton la protagonista della passerella di presentazione della collezione autunno-inverno One Woman Show Un modello della collezione autunno-inverno Black Hole, la più funesta e sinistra di V&R: «Abbiamo messo in scena la nostra depressione» In passerella uno degli abiti simbolo della celebre collezione Bedtime Stories La rockeuse Tori Amos accompagnò la sfilata di V&R suonando il pianoforte GIUSEPPE VIDETTI L LONDRA e bambole ruotano su se stesse nella loro casa palladiana foderata di silenzio. All’esterno altre bambole, a grandezza naturale, indossano, come le più piccole, creazioni che il duo di stilisti olandesi Viktor & Rolf hanno collezionato in quindici anni di carriera. L’atmosfera è inquietante, a tratti terrificante, tra quelle creature dai volti paffuti in perfetto biscuit vittoriano agghindate con postmoderna opulenza. Uno immagina che nottetempo, quando lo spazio resta chiuso ai visitatori, queste repliche prendano vita e ingaggino una cruenta lotta per il primato dell’eleganza lasciando ai guardiani, la mattina dopo, l’orrore di scoprire membra in cartapesta divelte e chiome sparse sul pavimento e bulbi che ciondolano fuori delle orbite. In realtà, in casa di Viktor & Rolf tutto è perfetto e questa è solo una trovata, l’ultima, degli stilisti olandesi per battezzare il loro ingresso ufficiale nel mondo dell’arte. The House of Viktor & Rolf, in mostra al Barbican di Londra fino al 21 settembre, non è solo la celebrazione di una carriera che si esalta tra lusso e avanguardia, ma anche il modo per ribadire che quel marchio ha sempre prodotto idee sulla base di una meticolosa e concettuale progettazione. Lunga vita all’immaterialità, è il motto di Rolf Snoeren e Viktor Horsting, 39 anni, ex allievi della Arnhem Academy of Art and Design, dove si laurearono nel 1992. L’anno dopo vinsero il concorso di moda a Hyères, in Francia, realizzando un abito sontuoso e ardito per materiale e lavorazione qui indossato dalla prima delle 111 bambole (54 alte sessanta centimetri e 47 a misura d’uomo), una sorta di opima e truce guardiana della casa a tre piani progettata dall’architetto olandese Siebe Tettero, che ha anche firmato la surrealistica boutique di Milano. «Questa mostra è il coronamento delle nostre ambizioni», esordisce Horsting. «Volevamo offrire qualcosa di più di una serie di immagini che riunisse in un unico spazio tutte le nostre collezioni, creare qualcosa di nuovo», incalza Snoeren. «Ed ecco, allora, l’idea di una gigantesca casa di bambola. Così, in miniatura, è più facile comprendere che tutto il lavoro che abbiamo fatto in passato è legato da un filo conduttore». Come Kraftwerk del fashion business, i due lavorano in perfetta sintonia «nel vuoto dello studio di Amsterdam, al riparo da glamour e mondanità». Lì orchestrano con matematica precisione un 2007-08 La collezione The Fashion Show: modelle in scena con il loro light & sound system «Volevamo ribadire che le sfilate sono il nostro manifesto», dicono V&R universo-moda con il quale occasionalmente altri artisti si mettono in sintonia: l’attrice Tilda Swindon, che ha i colori di queste bambole; la rockeuse Tori Amos, che ha creato le musiche per un loro fashion show; il cantautore Rufus Wainwright, che indossava V&R nello spettacolo dedicato a Judy Garland. Solo professionisti con il gusto del rischio e dell’invenzione potevano cimentarsi in un megaprogetto come questo. «Per ricreare tutti gli abiti in scala più piccola c’è voluto un anno e mezzo», spiega Viktor. «In alcuni casi anche le stoffe sono state ritessute. Riducendo i formati, è stato possibile catturare l’attenzione sulle creazioni e sull’idea che c’è dietro il vestito invece che sulla modella che lo indossa. Per noi c’è sempre stata un distinzione netta tra la passerella e la vita di tutti i giorni. Piuttosto che suggerire alla donna un modo di vestire, preferiamo usare le sfilate come una clamorosa dichiarazione d’intenti dalla quale sviluppare una o più collezioni». Bambole rock e principesse prova d’artista su passerella Ogni fashion show un colpo di scena: Bomba atomica, Bambola russa, fino al trionfo della haute couture, l’abito da sposa realizzato nel 2004 per una vera principessa, Mabel van Oranje-Nassau. «Abbiamo sempre voluto fare qualcosa che andasse al di là della moda stessa», precisa Rolf. «Un approccio alla Andy Warhol per essere dentro e