DIREPUBBLICA DOMENICA 13 SETTEMBRE 2015 NUMERO 548 Cult La copertina. Ecofantasy, come cambia il clima letterario Straparlando. Mary de Rachewiltz, Ezra Pound mio padre Mondovisioni. Metti una Brooklin nel Maine GLI OCCHIALI DI PIER PAOLO PASOLINI © FOTO ALESSANDRO SERRANÒ Isuoi occhiali, un pettinesdentato lacartina dell’Italia,dieciSaridon, trepreservativi eil libro(Nietzsche)che nonpoté finire disottolineare A quarant’annidall’omicidiodi PierPaolo Pasolini sarannoesposti per laprimavolta glioggetti ritrovati quellanotte sullasuaAlfaRomeo Gt Reperti P.P.P. VALERIO MILLEFOGLIE S WALTER SITI ROMA ALENDO DELLE SCALE STRETTE, avvitate a chiocciola come quelle che in una torre porterebbero a un campanile, e attraversando visioni di armi del delitto e gabbie di ferro, si giunge alla porta di un ufficio e di seguito a quella di un piccolo magazzino in cui avanzando si scansano: una cassa di fucili, un dipinto contraffatto di Guttuso, un faldone sulla cui costa è scritto “Passannante”, due rilevatori di umidità, un recipiente di latta per la colazione dei detenuti, un registro degli impiegati di un bagno penale di fine Ottocento, e infine, poggiate sul pavimento, due scatole di cartone che portano l’intestazione, “Reperti P. P. Pasolini”. Siamo in uno dei magazzini del Museo criminologico di Roma, museo che espone prove ed elementi di casi giudiziari dal medioevo all’epoca moderna. E sono passati ormai quarant’anni dalla notte fra l’1 e il 2 novembre del 1975 in cui Pier Paolo Pasolini fu ucciso sulla spiaggia dell’idroscalo di Ostia. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE U di una vita troncata all’improvviso: questo ci restituiscono le due scatole di cartone con gli oggetti appartenuti a Pasolini e trovati sul luogo del delitto. Compresse per il mal di testa, una confezione di preservativi, la raccolta punti di un benzinaio; due pettinini per ravviarsi i capelli in fretta, gli occhiali. L’ingenua vanteria (o forse la snobistica noncuranza) di tenersi in macchina la statuetta di un premio minore; due libri appena usciti, un Nietzsche di Adelphi e l’antologia del Politecnico vittoriniano curata da Forti e Pautasso, ri-editata da Rizzoli nel 1975. Una morte evidentemente di sorpresa, tutt’altro che “programmata” come qualcuno negli anni ha voluto sostenere. In entrambi i libri si parla di scuola, in un modo che non poteva non interessare Pasolini (a giugno aveva smesso di pubblicare a puntate sul Mondo il trattatello pedagogico Gennariello, ma il piano dell’opera prevedeva altri capitoli e ci sarebbe senz’altro tornato sopra). MILI RESTI CREATURALI, RELITTI >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE I luoghi. Ágnes Heller, cosa mi ricorda la stazione di Budapest L’officina. La bella fatica di scrivere un libro con Grazia (Cherchi) Next. Meduse in brodo e salsa di termiti, ho assaggiato ciò che mangerete L’incontro. Sebastião Salgado: “Credo solo in Darwin” Repubblica Nazionale 2015-09-13 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 13 SETTEMBRE 2015 34 Lacopertina.RepertiP.P.P. Perquarant’anni gli oggettiritrovatisulla suaauto lanotteincui venneucciso sonostati conservati induescatolonia disposizionedegliinquirenti Aloronon hanno raccontatogranché. A noisì IL LIBRO “SULL’AVVENIRE DELLE NOSTRE SCUOLE”, È DI NIETZSCHE (EDIZIONE ADELPHI DEL 1975) L’ULTIMO LIBRO SOTTOLINEATO DA PASOLINI LA CARTINA È DELL’ITALIA CENTRALE LA MAPPA STRADALE DELLA ESSO IL PREMIO REPERTO 9.19, LA STATUETTA DEL PREMIO “CITTÀ DI NETTUNO” FOTO ALESSANDRO SERRANÒ IL SARIDON UNA CONFEZIONE DI PILLOLE CONTRO IL MAL DI TESTA E, SOPRA, IL FOGLIO COMPLEMENTARE DELL’ACI Inviaggio conPasolini I PROFILATTICI CONFEZIONE DA TRE, MARCA “777” I GLI ASSEGNI CASSA DI RISPARMIO DI ROMA, AGENZIA N. 15, IL LIBRETTO DEGLI ASSEGNI RITROVATO SULL’ALFA GT <SEGUE DALLA COPERTINA VALERIO MILLEFOGLIE NSIEME AL CORPO RIMASERO A TERRA I SUOI VESTITI. Poco più in là, nell’Alfa Ro- meo GT 2000, gli effetti personali. Oggi è tutto in questi due scatoloni sigillati dal nastro adesivo. Inviati al museo nel 1985 dal Tribunale dei minorenni di Roma, prelevati nel 2010 dai carabinieri del Ris per nuovi accertamenti, sono infine tornati qui nel gennaio 2015, data della richiesta di archiviazione del caso. I reperti (finora parzialmente visibili in un vecchio servizio del Tg3 e nel libro di Marco Tullio Giordana, Un delitto italiano) saranno probabilmente esposti a novembre, per la prima volta al pubblico, proprio in questo museo. È il racconto degli ultimi giorni di vita di un uomo attraverso le sue carte. In una busta di plastica trasparente troviamo Sull’avvenire delle nostre scuole, di Friedrich Nietzsche, Adelphi, 1975. Il volume presenta delle orecchie alle pagine 13, 27, 29, 31, 33, 35, 37. Presumiamo che l’ultima pagina letta sia la 37, capitolo “Seconda conferenza”. Sul bordo è incisa una sottolineatura con l’unghia, profonda, ripassata più volte, una sottolineatura invisibile, tattile, braille. Il passaggio appuntato è il seguente: “L’individuo più giovane, che accompagnava il filosofo, aveva poco prima dovuto scusarsi, in modo lealmente confidenziale, di fronte al suo importante maestro, spiegando i motivi per cui, preso dallo scoraggiamento, aveva abbandonato la sua precedente posizione di insegnante, e trascorreva sconsolato i suoi giorni in una solitudine scelta spontaneamente”. Ogni pagina riportante un’orecchia ha anche delle sottolineature, come a pag. 27: “Lo sfruttamento quasi sistematico di questi anni a opera dello Stato, che vuole allevarsi quanto possibile utili impiegati, e assicurarsi della loro incondizionata arrendevolezza”. Sono indizi. Ogni sottolineatura è un’identificarsi. Il lettore Pasolini, già insegnante Pasolini dalla fine degli anni Quaranta in Friuli e all’inizio degli anni Cinquanta a Ciampino, aveva pubblicato sul Corriere della Sera del 18 ottobre 1975 un articolo in cui lanciava “due modeste proposte per eliminare la criminalità”. Titolo: “Aboliamo la tv e la scuola dell’obbligo”. Nella medesima busta troviamo una copia de Il Politecnico, numero 36, settembre 1946, rivista di cultura contemporanea diretta da Elio Vittorini. Riscontriamo un’orecchia a pag. 376, all’articolo di Concetto Marchesi, “Nella scuola la nostra salvezza”, e un’altra a pag. 140, “Viaggio fra gli esiliati di Roma”, di Giorgio Caproni. Assenti sottolineature, proviamo a immaginarle noi: “Roma è anche questo: un assassinio civile di migliaia di uomini, di donne e di bambini, nelle baracche delle borgate, dove la vita si spinge tra gli spurghi e la disperazione”; si descrivono gli operai che perso il lavoro “cominciarono per tirare avanti a vendere pezzo per pezzo le loro poche suppellettili, finché non avendo più nulla da vendere, perché avevano venduto perfino il letto e i pagliericci, scoprirono che si potevano vendere i mattoni, e nacque appunto la fame di mattoni: e i mattoni furono tolti ovunque tornasse comodo toglierli, per tramutarli in un pezzo di pane da dare ai figliuoli”. Proseguiamo nell’apertura delle buste sigillate e troviamo una