L’OPZIONE – DIALETTICA O RADICALE – PARE ESSERE DA SEMPRE
FRA BIANCO E NERO E COLORE. OPPURE LA QUESTIONE
RIGUARDA LA SCELTA FRA TRANQUILLE E RASSICURANTI CROMIE
E PIÙ ACCESE ALTERNATIVE, COMPRESE LE RELATIVE IMPLICANZE
PSICOLOGICO-PERCETTIVE-SENSORIALI-CULTURALI; O ANCORA,
IN MANIERA COLTA, FRA RAGIONE E SENTIMENTO. RESTA CHE,
DENTRO LA CULTURA DEL PROGETTO, IL COLORE HA SEMPRE
RAPPRESENTATO UN’OPZIONE FORTE (ANCHE QUAND’ERA BIANCO
E NERO) DI VOLTA IN VOLTA SCELTA COME STRUMENTO DI
ESPRESSIONE, BANDIERA IDEALE O POLEMICA. NEL PANORAMA
DEL DESIGN CONTEMPORANEO IL COLORE HA RICONQUISTATO
LA SCENA.
THE OPTION – DIALECTIC OR RADICAL – SEEMS ALWAYS TO HAVE
BEEN THE CHOICE BETWEEN BLACK AND WHITE OR COLOR. THEN
AGAIN IT MAY INVOLVE THE CHOICE BETWEEN SOFT AND
REASSURING COLORS OR MORE BRILLIANT ALTERNATIVES, WITH
THEIR RELATIVE PSYCHOLOGICAL-PERCEPTIVE-SENSORIALCULTURAL IMPLICATIONS; OR AGAIN, AT A CULTURAL LEVEL,
BETWEEN REASON AND SENTIMENT. THE FACT REMAINS THAT,
IN THE DESIGN CULTURE, COLOR HAS ALWAYS REPRESENTED A
POWERFUL OPTION (EVEN WHEN IT MEANT BLACK AND WHITE)
CHOSEN AS AN INSTRUMENT OF EXPRESSION, AN IDEALISTIC
OR POLEMICAL BANNER. NOW, ON THE CONTEMPORARY DESIGN
SCENE, COLOR IS BACK.
FOSCARINI LUX.6
LUX.6
FOSCARINI
LUX
COLORE_COLOR
EDITORIALE
COLORE
L’OPZIONE – DIALETTICA O RADICALE – PARE ESSERE DA SEMPRE FRA BIANCO E NERO E COLORE. OPPURE,
MESSA DIVERSAMENTE, LA QUESTIONE RIGUARDA LA SCELTA FRA TRANQUILLE E RASSICURANTI CROMIE E
PIÙ ACCESE ALTERNATIVE, COMPRESE LE RELATIVE IMPLICANZE PSICOLOGICO-PERCETTIVE-SENSORIALICULTURALI; O ANCORA, IN MANIERA COLTA, FRA RAGIONE E SENTIMENTO. MA ALLA FINE TALVOLTA POTREBBE
TRATTARSI DI POCO PIÙ CHE DEL VARIARE DELLE MODE, PERSINO ALTAMENTE INTESE COME STRUMENTO DI
INTERPRETARE “LO SPIRITO DEL PROPRIO TEMPO”. RESTA CHE, DENTRO LA CULTURA DEL PROGETTO, IL
COLORE HA SEMPRE RAPPRESENTATO UN’OPZIONE FORTE (ANCHE QUAND’ERA IL BIANCO E NERO) DI VOLTA
IN VOLTA SCELTA COME STRUMENTO PROFONDO DI ESPRESSIONE, BANDIERA IDEALE O POLEMICA. IN
DETERMINATI CONTESTI E MOMENTI FARE RED, YELLOW AND BLUE HA SIGNIFICATO RIVENDICARE PUREZZA,
RIGORE, ASTRAZIONE IN RIVOLTA CONTRO ALTRI MONDI E PERSONE; COSÌ COME SCOPRIRE CHE IL GRIGIO
E PERFINO IL BIANCO-BRAUN MERITAVANO DI ESSERE TRAVOLTI DA GIOIOSE E GIOVANILISTICHE CROMIE.
O INFINE, E SIAMO AI NOSTRI GIORNI, CONSTATARE CHE DOPO L’UBRIACATURA DEI BIANCHI, GRIGIETTI
E MARRONCINI DEL COSIDDETTO – NONCHÉ PRESUNTO – MINIMALISMO, SI POTEVA DA UNA PARTE
RISVEGLIARE L’IMMAGINARIO DEGLI ANNI POP, DALL’ALTRA PERFINO SDOGANARE LA DECORAZIONE PIÙ
ESASPERATA. SI TRATTI DI VINTAGE, DI RIEDIZIONI O DI “ISPIRATE” STAR DEL DESIGN CONTEMPORANEO,
IL COLORE (ANCHE QUANDO È BIANCO E NERO) HA RICONQUISTATO LA SCENA.
EDITORIAL
CONTENTS
EDITORIALE EDITORIAL
COLOR
THE OPTION – DIALECTICAL OR RADICAL – ALWAYS SEEMS TO BE
BETWEEN BLACK AND WHITE AND COLOR. OR, TO PUT IT DIFFERENTLY,
THE ISSUE INVOLVES THE CHOICE BETWEEN SOFT AND REASSURING
COLORS OR MORE BRILLIANT ALTERNATIVES, AND THEIR RELATIVE
PSYCHOLOGICAL, PERCEPTIVE, SENSORIAL AND CULTURAL IMPLICATIONS;
OR AGAIN, TO BE MORE SOPHISTICATED, BETWEEN REASON AND
SENTIMENT. BUT IN THE END IT MAY INVOLVE LITTLE MORE THAN THE
SIMPLE EVOLUTION IN TRENDS, IF WE CHOOSE TO VIEW THEM LOFTILY AS
INSTRUMENTS TO INTERPRET “THE SPIRIT OF ONE’S OWN TIME”.
THE POINT REMAINS THAT, WITHIN THE DESIGN CULTURE, COLOR HAS
ALWAYS REPRESENTED A POWERFUL OPTION (EVEN WHEN IT SIMPLY
INVOLVED BLACK AND WHITE) CHOSEN TIME AND AGAIN AS AN INTENSE
MEANS OF EXPRESSION, AN IDEAL OR POLEMICAL BANNER. IN CERTAIN
CONTEXTS AND PERIODS, THE USE OF RED, YELLOW AND BLUE MEANT
UPHOLDING PURITY, RIGOR, AND ABSTRACTION AGAINST OTHER WORLDS
AND PEOPLE; JUST AS THE DISCOVERY THAT GREY AND EVEN BRAUNWHITE DESERVED TO BE TOSSED ASIDE IN FAVOR OF MORE JOYOUS AND
YOUTHFUL SHADES OF COLOR. AND FINALLY, TO BRING US TO THE
PRESENT DAY, THE OBSERVATION THAT AN OVERDOSE OF THE WHITES,
LIGHT GRAYS AND BROWNS PROFFERED BY THE SO-CALLED – OR
PRESUMED – MINIMALISM, COULD EITHER REVIVE THE VIVID
IMAGINATION OF THE POP YEARS, OR COULD RELEASE THE MOST
EXASPERATED FORMS OF DECORATION. WHETHER TALKING ABOUT
VINTAGE, RE-EDITIONS OR THE “INSPIRED” STARS OF CONTEMPORARY
DESIGN, COLOR (EVEN WHEN IT IS BLACK AND WHITE) HAS COME BACK
WITH A BANG.
001 COLORE COLOR
DESIGN
004 POPDESIGN
DESIGN
018 COCÒ
IDEE, MATERIALI E TECNOLOGIE
IDEAS, MATERIALS AND TECHNOLOGY
024 LA PERCEZIONE DEL COLORE
THE PERCEPTION OF COLOR
DESIGN
034 TEOREMA
DESIGN
038 I COLORI DELLA MODA
THE COLORS OF FASHION
IDEE_IDEAS
052 DUE ROSSI DI VENEZIA.
A PERFECT RED
TWO VENETIAN REDS.
A PERFECT RED
ARCHITETTURA E AMBIENTE
ARCHITECTURE AND THE ENVIRONMENT
064 PROGETTO DEL COLORE:
UN APPROCCIO BIOLOGICO ED EVOLUZIONISTICO
THE DESIGN OF COLOR:
A BIOLOGICAL AND EVOLUTIONISTIC APPROACH
DESIGN&DESIGNER
076 LAGRANJA DESIGN
E LA LAMPADA UTO
LAGRANJA DESIGN
AND THE UTO LAMP
ARTE ART
086 ELLSWORTH KELLY
DESIGN
098 YET
FUMETTO COMICS
102 PETER MAX. THE LAND OF BLUE
DESIGN
POPDESIGN
POPDESIGN
English text p. 13
CACTUS, DESIGN: DROCCO - MELLO,
GUFRAM, 1972
004
DESIGN
DESIGN
CESPUGLIO, ENNIO LUCINI
DH GUZZINI, 1970
006
POPDESIGN
di Ali Filippini
Il design italiano degli anni sessanta si contraddistingue per una immagine di “libertà” e una certa, ben
visibile, allegria di fondo. Quello di quegli anni fu un affrancamento dall’eleganza del design ereditato
dal Moderno, dal rigore e dai precetti del cosiddetto good design, che voleva oggetti sobri e timeless; ma
non solo, anche dai riferimenti alla Minimal Art o all’astrattismo geometrico evidenti negli oggetti,
sempre del periodo, caratterizzati dalla pulizia formale e l’uso di colori neutri o del bianco. Decisivo
al cambiamento di stile fu l’apporto della cultura pop, nella fattispecie del suo referente artistico, la Pop
Art – nata come si sa in Gran Bretagna ma poi esplosa in tutto il suo fulgore negli Usa intorno al 1962
– che fu un movimento artistico ma soprattutto un fenomeno, una tendenza estetica e di costume:
lo stile degli anni sessanta. Il pop design nel nostro paese si sviluppò quindi in un periodo che inizia
circa alla metà del decennio, con la produzione di alcuni designer che si rifanno alle caratteristiche
visive della Pop Art, privilegiando in particolare l’uso del colore, dell’ingrandimento di oggetti comuni,
della tecnica del pneu. Determinante la presenza degli artisti americani alla Biennale di Venezia del
1964; la visione di quelle opere, fu, come spesso viene ricordato, un’occasione di confronto importante,
che agì da catalizzatore. Tale reazione viene espressa con l’irruzione del colore, di forme ludiche
e provocatorie, di materiali nuovi e leggeri, come accade per la plastica; i pop designer ridisegnano
un intero paesaggio domestico con questo materiale, del quale privilegiano la natura plasmabile e
camaleontica, il fatto che può prendere forme originali ed essere colorata a piacere. Il metacrilato, ad
esempio, per le sue proprietà ottiche ed estetiche, sarà tra i materiali più sperimentati e usati nel design
007
PRATONE, CERETTI - DEROSSI - ROSSO,
GUFRAM, TORINO, 1971
008
DESIGN
delle lampade, che finiranno per assomigliare più a sculture luminose che a corpi illuminanti:
Cespuglio di Ennio Lucini – che è un omaggio al pop dell’artista Gino Marotta – è costituito da una
base che tiene insieme, disposte a raggiera, lamelle di disegno diverso che vanno a formare la chioma
frastagliata di questa bizzarra “natura da scrivania”, verde o arancio fluo, dal forte impatto plastico
e cromatico. Come avviene anche nei due celebri modelli prodotti da Poltronova e disegnati da
Superstudio: Gherpe (1967), costituita da fasce di perspex curvato a U, bianco o rosa, e Passiflora
(1968), realizzata nel medesimo materiale e sagomata a nuvola, gialla. La libertà che il poliuretano
schiumato – novità di quegli anni – consente negli stampi ai progettisti, rispetto alla gommapiuma,
offre terreno a sperimentazioni prima impensabili, e gli oggetti di arredamento perdono il loro aspetto
tradizionale e acquisito per proporsi con forza negli ambienti in configurazioni bizzarre e intriganti,
dove il colore gioca ancora un ruolo chiave.
Si prenda l’esempio dell’azienda Gufram: la collezione ha inizio, nel 1968, con I Sassi di Piero Gilardi,
per comprendere in seguito i pezzi disegnati dall’avanguardia del design torinese di quegli anni – come
il gruppo Strum o Studio 65 – sulla suggestione non solo della Pop ma anche della nascente Arte
Povera. Tra i pezzi della serie: il divano la Bocca, omaggio all’originale degli anni trenta di Salvador
Dalì; la seduta Pratone; la poltrona Torneraj; il sedile Puffo; l’attaccapanni Cactus, tutti rappresentativi
della tecnologia di lavorazione del poliuretano, trattato con vernice lavabile, e rivoluzionari per il loro
impatto formale tra scultura e design.