contemporaneamente fuori dal sistema. All’inizio, per noi, la moda era un mondo di fantasia, tutto bello, perfetto, diverso dalla monotonia del quotidiano. Ancora oggi, in ogni collezione, cerchiamo di ricreare, di visualizzare quella emozione e, allo stesso tempo, di proporre qualcosa d’inedito. Warhol è uno dei nostri idoli, insieme a Mr. Saint Laurent, che è riuscito a creare un mondo che andava al di là degli abiti, con un’aura di mistero che trovavamo irresistibile, e Capucci, il sublime couturier». Si sono resi conto del potere commerciale delle loro invenzioni quando L’Oréal ha offerto loro un contratto. «Avere un profumo nei duty free dà molte certezze», ammettono. «Viktor & Rolf non sono come tanti stilisti ai quali puoi proporre una fragranza che accettano senza riserve», racconta Olivier Polge, il “naso” che ha costruito in laboratorio Flowerbomb, il secondo profumo della maison. «Sanno quel che vogliono e non approvano finché ogni dettaglio non è all’altezza delle loro aspettative». «La nostra ambizione», concludono gli stilisti, «è di riuscire a perfezionare anche l’aspetto finanziario della casa per far diventare V&R il marchio top tra i prodotti di lusso del Ventunesimo secolo». Sono sulla scena da soli quindici anni ma, dall’Olanda da dove sono partiti, hanno conquistato il mondo Le loro collezioni influenzano musicisti e cantanti, ogni sfilata è un evento. Ora il Barbican di Londra ha aperto le porte per un allestimento delle loro creazioni. E V&R hanno stupito tutti ancora una volta Repubblica Nazionale 52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 GIUGNO 2008 l’incontro È stato poliziotto bastardo, eroe confuso, ragazzaccio disadattato In realtà è un romano dal cuore tenero. È protagonista di due film nelle sale, un terzo è in uscita per la regia di Ozpetek Lui non si scompone: “Preferisco”, dice, “essere una persona felice piuttosto che un grande attore” Una cosa non gli è mai riuscita: imparare a nuotare. Ma non è un gran problema: “Tanto alla fine in luglio e agosto lavoro sempre” Falsi duri Valerio Mastandrea gio sulle morti bianche, Trevirgolasette, con Elio Germano come protagonista. E, anche in questo caso, un grande impegno. «Il lavoro è sacro e va onorato, quello che faccio deve essere sempre al meglio. Nonostante ciò ho fatto tante cazzate, ma le rifarei, perché ho imparato anche dagli errori». Le parti che i registi riservano a Mastandrea sono sempre al limite tra cattiveria, confusione e disordine sociale. Senza punti di riferimento. Però, quando interpreta ruoli da duro, sembra non riuscire a essere cattivo sino in fondo. In qualche modo si ribella al peggio di se stesso. Come succede in L’odore della notte di Claudio Caligari, dove è il boss di una piccola banda di periferia con un’improvvisa crisi di coscienza. «Io sono un acquario ascendente vergine e, del mio segno zodiacale, ho ereditato in pieno la poca indulgenza verso me stesso e un forte autocontrollo. I miei amici mi chiamano “il saggio” o “don Valerio”, perché sono quello che si lascia meno andare». Non necessariamente un pregio, anzi. Per fortuna fare l’attore è terapeutico. «Recitare ruoli differenti per- Il teatro è come la casa al mare: richiede tanta cura, ci spendi molti soldi per la manutenzione ma alla fine sei contento perché ti serve per ricarburarti FOTO GRAZIA NERI U no dei suoi film più noti è quello in cui non ha mai recitato. A distanza di tre anni, ancora, qualcuno lo ferma per la strada e gli fa i complimenti per l’ottima interpretazione in Romanzo criminale. Chissà per quale motivo tanti spettatori lo hanno immaginato, fino a crederci veramente, come protagonista di quel film. Sarà perché Romanzo criminale è un film su Roma. E quando lui, in un sabato mattina d’inizio estate, arriva nel quartiere Garbatella, la piazza si accende. L’asfalto liquido riflette come uno specchio la sua camminata vivace. Lo storico teatro Palladium, sonnacchioso per il giorno di festa, si risveglia e apre il grande portone come per dargli il benvenuto. Sembra fargli l’occhiolino. Il meccanico gli parla dell’ultimo modello di motocicletta, il vecchietto del bar gli racconta una disavventura, il giornalaio l’apostrofa: “’A Valè!”