cartina autostradale Esso datata 1968. Nove anni prima un’altra cartina aveva accompagnato Pasolini ne La lunga strada di sabbia, reportage pubblicato in tre puntate sulla rivista Successo per raccontare l’estate italiana. Il testo è oggi edito da Contrasto e leggendo alcuni passaggi ci sembra che la macchina non sia l’ultimo luogo da lui vissuto ma quello in cui più volte è rinato: “Il cuore mi batte di gioia, di impazienza, di orgasmo. Solo, con la mia Millecento e tutto il Sud davanti a me. L’avventura comincia”. Più avanti, scrive: “Freno leggermente, e sento sotto il mio piede come uno scoppio: s’è spezzato il freno: provo quello che provano coloro un attimo prima di morire, in simili casi. Ma per mia fortuna, lì la strada è abbastanza dritta e non troppo in discesa: riesco a inventare il modo per frenare. Sono fermo. Solo in mezzo alla notte, sotto la luna che ormai tramonta dietro le boscaglie di mandorli e carrubi”. Continuiamo a leggere, questa volta le etichette degli indumenti sperando possano dire qualcosa oltre al nome delle marche: jeans Lois, made in Spain, camicia Missoni, stivaletti Rossetti Moda e la dicitura all’interno di una stanghetta dei suoi famosi occhiali che, come una lapide da indossare, recita l’acronimo Rip. Un volumetto ben conservato dell’assicura- Repubblica Nazionale 2015-09-13 la Repubblica DOMENICA 13 SETTEMBRE 2015 LO SCATOLONE UNA DELLE DUE SCATOLE IN CUI SONO CONSERVATI I REPERTI. ACCANTO, TRE FOTO TESSERA 35 Relitti senza un finale <SEGUE DALLA COPERTINA WALTER SITI T IL TELEGRAMMA IL PRESIDENTE DELL’ANICA SI RAMMARICA PER IL FURTO DELLE PIZZE DI “SALÒ” IL PETTINE MANCANO GLI ULTIMI DENTINI A UNO DEI DUE PETTINI RITROVATI SULL’AUTO DI PASOLINI I RITAGLI CRONACA DI ROMA, NOTIZIE DALL’INTERNO E DALL’ESTERO, FUMETTI E GIOCHI: ALCUNI RITAGLI DA UN QUOTIDIANO DEL 3 SETTEMBRE 1975 IL TESSERINO L’ISCRIZIONE ALL’ALBO DEI GIORNALISTI (DAL 5 OTTOBRE 1954) I BOLLINI LA RACCOLTA PUNTI DELLA ESSO. PASOLINI AVEVA SOLO TRE BOLLINI LA RIVISTA L’ANTOLOGIA DE “IL POLITECNICO” CURATA DA MARCO FORTI E SERGIO PAUTASSO E RIEDITATA DA RIZZOLI NEL 1975 zione, “Guida sicura”. Una raccolta bollini Mobil, “ogni 60 punti un premio tra quelli messi a disposizione dalla stazione”, bollini raccolti sino a quella sera: tre. Una confezione da dieci di compresse Saridon, “indicato contro i dolori di capo e di denti, nevralgie”, mancano due compresse. Una confezione da tre di profilattici 777, scaduti l’11 giugno 1979. La statuetta del premio “Città di Nettuno”. Un telegramma del 29 agosto 1975 del presidente dell’Anica Carmine Cianfarani, “Pregola voler esprimere ai registi Damiani Fellini et Pasolini nonché società produttrici mio vivo rincrescimento per sottrazione materiale lavorazione loro film costituente grave danno at cinematografia italiana”. A questo colleghiamo un estratto dall’ordinanza di archiviazione del Gip di Roma del 25 maggio 2015, “Nel corso dell’atto di indagine il Citti riferiva di aver appreso da un pescatore ormai deceduto che quella notte ad Ostia c’erano quattro o cinque persone. Aggiungeva di aver appreso direttamente dal poeta che quella sera aveva appuntamento con una persona che doveva consegnargli del materiale. Tale ultima affermazione rimandava alla tesi secondo cui l’omicidio poteva essere legato a un’estorsione conseguente al trafugamento delle pizze del film Salò o le 120 giornate di Sodoma”. Il decreto conclude, “Tutte le indagini che appaiono allo stato ragionevolmente possibili sono state svolte e non hanno avuto un esito suscettibile di proficuo sviluppo procedimentale, tanto sul punto dell’incontrovertibile accertamento circa la presenza di altri soggetti oltre a Pelosi al momento dell’omicidio sia per quanto attiene all’identificazione di ulteriori soggetti coinvolti: la richiesta di archiviazione del P.M. deve pertanto essere accolta”. Ed è stata accolta. Sul fondo della seconda scatola, raggomitolato in una busta di plastica, c’è il golf appartenuto a uno dei soggetti ignoti, le maniche sono prive della forza delle braccia sconosciute che lo indossarono. Riponiamo indumenti e oggetti, di Pasolini e non. Chiudiamo le scatole, la porta del magazzino. Rimarranno qui anche stanotte, finché neanche morte li separi. DOMANI IN REPTV NEWS (ORE 19.45, CANALE 50 DEL DIGITALE E 139 DI SKY) LO SCRITTORE VALERIO MILLEFOGLIE COMMENTA I REPERTI TROVATI SULL’AUTO DI PASOLINI QUARANTA ANNI FA RA I BRANI SCELTI del “Politecnico”, oltre all’asciutto pezzo di Caproni sulle borgate che avrà letto (o riletto) con nostalgia, uno di Concetto Marchesi auspicava una scuola non specializzata, capace di “allargare l’orizzonte delle cose finite e sperimentate”: vicino insomma all’impostazione semiologico-antropologica del trattatello pasoliniano. Quanto alle giovanili conferenze nicciane (un dialogo socratico che si svolge in un bosco), Pasolini sarà stato colpito dalla polemica contro i giornali che spingono a una cultura funzionale al sistema economico e mirano a uomini “correnti”, nel senso in cui si dice “moneta corrente”; Nietzsche se la piglia col “nesso tra intelligenza e possesso” e con l’omologazione che rende “malvista ogni cultura solitaria” — ma esalta nell’apprendimento l’obbedienza e la disciplina, come Pasolini in quel periodo. In quell’auto a Ostia c’era un cervello che lavorava a pieno ritmo e pensava al futuro. Poi ci sono i rimandi al delitto: il telegramma che allude al furto delle pizze di “Salò”, pizze che furono forse l’esca per attirarlo nella trappola. Il maglioncino di uno sconosciuto, un anello che Pelosi disse suo ma fu smentito. Ci sono i suoi jeans, la canottiera e la camicia, pronti a trasformarsi nell’icona del poeta assassinato se non quasi in una sindone omosessuale. La forza simbolica e fuorviante di quei segni ci ha distratto a lungo dalla cattiva conduzione del processo: indagini che ora non è più possibile fare sarebbero state possibili quarant’anni fa. Già allora il sospetto che Pelosi non fosse solo apparve più che fondato; testimonianze, baraccati che avevano visto e udito. Ora è tardi, i Ris non hanno trovato prove decisive; ma gli indizi restano molti, troppi — ritrattazioni, morti sospette (come l’incidente stradale che uccise nel 2010 il testimone Olimpio Mazzocchi, mentre Pelosi era alla guida), nuove risultanze su Cefis e Mattei. Che Pasolini sia morto perché alcuni magnaccia volevano “dargli una lezione”, o che avesse saputo qualcosa di compromettente, o che magari solo avesse rivolto domande imprudenti alle persone sbagliate, certo la versione vulgata all’epoca (il giovane marchettaro che si ribella a pratiche sessuali non previste) non regge più. Cosa sia accaduto a Ostia quella notte non lo sapremo mai. Come finisce una vita dà sempre indicazioni sul senso di quella vita; l’archiviazione segna una doppia sconfitta, della magistratura e della conoscenza. Ma viviamo immersi in un tempo disinteressato ai finali. ©RIPRODUZIONE RISERVATA ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-09-13 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 13 