Ma prima ancora fu Ettore Sottsass a stupire, presentando sulle pagine di “Domus” del 1967 una
collezione di prototipi, davvero insoliti, che costituiscono una svolta nel design della seconda metà
degli anni sessanta, con la loro presenza scultorea che li rende simili a monumenti: i Superbox.
Qui gli accostamenti dei colori sono spregiudicati (strisce gialle e viola, nere e grigie da segnaletica
stradale) e Sottsass introduce per la prima volta il laminato plastico, prodotto su disegno da Abet,
su forme lineari e geometriche che citano l’Arte Minimal ma ricordano anche i distributori di benzina
americani. Gli oggetti di quello che sarebbe diventato il Radical design (che in qualche modo ha
rappresentato la fase più “critica”, ideologica del pop) sono i portatori dello spirito più dissacrante,
eversivo dell’epoca: il divano Superonda (1966) degli Archizoom è rivestito in lucido sky (come i corti
vestiti del periodo) e il colore squillante rinforza l’anticonformismo dell’oggetto ed è esempio dell’uso
emotivo della componente cromatica, proprio di queste realizzazioni. Tra le altre icone del periodo,
la Serie Up (1969-2004) di Gaetano Pesce, con sette modelli di sedute di differenti dimensioni, dalle
fattezze generose e antropomorfe, venduti sottovuoto e contraddistinti dal colore puro o da motivi pop
e op dalle suggestioni psichedeliche. Alla fine, l’uso espressivo del colore rinnova tutte le tipologie di
oggetti, compresi quelli tecnici: la macchina da scrivere portatile Valentine (1969) di Sottsass,
dall’aspetto glamourous e informale, non a caso è rimasta tra le icone del periodo con il suo “rosso
Lolita”, decisamente inusuale per il genere di oggetto. Lo stesso si potrebbe dire di apparecchi come la
radio Magic Drum di Rodolfo Bonetto e del giradischi Pop (1968) di Mario Bellini, entrambi
fortemente colorati. In questo modo il pezzo tecnico si trasforma in un oggetto di seduzione, simpatico
e informale. In ogni caso, si tratti di prodotti d’arredo o più strettamente industriali, vediamo utilizzati
i colori brillanti della chimica, dalle stesure piatte e lucide, e i nuovi materiali come le resine, il vinile, il
pvc morbido, che introducono una nuova tattilità, nuove texture e consistenze, mettendo in gioco la
sensorialità. Se la “cromofobia”, quindi, segna buona parte del design del periodo precedente agli anni
sessanta, la produzione che segue, al contrario, abbraccia totalmente il tema del colore, che dà vita agli
oggetti. Il colore è utile, del resto, soprattutto a “indicare qualcosa”, al suo farsi segnale e perciò a
009
BOCCA, STUDIO 65, GUFRAM, 1971
VALENTINE, ETTORE SOTTSASS, OLIVETTI, 1969
010
DESIGN
011
DESIGN
comunicare: tutti questi oggetti sono campioni, in definitiva, di una volontà di parola di cui si fa carico
il design del periodo pop con i suoi pezzi “manifesto”; oggetti portatori di aria nuova e poco disponibili
a starsene in disparte, ma al contrario, catalizzatori di sguardi e ancora oggi altamente seduttivi.
POP, MARIO BELLINI, MINERVA, 1968
012
POP DESIGN
by Ali Filippini
Italian design in the Sixties is distinguished by an image of “freedom” and a certain, obvious,
underlying delight. The design of those years demonstrates its emancipation from the elegance of the
design inherited from the Modern Movement, from the severity and precepts of so-called good design,
whose intent was to create sober and timeless objects; but also from references to Minimal Art or to
the geometric abstraction that is so evident in the objects of that period, characterized by a formal
severity and the use of white or neutral colors. A decisive factor in the change of style came from pop
culture, and specifically from its artistic mainstay, Pop Art – founded, as everyone knows, in Great
Britain and later exploding to the height of its glory in the United States around 1962; it was an art
movement but even more than that it represented a phenomenon, an esthetic and behavioral fad: the
Sixties style. Pop design in Italy developed within a period that began around the middle of the
decade, with projects by a number of designers that refer to the visual characteristics of Pop Art, with a
marked preference for the use of color, for out-of-scale everyday objects, for inflatable technology. The
presence of the American artists at the 1964 Biennale di Venezia proved to be decisive; seeing those
works provided an important opportunity for the exchange of ideas, as has often been recalled, and
acted as a catalyst. This reaction was expressed through an explosion of color, of playful and
provocative forms, of new lightweight materials, such as plastic; the pop designers recreated the entire
domestic landscape with this material, preferring its malleable and chameleonic nature, and the fact
that it could be made into original forms and colored as desired. The esthetic and optical properties of
methacrylate, for example, made it one of the materials most frequently experimented with in the field
of lamps, which increasingly came to look like luminous sculptures rather than lighting fixtures:
Cespuglio by Ennio Lucini – which is a tribute to pop artist Gino Marotta, consists in a base that holds
together different-shaped elements spread outward from the center like the spokes of a wheel, that all
together form the jagged fronds of this bizarre “desktop plant”, fluorescent green or orange, with a
strong sculptural and chromatic impact. Like the two famous models produced by Poltronova and
designed by Superstudio: Gherpe (1967), consisting in bands of perspex curved into a U-shape, in
white or pink, and Passiflora (1968), made out of the same material and shaped like a cloud, in yellow.
The freedom that polyurethane foam – the hottest material of the period – offered designers in the use
of molds, compared to foam rubber, created the grounds for a range of experimentation that was
unthinkable before then; furniture and accessories renounced their traditional appearance to burst
forcefully into interior decors in bizarre and intriguing configurations, where color represented a key
element. Take the Gufram company for example: the collection was initiated in 1968 with Piero
Gilardi’s Sassi, and later included pieces created by the design avant-garde in Turin in those years –
such as the Strum group or Studio 65 – influenced not only by Pop but also by the nascent Arte
Povera movement. The pieces from the series include: the Bocca sofa, a tribute to the original by
013
DESIGN
Salvador Dalì in the Thirties; the Pratone chair; the Torneraj armchair; the Puffo chair; the Cactus
coatrack, all of which well represent the processing technology of polyurethane, treated with a
washable varnish, and harbor a revolutionary formal impact, a combination of sculpture and design.
But the first designer to cause a sensation was Ettore Sottsass, when he presented a collection of truly
unusual prototypes on the pages of “Domus” in 1967, a turning point in design in the second half of
the Sixties, with a sculptural impact that made them akin to monuments: the Superboxes. Here the
combination of colors was truly audacious (with yellow and purple, black and grey stripes borrowed
from street signs); for the first time Sottsass introduced plastic laminate, custom-produced by Abet,
with linear and geometric forms that refer to Minimal art but are also reminiscent of American gas
pumps. The objects of what would later become Radical design (which in some ways represented the
most “critical”, ideological phase of pop) brought with them the most desecrating, subversive spirit of
the period: the Superonda sofa (1966) by Archizoom was upholstered in shiny ‘sky’ (like the minidresses of the period) and the flashy color reinforced the non-conformist nature of the object: this is an
example of the emotional use of the chromatic component, an intrinsic characteristic of these works.
Other icons of this period include the Up series (1969) by Gaetano Pesce, with seven models of seating
in different sizes, whose shapes were generous and anthropomorphic; they were sold vacuum-packed
and distinguished by the use of pure color or vaguely psychedelic pop and op motifs.
In the end, the expressive use of color renovated all typologies of objects, including technical objects:
the glamorous and informal Valentine portable typewriter (1969) by Sottsass, has not coincidentally
remained one of the icons of the period because of its “Lolita red” color, definitely unusual for that
type of object. The same may be said for appliances such as the Magic Drum radio by Rodolfo Bonetto
and the Pop turntable (1968) by Mario Bellini, both brightly colored. Thus the technical object
becomes an object of seduction, attractive and informal.
In any case, whether on furniture or more strictly industrial objects, the bright chemical colors were
used as flat and glossy coatings, and new materials such as resin, vinyl, or soft pvc introduced a new
tactile quality, new textures and consistencies, that stimulated the senses.
If “chromophobia” characterized most of the design produced in the period preceding the Sixties, the
production that followed, on the contrary, completely embraced the theme of color, which lends
vitality to objects. Color is useful, of course, particularly to “denote something”, to become a signal
and thus communicate: all these objects, in the end, are examples of a desire for expression that pop
design takes upon itself through its “manifesto” works; objects that sweep in the new and are little
inclined to blend into the woodwork, on the contrary they attract the eye and remain extremely
seductive to our day.
UP, GAETANO PESCE,
B&B ITALIA, 1969-2004
014
Ali Filippini
Nato nel 1973, è laureato in design al Politecnico di Milano. Partecipa a vari progetti di ricerca e
collabora con alcune riviste di settore occupandosi, in particolare, di industrial design. Svolge attività
didattica presso l’università Iulm e il corso di design dell’Accademia di belle arti di Brera a Milano.
Born in 1973, he graduated in design from the Politecnico di Milano. He has participated in a number
of research projects and collaborates with several trade magazines, particularly on the subject of
industrial design. He teaches at the IULM University and the design department of the Accademia di
Belle Arti di Brera in Milan.
015
VISIONA II EXHIBITION, KÖLN, VERNER PANTON, BAYER, 1970
I MULTIPLI, GUFRAM, TORINO, ITALIA
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DESIGN
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DESIGN
COCÒ
ALDO CIBIC
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DESIGN
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022
DESIGN
RED
ROSSO
WHITE
BIANCO
023
IDEE, MATERIALI E TECNOLOGIE
LA PERCEZIONE
DEL COLORE
THE PERCEPTION OF COLOR
English text p. 031
TEST DI ISHIHARA SULLA DISCRIMINAZIONE DEI COLORI
ISHIHARA TEST FOR COLOR BLINDNESS
024
IDEAS, MATERIALS AND TECHNOLOGY
026
IDEE, MATERIALI E TECNOLOGIE_IDEAS, MATERIALS AND TECHNOLOGY
LA PERCEZIONE DEL COLORE
di Paolo Legrenzi ed Emanuele Arielli
La percezione del colore è una questione relativamente recente. Pur trovando alcune
osservazioni interessanti nella letteratura classica, il problema nasce come tale alle
origini della fisica moderna (E. Thompson, Colour vision, Routledge, London 1995).
Essa distingue essenzialmente le proprietà primarie da quelle secondarie. Queste ultime
si riferiscono non a caratteristiche proprie degli eventi del mondo ma all’incontro tra un
oggetto e un organismo senziente. Oggi noi sappiamo che il nostro occhio contiene vari
tipi di fotoricettori in grado di rispondere ai fotoni (le particelle di luce) solo
nell’ambito di determinate lunghezze d’onda. È importante sapere che il come un
recettore risponde non dipende dalla lunghezza d’onda. Il singolo fotoricettore o cattura
il fotone oppure non lo cattura. Ma la probabilità di risposta dipende dalla lunghezza
d’onda. Alcune lunghezze d’onda hanno una probabilità più elevata di eccitazione
dell’organo periferico, altre meno. Un tasso di risposta medio a uno sciame di fotoni
che arrivano può quindi essere attribuito sia a pochi fotoni di una certa lunghezza
d’onda che a molti fotoni di una lunghezza meno favorita: il recettore non sa
distinguere (F. Crick, The Astonishing Hypothesis, Scribner, New York 1994, p. 52).
Se il nostro occhio, fantastico frutto dell’evoluzione, avesse un solo tipo di fotorecettore,
il mondo si presenterebbe in bianco e nero. Questo avviene nelle patologie della
percezione chiamate “acromatopsia” (la prima descrizione dettagliata di un caso risale
027
IDEE, MATERIALI E TECNOLOGIE_IDEAS, MATERIALS AND TECHNOLOGY
al 1688 ed è dovuta a Robert Boyle, il padre della chimica moderna). Anche in
condizioni naturali possiamo farci un’idea di che cosa succede quando il cervello non
ha questo tipo di informazioni. Se ci abituiamo al buio in una notte chiara,
passeggiando in un giardino, possiamo fare in modo che quel tipo di fotoricettori che
sono i “coni” non siano più attivi. Succede così che, pur osservando le forme dei fiori, i
colori perdano di rilievo fin quasi a scomparire. In conclusione possiamo dire che è il
cervello a creare il colore e tutto il mondo percepito, nel senso che è capace di “andare
oltre l’informazione data”, per riprendere una celebre affermazione di Bruner e
Chomsky (P. Legrenzi, Creatività ed innovazione, il Mulino, Bologna 2005).