. Lui risponde a tutti. Sorride morbido. Fluido con la sua città. Perché Valerio Mastandrea è decisamente romano. Anche se la sua è una versione moderna ed edulcorata della romanità: pigra ma gentile. Mai sbruffona. Involontariamente comica. Triste e dolce insieme. Proprio lui che in tanti film è stato poliziotto bastardo, eroe confuso, ragazzaccio disadattato, è nella vita un equilibrato. Questo equilibrio, sostiene mentre si accende l’ennesima sigaretta, gli deriva dal buon rapporto con le donne. Soprattutto quelle che lo hanno allevato: la mamma femminista ma, sopra ogni altra, la nonna. Tormenta un giornale con il pennarello, come per trovare la concentrazione, e spiega: «Tutta la violenza di cui si parla nei confronti delle donne è frutto della paura di conoscerle, di questa grossa fatica dell’identità maschile di affermarsi nel lavoro e nella famiglia. Per gli uomini è difficile assumere un ruolo ma è ancora più atroce perderlo e vivono un’impotenza sociale». Milioni di persone, per l’incapacità di essere in due, vivono senza partner fingendo che sia una scelta. Altrettante coppie si sbriciolano generando dolore. «I ragazzi della mia generazione sono soli per impossibilità di comprendere le donne». Sono proprio questi, in fondo, i temi di Un giorno perfetto, il film di Ferzan Ozpetek che uscirà nei prossimi mesi con Valerio protagonista. L’attore interpreta un marito lasciato che deve fare i conti con una donna dell’ultima generazione. Nel frattempo, nelle sale cinematografiche, ci sono Tutta la vita davanti di Virzì e Non pensarci di Zanasi. In entrambi i casi Mastandrea è un eroe un po’ sgangherato che ha a che fare con una realtà più sgangherata di lui. Nel mese di luglio, invece, inizierà le riprese del film di Giuseppe Piccioni che interpreterà con Valeria Golino. È un lavoratore Mastandrea. Un soldato del set. Poi, come tutti, ha le sue pause. I tempi morti tra un ciak e l’altro. Quei momenti li impegna per ritrovarsi. Per vivere una vita normale: pagare le multe, andare dal dentista, dormire sino a tardi. Non sembra soffrire dell’ansia tipica degli attori. Di quel troppo vuoto e troppo pieno che è il ricorrente incubo di chi fa parte del cinema o del teatro. Della sfrenata nevrosi da tempo liquido. «Mi restituisce un sano equilibrio prendermi cura di me e realizzare quelle cose che, quando sono sul set, devo trascurare. Credo che la mia forza stia nel fatto che preferisco essere una persona felice piuttosto che un grande attore». Eppure sono in molti, tra il pubblico e i critici, a considerarlo un grande. In teatro come nel cinema. Due realtà tra cui si divide benissimo. «Il cinema è cinema come diceva Franco Citti a Pasolini». Il teatro è costruzione, metodo. «Il teatro è come la casa al mare: richiede tanta cura, ci spendi parecchi soldi per la manutenzione ma alla fine sei contento perché ti serve per ricarburarti». Due modi di esprimersi diversi ma ugualmente importanti anche se, forse, gli occhi brillano di più quando dice: «La verità è che il cinema è mito». Il set e il palcoscenico Valerio li affronta con una sua disciplina. Ha anche interpretato Rugantino in un musical dove, per duecentocinquanta repliche, ha cantato e ballato. «Sono un autodidatta e questo ha avuto i suoi svantaggi, che cerco di compensare con un forte senso di abnegazione. La mia carriera è iniziata quando, a diciannove anni, sono voluto andare al Maurizio Costanzo show perché avevo qualcosa da dire e sentivo l’urgenza di apparire». Il primo incontro con la telecamera è stato devastante. Un caos emotivo. Entropia allo stato puro: «Mi nascondevo le mani con le maniche del golf, un tic nervoso, perché mi vergognavo. Ma poi ho deciso di affrontare la telecamera con sincerità e questo, da allora, è il mio pregio e il mio difetto». Ultimamente, poi, il primo passo dietro la telecamera come regista. Un cortometrag- mette di accettare metaforicamente delle parti di se stesso. Io, per esempio, sto cercando d’imparare ad essere più indulgente. Prima quelli che si sanno perdonare li guardavo con disprezzo, ora li ammiro. Ai tempi della scuola leggevo la Divina Commediae confondevo l’indulgenza con l’ignavia. Adesso ho capito che è una grande risorsa». Uno dei personaggi che somigliano di più a Valerio è tra i protagonisti di un film di dieci anni fa: Tutti giù per terradi Davide Ferrario. Un ribelle che attribuisce a se stesso tutte le cause del suo malessere. Un disadattato ma in fondo un puro. Perché Mastandrea questa storia della purezza ce l’ha nella