SETTEMBRE 2015 36 Iluoghi.Keletirailwaystation “Da bambina a noi ebrei ci accusavano di avvelenare i pozzi. Ci ripenso ora, in questi giorni governati dall’odio” Il J’accuse della filosofa ungherese Ágnes Heller I ÁGNES HELLER L’AUTRICE NATA A BUDAPEST NEL 1929, SCAMPATA ALLA SHOAH, ALLIEVA DI GYÖRGY LUKÁCS, ÁGNES HELLER È CONSIDERATA LA FILOSOFA PIÙ IMPORTANTE DELLA COSIDDETTA “SCUOLA DI BUDAPEST”. SABATO 19 SETTEMBRE, NELL’AMBITO DI PORDENONELEGGE IN PROGRAMMA DAL 16 AL 20, LA HELLER PRESENTERÀ CON IL CURATORE RICCARDO MAZZEO, IL VOLUME “LA BELLEZZA (NON) SALVERÀ IL MONDO”, DIALOGO A DUE VOCI CON ZYGMUNT BAUMAN (IL MARGINE EDIZIONI). INFO: WWW.PORDENONELEGGE.IT BUDAPEST in Ungheria. Fuggono dalla distruzione, dalla fame, dalla morte. La maggior parte di loro sono vittime della guerra civile siriana, minacciati dall’Is, l’arcinemico dell’intero mondo civilizzato. Hanno viaggiato, spesso a piedi, per migliaia e migliaia di chilometri per arrivare ai nostri confini. Sono stanchi, affamati, assetati. Arrivano nell’Unione europea dal confine ungherese. Sono i benvenuti? La maggioranza della gente, in ogni parte del mondo, tratta gli “stranieri”, le persone che parlano un’altra lingua, venerano Dio in un altro modo, praticano usanze differenti, con sospetto. Ma odiano gli stranieri, li rifiutano, cercano di liberarsi in fretta di loro solo se vengono incitati a farlo dai leader e dai governi, solo se vengono nutriti di pregiudizi, di ideologie pericolose. L’ho sperimentato personalmente quand’ero bambina: a quei tempi l’antisemitismo e il nazionalismo erano le principali armi ideologiche che usava il governo ungherese per garantirsi il consenso a favore di una guerra micidiale e ingiusta. Nelle ultime settimane lo spettro di questo passato continua a ossessionarmi. Il governo ungherese ha dato il via a una campagna di odio contro gli stranieri ancora prima che i profughi siriani arrivassero da noi. In quel momento arrivavano piccoli gruppi di migranti dal Kosovo, ma ben presto hanno smesso. Già allora il primo ministro ungherese ci metteva in guardia contro di loro, attaccando manifesti per strada, spedendo volantini alle famiglie in cui si chiedeva con toni drammatici se volevamo che il governo spendesse soldi per gli stranieri o per i bambini ungheresi. In altre parole ha cominciato ad attizzare l’odio contro lo straniero, accusato di togliere il pane di bocca al popolo ungherese. La legge proibisce l’incitamento all’odio, ma evidentemente il governo è immune dalla legge. Quando i siriani e altri profughi hanno cominciato ad arrivare sempre più numerosi, l’arsenale della propaganda è diventato ancora più violento. I profughi erano sospettati di esPROFUGHI CONTINUANO AD ARRIVARE al governo è solo un po’ più difficile, visto che l’Ungheria, in fin dei conti, fa parte dell’Unione europea e riceve soldi dall’Unione europea, e questo gli impedisce di esprimere apertamente il suo disprezzo per Bruxelles, come fa invece Jobbik. Viktor Orbán, il premier ungherese, è costretto a mostrare un volto per l’Europa e un altro per gli elettori. Qui, a casa, accusa i leader dell’opposizione democratica di essere «amici dei migranti». E questa strategia di nuovo mi fa tornare in mente la mia infanzia: ricordo che quando il Partito socialdemocratico votò «no» alle leggi antiebraiche venne accusato di essere al soldo degli ebrei. Il governo ungherese ha speso miliardi di fiorini per costruire recinzioni lungo il confine con la Serbia e arrestare così il flusso dei migranti. Ovviamente, come gli esperti avevano preannunciato, queste recinzioni non hanno fermato proprio nulla. Ma questo non importa: la recinzione è servita come arma ideologica per il Fidesz nella sua competizione con lo Jobbik per assicurarsi il consenso della popolazione xenofoba. E questa acrobazia ideologica prosegue: adesso vogliono far approvare dal parlamento una legge che impone di perseguire penalmente tutti coloro che taglieranno la recinzione, e tutti i cittadini che ospiteranno dei migranti nella loro abitazione. Queste leggi (e qualcun’altra in preparazione) non sono solo leggi contro gli immigrati: sono leggi che limiteranno ulteriormente i diritti dei cittadini ungheresi. Usando tutte le risorse e le energie per una xenofobia istituzionalizzata, il governo ungherese in realtà non ha fatto nulla per gestire la crisi. Chiunque entri nell’Unione europea dev’essere registrato. Questo è giusto. È necessario sapere chi arriva nel nostro territorio. Ma mentre venivano erette barriere inutili e manifesti giganti ci ammonivano a non condividere la nostra vita con gli stranieri, che in ogni caso usano l’Ungheria solo come stazione di transito, nessuna misura veniva intrapresa per accoglierli e inviarli dove volevano andare. Ci sono pochi alloggi, disorganizzati e inadeguati al numero. La registrazione è troppo lenta. Non vengono organizzati servizi di trasporto. Non ci sono interpreti: i migranti vengono bersagliati da testi in ungherese che non capiscono. Non hanno idea di che cosa li aspetta. Se ricevono aiuto, è solo grazie a volontari che distribuiscono da mangia- Ultima fermata Budapest LE FOTOGRAFIE SONO DI MAURICIO LIMA LE IMMAGINI DEI PROFUGHI SIRIANI CHE CERCANO DI SALIRE SUI TRENI DIRETTI IN GERMANIA DALLA STAZIONE KELETI DI BUDAPEST sere potenziali terroristi, o di non essere proprio profughi, ma gente che voleva fare la bella vita a spese degli altri. Il capogruppo di Fidesz (il partito al potere) in parlamento ha dichiarato che non vuole che l’Unione europea diventi il Califfato europeo. Sono anche state messe in giro voci sul fatto che i profughi infetterebbero la popolazione ungherese con malattie sconosciute (e io mi ricordo di quando gli ebrei venivano accusati di avvelenare i pozzi). Fra le migliaia e migliaia di spettatori che hanno visto in televisione migliaia di profughi con i bambini piccoli che dormivano per strada di fronte alla stazione di Keleti, non poteva essercene qualcuno che sentiva simpatia per loro? Il governo ha deciso di no, ha stabilito che non devono essercene: le reti televisive pubbliche hanno istruzione di non mostrare i bambini profughi. Tutto quello che sta accadendo in Ungheria è una diretta conseguenza dell’incitamento all’odio. Il partito al potere è in competizione con l’altro partito di estrema destra, lo Jobbik, attualmente all’opposizione. Il bersaglio di questa competizione sono i “migranti”: è una gara a chi li odia di più, a chi li rifiuta di più, a chi se ne sbarazza meglio. Tutti e due i partiti solleticano gli istinti peggiori degli ungheresi, un popolo sfortunato con una storia sfortunata, abituato a ubbidire agli ordini e rimasto ignorante in materie di diritti, di leggi, di libertà. In uno Stato-nazione, il nazionalismo estremo è l’ideologia più utile per conquistare consenso. Entrambi i partiti usano questo strumento come un’arma. Per il partito re e da bere. Queste persone stanno riscattando, per quanto possono, la reputazione degli ungheresi. Caos. A volte i profughi riescono a comprare dei biglietti ferroviari per