Se i colori non esistono nella realtà esterna ma sono il risultato dell’incontro tra
variabili fisiche e organismi biologici, si può anche supporre che il nostro modo
linguistico di etichettare i colori ne influenzi la percezione (G. Kanizsa, P. Legrenzi,
M. Sonino, Percezione, linguaggio, pensiero, il Mulino, Bologna 1983, p. 339). Inoltre
si può pensare che la gradevolezza estetica delle combinazioni di colori dipenda dai
modi con cui si è evoluto il nostro sistema visivo per rispondere alle esigenze di più
di centomila anni d’attività come cacciatori e raccoglitori (i significati del colore rosso
hanno a che fare con la percezione del fuoco come segnale? Cfr. G. Hildebrand, Origins
of Architectural Pleasure, University of California Press, Berkeley 1999, p. 142). Queste
ipotesi sono state controllate con osservazioni su culture primitive di cacciatoriraccoglitori, come i Berimno della Nuova Guinea (Badcock, 2000, p. 247). Si chiedeva
ai Berimno di nominare, ricorrendo a cinque nomi di colore presenti nel loro lessico,
160 gradazioni di colori differenti. Questo compito veniva risolto con sistematicità,
precisione e coerenza. E tuttavia la differenza cruciale tra l’inglese e la loro lingua
permetteva un test critico. La lingua dei Berimno non ha lessicalizzato la differenza tra
blu e verde. In compenso hanno i termini nol e wor che non sono presenti in inglese.
Ora se si domanda di ricordare un colore dopo un intervallo di mezzo minuto, gli
inglesi non compiono errori nei colori blu e verde mentre fanno più fatica per i colori
che corrispondono a nol e wor. Per i Berimno succede il contrario (J. Davidoff,
I. Davies, D. Roberson, Color categories in a stone-age tribe, in “Nature”, 398, 1999,
pp. 203-204). Questo non mostra che la percezione dei colori sia diversa, in quanto è
il prodotto di sistemi biologici comuni alla specie umana, ma che il modo di descriverli
influenza prestazioni cognitive come il riconoscimento e il ricordo. Ovviamente le
culture plasmano anche i significati simbolici e le valenze estetiche delle combinazioni
di colori (J. Wilson, Handbook of textile design, The Textile Institute London, CRC
Woodhead Publishing Limited, 2002). Bisogna tuttavia essere cauti nei giudizi sulla
gradevolezza dei diversi colori da parte di chi si muove in specifici scenari. Ad esempio
una recente ricerca sugli interni dei negozi “alla moda” ha mostrato un’interazione tra
l’illuminazione e il tipo di colore, nel senso che un’illuminazione soft di interni
arancione diminuiva la valutazione negativa dell’arancio, per solito meno apprezzato
di un tenue blu (J.A. Bellizi, R.E. Hite, Environmental color, consumer feelings,
purchase likelihood, in “Psychology and Marketing”, 9, 1992, pp. 347-363; B. Babin,
D. Hardesty, T. Suter, Color and shopping intentions: the intervening effect of price
fairness and perceived affect, in “Journal of Business Research”, 56, 2003, pp. 541-551).
CONTRASTO DI QUALITÀ TRA COLORI PIÙ E MENO SATURI
CONTRAST BETWEEN MORE OR LESS SATURATED COLORS
028
029
030
IDEE, MATERIALI E TECNOLOGIE_IDEAS, MATERIALS AND TECHNOLOGY
Per i motivi che abbiano visto sopra, nella progettazione di ambienti bisogna quindi
tener conto non solo dalle culture ma anche delle interazioni tra forme, illuminazioni e
colori.
THE PERCEPTION OF COLOR
by Paolo Legrenzi and Emanuele Arielli
The perception of color is a relatively recent issue. Though some interesting
observations may be found in classical literature, the problem as such originates with
modern physics (E. Thompson, Colour Vision, Routledge, London 1995). It essentially
distinguishes the primary properties from the secondary ones. The latter refer not to
characteristics belonging to the events of the world but to the encounter between an
object and a thinking organism. Today we know that our eye contains various types of
photo-receptors that can respond to photons (particles of light) only within specific
wave lengths. It is important to know that how a receptor responds does not depend on
the wavelength. The individual photoreceptor either captures the photon or doesn’t.
But the probability of a response depends on the wavelength. Some wavelengths have a
greater probability of exciting the peripheric organ, others less. A medium degree of
response to an on-coming swarm of photons may thus be attributed both to a small
number of photons at a certain wavelength and to a large number of photons at a less
preferred wavelength: the receptor cannot distinguish (F. Crick, The Astonishing
Hypothesis, Scribner, New York 1995, p. 52). If our eye, a fantastic result of evolution,
had only one type of photoreceptor, the world would look black and white. This occurs
in perception pathologies called “acromatopsy” (the first detailed description of such a
case dates back to 1688 and is attributed to Robert Boyle, the father of modern
chemistry). Even in natural conditions we can get an idea of what happens when this
type of information does not reach the brain. If we get used to the dark on a clear
night, walking through the garden, we can cause the “cone” type of photoreceptor to
remain inactive. What happens is that, though we can observe the shape of flowers, the
colors lose their significance and practically disappear. In conclusion we can say that
the brain creates color and the perceived world, in the sense that it is able to “reach
beyond given information”, to repeat a famous statement by Bruner and Chomsky
(P. Legrenzi, Creatività ed innovazione, il Mulino, Bologna 2005).
If colors do not exist in reality but are the result of the encounter between physical
variables and biological organisms, then it may be possible to assume that the way our
language labels colors influences their perception (G. Kanizsa, P. Legrenzi, M. Sonino,
Percezione, linguaggio, pensiero, il Mulino, Bologna 1983, p. 339). In addition one
might think that the pleasing esthetic of color combinations depends on the way our
visual system evolved to respond to the needs of over one hundred thousand years of
activity as hunters and gatherers (do the meanings of the color red have to do with the
perception of fire as a signal? Cfr. G. Hildebrand, Origins of Architectural Pleasure,
031
ESEMPI DI CONTRASTO FRA COLORI PURI
EXAMPLES OF CONTRAST BETWEEN PURE COLORS
032
IDEE, MATERIALI E TECNOLOGIE_IDEAS, MATERIALS AND TECHNOLOGY
University of California Press, Berkeley 1999, p. 142). These hypotheses have been
verified by observing primitive cultures of hunters-gatherers, such as the Berimno of
New Guinea (Badcock, 2000, p. 247). The Berimno were asked, using five names of
colors present in their own vocabulary, to name 160 gradations of different colors. They
solved this task systematically, with precision and coherence. Yet the crucial difference
between English and their language allowed a critical test. The language of the Berimno
had not lexicalized the difference between blue and green. On the other hand the terms
nol and wor do not exist in English. Now if we ask them to remember a color after a
half-minute delay, the English make no mistakes in blue and green colors, whereas they
have a harder time with colors that correspond to nol and wor. The opposite happens to
the Berimno (J. Davidoff, I. Davies, D. Roberson, Color categories in a stone-age tribe,
in “Nature”, 398, 1999, pp. 203-204). This does not demonstrate that the perception
of colors is different, in that it is the product of biological systems that are common to
the human species, but the way of describing them influences cognitive performance
such as recognition and memorization. Obviously cultures also shape the symbolic
meanings and esthetic significance of color combinations (J. Wilson, Handbook of
textile design, The Textile Institute London, CRC Woodhead Publishing Limited, 2002).
It is important to be careful in judging the agreeability of different colors to people
who move within specific scenarios. For example a recent research study of the interiors
of “fashionable” boutiques demonstrated an interaction between the lighting and the
type of color in the sense that a soft lighting of orange interiors reduced the negative
assessment of orange, which is usually less preferred than a light blue (J.A. Bellizi, R.E.
Hite, Environmental color, consumer feelings, purchase likelihood, in “Psychology and
Marketing”, 9, 1992, pp. 347-363; B. Babin, D. Hardesty, T. Suter, Color and shopping
intentions: the intervening effect of price fairness and perceived affect, in “Journal of
Business Research”, 56, 2003, pp. 541-551). For the reasons we have exposed above, in
the design of interiors it is important to take into consideration not only the cultures
but also the interaction between forms, lighting and colors.
Paolo Legrenzi
Professore ordinario di psicologia cognitiva all’Università IUAV di Venezia, è direttore
della Scuola di studi avanzati in Venezia.
Professor of cognitive psychology at the Università IUAV di Venezia, he is director
of the School for Advanced Studies in Venice.
Emanuele Arielli
È professore associato di psicologia cognitiva all’Università di Pescara.
He is an associate professor of cognitive psychology at the University of Pescara.
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TEOREMA
FERRUCCIO LAVIANI
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I COLORI
DELLA MODA
DESIGN
THE COLORS OF FASHION
English text p. 47
DESIGN
LYNN KOHLMAN, VOGUE
PHOTO BARRY LATEGAN
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I COLORI DELLA MODA
di Cristina Morozzi
Gli umani, a differenza degli animali, vedono e sognano a colori. Per questo sin dai tempi antichi
si adoprarono a tingere corpo e manufatti nelle più diverse sfumature rubando i pigmenti a piante,
foglie, fiori, terre e gemme. E per abbellire l’artificiale, s’ingegnarono ad allargare lo spettro delle
coloriture con le più improbabili alchimie.
“I colori sono un ‘avventura in polvere, un inganno”, scrive Manlio Brusatin nella Storia dei colori
(Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1983). La moda, che d’inganni è maestra, sui colori ha
costruito il suo potere. Sulla loro presenza e sulla loro assenza, giocando, stagione dopo stagione,
a negare quanto prima aveva esaltato.
Nell’articolo Le bleu est à la mode cette année apparso nel 1960 sul numero 2 della “Revue francaise
de sociologie” Roland Barthes nell’inventario dei “significanti vestimentari” attribuiva alla materia
il primo posto e al colore il secondo, relegando lo stile al terzo posto.
Nella contrapposizione e nell’alternanza di bianco, che garantisce la massima riflessione di luce,
e di nero, con il suo massimo assorbimento, la moda raggiunge un’astratta concisione concettuale.
“Bianco e nero – scrive Quirino Conti, raffinato stilista e costumista – vengono utilizzati dalla
moda come assoluti perentori, quando le parole consumate appaiono inefficaci, inadeguate e
insufficienti per ciò che di categorico s’intende dire… Niente è così definitivo – conclude – come
un bianco indossato da Chanel nel 1938 o un nero di Balenciaga del 1958” (Mai il mondo saprà.
Conversazioni sulla moda, Feltrinelli, Milano 2005). I melange di bianco e nero sono stati proprio
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DESIGN
il campo di battaglia di Chanel. Mentre il nero, il colore che meglio esprime il Novecento, dalla
Ford (“di qualsiasi colore purché nera”, soleva dire Henry Ford) alla maglia a collo alto degli
esistenzialisti, rappresenta l’azzeramento come altra faccia dell’enfatizzazione. Vestirsi di nero
significa porre l’enfasi sulla distinzione (il dandy) o sull’appartenenza a una tribù (modaioli,
o punk e dark).
I monaci giapponesi za zen, che hanno abbandonato ogni mondana vanità, vestono eleganti
tuniche nere plissettate. Quell’abito di sublime eleganza, che molto rivela delle fonti d’ispirazione
d’Issey Miyake, accentua la loro aristocratica distanza dagli accidenti terreni. Officiano in nero le
giornaliste di moda per sottolineare la loro appartenenza a una setta eletta. Il total black di queste
pagane officianti, che influenzano i destini progressivi degli stili, è un modo per evidenziare la
distanza dal popolo dei modaioli che degli stili è solo vittima.
In accordo con l’inventario bartesiano, alcune rivoluzioni nella moda sono annunciate, più che
dall’invenzione di una foggia, dall’introduzione di una gamma cromatica. È il caso di Giorgio
Armani che lancia il neutro, quel colore-non colore che i maestri settecenteschi in una particolare
tiratura dal grigio al celeste chiamavano “colore dell’aria”. Quando sembrò essersi esaurita “la
stagione delle utopie, persino come revival – scrive ancora Quirino Conti – toccò ad Armani il più
realista degli stilisti, l’escamotage degli escamotage: la neutralità. Perché, come la realtà, anche
i colori sono addomesticabili. Armani abbassò il registro e le guerre formali si fecero in sordina.
Ora invece l’ipermodernità ha optato per la parata”.
Lasciando da parte i significati simbolici e accantonando i valori terapeutici, conviene accennare
quanto il regime dei colori sia influenzato dalle leggi commerciali. Il colore alimenta il mutamento
e sancisce l’in e out stagionale, stimolando il rinnovamento del guardaroba. Sono i filatori, prima
tappa dell’operoso processo manifatturiero, che decretano le cartelle colori stagionali, influenzate da
ragioni estetiche, sociali, ma in larga parte economiche. Se l’estate 2006 impone il bianco in tutte
le sue gradazioni, ci vuole poco a indovinare che nel 2007 saranno di nuovo alla ribalta i colori.
Se i fili sono colorati, lo saranno i tessuti e quindi gli abiti. E chi vuole essere alla moda, si lascerà
tentare dal messaggio lussurioso dei colori dopo aver sperimentato la purezza del bianco.
L’alternanza programmata alimenta i consumi.