pelle. Su un braccio si è persino fatto tatuare la scritta «Tutto è puro per i puri». «Un errore di gioventù», ride, ma in fondo è contento di averlo fatto. Anche L’orizzonte degli eventi di Daniele Vicariha lasciato il segno: «Era un film sulla piccolezza e la pochezza di un uomo e mi ha lavorato dentro». Le sfide gli piacciono, soprattutto quelle oneste. «L’onestà è il mio difetto e il pregio più grande. Diventa una forza quando mi costringo a fare una cosa anche se non vorrei». La prossima sfida è un figlio. «Oggi il gesto più rivoluzionario è avere dei figli. Prima si facevano per fuggire, ora si fanno per affermare la voglia di resistere». Un figlio anche come antidoto all’egocentrismo: «Avere un bambino è un atto coraggioso perché sposta l’attenzione da se stessi. Viviamo in un epoca individualista che, portata all’eccesso, genera crisi di panico e depressioni». Lui è stato un figlio unico. Figlio unico di genitori separati. Praticamente è cresciuto da solo. «Non avere fratelli ti rende diverso verso l’esterno, genera maggiori aspettative e una necessità di legarsi, di fare amicizie. In questo lo sport di squadra, la pallacanestro, mi ha placato e fatto sentire parte di qualcosa». Gli amici li ha sempre salvaguardati come un tesoro: dentro e fuori dal cinema. Poi, forse per quest’abitudine alla esclusiva compagnia di se stesso, è andato prestissimo via di casa. «Ho rischiato, ma ero troppo consapevole che le nevrosi si originano nella famiglia. L’altro modo per salvarsi, oltre ad uscire dal nido appena possibile, è sdrammatizzare». Per Mastandrea è tutto molto italiano, sia subire le follie familiari che riuscire a riderci sopra. «I “bamboccioni” in fondo non hanno colpe, sono sopraffatti dal sistema e non hanno gli strumenti per venirne fuori». La cosa più gratificante dell’essere attore è quando qualcuno lo ringrazia. «Fermare il tempo delle persone, distrarle dalla propria testa e dal quotidiano è già un gran successo. Se qualcuno entra nel camerino e dice che gli ho cambiato l’umore sono contento». Mastandrea rimane modesto. «So bene come l’attore è vissuto nell’immaginario della gente, ma la verità è che si può fare questo mestiere restando normali». Vede il modello americano, la superstar di Hollywood, come qualcosa di lontano. «Non ho mai sentito il bisogno di lavorare all’estero. Quando in Francia ho fatto un film d’azione, ho fatto perdere credibilità al film. In sala prima c’era tensione poi, appena sono entrato io, si sono tutti messi a ridere». L’ironia è la sua carta vincente. La usa nella vita come nella professione. La televisione non gli interessa proprio per questo: la mancanza d’ironia. «Una volta ho fatto un programma di televisione sperimentale, l’hanno mandato in onda il mese di agosto. Lo hanno apprezzato solo i pochi disperati che erano rimasti in città inchiodati davanti al video». Del cinema italiano, invece, in questo momento è orgoglioso. «I film di Paolo Sorrentino e Matteo Garrone premiati a Cannes sono una speranza, perché hanno raccontato una parte del Paese e il pubblico ha avuto la prontezza di rispondere». Una cosa non gli è mai riuscita: imparare a nuotare. Da piccolo lo hanno buttato in mare all’improvviso e si è spaventato. Ora l’acqua la vede come una minaccia. «Tanto alla fine mi ritrovo sempre a lavorare in luglio ed agosto. Uno pensa “faccio l’attore così vado in vacanza quando mi pare”, invece io salto tutte le estati». E quest’estate, tra gli altri impegni, ci sarà anche la direzione artistica, insieme a Paola Cortellesi, del Teatro biblioteca Quarticciolo, nella più estrema periferia di Roma. Perché, anche se lui non lo racconta, Mastandrea è quel che si dice socialmente impegnato. Quest’inverno ha fatto piangere tutto il teatro quando, all’Ambra Jovinelli, ha recitato con passione Il ferro, il fuoco e gli invisibili, una lettura sulle morti atroci degli operai della ThyssenKrupp di Torino. Ha recitato in parecchi film del cinema indipendente. E, dopo tanti risultati, ha ancora tanti sogni. Uno, forse, più grande degli altri: «Mi piacerebbe girare un film diretto da Mario Monicelli, peccato che non lavori più». Alla fine ringrazia e sorride umile, scusandosi perché durante l’intervista ha rovinato il giornale con il pennarello. Ma quale duro, Mastandrea è decisamente un romano dal cuore tenero. ‘‘ IRENE MARIA SCALISE Repubblica Nazionale