la Germania facendo ore di fila, ma dopo che li hanno comprati viene proibito loro di salire sui treni. Il più delle volte la stazione ferroviaria viene chiusa ai migranti, che restano lì, in attesa. Ma succede anche che concedano loro di salire su un treno, come ieri. Salgono a bordo con biglietti validi per Monaco di Baviera. Poi il treno viene fermato ancora in Ungheria e ai migranti (passeggeri come gli altri!) viene ordinato di scendere. Il governo accusa i migranti di questo caos. L’odio continua a diffondersi. E nessuno dovrebbe giocare con lo strumento dell’odio. È pericoloso. Lo sappiamo per esperienza diretta. È vero che l’Is avrebbe già potuto essere distrutto, se le nazioni civilizzate fossero pronte al sacrificio. Non lo sono. Le bombe non distruggeranno l’Is. E i rifugiati continueranno quindi ad arrivare. L’Europa, il continente responsabile di due guerre mondiali, di distruzioni di massa, di tutte le catastrofi del Ventesimo secolo, il continente che si porta dietro meritatamente la sua cattiva coscienza, deve trovare un modo per gestire la situazione. Senza odio, con comprensione, saggezza e solidarietà. L’Ungheria dà il cattivo esempio. Io spero che gli altri non lo seguano. (Traduzione di Fabio Galimberti) ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-09-13 la Repubblica 37 FOTO © MAURICIO LIMA/THE NEW YORK TIMES/CONTRASTO DOMENICA 13 SETTEMBRE 2015 Repubblica Nazionale 2015-09-13 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 13 SETTEMBRE 2015 38 L’officina.Daleggere Dai“Quaderni piacentini”al lavorocon gli esordienti (control’egemoniadel marketing) SIMONETTA FIORI È STATA UNA PROTAGONISTA della cultura ita- liana, ha diretto riviste importanti e scoperto talenti, ma il suo nome è come sommerso, scivolato in un limbo nascosto dove sono finiti tanti suoi simili. Di Grazia Cherchi non si parla più, ma sarebbe ipocrita chiedersi il perché. Se ne potrebbe tracciare il profilo per contrari, alla maniera dei futuristi. Prendere il circo equestre contemporaneo — l’editoria di plastica, il narcisismo parossistico, l’intellettuale imbonitore, gli autori «uguali come i tortellini fatti in casa» — capovolgere il tutto e forse cominciare a capire che tipo era. «Intelligenza del cuore». «Integrità morale». «L’editing come esercizio degli affetti». «La ricerca di alleanze destinate a creare le frontiere del valore». «Il sospetto per il successo facile». Bastano poche parole, a lei dedicate dagli scrittori dell’officina Cherchi, per essere catapultati in un’altra civiltà. A condurci in questo viaggio, nel ventennale della morte, è un affettuoso e partecipe racconto della trentenne Michela Monferrini che si è messa all’ascolto della Cherchi e della sua strana gente. Un collage di voci e frammenti irregolari che restituiscono la irregolarità di questa «romantica donna emiliana» estranea al suo tempo. Dell’attuale egemonia del marketing aveva cominciato ad avvertire le avvisaglie negli anni Ottanta, con la trasformazione dei «funzionari editoriali in procuratori di calcio». Ma eccentrica lo era stata anche vent’anni prima, quando neolaureata incontra a Milano Piergiorgio Bellocchio, anche lui di Piacenza, e insieme decidono di dar vita ai Quaderni Piacentini. Una rivista fatta a tavola, durante il pranzo. Prima solo lei e Bellocchio, che vi investì l’eredità paterna (il resto andò a Pugni in tasca del fratello Marco). Poi divennero in tre con Goffredo Fofi, che pubblicò sui Quaderni l’inchiesta sulla Fiat rifiutata da Einaudi. “Essere seri senza essere noiosi”, il motto della rivista che fustigava anche con eccesso di severità “l’imbestiamento collettivo” minacciato dal progresso neocapitalistico e dalla nascente industria culturale. Sei anni dopo sarebbe arrivato il Sessantotto che la rivista in parte anticipò. Tutti oggi la ricordano per la rubrica “Libri da leggere e libri da non leggere”. Nella lista dei libri da non leggere finirono pure Moravia, Eco e Pasolini, tra scandali e zuffe. Ma ben presto giunsero in redazione le lettere rabbiose di chi si sentiva escluso: non solo dai libri da leggere ma anche da quelli da non leggere. Segno che bisognava smettere. Lo spirito del gruppo in una didascalia (corretta). Una foto di una stagione successiva la ritrae vezzosa, la testa inclinata sulla spalla di Fofi, Bellocchio sorridente accanto. «Complicità e amore», annota Lalla Romano, sua grande amica. «Complicità e tenerezza», corregge lei. Un fatto di precisione. L’editing fu l’altra sua grande passione, esercitata con gusto e sentimento. Lavorava sul testo per sottrazione e con umiltà, proponendo le sue correzioni a matita. A casa sua sono passati giovani e meno giovani. Benni, Baricco, Maggiani. E ancora Carlotto, Petrignani, Sereni, Onofri. E poi i giornalisti Deaglio e Lerner, Pivetta e Riotta, Enrico Franceschini. Dei suoi autori curava l’editing non solo del lavoro ma anche della vita. Ne sorvegliava il patrimonio lessicale ma anche le provviste in frigorifero. Tifava per la felicità nelle storie d’amore, anche se forse della sua felicità s’è curata poco. E di scrittori come Volponi si domandava: chissà com’era con gli amici. «Il lavoro degli affetti là dove si muove l’intelligenza del mondo», sintetizza Alberto Rollo, editor che le fu vicino. Una bella faccia dai lineamenti decisi, in fotografia spesso diventa una silhouette scura, un profilo d’ombra. Comparire doveva sembrarle una volgarità. Figuriamoci comparire oggi. «Attenzione a fingere di essere felici», una delle ultime cose che ha scritto. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Grazia Cherchi Ilmestiere dell’editor Repubblica Nazionale 2015-09-13 la Repubblica DOMENICA 13 SETTEMBRE 2015 39 A vent’annidalla scomparsa inun libroa più voci ilricordo affettuoso dei“suoi”autori ALESSANDRO BARICCO C GRAZIA CHERCHI CON ALESSANDRO BARICCO A NAPOLI, 1994 REDO MI ABBIA INSEGNATO, più che altro, un certo modo di stare al mondo. Il “come” si scriveva era una conseguenza. E poi il coraggio, direi. Mi ricordo che dopo “Castelli di rabbia” le dissi che volevo fare, come secondo libro, un libro di mare, ma proprio un libro di mare come quelli che si facevano una volta, avventura, naufragi, pirati. Le raccontai la trama. Era un po’ imbarazzante, perché ero un quasi esordiente e mi gettavo a fare un libro alla Conrad, alla Melville, insomma era come girare un western dopo che lo avevano fatto tutti i grandi americani e in più Sergio Leone. C’era qualcosa che poteva sembrare stupidamente ambizioso. Ma lei mi disse: fregatene, se è quello il libro che vuoi fare, fallo. E allora io ho scritto “Oceano mare”. Cinque correzioni, non di più GRAZIA CHERCHI CON MAURIZIO MAGGIANI A MILANO, 1995. TUTTE LE FOTO COURTESY VINCENZO COTTINELLI Epoihoscritto“Oceanomare” ©RIPRODUZIONE RISERVATA Sicurochenonsaifaredimeglio? STEFANO BENNI I CON STEFANO BENNI A MILANO,1993 l’accademia, non il seriale. Ma leggeva anche quello che non amava, perché come critico era severo, si informava, studiava. Il suo consiglio era sempre quello di riscrivere, di non fermarsi alle