Ma chi racconta ai filatori quali sono i colori o i non colori che meglio interpretano lo “spirito del
tempo”, quali le tonalità nelle quali il pubblico riconoscerà umori e aspettative del momento, se gli
stilisti, ai quali s’attribuisce il potere d’indirizzare il corso delle mode, sono l’ultimo anello della
catena? Chi lavora dietro le quinte, stabilendo i colori dei quali ogni stagione si diletta?
Chi sono i re e le regine dei colori, quelli che tingono la moda, seducente lente attraverso cui
leggere il mondo? Quelli che colorano i manufatti rendendoli più significativi, dato che, come
argomentava Barthes, la “significanza” dipende in seconda istanza dal colore?
Coloristi, visual designer e trend setter. Persone dotate di uno speciale intuito, quasi dei
rabdomanti, capaci di estrarre colori dalle sensibilità epocali. Di trasformare in tonalità sentimenti,
paure, desideri.
Ogni tonalità, a prima vista arbitraria, è distillata dall’humus epocale, impastata di nostalgia e
d’avvenire, di magia e di realismo, di riferimenti colti e popolari. Gli stilisti hanno stagionalmente
tutti, più o meno, la medesima tavolozza per le mani. Al loro estro trarne le più diverse
raffigurazioni, mescolando e contaminando i colori secondo la loro vocazione.
In virtù di quell’alternanza che esprime l’altalenare degli umori e che incentiva il ricambio, dopo
VOGUE
PHOTO JEAN JACQUES BUGAT
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DENIS SIMACHEV, COLLEZIONE PRIMAVERA-ESTATE, 2006
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AUDREY HEPBURN
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stagioni all’insegna di colori sgargianti e impudici, ad esempio, l’inverno 2005 ha riproposto un
assoluto: il nero, quello del tubino di Givenchy del 1958, esaltato dalla silouhette di Audrey
Hepburn in Colazione da Tiffany. Non già l’ascetismo e l’intellettuale pauperismo degli stilisti
giapponesi, quali Yamamoto o Comme de Garçon, ma piuttosto il bon ton. Non il nero tribale
e settario dei punk, degli esistenzialisti, delle giornaliste di moda, ma quello che colora le forme
morbide e aggiustate dell’eleganza classica.
E, per contrappunto, l’estate 2006 impone un altro assoluto: il bianco. Proposto in versione
romantico/agreste da Dolce e Gabbana per la linea D&G, in stile rococò da Victor&Rolf, rivisto in
chiave pittorica da Prada, che ha imbiancato con pennellate di biacca i suoi capi, e interpretato con
eleganza verginale da Denis Simachev, la nuova promessa che arriva dalla Russia.
Nero e bianco sono da intendersi come segnali di un ritorno a una moda che, smessi i panni
stracciati del costume e le fantasie da avanspettacolo, ritrova i piaceri discreti della couture, delle
sagome scolpite che modellano la figura con il gioco sapiente dei tagli. Nero e bianco vanno,
infine, letti come avvisaglie di un riandare a una moda, alimentata dalla maestria degli stilisti
e non dall’astuzia dei cacciatori di tendenze.
THE COLORS OF FASHION
by Cristina Morozzi
Unlike animals, human beings see and dream in color. That is why since the dawn of time they
have dyed their bodies and objects in the widest variety of colors, borrowing pigments from plants,
leaves, flowers, earths and gems. And to make what was artificial more beautiful, they endeavoured
to widen the spectrum of colors with the most unlikely alchemy.
“Colors are an adventure in powders, a trick”, writes Manlio Brusatin in Storia dei colori (Piccola
Biblioteca Einaudi, Turin, 1983). Fashion, which is the master of trickery, has built its power based
on colors. On their presence and on their absence, season after season, playing the game of
denying what it had raved about earlier.
In his article Le Bleu est à la mode cette année published in 1960 in issue number 2 of the “Revue
française de sociologie”, Roland Barthes crafted an inventory of “clothing signifiers”, attributing
first place to material and second place to color, relegating style to third place.
In the counterposition and alternation of white, which guarantees maximum light reflection, and
black, with its maximum absorption, fashion reaches an abstract conceptual concision. “Black and
white – writes Quirino Conti, a sophisticated stylist and costume designer – are used by fashion as
perentory absolutes, when worn-out words appear inefficient, inadequate and insufficient for the
categorical idea one intends to express…Nothing is as definitive – he concludes – as the white
worn by Chanel in 1938 and the black by Balenciaga in 1958” (Mai il mondo saprà. Conversazioni
sulla moda, Feltrinelli, Milano 2005). The combination of black and white was Chanel’s battlefield.
Whereas black, the color that expresses the Twentieth century, from the Ford (“any color as long as
it is black”, Henry Ford used to say) to the turtlenecks on existentialists, represent annullment as
the other side of emphasis. To dress in black means to emphasize distinction (the dandy) or belong
to a tribe (trendy, or punk and dark).
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DESIGN
The Japanese za zen monks, who have abandoned all wordly vanity, wear elegant pleated black
tunics. Their sublimely elegant dress, which reveals a great deal about Issey Miyake’s sources of
inspiration, accentuates their aristocratic distance from earthly events. Fashion journalists officiate
in black to underline to a chosen sect. The total black worn by these officiating pagans, who
influence the progressive fate of styles, is a way to highlight the distance from the fashion groupies
who are the victims of those styles.
In agreement with Barthe’s inventory, some fashion revolutions are announced by the introduction
of a color range rather than the invention of a look. This is the case with Giorgio Armani, who
introduced neutral, the color-non color that eighteenth century masters dubbed “the color of air”
in describing a particular shading from grey to blue. At the close of “the season of utopias, even as
revivals – writes Quirino Conti again – Armani, the most realistic of the fashion designers, devised
the greatest of all the escamotages: neutrality. Because, like reality, even colors can be tamed.
Armani lowered their tone and the formal wars took place on a muted level. Whereas
hypermodernism has now opted for the parade.”
Leaving aside all the symbolic meanings and therapeutic values, it is useful to note how the regime
of colors is influenced by market laws. Color feeds change and decrees whether something is in or
out that season, stimulating renovation in the wardrobe. The manufacturers of fibers, the first step
in the industrious manufacturing process, are the ones who decree the seasonal color charts,
influenced by esthetic, social, but largely economic reasons. If the summer of 2006 will show white
in all its gradations, it doesn’t take much to guess that in 2007 colors will make a strong comeback.
If the fibers are colored, the fabrics and thus the clothes will be too. And fashion freaks will allow
themselves to be tempted by the seduction of colors after experiencing the purity of white.
Programmed alternation feeds sales.
But who tells the fiber manufacturers which colors or non-colors best interpret the “spirit of the
time”, in what shades the public will recognize the moods and expectations of the moment, if the
fashion designers, who have the power to dictate the direction of fashion, represent the last link in
the chain? Who works behind the scenes, deciding which colors will be this season’s?
Who are the kings and queens of color, the ones who dye fashion, the seductive lens through
which the world may be interpreted? The ones who color apparel and give it deeper meaning,
since, as Barthes argues, the second factor of “significance” lies in color?
Colorists, visual designers and trend-setters. People who vaunt a special sort of intuition, almost
like water-diviners, who can extract color from the sensitivities of an era. To transform feelings,
fears, desires into shades. Each shade, which may seem arbitrary at first, is distilled by the humus of
the period, kneaded into nostalgia and becoming, magic and realism, cultured and popular
references. All fashion designers basically have the same palette in their hands each season. It is up
to their personality to draw the widest variety of representations, mixing and contaminating the
colors according to their own vocation.
By virtue of the alternation which expresses mood swings and stimulates change, after seasons of
bright and shameless color, for example, the winter of 2005 presented an absolute: black, the same
Givenchy used for his sheath in 1958, exalted by the figure of Audrey Hepburn in Breakfast at
Tiffany. Not the ascetic or intellectual pauperism of the Japanese fashion designers, such as
Yamamoto or Comme des Garçons, but bon ton. Not the tribal and sectarian black of punks,
existentialists, or fashion journalists, but the black that colors the soft and adjusted shapes of
ABITO DI PACO RABANNE
DRESS BY PACO RABANNE
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DONNA JORDAN, VOGUE
PHOTO OLIVIERO TOSCANI
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DESIGN
classical elegance. And, as a counterpoint, the summer of 2006 will present another absolute:
white. Presented in romantic/bucolic versions by Dolce e Gabbana for the D&G line, in a rococo
style by Victor&Rolf, revisited in a painterly interpretation by Prada, whose clothes are painted
with brushstrokes of white lead, and interpreted with virginal elegance by Denis Simachev, the
promising new talent from Russia.
Black and white are to be understood as the signals of a return to a kind of fashion that has
abandoned the tattered rags of costume and showgirl fantasies to reclaim the discreet pleasure of
couture, of sculpted shapes that model the figure with skilled cutting. For Alexander McQueen’s
winter 2005 sheath, a revival of the “petite robe noire” worn by so many Hollywood stars,
foremost among them Nicole Kidman, there is a waiting list. Black and white must basically be
understood as signals of a return to a kind of fashion that is nurtured by the mastery of the
designers and not by the cleverness of trendsetters.
Cristina Morozzi
Opera come giornalista, critica e art director, muovendosi soprattutto negli ambiti di confine tra
arte, moda e design. Autrice di vari volumi e cataloghi di esposizioni, ha diretto dal 1987 al 1996
la rivista “Modo” e collabora a numerose riviste di settore, italiane e straniere, tra cui “Interni,
“The Plan” e “Intramuros”. All’attività di ideazione e cura di mostre, in particolare per Pitti
Immagine a Firenze, affianca le consulenze per aziende di moda e di design. È docente alla Domus
Academy di Milano e all’Ecole Cantonale d’art de Lausanne.
She is a journalist, critic and art director, working along the boundaries between art, fashion and
design. Author of several books and exhibition catalogs, she directed “Modo” magazine between
1987 and 1996 and has collaborated with many Italian and foreign magazines in the field,
including “Interni”, “The Plan” and “Intramuros”. In addition to her work conceiving and
curating exhibitions, especially for Pitti Immagine in Florence, she is involved in consulting work
for the fashion and design industries. She teaches at the Domus Academy in Milan and at the
Ecole Cantonale d’art de Lausanne.
051
TWO VENETIAN REDS.
A PERFECT RED
English text p. 059
IDEE
DUE ROSSI DI
VENEZIA.
A PERFECT RED
LA VENERE DI URBINO,
TIZIANO VECELLIO, 1538
052
IDEAS
IDEE_IDEAS
FLORA, TIZIANO VECELLIO, 1515 CIRCA
054
DUE ROSSI DI VENEZIA. A PERFECT RED
di Manlio Brusatin
Il rosso di Venezia non è altro che il rosso dei mattoni con l’acqua verde sotto. Tutto
qui. Questo rosso non è altro che creta, color ocra con particelle di ferro, che una volta
cotta diventa la polvere di Cipro delle guance di Venere.
Nella grande pittura veneta il colore ha rappresentato una seduzione fin troppo evidente
rispetto al “disegno”.
I rossi veneziani sono almeno di due tipi, argomenta Ludovico Dolce nel Dialogo nel
quale si ragiona della qualità, diversità e proprietà dei colori (Venezia 1565): il rubro e il
rufo.
Anche Paolo Lomazzo, un noto pittore lombardo, una volta divenuto cieco ama parlare
dei colori e dice di due famiglie di rossi. Il cinabro (solfuro di mercurio) e la terrarossa
hanno vibrazioni che vanno verso i toni caldi arancione, accanto al minio (ossido salino
di piombo) e al realgar (bisolfuro di arsenico). Questi rossi caldi sono in
contrapposizione alla lacca di garanza e al rosso di grana, kermes o scarlatto che vanno
verso toni di un rosso con un’anima di violetto.
Il realgar si trova in natura ma si poteva ottenere artificialmente con zolfo e arsenico,
per quanto di una tossicità estrema. Più esattamente il realgar con un reazione
alchemica a base di zolfo poteva diventare il raro e prezioso orpimento che
normalmente proveniva dal Kurdistan e dalla Cina. È stato provato solo recentemente
055
IDEE_IDEAS
che “l’alchimia dei pittori veneziani” preparava l’orpimento sempre mescolato al realgar,
cioè un giallo-rosso-fuoco. Quel colore così certo della luce crepuscolare di un giorno
ancora bello ma che sfuma.
Al di qua delle vere e tossiche alchimie cromatiche i rossi veneziani sono principalmente
due. Il rosso di Giorgione, che riesce ad ottenere con della semplice terra rossa un
risultato migliore del cinabro. Il rosso cinabro era il vermiglione, il rosso di una pietra
friabile che si trova in natura ma si poteva anche fabbricare, con non rudimentali
cognizioni alchemiche e produrlo in bottega. L’apprendistato dei garzoni era infatti
quello, per esempio, di distillare l’alcool, di estrarre il mercurio dalla pietra di cinabro
o di ottenere la biacca con il piombo e l’aceto balsamico.