prime stesure. Se da tempo io ritorno anche cinquanta volte su una pagina è perché sento la voce di Grazia che mi dice: siamo sicuri che non possiamo fare meglio? È qualcosa che più che nei libri resta nel cuore, è la spinta a non arrendersi mai allo scontato. Credo che Goffredo Fofi abbia molto della cultura, della passione (e del caratteraccio) di Grazia. Quanto a me, io lei la ritrovo in tutte le mie donne coraggiose. In Pantera, per esempio, o in Lisa. ©RIPRODUZIONE RISERVATA C’eraunpuntofermo traPiacenzaeilmondo GOFFREDO FOFI L CON GOFFREDO FOFI E PIERGIORGIO BELLOCCHIO A MILANO,1988 DISEGNO DI TULLIO PERICOLI IL LIBRO “GRAZIA CHERCHI” DI MICHELA MONFERRINI, DA CUI SONO TRATTI I BRANI DEGLI SCRITTORI PUBBLICATI QUI A FIANCO, CON LE FOTOGRAFIE DI VINCENZO COTTINELLI, È IN LIBRERIA PER ALI&NO EDITRICE (126 PAGINE, 12 EURO, ACQUISTABILE ANCHE SU WWW.ALIENO EDITRICE.NET) N GENERALE CREDO AMASSE le scritture “irregolari”, non AVORARE CON GRAZIA era un continuo confronto su libri, film, avvenimenti, persone. Eravamo tutti e due mattinieri e ricordo con particolare nostalgia le telefonate dell’alba, quasi quotidiane, per anni, in cui ci si “aggiornava” e confrontava su tutto. Poi c’erano i viaggi, tutti e tre insieme sulla macchina di Giorgio (Piergiorgio Bellocchio, ndr), nelle varie città dove c’erano collaboratori preziosi (di “Quaderni Piacentini”, ndr) che spesso incontravamo a pranzo (con invidia di Perry Anderson, direttore della “New Left Review” che ci invidiava questo “fare la rivista” in modo conviviale). Grazia era il punto fermo di tutti questi legami. Aveva un’attenzione a volte quasi eccessiva. Diciamo che io, più eclettico e onnivoro, le servivo come segnalatore di film, autori, persone di cui lei diventava spesso amica e confidente quanto me (ad esempio la Morante), e lei mi ricompensava regalandomi camicie, trovandomi lavori e lavoretti (fu lei a introdurmi a Garzanti quando la Feltrinelli si sbarazzò malamente di molti collaboratori). Era molto esigente, nei rapporti più intimi, anche troppo. La sua vena era quella del ritratto ironico, del racconto breve con sottofondo malinconico; una sorta di Dorothy Parker italiana. ©RIPRODUZIONE RISERVATA MAURIZIO MAGGIANI L AVORAMMO INSIEME a un mio libro, “Il coraggio del pettirosso”. Arrivava con pacchi di fogli pieni di foglietti e note, e puntualmente litigavamo perché io per principio accettavo cinque correzioni ogni dieci proposte, non di più. Eravamo due brutti caratteri messi assieme, ma lei era la mia terza zia, la zia che mi mancava, la zia che aveva studiato — vengo da una famiglia di contadini, sono stato il primo a laurearmi. Ho esordito tardi, avevo quarantatré anni, non mi lasciavo dire da nessuno cosa potevo o non potevo fare, neanche nella scrittura, ma il mio stile è nato grazie a lei e al suo lavoro sul mio libro. Io sono un aggettivatore scatenato: per ogni sostantivo mettevo sempre tre aggettivi, e lei chiedeva di toglierne due, ma io ne toglievo soltanto uno. È nato così, il mio stile, e forse con il senno di poi avrei fatto bene ad accettare tutti i suoi consigli, ma in fondo no, in fondo è meglio così, perché così nei miei libri ci siamo dentro tutti e due. Lei era bizzosa, ma aveva quell’autorità e quell’autorevolezza che oggi non ha più nessuno, come nessuno ha la sua disciplina, la sua coerenza, i principi, una forza di lavoro inimmaginabile che non la faceva staccare mai, che la faceva pensare solo al dovere anche se veniva pagata una miseria. Gli intellettuali di quella generazione venivano dalla guerra, dall’irreparabile, e avevano sentito il dovere morale di cambiare le cose, di mostrare l’irreparabile come riparabile. Lei a un testo chiedeva questo: non voleva imporre il suo pensiero, ma voleva ritrovarvi applicata la sua idea di coerenza, voleva coerenza trasformata in scrittura; voleva che il testo giungesse alla migliore e massima rifinitura possibile, che fosse — come si dice — a “regola d’arte”. Era una vera intellettuale come non ce ne sono più, con una disciplina da milizia popolare, ma poi leziosa nell’uso di una parrucca sfolgorante negli ultimi tempi della malattia. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-09-13 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 13 SETTEMBRE 2015 40 Next.Lamoscanelpiatto IL CONFRONTO AL POSTO DI UNA BISTECCA DI MANZO POTREMO NUTRIRCI CON EMBRIONI D’ANATRA; UNA CIOTOLA DI ARGILLA ROSSA HA LO STESSO VALORE NUTRITIVO DI UN PIATTO DI CECI BOLLITI, MENTRE LE MEDUSE (ESSICCATE, SOTTO SALE O IN BRODO) APPORTANO UGUALI CALORIE DI UNA PORZIONE DI BIETA LESSATA Ho assaggiato Argilla, medusa e embrione d’anatra Tra trent’anni l’umanità non potrà più permettersi di mangiare hamburger E così uno “scrittore-gourmet” è andato in giro per il mondo a caccia di prodotti naturali Dalle termiti africane alla corteccia di betulla ecco perché, assicura, non moriremo di fame (ma il gusto non sempre ci guadagna) N CARLO SPINELLI ON SONO NOSTRADAMUS né un biotecnologo ali- mentare d’avanguardia, e se è vero che lavoro con il senso del gusto non posso certo dire di essere un giornalista di moda. Sostanzialmente io viaggio mangio e scrivo, in ordine sparso e in disordine geografico. Ed è grazie a queste mie tre caratteristiche che posso dire di aver visto — di più: di aver assaggiato — il cibo del futuro. Come ho fatto a capire cosa mangeranno sempre più abitanti della Terra tra trenta o quarant’anni? Invece di entrare in qualche fantascientifico laboratorio di manzo hi-tech sono semplicemente andato a caccia di alimenti che già da qualche millennio si trovano sulle tavole di alcune popolazioni del pianeta. E poi mi sono fatto qualche piccolo calcolo: se oggi siamo circa sette miliardi, nel 2050 — prevedono i demografi — saremo nove. Nove miliardi di bocche da sfamare. Hamburger e patatine non basteranno più. O meglio, le patate potranno essere di più e sempre più varie perché davvero adattabili alle condizioni più impervie di coltivazione, ma la carne — su questo tutti gli esperti concordano — dovrà essere ridotta drasticamente. L’allevamento industriale è autolesionista nei confronti del pianeta: per nutrire bovini, suini e ovini in modo intensivo si sfrutta più del 75 per cento della superficie agricola mondiale e l’80 per cento dell’acqua dolce. Assurdo. Allora come muoversi? Io mi sono messo in viaggio. Prima tappa la geofagia: per esempio il terrigno gelato all’argilla dello chef peruviano Virgilio Martinez, versione colta e raffinata di una tradizione — quella di mangiare la propria terra — antichissima presso alcuni popoli in Centrafrica, Africa orientale (in Kenya le donne incinta mangiano calce bianca per assume- re sali minerali) e in Oceania (l’argilla umida “dulong” presso alcune popolazioni aborigene australiane). Ma senza andare così lontano esiste anche il boschivo distillato di terra della campagna modenese di Massimo Bottura o la salmastra “zuppa” di sassi marini di Gennaro Esposito, chef della Penisola Sorrentina. Seconda tappa, dalla terra all’aria: nell’attualissimo mondo dell’entomofagia (il nutrirsi d’insetti) sono piuttosto felice di aver assaggiato dall’apicultore urbano Mauro Veca l’incredibile borsa melaria dell’ape, vale a dire la sacca intestinale trasparente dove l’insetto più operoso del mondo deposita il nettare e lo trasforma in miele a contatto con le secrezioni salivari. Ciascuna ape, in questo zainetto a membrana, può contenere fino a due milligrammi di miele che danno vita a una spettacolare bomba di dolce gusto che esplode in bocca. In questo senso anche il balut, nelle Filippine, offre spunti hardcore d’assaggio primordiale: è un embrione d’anatra o di gallina fecondato, che dopo diciotto giorni di covata viene sottratto all’ignara femmina per essere bollito e servito. È come mangiare un uovo che sa di pollo e offre nutrimento quasi come una bistecca di ottimo manzo al costo di circa 20 centesimi di euro. Unica controindicazione: Repubblica Nazionale 2015-09-13 la Repubblica DOMENICA 13 SETTEMBRE 2015 41 ilcibodelfuturo Ma che sapore avrà il menù del 2050? LA VITA MEDIA DI UNA TERMITE È DI CIRCA 10 ANNI, MA IL RE E LA REGINA (RIPRODUTTORI PRIMARI) POSSONO VIVERE ANCHE FINO A 50 ANNI. LA REGINA PUÒ DEPORRE FINO A 30MILA UOVA AL GIORNO, 10 MILIONI IN UN ANNO E 100 MILIONI DURANTE TUTTA LA SUA VITA non è piacevole sentire lo scricchiolio delle cartilagini sotto la mandibola. Terza tappa, il mare. Mai sentito parlare di lattume? I siciliani probabilmente sì, lì è meglio conosciuto come figatello lo sperma del tonno e della ricciola ormai ufficialmente ammesso nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani: gusto pescioso, intenso e glutammico, sembra un foie gras marino ma brandizzatoYouporn (e ringrazio vivamente lo chef marchigiano Moreno Cedroni per avermelo fatto conoscere). Tornando con i piedi per terra, vediamo di andare a caccia di frutti. Il primo in assoluto è il “miracle fruit”, la bacca rossa africana Synsepalum dulcificum, documentata nel 1725 dal Chevalier des Marchais: un frutto davvero miracoloso perché trasforma il gusto in bocca, modificando l’amaro e l’aspro in dolce grazie alla glicoproteina miracolina che attua questo incantesimo organolettico tanto caro ai diabetici, visto che non viene metabolizzata con l’azione dell’insulina. Sarà il dolcificante del futuro? La “mano di Buddha” (citrus sarcodactylus) è` invece senz’altro l’agrume più strano del pianeta: sembra effettivamente una mano, ma forse anche una piccola piovra gialla con i suoi tentacoli, è il tipo di cedro più profumato che esista, molto particolare nella fragranza de- gli aromi nella marmellata, candito o come condimento nelle salse e nelle zuppe orientali. Se ne utilizza soltanto la scorza perché non c’è né polpa né succo. Il “limone caviale” (citrus australasica) ha invece un interno che assomiglia a una sorta di caviale vegetale. Ne esistono diversi secondo il colore della polpa: verde, rosa, rosso, bianco o giallo. I gourmet mettono un po’ di queste palline agrumate nello spumante, per fare scena o per rimarcare l’acidità di un vino. E dagli agrumeti ai boschi. La forager Valeria Mosca mi ha preparato dei meravigliosi biscotti alla corteccia interna di betulla e nocciole per la festa di compleanno di mia fi- L’AUTORE CARLO SPINELLI, ALIAS “DOCTOR GOURMETA”, HA SCRITTO “BISTECCHE DI FORMICA E ALTRE STORIE GASTRONOMICHE VIAGGIO TRA I CIBI PIÙ ASSURDI DEL MONDO” (BALDINI&CASTOLDI, 228 PAGINE, 15 EURO) CHE SARÀ IN LIBRERIA DA GIOVEDÌ 17 SETTEMBRE glia. Mentre lo chef trentino Peter Brunel un giorno, in Val di Fassa, mi ha staccato da un abete della resina essiccata: «Con questa resina prova a mantecare il risotto, vedrai che sorpresa!» E così fu: sapori nuovi e resinosi in un classico piatto all’italiana. Lo chef Carlo Cracco mi ha invece fatto assaggiare la sua famosa “Pasta e Mastica”, rigatoni al dente con una crema alla resina greca e funghi porcini crudi. Infine, nel ventaglio delle ipotesi, c’è posto anche per un po’ di cannibalismo. Niente di violento, ma mangiare la placenta dopo aver dato alla luce un bambino è già la nuova moda fra alcune vip americane. Lo confesso, ho tentato anch’io, ma aiutatoda piccoli fondamentali suggerimenti del cuoco tristellato Enrico Crippa. Insomma, questo potrebbe essere il menù che nel 2050 ci fornirà Madre Natura. E i fast food con beverone ipervitaminico? E le pilloline blu al sapore di brontosauro ricostruito geneticamente? Non credo che l’umanità andrà in quella direzione, e vi dico anche il perché: perché dal 10 agosto scorso Scott Kelly e i suoi colleghi astronauti, sulla Stazione orbitante, hanno cominciato a nutrirsi di verdure. Cresciute nello Spazio. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-09-13 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 13 SETTEMBRE 2015 42 Sapori.Locali DA MARSALA A MESSINA, DA MILAZZO ALL’ETNA, LA CENERENTOLA DEI MOSTI È DIVENTATA IL NUOVO ELDORADO GRAZIE ALLA VARIETÀ DI VITIGNI E AL FERMENTO DEI SUOI VIGNAIOLI. ECCONE ALCUNI InSicilia. Seilvino rinuncia aigradi “I LICIA GRANELLO Il libro Esce in questi giorni “Di vigna in vigna” (Tiziano Gaia, EDT editore), che racconta quaranta itinerari dal Trentino alla Sicilia: cantine, ristoranti, alberghi, agriturismi, spa e duecento bottiglie imperdibili da gustare in loco, insieme ai loro produttori L’appuntamento/1 Si apre il prossimo fine settimana a Montefalco, Perugia, Enologica 2015: incontri, degustazioni e menù a tema sul Sagrantino Docg. Da vedere la Madonna della Cintola di Benozzo Gozzoli, restaurata grazie all’impegno dei soci del Consorzio di Tutela L’appuntamento/2 Fino a domani sera a Milano, al Museo della Scienza e della Tecnica“Leonardo da Vinci”, la quarta edizione di Bottiglie Aperte: degustazioni di vecchie annate dei vini di cento cantine italiane riconosciute per prestigio e legame col territorio il vento, il sole, la spiaggia, la campagna, con i suoi uliveti e con i suoivigneti,che arriva fino a qui… che cos’è, mi chiedo, il segreto della Sicilia, della sua estrema bellezza, del suo incanto misterioso e onnipresente?”. La domanda abita inquieta le pagine di Vino al vino di Mario Soldati. Una riga appena, ed ecco la risposta: “Non c’è alcun dubbio: questo segreto è lo spazio, la grandiosità...”