Una semplicità assoluta nel rosso di Giorgione per ottenere la sodezza e la trasparenza
delle carni ma invece una complicazione assoluta di mescolanze nell’altro rosso
veneziano. Il rosso Tiziano è un impasto di ocra rossa, ocra gialla e terra d’ombra
e un’idea di cinabro. È il biondo-rosso-rame della capigliatura delle dame veneziane,
come si vede in Violante (Vienna, Kunsthistorisches Museum) o nella Bella (Firenze,
Palazzo Pitti) che essendo tendenzialmente brune desideravano una capigliatura più
bionda. Per “possedere” questa tinta era necessario fabbricare in casa almeno una fra
i trentasei tipi di “acqua bionda”– così infatti si chiamava – per ottenere stabilmente
nei capelli castani gli effetti di un’ossigenazione naturale. Questo almeno quattro secoli
prima della scoperta dell’acqua ossigenata e dei sui poteri decoloranti e sbiondenti,
che fu una scoperta parigina in pieno Ottocento e messa in commercio come Eau de
Jouvence.
Il biochimico Konrad Emil Bloch (1912-2000) premio Nobel per la “scoperta del
colesterolo” (1964), amante e conoscitore dei colori, aveva notato nei suoi viaggi estivi
nelle Venezie, che tutte le bionde della pittura veneta (tranne la Madonna che rimaneva
bruna) non potevano che essere “ossigenate”. Gli estratti delle piante che servivano per
le acque bionde erano i più vari: fiori di noce e di cipresso, foglie di mirto, germogli di
pioppo, feccia ceneri d’uva bianca, trifoglio, agrifoglio, aloe e mirra, cumino, lupino,
legno di bosso, sterco d’asino… ma soprattutto la pianta della robbia (rubia tinctorum)
che è stata da sempre il colorante rosso, cioè la lacca di garanza, per la tintura dei
tessuti di lana, accanto al guado o pastello cioè l’indaco europeo proveniente dalla isatis
tinctoria. Piante quest’ultime la cui coltivazione si è estinta all’inizio dell’età industriale
ma che stanno ritornando a essere coltivate per la produzione di tinte della modernità
postindustriale. Il colorante della robbia era l’alizarina, sostanza chimica industriale
scoperta per terza (1869) dopo il rosso mauve e il fucsia, i quali non sono che i rossi
moderni i quali hanno sostituito i rossi della porpora antica.
Il rosso della robbia, o rosso di garanza, era servito a produrre il famoso rosso turco,
il cui segreto era arrivato in Europa solo nel Settecento. Si trattava di un “inimitabile
rosso del panno rosso”. Colore che arrivò intatto ai fieri calzoni della cavalleria militare
che con la guerra di Crimea fu il bersaglio privilegiato dei fucili, in un massacro famoso
nella valle di Balaklava, dove si estinse con le divise troppo vistose anche il rosso antico
della robbia.
Ma il rosso di garanza aveva avuto un impiego cosmetico del tutto sconosciuto oltre
CONCERTO CAMPESTRE, GIORGIONE, 1505-1510
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DANAE, TIZIANO VECELLIO, 1553
058
IDEE_IDEAS
al fatto che il colore garanza era una garanzia della tenacia e della durata di quel colore.
Konrad Bloch aveva scoperto che le radici di robbia – di cui si vede ancora qualche rara
pianta sopravissuta nei giardini di Venezia – erano la materia prima per le bionde di
Tiziano che con molta cura preparavano gli estratti dalle radici. Li lasciavano macerare
in larghi vassoi per poi farsi ripetuti shampoo e mettere i capelli ad asciugare, disposti
a raggiera sulla tesa di un largo cappello senza calotta, detto “solana”. Non facevano che
aspettare, sulle altane di Venezia, che il sole e la brezza della laguna producessero quella
reazione chimica che oggi si chiama perossido di idrogeno, ma che da allora si chiama
rosso Tiziano.
Ecco, il rosso di Venezia è sia il colore più diffuso al mondo, un po’ di rosso mattone
con cui Giorgione aveva rivoluzionato la pittura occidentale, sia il colore di una speciale
tinta per capelli ottenuta con sostanze naturali, per produrre la bellezza non effimera
delle donne di Venezia che senza il rosso di Tiziano non avrebbe avuto nemmeno un
volto.
TWO VENETIAN REDS. A PERFECT RED
by Manlio Brusatin
Venetian Red is none other than the red of bricks with green water below them. That’s
it. This red is none other than clay, ochre with particles of iron, fired to become Cyprus
powder on the cheeks of Venus.
In great Venetian painting, color has represented an all-too obvious seductive element
that overpowers the “drawing”.
Venetian reds were of two types, argues Ludovico Dolce, in A dialogue in which the
discussion is about the quality, diversity and properties of colors (Venice 1565): rubro and
rufo.
Paolo Lomazzo, a renowned painter from the Lombardia region, went blind but loved
to talk about color: he also describes two strains of reds. Cinnabar (mercury sulphide)
and red earth exude vibrations that tend towards the warmer tones of orange, along
with minium (saline lead oxide) and realgar (arsenic sulphide). These warm reds are the
opposite of garanza lac and grana, kermes lac or scarlet red, which tend towards tones
of red with a core of violet.
Realgar is found in nature but could also be produced artificially with sulphur and
arsenic, though it was extremely toxic. More precisely, realgar used in an alchemical
reaction with sulphur, could produce the rare and precious arsenic trisulphide which
was generally imported from Kurdistan and China. It has only recently been proven
that the “alchemy of Venetian painters” prepared arsenic trisulphide and always mixed
it with realgar, creating a yellow-fire-red, the color that appears so distinctively in the
light of the sunset on a clear day that is gradually fading.
Apart from the true and toxic chromatic alchemies, there are substantially two Venetian
reds. Giorgione’s red, for which he used simple red earth to obtain a better result than
059
VENERE E ADONE, PAOLO VERONESE, 1570-1575 CIRCA
060
IDEE_IDEAS
cinnabar. Cinnabar red was vermilion, the red of a brittle stone found in nature but
it could also be fabricated: with more sophisticated notions of alchemy, it could be
produced in a shop. In fact, the apprenticeship of the garzoni for example, involved
distilling alcohol, extracting mercury from the vermilion stone and producing a dye
with lead and balsamic vinegar. The absolute simplicity of Giorgione’s red, used to
convey the firmness and transparency of flesh, corresponded to an absolute
complication of mixtures in the other Venetian red. Titian red is a mixture of red ochre,
yellow ochre, umber and a hint of vermilion. It is the blond-copper red in the hair of
the Venetian ladies, as they appear in Violante (Vienna, Kunsthistorisches Museum)
or in Bella (Florence, Palazzo Pitti), who desired a blonder head of hair despite their
prevalent original brown.
To “possess” this color, it was necessary to home-make at least one of thirty-six types of
what was known as “acqua bionda”, to achieve a consistent effect of natural oxygenation
in chestnut hair. This almost four centuries before hydrogen dioxide and its bleaching
properties were discovered in Paris in the nineteenth century and marketed as Eau de
Jouvence. Biochemist Konrad Emil Bloch (1912-2000), Nobel prize for the “discovery
of cholesterol” (1964), aficionado and connaisseur of colors, had noticed during his
summer trips to the Venetian area, that all the blondes in Venetian painting (except the
Madonna who always had brown hair) must have been “bleached”. Many different
extracts of plants were used for the acque bionde: flowers from walnut and cypress trees,
myrtle leaves, poplar buds, the ashes from the dregs of white grapes, clover, holly, alum
and myrrh, cumin, lupin, boxwood, mule dung. Most important of all however was
madder (rubia tinctorum), which has always been the red coloring agent known as lacca
di garanza, used to dye wool fabrics along with woad or pastel, the European indigo
derived from isatis tinctoria. These plants ceased to be cultivated at the beginning of the
industrial era but are now being reintroduced to produce colors for postindustrial
modernity. The coloring agent in madder is alizarin, an industrial chemical substance
discovered third (1869) after mauve red and fuchsia: these are the modern reds that have
replaced the red of ancient purpura.
Madder red, or garanza lac, was used to produce the famous Turkish red, whose secret
did not filter to Europe until the eighteenth century. It was an “inimitable red for red
fabric”. A color that was used in its purest form for the proud uniforms of the military
cavalry, which became the preferred target for rifles during the Crimean war and the
famous massacre in the valley of Balaklava, where the ancient madder red died out with
the overly flamboyant uniforms.
But garanza lac also had totally unknown cosmetic properties, and garanza was a
guarantee of lasting and durable quality in the color. Konrad Bloch discovered that the
roots of madder – some rare samples of which seem to have survived in the gardens of
Venice – constituted the raw material used by Titian’s blondes, who meticulously
prepared the extracts from its roots. They let it soak in large trays, then shampooed
their hair and dried it by draping it outwards over the rim of a large hat band, called
a “solana”. Then they simply waited, on the terraces over the rooftops in Venice, for the
sun and the lagoon breeze to produce the chemical reaction that today we derive from
061
IDEE_IDEAS
hydrogen peroxide, but which since then has been called Titian red. So there, Titian
red is both the most widespread color in the world, a bit of the brick red with which
Giorgione revolutionized western painting, and the stain for a special hair color
achieved by using natural substances, to produce the non-ephemeral beauty of Venetian
women who, were it not for Titian’s red, would have barely had an identity.
DONNA ALLO SPECCHIO,
TIZIANO VECELLIO, 1515
062
Manlio Brusatin
Storico delle arti e architetto ha scritto una trilogia di teoria e tecnica delle arti tradotta
in più lingue: Storia dei colori, Storia delle immagini e Storia delle linee. Ha collaborato
a varie Biennali di Venezia dell’arte, del teatro e dell’architettura. Dal 2001 insegna alla
facoltà del design del Politecnico di Milano.
An art historian and architect, he has written a trilogy and on theory and technique of
the arts translated into many languages: The History of Colors, The History of Images and
The History of Lines. He has collaborated in many editions of the Biennale di Venezia in
the Art, Theatre and Architecture sections. Since 2001 he has taught in the Design
Department of the Politecnico di Milano.
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THE DESIGN OF COLOR:
A BIOLOGICAL AND
EVOLUTIONISTIC APPROACH
English text p. 70
ARCHITETTURA E AMBIENTE
PROGETTO DEL COLORE:
UN APPROCCIO BIOLOGICO ED EVOLUZIONISTICO
DEPURATORE – WATER PURIFYNG PLANT,
MILANO, SAN ROCCO, ITALY, 2000-2204
064
ARCHITECTURE AND THE ENVIRONMENT
ARCHITETTURA E AMBIENTE_ARCHITECTURE AND THE ENVIRONMENT
PROGETTO DEL COLORE: UN APPROCCIO BIOLOGICO ED EVOLUZIONISTICO
di Aldo Bottoli
DEPURATORE – WATER PURIFYNG PLANT, MILANO, SAN ROCCO,
IL PERCORSO DI VISITA PROTETTO, VISTA DA NORD-OVEST,
THE PROTECTED VISITORS WALK, VIEW FROM NORTHWEST, 2000-2004
066
Lo spazio abitato
Il colore è un fenomeno così comune, diffuso, presente sia nell’ambiente naturale sia in quello
artificiale che è dato per scontato, ignorando la complessa interazione che si genera tra l’uomo,
il gruppo sociale cui appartiene, gli oggetti d’uso e l’ambiente di vita.
La relazione tra l’uomo, la luce e i colori ha le sue radici nel lento cammino che ha portato allo
sviluppo della specie e delle nostre funzioni psichiche di base – quali le emozioni, la memoria,
l’attenzione – e a organizzarsi sotto lo stimolo di pressioni ambientali strettamente legate con
la lotta per la sopravvivenza.
L’ambiente naturale nel quale è avvenuto questo è caratterizzato dalla variabilità della luce
e dei colori: l’alba, il tramonto, la notte, i temporali hanno formato la nostra sensibilità fisica
e psicologica alla luce e al colore.
La specie umana si è caratterizzata anche per lo sviluppo sociale, di conseguenza le basi biologiche
della nostra mente si sono completate attraverso lo stretto rapporto con l’ambiente culturale.
La nostra identità quindi non dipende solo dagli aspetti biologici, ma si completa nell’ambiente
sociale: nell’ambito domestico dove si sviluppano i primi affetti e relazioni, nella scuola dove
crescono i mondi cognitivi, nella città dove apprendiamo le complesse regole della comunità
e nella natura dove trascorriamo il tempo libero. Anche il mondo degli oggetti e degli abiti suscita
emozioni e il ricordo del loro uso si associa non tanto alla materia, quanto alla luce e ai colori,
067
DEPURATORE – WATER PURIFYNG PLANT,
MILANO, SAN ROCCO, ITALY, 2000-2204
068
ARCHITETTURA E AMBIENTE_ARCHITECTURE AND THE ENVIRONMENT
all’ambiente fisico e sociale in cui si è costruito il loro valore d’uso e simbolico. Una sorta di
rapporto continuo figura/sfondo dove corpo, capacità bioelettrica e mondo interiore partecipano
a costruire “la realtà” che, in questo modo, prende forma attorno alla nostra percezione delle cose.
Ne deriva l’importanza di conoscere i meccanismi fisiologici e psicologici che regolano i processi
percettivi i quali, certamente meno definibili e “oggettivi” delle componenti fisiche, sono
altrettanto determinanti per il raggiungimento del benessere.
Il colore e la luce in quanto energia, fattori espressivi e culturali sono in grado di coinvolgere tutti
i processi vitali, fisiologici, neurologici e psicologici.
Il progettare per l’uomo dunque non rappresenta solo un esercizio di statica, di fisica e
d’ergonomia, ma uno sforzo ben più ampio per riuscire a mettere in equilibrio le varie energie
in gioco.
Il paesaggio extraurbano tra natura e artificio
Il peso dell’intervento dell’uomo nel paesaggio è sempre maggiore, per questo è necessaria una
sorta di “nuova ecologia” capace di preoccuparsi anche degli aspetti psicopercettivi per valutare
meglio gli effetti generati da un artificiale sempre più invasivo.
Manca troppo spesso un’attenzione verso la qualità del percepito e infatti accettiamo che il
“governo” di questi interventi sul territorio sia di ordine quantitativo, non qualitativo, metri cubi
al posto di forma, superficie, colore e dialogo con il contesto ambientale.
Perché, viene da domandarsi, noi accettiamo come necessità del mercato o tecnica manufatti
che nulla hanno a che vedere con il paesaggio circostante?
Probabilmente non esiste un’unica risposta. Molto spesso semplicemente non vediamo, siamo
soggetti a una sorta di cecità, e questo avviene perché la vita contemporanea invia al nostro cervello
una quantità enorme di stimoli costringendolo ad adottare una strategia di difesa: cancella la
quotidianità e vive di poche informazioni e di tante rimozioni.
Cancella forme, sapori, profumi, sensazioni tattili, oggetti, persone, messaggi… e in mancanza di
“qualità del percepito e delle relazioni”, la quotidianità costruisce una sua scena, un suo paesaggio
più o meno rassicurante, conforme al vissuto di ognuno di noi.
Questa “costruzione immaginaria” è generata da uno stato di coscienza indotto da un’attività
cerebrale molto veloce ma, di conseguenza, superficiale e stereotipata, dove paesaggi, ambienti,
oggetti diventano “automatici”, banali, incolori, in una parola invisibili.
Da una quotidianità che limita la nostra percezione delle cose, facilmente prendono forma due
giudizi estetici: del conosciuto, che di fatto però non percepiamo, e dello sconosciuto, sul quale
manteniamo una certa criticità, ma dal quale non traiamo grande utilità se non vi è la possibilità
di confronto.
Il paesaggio non è solo un accumulo di forme, ma un insieme di informazioni, una sorta di sistema
integrato di comunicazione, per questo è necessaria una forma di lotta contro quell’automatismo di
percezione che rischia di farci perdere la nostra identità impedendoci di riconoscerla.
Certo tutti noi ci accostiamo al paesaggio in modo diverso e questo dipende dal fatto che ciascuno
lo avvicina con un differente bagaglio di analogie derivato dalle esperienze precedenti. Non
saremmo in grado di agire altrimenti. Il nostro linguaggio, tutta la nostra cultura sono costruiti
sulla base di queste analogie.
069
ARCHITETTURA E AMBIENTE_ARCHITECTURE AND THE ENVIRONMENT
Tuttavia architetti e designer operano ancora troppo spesso con colore e luce facendo appello
al loro buon gusto considerandoli come un valore estetico aggiunto alla forma, senza avere
piena consapevolezza del loro profondo impatto psicologico.
Allora sono il progetto, in generale, e il progetto di luce e colore, in particolare, ad avere la
possibilità di “ridare la percezione” del paesaggio sottraendolo all’automatismo della visione
quotidiana. Attraverso modalità non conformi, nuove, sorprendenti, luce e colore possono
aggiungere informazione, emozione, infine qualità.
DEPURATORE – WATER PURIFYNG PLANT,
MILANO, SAN ROCCO, CORTE INTERNA
INTERNAL COURTYARD, 2000-2004
070
Un esempio contemporaneo
L’intervento di Jorrit Tornquist sul depuratore di Milano San Rocco, progettato dallo studio
Quattroassociati (C. Annoni, S. Parodi, M. Reginaldi, D. Saviola) e situato sul margine sud del
territorio urbanizzato, si concentra sulle costruzioni affacciate verso la città, mentre un argine di
terra mitiga l’impatto sui tre lati rivolti verso il paesaggio agricolo. La finitura grigio azzurro
trasparente connota il calcestruzzo facciavista con cui sono realizzati gli edifici alti, materiale scelto
anche per dare continuità materica con le vasche di depurazione, rendendo così nitido il loro
profilo. Al tempo stesso, riprendendo il colore del cielo evita interferenze con la lunga parete
orizzontale, vero e proprio segnale cromatico dell’impianto. Questa, rivestita di pannelli metallici
ondulati in gradazione dall’azzurro al blu, diviene una successione di onde di colore che evocano
il contenuto e la funzione dell’impianto. Una progressione amplificata dalla sinuosità della lamiera
che, dalla prima onda generata da 16 colori, si annulla progressivamente in un unico azzurro
all’entrata del depuratore, trovando all’interno una corrispondenza nella vasca d’acqua della zona
uffici e nel blu che connota il muro di cinta.
Tutto il progetto è un adeguato esempio di corretto approccio alle problematiche del colore
nell’architettura, compresa la sua relazione con l’intorno ambientale, anche perché qualifica
percettivamente un impianto di notevole impatto territoriale.
THE DESIGN OF COLOR: A BIOLOGICAL AND EVOLUTIONISTIC APPROACH
by Aldo Bottoli
Inhabited space
Color is such a common, widespread and ever-present phenomenon in both the natural and
artificial environment that we take it for granted, ignoring the complex interaction that is
generated between man, the social group he belongs to, everyday objects and the living
environment.
The relationship between man, light and colors is rooted in the lengthy process that led to the
development of the species and our basic psychological functions, such as emotions, memory,
attention, learning how to organize life in response to the environmental pressures that determined
the fight for survival. The natural environment in which this took place was characterized by the
variability of light and colors: dawn, sunset, night, thunderstorms shaped our physical and
psychological sensitivity to light and color.
071
DEPURATORE – WATER PURIFYNG PLANT,
MILANO, SAN ROCCO, CORTE INTERNA
INTERNAL COURTYARD, 2000-2004
072
ARCHITETTURA E AMBIENTE_ARCHITECTURE AND THE ENVIRONMENT
The human species was distinguished by its social development; the biological foundations of our
minds were formed in strict relation with the cultural environment.
Thus our identity does not depend on biology alone, but is completed by the social environment:
the domestic environment where the first love relationships are developed, school where the
cognitive fields grow, the city where we learn the complex rules of the community and nature
where we spend our free time. The world of objects and clothing elicits emotions and the memory
of their use is associated not so much with materials as with light and colors, the physical and
social environment that gave them their symbolic and practical value. A sort of continuous
figure/ground relationship where the body, the bioelectric capability and the interior world
participate in the construction of a “reality” that can thus take shape around the perception of
things. Hence the importance of understanding the physiological and psychological mechanisms
that govern perceptive processes: they are certainly harder to define and less objective than the
physical components, but just as decisive for achieving a state of wellbeing.
Color and light as energy, as expressive and cultural factors, involve all our vital, physiological,
neurological and psychological processes.
Thus designing for man does not represent simply an exercise in structural engineering, physics
and ergonomics, but a much wider effort to balance the many types of energy involved.
The suburban landscape between nature and artifice
The scope of man’s action on the landscape is constantly growing and this is why we need a sort
of “new ecology” that can also deal with psycho-perceptive factors to better evaluate the effects
generated by an increasingly invasive artificiality.
Too often, there is a lack of attention towards the quality of what is perceived and we actually
accept the fact that these interventions on the territory are “regulated” in terms of quantity and not
quality, cubic meters rather than form, surface, color and relationship with the environmental
context.
Why, one might ask, do we accept objects that have nothing to do with the surrounding landscape
as market or technical necessities?
There is probably no single answer. More often than not we simply do not notice, we are stricken
by a sort of blindness, and this occurs because contemporary life sends our brain an enormous
quantity of stimuli forcing it to adopt a sort of defense strategy: it cancels what is habitual and
survives on very little information and a great deal of repression.
It eliminates shapes, tastes, perfumes, feelings of touch, objects, persons, messages… and without
a “perceived and relational quality”, daily life builds its own stage, its own landscape that is more
or less reassuring, and conforms to each individual’s experience.
This “imaginary construction” is generated by a state of consciousness induced by a very rapid
cerebral activity that as a consequence becomes superficial and stereotyped, where landscapes,
environments, objects become “automatic”, prosaic, colorless, in one word, invisible.
From a daily routine that limits our perception of things, we may form two esthetic opinions:
one about what we know, but which we basically do not perceive, and one about what we do
not know, which we keep at a certain critical distance, but do not really benefit from because we
cannot relate to it.
The landscape is not simply an assemblage of forms, but a collection of information, a sort of
073
DEPURATORE – WATER PURIFYNG PLANT, MILANO, SAN ROCCO,
IL PERCORSO DI VISITA PROTETTO E L’EDIFICIO UFFICI E SERVIZI GENERALI, VISTA DA NORD-OVEST,
THE PROTECTED VISITORS WALK AND THE ADMINISTRATION AND GENERAL SERVICES BUILDING
VIEW FROM NORTHWEST, 2000-2004
074
ARCHITETTURA E AMBIENTE_ARCHITECTURE AND THE ENVIRONMENT
integrated system of communication, which is why we need a system to contrast this automatic
form of perception that may cause us to lose our identity by preventing us from recognizing it.
Of course we all confront the landscape differently and this depends on the fact that each of us
approaches it with a different set of analogies derived from our previous experiences. We could not
act any differently. Our language, our entire culture are built on the basis of these analogies.
Still architects and designers too often work with color and light relying on their personal good
taste and considering them as an esthetic value added to form, without really being aware of their
profound psychological impact.
So it is design in general, and the design of light and color in particular, that can “restore the
perception” of the landscape by salvaging it from the automatic process of daily vision. In nonconforming, new and surprising ways, light and color can add information, emotion, and quality.
A contemporary example
The project by Jorrit Tornquist for the water purifying plant in Milano San Rocco, designed by
Studio Quattroassociati (C.Annoni, S.Parodi, M.Reginaldi, D.Saviola) and located on the southern
edge of the urbanized territory, concentrates on the buildings facing the city, while an
embankment mitigates the impact on the three sides facing the agricultural land.
A transparent blue-grey finish characterizes the raw concrete out of which the tall buildings are
built: it was chosen to give material continuity to the water-purifying tank, to which it confers a
clear-cut silhouette. At the same time, by referring to the color of the sky, it does not interfere
with the long horizontal wall, the true chromatic sign of the plant. The wall, finished in undulated
metal panels grading from light to darker blue, becomes a succession of colored waves that are
reminiscent of the content and the function of the plant. A progression amplified by the sinuous
form of the sheet metal, which begins with a wave generated by 16 colors, and progressively effaces
into a single light blue at the entrance to the water purifying plant, finding correspondence inside
in the pools of water in the office area and in the blue of the perimeter wall.
The entire project is a fine example of a correct approach to the issue of color in architecture,
including its relationship with the surrounding landscape, because among other things it
perceptively qualifies a plant with significant impact on the territory.
Aldo Bottoli
Fa parte dello studio Associato B&B Colordesign ed è docente di Percezione e colore presso
il Politecnico di Milano.
Is an associate of the Studio Associato B&B Colordesign and teaches Perception and Color
at the Politecnico di Milano.
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DESIGN&DESIGNER
LAGRANJA DESIGN
AND THE UTO LAMP
English text p. 82
DESIGN&DESIGNER
LAGRANJA DESIGN
E LA LAMPADA UTO
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DESIGN&DESIGNER
LAGRANJA DESIGN E LA LAMPADA UTO
di Fiorella Bulegato
Lo studio Lagranja, nato a Barcellona nel 2002, si occupa di progettazione architettonica, interior, retail,
exhibit e industrial design per aziende spagnole e italiane come Silla Ibiza, Cuberteria, Paola C.,
Dreams&Co. Entrambi i fondatori – Gabriele Schiavon (Padova, 1973) e Gerard Sanmartí (Barcelona,
1974) – affiancano all’attività professionale quella di docenti, attualmente presso Elisava (Escola Superior
de Disseny), Eina (Escola de Disseny i Art), Ied a Barcelona, dopo aver precedentemente collaborato, in
particolare, con il centro creativo Fabrica del gruppo Benetton.
Quali sono le caratteristiche salienti del progetto?
La nostra idea, partita dall’aver notato che le lampade a sospensione sono generalmente composte da un
corpo e da un cavo elettrico, si basa sulla volontà di concepire un oggetto unico, monomaterico, in cui il
cavo potesse diventare anche diffusore di luce. In più, abbiamo cercato di “disegnare” quella prolunga del
cavo a soffitto a cui spesso dobbiamo ricorrere negli spazi della casa quando la discesa dell’alimentazione
elettrica è fissa. Il lungo stelo morbido di Uto può essere infatti piegato e appeso al soffitto con un gancio.
Altro tema progettuale con cui volevamo confrontarci è quello dell’utilizzo versatile degli oggetti, anche se
non crediamo nel pezzo che si trasforma per altri usi, ma nell’utilizzo in grado di cambiare l’oggetto.
Come queste sollecitazioni si sono sviluppate per arrivare alla produzione?
La gestazione dell’idea è stata piuttosto lunga, visto che giaceva in una serie di schizzi dell’inizio del
2002 fatti in un autobus a Hensilki. Quando l’abbiamo sottoposta a Foscarini, un anno dopo, e si
sono dimostrati interessati, abbiamo iniziato a svilupparla assieme. Da questo confronto è scaturito,
079
DESIGN&DESIGNER
UTO, FOSCARINI, 2005
080
081
DESIGN&DESIGNER
ad esempio, il cambio di materiale. Inizialmente era stato ipotizzato di utilizzare il silicone, successivamente
sostituito – considerato che si sporca, pesa molto e si può rompere se sottoposto a forte trazione – da un
altro materiale affine, di derivazione automobilistica e non ancora utilizzato nell’illuminazione, ma con
caratteristiche meccaniche migliori e facilità di pulizia maggiore. Molto resistente alle abrasioni, filtra la
luce rendendola docile, “addomesticata”: proprio l’effetto che volevamo ottenere.
Qual è stato il contributo dell’azienda?
L’azienda ha avuto una notevole fiducia nei nostri confronti, perché questo è in effetti il primo nostro
“grande” progetto di industrial design. Ha creduto nell’idea, investendoci parecchio.
Il risultato finale soprattutto, ma anche le fasi intermedie di sviluppo, sono state il frutto di un dialogo
continuo: Foscarini non è un’azienda che aspetta che il progettista risolva tutto il progetto ma lavora sul
pezzo con una costante messa a punto. Altri oggetti da noi progettati in precedenza erano nati invece in
relazione stretta con gli spazi che stavamo progettando – negozi, ristoranti, allestimenti – quindi pezzi
di produzione artigianale, in numeri molto ridotti, eseguiti con tecnologie semplici.
Nella vostra impostazione del lavoro progettuale, quanto è importante il lavoro di team?
Oggi lo studio è composto da un gruppo di sei persone più altri professionisti coinvolti su specifici aspetti
progettuali, ad esempio, grafici e modellisti. Senza questa squadra flessibile non saremo in grado di
elaborare progetti a scale così diverse, dalle discoteche alle lampade, per semplificare, dove ogni volta
bisogna “armarsi” di un bagaglio specializzato e strumenti differenti.
Quali opportunità per i giovani progettisti?
Crediamo che per un giovane designer il modo migliore per crescere è portarsi laddove ci sono occasioni
che possono generare delle “inquietudini” progettuali, che lo inducono a mettersi in gioco, meglio se
sembrano molto più grandi di te. A volte però i giovani – e ci sembra che in questo le due situazioni
nazionali si assomiglino – sembrano cercare più la pubblicazione nelle riviste che l’approfondimento
progettuale. Tuttavia, il “fenomeno” del design catalano degli anni novanta ci porta a considerare la
possibilità che i progettisti hanno, lavorando con metodologie simili, di trovare qualcosa da raccontare in
una dimensione di gruppo. Perciò probabilmente quello che manca in Italia in questo momento è anche
la volontà di lavorare assieme. Forse, questi gruppi potrebbero dare vita a dei movimenti che hanno
effettivamente delle “storie da raccontare”, rappresentandole negli spazi come negli oggetti, per tentare
di “far star bene” le persone.
SUTTON CLUB,
BARCELONA, SPAIN, 2005
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LAGRANJA DESIGN AND THE UTO LAMP
by Fiorella Bulegato
Studio Lagranja, founded in Barcelona in 2002, works in the field of architectural, interior, retail, exhibit
and industrial design for Spanish and Italian clients such as Silla Ibiza, Cuberteria, Paola C., Dreams&Co.
Both its founders – Gabriele Schiavon (Padua, 1973), and Gerard Sanmartì (Barcelona, 1974) –
complement their professional work by teaching, currently at the Elisava (Escola Superior de Disseny),
Eina (Escola de Disseny i Art), and Ied in Barcelona, following previous collaborations, in particular with
the Benetton Group’s creative center Fabrica.
What are the salient characteristics of the project?
Our idea, which derived from the observation that suspension lamps are generally composed of a body
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PANCA/DONDOLO – ROCKING BENCH, PROTOTIPO, CASAMANIA, 2005
TEIERA – TEAPOT MIMI, PAOLA C, 2002
POSATE – CUTLERY, GREGGIO ARGENTI, 2005
IBIZA CHAIRS, CONCEPTA, 2005
APPOGGIAPENTOLE – TRIVET X, PAOLA C, 2002
HUELLAS COLLECTION, CENTREX, 2002
084
DESIGN&DESIGNER
and an electric cord, is based on the intent to conceive an individual, single-material object whose cord
could also become the shade for the light. In addition, we tried to “design” the extension of the ceiling
cord that is so often necessary in domestic spaces where the electrical point source is fixed. Uto’s long soft
stem may in fact be bent and hung on the ceiling with a hook. Another design issue we wanted to deal
with was the versatile use of objects, even though we do not believe in objects that can be transformed for
other uses, but in ways of using it that can change the object.
How did these ideas develop into production?
The gestation of the idea was a rather long one, given that it was part of a series of sketches we made in a
bus in Helsinki in 2002. When we took it to Foscarini, a year later, and they showed an immediate
interest, we decided to develop it together. This dialogue led to a change in material. Initially we intended
to use silicone, which we later replaced – because it absorbs dirt, is rather heavy and can break if pulled
too hard – with a similar material used in the automobile industry but not for lighting, that had better
mechanical characteristics and was easier to clean. It is highly resistant to abrasions, and filters the light to
make it docile, “tamed”: the very effect we were seeking.
What was the manufacturer’s contribution?
The company demonstrated a great deal of faith in us, because this is in fact our first “significant”
industrial design project. It believed in the idea, and invested a lot of money in it. The final in particular,
as well as the intermediate phases of development, were the result of a continuous dialogue: Foscarini is
not a company that expects the designer to resolve the entire project but works on the piece until it is
perfected. Other objects that we designed before had been created in relation to spaces we were designing
– boutiques, restaurants, exhibits – and were pieces produced by craftsmen, in very small numbers, using
simple manufacturing processes.
How important is teamwork in your design process?
Today the studio is composed of a group of six people, in addition to other professionals involved in
specific design aspects, such as graphic designers or model makers. Without this flexible group we would
not be able to develop projects at such different scales, from disco clubs to lamps, so to speak, where each
time one must count on a specialized background and different tools.
What opportunities exist for young designers?
We believe that the best way for a young designer to grow is to go where there are opportunities that can
generate design “unrest”, which induce the designer to put himself on the line, better yet in projects that
seem much bigger than you are. At times however young designers – and in this case the situation in the
two countries seems to be the same – seem to strive for publication in magazines rather than developing
their design talent. However, the “phenomenon” of Catalan design in the Nineties leads us to consider
the possibility that designers working with similar methodologies may find something to say as a group.
So what is probably lacking in Italy at this time is the will to work together. Perhaps these groups could
breed movements that really do have “something to say”, representing their ideas both in spaces and
objects, to try and “do something” for people.
Fiorella Bulegato
Laureata in architettura all’Iuav di Venezia nel 1995, sta svolgendo un dottorato in disegno industriale
all’Università La Sapienza di Roma. Da alcuni anni svolge attività di ricerca documentaria per
pubblicazioni – ha curato ad esempio l’atlante del volume Achille Castiglioni 1938-2000, Electa, Milano
2001 – e scrive su periodici e riviste, con particolare riguardo ai temi dell’industrial design.
A graduate in architecture from the Università IUAV in Venice in 1995, she is currently pursuing her
doctorate in industrial design at the Università La Sapienza in Rome. For several years she has done
documentary research for publications, writing and editing the catalogue of works for the book Achille
Castiglioni 1938-2000, Electa, Milan 2001; she writes for periodicals and magazines, with particular
attention to the issues of industrial design.
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WHO IS AFRAID OF THE
SPECTRUM? ELLSWORTH KELLY
AND COLOR
English text p. 95
ARTE
CHI HA PAURA DELLO SPECTRUM?
IL COLORE DI ELLSWORTH KELLY
ORANGE GREEN, 1964
BAY, THE HELMAN COLLECTION, NEW YORK, 1959
086
ART
ARTE_ART
SPECTRUM IV, 1967
088
CHI HA PAURA DELLO SPECTRUM? IL COLORE DI ELLSWORTH KELLY
di Luca Massimo Barbero
Il colore in arte ha in fondo mille origini e altrettante leggende o valenze simboliche. In pittura è
sempre stato schiavo poetico del rappresentare un oggetto, un soggetto o un paesaggio per poterlo
rendere più simile al vero perché: “guarda che colori… sembrano veri”. Un vero incidente scientifico
ha però colpito alcuni artisti a fondo, attraverso i secoli. “Light is a heterogenerous mixture of
differently refrangible rays”, così Isaac Newton nel 1655, nel mezzo di un secolo ricco di scoperte,
provvede a fornire la comprensione della percezione ottica e della rifrazione della luce. E all’ottima
compagnia possiamo aggiungere René Descartes che pubblica, addirittura nel 1637, un saggio che
detiene uno tra i titoli più memorabili dedicati alla luce con Origine degli Arcobaleni. Questo è il
breve e incompleto percorso che un giovane soldato americano giunto in Francia dopo soli dieci
giorni dallo sbarco in Normandia annota su un libretto, sperando di poter visitare i musei parigini,
ovviamente sbarrati e chiusi per l’infuriare degli ultimi momenti del drammatico conflitto. Per
Ellsworth Kelly americano dello stato di New York, allora ventunenne, l’ossessione per i grandi musei
d’arte e di storia francesi continuerà negli anni, superata solamente dall’amore per il colore e lo studio
delle combinazioni della chiave cromatica dello Spectrum newtoniano e le sue sette parti: Red,
Orange, Yellow, Green, Blue, Indigo, Violet. Ma cerchiamo di andare con un po’ d’ordine per
tracciare il percorso di colui che – forse non così noto al grande pubblico in Italia – è invece
considerato internazionalmente come uno dei più grandi e originali artisti americani,
indissolubilmente legato al colore puro, alla tela come un campo fisico di percezione.
089
ARTE_ART
Innanzitutto, mentre negli Stati Uniti della seconda metà degli anni quaranta imperversa lo scandalo
dell’Action Painting, con il capofila degli “Irascibili” Jackson Pollock, e la materia dei dipinti assume
sempre più arruffate e tormentate forme e quantità sulle tele, il giovane Kelly letteralmente fugge
nuovamente in Francia, questa volta non più come Special Trooper ma come onnivoro visitatore
di musei: dall’antico del Louvre all’arte islamica, dal museo di Cluny al museo di storia naturale.
Il suo amore sognato diviene quello di riuscire a rappresentare e unire la ricchezza sublime delle linee
architettoniche con la scientificità algida ma sontuosa dei colori, dello spettro letto attraverso la
“poetica” di Newton, e ancora di Goethe sino al romantico Otto Runge. COLORE sembra essere
la parola d’ordine e, quasi per paradosso, le sue opere, spesso tridimensionali, riproducono finestre
essenziali, rilievi razionalisti e sono ovviamente e per la maggior parte BIANCHE. Nel 1951 – dopo
oltre tre anni di percorso speso tra il razionalismo e l’amicizia con Jean Arp o il confronto con
Matisse, così come l’amicizia con John Cage, che in quegli anni soggiorna in Europa – Kelly inizia la
serie di grandi dipinti intitolata Spectrum, tasselli sincopati di colore, texture irregolari e ritmiche a
realizzare labirinti ma anche possibili e improbabili visioni dall’alto, città notturne e caleidoscopi
schizzati che anticipano di decenni l’arte optical. Il mistero inizia a prendere forma; l’“Arcobaleno” è
da questo momento per Kelly superato, assume nuove forme, il colore prende un peso distinto quasi
fisico, viene Nominato, si distribuisce nello spazio della composizione quasi avesse un peso.
Ed è di questo “peso del colore” o, meglio, tramite questo peso che razionalmente Kelly, sempre nel
1951, costruisce il dipinto Colori per un Grande Muro; sessantaquattro pannelli combinati in modo
apparentemente casuale. Costruire Muri di Colore tramite tele monocrome diviene la sua cifra.
In un momento in cui ancora si dipana clamorosa la pittura gestuale, le opere di Kelly assumono una
severità compositiva del tutto inedita per l’epoca. Figlie di una tradizione razionale sono invece
modernissime, innalzano muri solenni e poeticamente sonori di fronte al groviglio di segni romantici
e tormentati dell’Action Painting. Il colore steso in modo quasi neutro sulla tela, accostata a tele di
altri colori, fa dello Spectrum e delle sue declinazioni una nuova tabula rasa contro la dilagante
generazione della “lotta dell’Informale”. Tramite le grandi campiture delle tele monocrome può
finalmente erigere un’Architettura simbolica dipinta. I ritmi, le dimensioni virtuali delle tele colorate,
l’alternarsi dei colori assumono proporzioni fisiche notevoli. Kelly innalza veri e propri spazi-muri di
oltre sei metri di lunghezza. In breve tempo il ritmo regolare e imperativo dei dipinti si associa a un
altro ciclo, quello delle architetture naturali dove le costruzioni, le linee, le curve di un paesaggio
o di un edificio vengono ricostruite ingigantite simboleggiate attraverso una sintesi in due colori.
Per le nuove generazioni americane Kelly diventa un Monumento al colore puro anticipatore della
Minimal Art, in realtà provocatore attraverso enormi superfici immobili di colore – giganteschi muri
di poesia cromatica – che reagiscono l’una con o contro l’altra per sfidare lo spazio e la sensibilità di
chi guarda. Lo Spectrum newtoniano è l’unico titolo che ritorna nelle sue opere insieme a un altro
che lo ha reso famoso: Chi ha paura del Verde, Rosso, Giallo e Blue?
BLUE RIPE, CALDIC COLLECTION, ROTTERDAM, 1959
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RED BLUE GREEN, MUSEUM OF CONTEMPORARY ART, SAN DIEGO 1963
ARTE_ART
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ARTE_ART
WHO IS AFRAID OF THE SPECTRUM? ELLSWORTH KELLY AND COLOR
by Luca Massimo Barbero
Color in art has a thousand origins and an equal number of legends or symbolic meanings. In
painting it has also been a poetic slave to the representation of an object, a subject or a landscape that
must appear as close to reality as possible because: “look at those colors…they look real”. However a
veritable scientific accident had a profound influence on many artists, throughout the centuries.
“Light is a heterogeneous mixture of differently refractive rays”: with these words in 1655, in the
midst of a century replete with discoveries, Isaac Newton provided an explanation of optical
perception and light refraction. And to this distinguished company one might add René Descartes,
who as early as 1637 published an essay boasting one of the most memorable titles dedicated to light:
The Origin of the Rainbow. This is the short and incomplete process that a young American soldier
come to France only ten days after D-Day jots down in a notebook, hoping to visit the museums in
Paris, obviously under lock and key in the raging final moments of this dramatic conflict. For
Ellsworth Kelly, an American from the state of New York, twenty-one years old at the time, the
obsession for the great French art and history museums would last through the years, surpassed only
by his love for color and for the study of combinations of the chromatic key in Newton’s spectrum,
and its seven parts: Red, Orange, Yellow, Green, Blue, Indigo, Violet.
But let’s try to proceed in an orderly fashion to trace the development of a man who is perhaps not
very familiar to the Italian public, but is internationally considered to be one of America’s greatest and
most original artists, indissolubly bound to pure color, to the canvas as a physical field of perception.
First of all, while the scandal of Action Painting raged through the United States during the second
half of the Forties, with the “Irascibles” led by Jackson Pollock, and the substance of painting
displayed increasingly quirky and tormented forms and quantities on the canvases, young Kelly
literally fled back to France, no longer as a Special Trooper but as an omnivorous visitor of museums:
from the antiquities of the Louvre to Islamic art, from the museum of Cluny to the museum of
natural history. His most cherished dream became to succeed in representing and uniting the sublime
richness of architectural lines with the cold but sumptuous scientific nature of colors, of the spectrum
understood through the poetics of Newton, or Goethe and onwards to the Romantic Otto Runge.
COLOR seemed to be the password and, rather paradoxically, his often three-dimensional works
represented austere windows, rationalist elevations and for the most part they were WHITE. In 1951,
following a three-year maturing process spurred by rationalism and his friendship with Jean Arp or
his contact with Matisse, as well as his friendship with John Cage who was living in Europe at the
time, Kelly began his series of ‘large’ paintings entitled Spectrum, syncopated pieces of color, irregular
and rhythmic textures that created labyrinths as well as possible and unlikely visions from above,
nocturnal cities and crazy kaleidoscopes that anticipated optical art by at least ten years. The mystery
began to take shape; from that moment on, Kelly moved beyond the “Rainbow”, it took new shapes,
the color acquired a distinct and almost physical weight, it became Named, it was distributed
through the space of composition as if it had weight. And it was with this “weight of color”, or better
yet, through this weight that Kelly rationally constructed the painting Colors for a Large Wall in 1951;
sixty-four panels combined in an apparently casual way. Building Walls of Color by means of
monochrome canvases became his signature. At a time when gestural painting was spreading rapidly,
Kelly’s works displayed a compositional severity that was absolutely original for the period. The
offspring of a rationalist tradition, they were extremely modern, they erected solemn and poetically
0RANGE RED RELIEF, SOLOMON R. GUGGENHEIM MUSEUM, NEW YORK, 1959
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ARTE_ART
CITY ISLAND, STEPHEN MAZOH COLLECTION, 1958
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sonorous walls before Action Painting’s tangle of tormented romantic signs. The color laid almost
neutrally on the canvas, beside the canvases painted in other colors, made Spectrum and its
declinations a new tabula rasa against the fast-growing “battle of Informality” generation.
Thanks to the large fields of the monochrome canvases, the alternation of colors acquired significant
physical proportions. Kelly built veritable wall-spaces over six meters long. In a short time the regular
and imperative rhythm of the paintings became associated with another cycle, the cycle of natural
architecture where the constructions, the lines, the curves of a landscape or a building were
reconstructed blown up symbolized through a synthesis of two colors. For the new American
generations Kelly became a Monument to color, a pure anticipation of Minimal Art, in fact a
provocation by means of enormous still surfaces of color – giant walls of chromatic poetry – that
reacted with or against one other to defy space and the sensitivity of the viewer. The Newtonian
Spectrum is the only title that repeats itself in his works along with one other that made him famous:
Who is afraid of Green, Red, Yellow and Blue?
Luca Massimo Barbero
Nato a Torino nel 1963, è Associate Curator della Collezione Guggenheim. Organizzatore di
mostre d’arte contemporanea, è scrittore d’arte e docente alla scuola Holden di Torino. Ha curato,
tra le altre, mostre di Lucio Fontana, Arte Minimal, Arte Americana, Informale e per anni ha
collaborato con Peter Greenaway con cui ha ideato la mostra di Palazzo Fortuny per la VL Biennale
di Venezia.
Born in Turin, Italy in 1963. he is an Associate Curator at the Guggenheim Collection. He
organizes contemporary art exhibits, writes about art and teaches at the Scuola Holden in Turin.
He has been the curator for the exhibitions on Lucio Fontana, Minimal Art, American Art, and
Informal Art. For several years he collaborated with Peter Greenaway, with whom he conceived
the exhibition at Palazzo Fortuny for the 45. Biennale di Venezia.
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DESIGN
YET
STUDIO KAIROS
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COMIX
FUMETTO
Artista prolifico e poliedrico, sperimentatore di tecniche e mezzi espressivi – dall’acrilico al
pennarello, dall’incisione alla video e computer graphics – Peter Max (Germania 1937) è tra i
più popolari designer pop americani. Collocabile nella generazione della “cultura psicadelica”,
è tra coloro che hanno influenzato la comunicazione visiva dei mass media a partire dal
decennio sessanta fino ad oggi, catturando lo spirito di liberazione che si era generato in
quegli anni in un caleidoscopio di colori, pattern, elementi grafici ispirati, tra l’altro, all’art
deco. Dai poster alle copertine – di “People”, “Times”, “U.S. News & World Report”, tra le
molte –, dalla scena delle trasmissioni tv come The Tonight Show agli interventi in occasione
di grandi manifestazioni musicali, artistiche, sportive e politiche, Max ha costruito un
paesaggio di icone in technicolor del nostro tempo, dalla Statua della Libertà a Monna Lisa,
da George Washington a Paul McCartney.
Una singolare testimonianza del suo lavoro è costituita da due libri The Land of Red e
The Land of Blue, pubblicati nel 1970 da Franklin Watts, dedicati al tema del colore dove
l’approccio onirico e fantasioso trova piacevole esemplificazione e la vicenda narrata pare
essere soprattutto un esile pretesto per la messa in scena di una fantasmagoria cromatica.
PETER MAX
THE LAND OF BLUE
PETER MAX
English text p. 107
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FUMETTO_COMICS
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FUMETTO_COMICS
A prolific and multifaceted artist, who experimented with expressive media and techniques
from acrylic to felt pens, engraving to video and computer graphics, Peter Max (Germany,
1937) is one of the most popular American pop designers. Identifiable as a member of the
“psychedelic culture” generation, he has had a strong influence on visual communication in
the mass media from the Sixties to the present, capturing the spirit of freedom that exploded
during those years with a kaleidoscope of colors, patterns, graphic elements inspired in part
by art deco. From posters to magazine covers – on “People”, “Time”, “U.S. News & World
Report”, among others – to the sets of television shows such as The Tonight Show, to his work
in important musical, artistic, sports and political events – Max built a landscape of
technicolor icons for our time, from the Statue of Liberty and the Mona Lisa, to George
Washington and Paul McCartney.
A singular testimonial of his work is constituted by two books, The Land of Red and The
Land of Blue, published in 1970 by Franklin Watts and dedicated to the theme of color, in
which his oneiric and imaginative approach is pleasantly exemplified, and the storyline seems
mostly to offer a tenuous excuse to exhibit a chromatic outburst of imagination.
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p 15 > IMAGE COURTESY OF: B&B ITALIA
p 17 > IMAGE COURTESY OF: ARCHIVIO
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pp 29-30-32 > IMAGE COURTESY OF:
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IL SAGGIATORE
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pp 39-41-43-50 > IMAGE COURTESY OF:
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p 49 > ARTEMIO CROATTO
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GUGGENHEIM MUSEUM
pp 102-104-106 > IMAGE COURTESY OF:
“THE LAND OF BLUE”, PETER MAX,
FRANKLIN WATTS EDITIONS, NEW YORK
L’OPZIONE – DIALETTICA O RADICALE – PARE ESSERE DA SEMPRE
FRA BIANCO E NERO E COLORE. OPPURE LA QUESTIONE
RIGUARDA LA SCELTA FRA TRANQUILLE E RASSICURANTI CROMIE
E PIÙ ACCESE ALTERNATIVE, COMPRESE LE RELATIVE IMPLICANZE
PSICOLOGICO-PERCETTIVE-SENSORIALI-CULTURALI; O ANCORA,
IN MANIERA COLTA, FRA RAGIONE E SENTIMENTO. RESTA CHE,
DENTRO LA CULTURA DEL PROGETTO, IL COLORE HA SEMPRE
RAPPRESENTATO UN’OPZIONE FORTE (ANCHE QUAND’ERA BIANCO
E NERO) DI VOLTA IN VOLTA SCELTA COME STRUMENTO DI
ESPRESSIONE, BANDIERA IDEALE O POLEMICA. NEL PANORAMA
DEL DESIGN CONTEMPORANEO IL COLORE HA RICONQUISTATO
LA SCENA.
THE OPTION – DIALECTIC OR RADICAL – SEEMS ALWAYS TO HAVE
BEEN THE CHOICE BETWEEN BLACK AND WHITE OR COLOR. THEN
AGAIN IT MAY INVOLVE THE CHOICE BETWEEN SOFT AND
REASSURING COLORS OR MORE BRILLIANT ALTERNATIVES, WITH
THEIR RELATIVE PSYCHOLOGICAL-PERCEPTIVE-SENSORIALCULTURAL IMPLICATIONS; OR AGAIN, AT A CULTURAL LEVEL,
BETWEEN REASON AND SENTIMENT. THE FACT REMAINS THAT,
IN THE DESIGN CULTURE, COLOR HAS ALWAYS REPRESENTED A
POWERFUL OPTION (EVEN WHEN IT MEANT BLACK AND WHITE)
CHOSEN AS AN INSTRUMENT OF EXPRESSION, AN IDEALISTIC
OR POLEMICAL BANNER. NOW, ON THE CONTEMPORARY DESIGN
SCENE, COLOR IS BACK.
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