. Impossibile dargli torto: con le vigne sdraiate sulla sabbia o abbarbicate alle falde del vulcano, le escursioni termiche che infuocano gli acini per poi raggelarli, i terreni pencolanti tra limo, argilla e calcare, dove prosperano macchia mediterranea e vegetazione subtropicale, la Sicilia srotola il suo tappeto di vigne per molti dei trecentochilometri che separano Marsala da Messina e i quasi duecento esistenti tra Milazzo e Isola delle Correnti. Per questo, non esiste in Italia vendemmia altrettanto lunga, articolata e varia. Si comincia con i primi grappoli di Chardonnay raccolti a metà luglio, per arrivare ai poderosi acini rossi del tardivo Nerello Mascalese, che si godranno il sole in pianta fino a fine mese e oltre, con cesoie e vendemmiatrici senza riposo fino ai primissimi brividi di freddo. Potere della biodiversità, tradotta in un’incredibile varietà di produzioni, dai bianchi più freschi e asciutti ai rossi profondi e carnali, fino ai grandi vini da meditazione. Una condizione specialissima, che le grandi cantine — da Zonin (Feudo Principi di Butera) a Firriato — hanno imparato a sfruttare, acquistando a più riprese piccole porzioni di campagna già vitate, o pronte a diventarlo per esigenze di mercato, da un versante all’altro. Non è certo la tradizione a mancare, se è vero che un gruppo di archeobotanici sta lavorando per recuperare i vitigni della zona tra Aci Trezza e Piazza Armerina, Catania, dove Omero colloca la dimora di Polifemo, poderoso bevitore di vini locali. Una ricerca intrigante, a corollario dell’enorme lavoro fatto per sdoganare una terra troppo a lungo considerata la Cenerentola dei mosti, capace solo di rimpolpare le produzioni del nord povere di gradazione grazie ai suoi grappoli gonfi di zucchero e sole. Il primo passo è stato annullare l’handicap delle alte temperature che trasformano gli acini in marmellata, grazie alle vendemmie notturne e ai vani-raccolta refrigerati. Migliorate le tecnologie, sono stati individuati i vitigni in cui investire, ed è esplosa la produzione di vini da uve internazionali, con Chardonnay e Merlot a farla da padroni. Ma prima che le produzioni seriali trasformassero la Sicilia nella California del Mediterraneo, i piccoli produttori hanno rialzato la testa, rivendicando l’orgoglio dei vitigni autoctoni: così, l’Etna è diventato il nuovo Eldorado vinicolo, mentre alcune grandi cantine hanno cominciato a inseguire senza troppa fortuna Franciacorta e Trentino sul terreno degli spumanti. Se avete qualche giorno da spendere, raggiungete la Sicilia e provate l’ebbrezza della vendemmia sul mare. Poi, sedetevi al Caffè Sicilia, a un passo dalla cattedrale di Noto, casa di uno dei più geniali pasticceri del mondo, Corrado Assenza, e ordinate una fetta di torta di fichi caramellati. Vi arriverà con un bicchiere di Marsala Vecchio Samperi di De Bartoli. Inebriatevi della magìa del tramonto barocco e brindate all’autunno. L MARE, ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-09-13 la Repubblica DOMENICA 13 SETTEMBRE 2015 I produttori 4 4 grandi Noà 2012 Cantine Cusumano Don Antonio 2009, Cantina Morgante Da18 euro Da 21 euro Ben Ryé 2008 Donnafugata Carricante Vigna di Milo 2012, I Vigneri Edizione limitata — seimila bottiglie — a sottolineare il valore della spremuta di Zibibbo di Pantelleria, patrimonio Unesco. Intrigante con formaggi erborinati e piccanti CUPIDO RACCOGLIE L’UVA, FRAMMENTO DI PAVIMENTO DA CARTAGINE, TUNISIA. IL MOSAICO È CONSERVATO AL LOUVRE/ BRIDGEMAN Nel paradiso dell’arcangelo Gabriele piccoli Nero d’Avola, Merlot e Cabernet Sauvignon per il classico, supersiciliano dell’azienda di Partinico (Palermo) vigoroso e speziato, da abbinare con i piatti di selvaggina Bell’esempio di viticoltura familiare sulle colline di Agrigento. Un rosso, Nero d’Avola in purezza, dai riflessi rubino, corposo e persistente. Con il petto di piccione spadellato Arriva da vigne arrampicate sulle falde dell’Etna a 900 metri, l’Etna bianco Superiore prodotto in armonia con la natura, sapido e ampio. Sorseggiare con le linguine ai ricci di mare Da 68 euro Da 35 euro Santannella 2013 Mandrarossa Etna Doc Nerello Mascalese 2011 Enò-trio Dal vigneto più grande d’Europa — la cooperativa Settesoli conta seimila ettari e duemila soci — l’uvaggio di Fiano e Chenin Blanc da abbinare ai frutti di mare crudi 43 I vigneti di Nunzio, Stefany e Désirée Puglisi si estendono sul versante nord del vulcano, firmando un rosso da agricoltura biologica, lunghissimo e speziato. Da arrosti Da 10 euro Da 25 euro Duca Enrico 2009, Duca di Salaparuta Grillo 2013 Barraco Diciotto mesi in botti di rovere francese regalano morbidezza e complessità al Nero d’Avola della storica cantina palermitana, perfetto per la costata di bue grasso Fermentazione spontanea e solforosa ai minimi termini per il bianco dai sentori di albicocca matura prodotto nella campagna di Marsala, perfetto per i gamberi rossi crudi Da 50 euro Da 18 euro LUCIO TASCA D’ALMERITA A LL’ARCANGELO Gabriele, che ruppe le scatole al Padre Eterno per il pezzettino di Paradiso caduto nel centro del Mediterraneo, lamentandosi della mancanza di equità col resto del mondo, Dio disse: non ti preoccupare, lo riempio di siciliani e io sono siciliano… La Sicilia è un continente viticolo meraviglioso. La vendemmia dura oltre tre mesi, da fine luglio sulle coste sud ai primi di novembre sull’Etna. Possiede centinaia di cultivar autoctone e ben accoglie quelle internazionali. La morfologia dei terreni è la più varia e i ricercatori hanno annunciato la scoperta di venticinque varietà di uve reliquie, destinate ad ampliare il nostro panorama enologico. Viviamo in un paradiso vinicolo, forse quello a cui faceva cenno l’Arcangelo Gabriele... L’Etna, per esempio. Con la sua energia, i suoi vini unici, il fermento dei suoi vignaioli, produttori come Benanti, Franchetti, Foti, capaci di ridare lustro al centro vitivinicolo siciliano di due secoli fa. L’ultimo progetto, nato nella Tenuta Regaleali per volere dei miei figli, è SOStain: vogliamo lasciare a chi verrà dopo di noi un terreno più fertile, un’aria più pulita, un’azienda non inquinante e con una lunga possibilità di vita. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Ma come sarà ve lo dirò a San Martino DIEGO PLANETA E BBENE SÌ, vendemmiamo dal 10 agosto, e a fine ottobre abbiamo finito. Per scaramanzia, come sarà il vino lo dirò a San Martino, quando cominceremo a spillarlo dalle botti. È stata un’estate “tres comfortable” per le piante: temperature medie senza picchi da forno e umidità alta. È andata un po’ peggio a noi uomini del Sud: alle temperature alte siamo abituati, ma a questa umidità da Centro Europa francamente no. Pazienza, ho sofferto meno vedendo gioire le viti! La novità di quest’anno riguarda il sesso in vigna, una “sexy story” andata a buon fine... Grazie al progetto SOStain, portato avanti con gli amici Tasca, la tignoletta, che malgrado il nome quasi suadente è un dannosissimo insetto per le viti, ci ha detto addio. Merito dei feromoni, naturali e ingannatori, che fanno sparire l’odor di femmina, obbligando l’astuto maschio a cercare altrove. L’altra novità è il vino: otto anni di lavori sul vigneto, tre anni di sperimentazione in cantina e finalmente si comincia a far mosto di “Mamertino” a Capo Milazzo, estremo Nord della Sicilia. Lo beveva già Giulio Cesare, inrociamo le dita e speriamo di non essere da meno. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-09-13 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 13 SETTEMBRE 2015 44 L’incontro.Maestri ‘‘ NON FOTOGRAFO PIÙ L’ATTUALITÀ. LA VELOCITÀ NON MI INTERESSA SONO UNO CHE STA. PER RITRARRE LE PERSONE CHE VIVONO IN TRIBÙ LONTANE DALLA NOSTRA CIVILTÀ DEVI SAPER ASPETTARE. E RISPETTARE Difficile far parlare di sé il più celebre tra i fotografi, ancor più vano esaltarne il coraggio. Qualche piccolo aneddoto però nel suo atelier parigino siamo riusciti a carpirglielo: ad esempio che una volta in Siberia si curò da una paralisi facciale bevendo sangue di renna (“ha lo stesso sapore del nostro”), o che il suo fegato è distrutto dalle malattie tropicali (“posso bere alcol solo una volta a settimana”). Quanto al suo lavoro non ne vuole sapere di essere definito artista: “Lo trovo pre- mese fa, presentando l’uscita italiana di Altre americhe, in assoluto il suo primo libro fotografico (edito come tutti da Contrasto) pubblicato in Francia nel e da noi soltanto quest’anno. E lo racconta in Dalla mia terra alla terra, appunti autobiografici usciti nel 2014. tenzioso”. Solo sull’esistenza di 1986 Adesso che ha da poco superato i settanta anni mangia e si muove, però, in maniera diversa. Ha sponsor generosi. Ora arriva in elicottero. Non beve più il di renna «che ha lo stesso sapore del tuo quando ti ferisci in bocca». E Dio si lascia andare: “Non ci cre- sangue che quella volta in Siberia lo salvò: «Avevo una paralisi facciale destra. Avevo preso un virus non so dove e dovevo tenermela, quella faccia storta. Non sapecome curarmi. Per nutrirci uccidevamo una renna al giorno, e per giorni ho do. E ho smesso anche di crede- vomangiato interiora e bevuto sangue caldo. La paralisi scomparve». Sui danni collaterali di un mestiere romantico all’apparenza, ma ben poco nella sostannon si sofferma. Non parla del fegato distrutto da malattie tropicali («posre nell’uomo. Per me il miracolo za, so bere alcol soltanto una sera a settimana»), della malaria, le amebe, le epatiti e la bilharziosi («la più terribile»). Non parla di sé, il soggetto non lo interessa. Non vuole neanche essere definito artista. «Secondo me l’arte è quella che è una noce di cocco” racconta la grande storia dell’umanità. In una mostra d’arte africana si trova- Sebastião Salgado LAURA PUTTI L ‘‘ PARIGI A STORIA SI RIPETE. Per questo sembra che Sebastião Salgado abbia già raccontato tutto. Nelle fotografie di In cammino, il suo libro sulle migrazioni uscito quindici anni fa, sembra infatti di vedere i disperati di oggi in fuga da fame e guerre. «Iniziai a lavorarci all’inizio degli anni Novanta» racconta il fotografo più famoso del mondo. Sembra fatto ieri. Le lunghe file dei profughi, i bambini stretti sotto una coperta, l’assalto ai treni, il cibo diviso tra migliaia. Non ha voglia di ripartire per seguire il nuovo esodo? «Non in questo momento. Non fotografo più l’attualità. La velocità non mi interessa. Sono uno che sta». Seduto a un tavolo laboratorio e archivio della sua agenzia parigina, piano interrato, Salgado parla lentamente. È un uomo calmo. In realtà non è chiaro se lo sia, ma di certo sa sembrare mite. Un vero condottiero non è mai marziale, scriveva Lao Tse cinquecento anni prima di Cristo. Salgado, uomo di pace che ha raccontato tutte le guerre, da anni è partito per la più difficile: quella per salvare il pianeta. La svolta è stata Genesis, più di trenta viaggi in otto anni, duecentoquarantacinque fotografie, una mostra gigantesca che dal 2013 ancora gira il mondo (fino al 30 è al Forte di Bard, sulle montagne della Val d’Aosta). E dove passa lo cambia. La magia del suo bianco e nero. La compassione con la quale Salgado accarezza uomini, piante, animali. Il sentimento — sempre controllato, mai freddo — che accompagna l’enorme coda di una balena un momento prima che sparisca in mare. Il rispetto con il quale fotografa tribù lontanissime e sconosciute da questa parte di mondo. Sembra davvero che quegli uomini e quelle donne con facce dipinte, piume in testa e sco- MIO FIGLIO RODRIGO HA LA SINDROME DI DOWN. GRAZIE A LUI HO SCOPERTO UN’ALTRA DIMENSIONE UMANA. COSTRINGENDOMI A GUARDARE IL MONDO IN UN ALTRO MODO, MI HA ANCHE OBBLIGATO A CAMBIARE IL MIO MODO DI LAVORARE delle nelle labbra gli abbiano spalancato le porte delle loro capanne di paglia, degli igloo, dei tepee. E con esse la loro vita. «Per vivere con quei popoli devi avere tempo. Devi sapere aspettare, e rispettare il loro territorrio. Devi mangiare quello che mangiano, dormire dove dormono». Salgado ha sempre fatto così. Perdersi nei suoi panorami, assimilarsi alla vita dell’umanità che fotografava. Sarebbe diventato un albero, se avesse potuto. Non ne ha fatti ricrescere due milioni nello spazio brullo che era diventata la terra di famiglia? Dopo il genocidio del Ruanda era distrutto. Lélia lo riportò in Brasile, alle radici. Lì hanno fondato l’Istituto Terra e trasformato una parte della valle del Rio Doce — i 750 ettari della “fazenda” di suo padre — in un parco nazionale. Lo ha raccontato qualche no oggetti della vita quotidiana e di lavoro — lance, ciotole, sculture votive, brocche, otri — diventati dopo secoli opere d’arte. Quando furono fabbricati nessuno pensava che sarebbero finiti in una mostra o in un museo. Se tra cinquant’anni le mie fotografie serviranno a ricostruire la storia, se faranno parte di una eredità culturale, allora forse mi definiranno artista. Ma io non sarò più su questa terra. È sempre imbarazzante per me quando definiscono opera d’arte una mia fotografia. Lo trovo pretenzioso». Nella biografia di Salgado non c’è traccia di genio e sregolatezza. Nasce in una famiglia di produttori di caffè, in una fattoria ad Aimorés, stato di Minas Gerais, nell’immensa valle del Rio Doce. Nasce come Sebastião Ribeiro Salgado: Sebastiano Ruscello Salato. Ma il rio della fattoria è dolce, contrasta con il suo nome e con i suoi desideri. Non sa ancora, quel ragazzino di campagna, che — tra il 2002 e il 2015 — seguirà tutta la filiera del caffè in dieci paesi produttori per arrivare a un libro e a una mostra (resi possibili dalla Illy: Profumo di sogno, fino al 27 settembre alla Fondazione Bevilacqua La Masa a Venezia e fino al 31 ottobre all’Expo di Milano). È il 1959, Salgado ha quindici anni e vuole andarsene. Si traferisce a Vitòria, finisce il liceo e si iscrive a Scienze economiche. Ma nel ‘64 il colpo di stato di Castelo Branco instaura un regime militare che durerà fino all’85. Nel ‘64, a vent’anni, Salgado conosce Lélia Wanick che ne ha diciassette. Sarà l’unico grande amore della sua vita. La sposa tre anni dopo e nel ‘69, invece di entrare in clandestinità o in prigione per attività comuniste, si esiliano a Parigi dove tutt’ora vivono. Lélia si laurea in architettura, lui finisce gli studi di economia. Nascono i due figli: Juliano (regista con Wim Wenders de Il sale della terra uscito l’anno scorso) che lo ha reso nonno, e Rodrigo affetto da sindrome di Down: «mi ha rivelato un’altra dimensione umana e costringendomi a guardare il mondo in un altro modo ha cambiato il mio modo di fotografare». Negli anni Settanta, quando già lavora a Parigi come economista per l’Organizzazione internazionale del caffé, Salgado inizia a usare la macchina fotografica che Lélia ha comprato per i suoi studi di architettura. Non la lascerà più. Passerà dalla Sygma a Gamma, fino alla Magnum, pri- ‘‘ SONO CERTO CHE SPARIREMO COME SONO SPARITI I DINOSAURI, SPECIE BEN PIÙ RESISTENTE DELLA NOSTRA. SOLO L’EVOLUZIONE È IN GRADO DI STABILIRE UN ORDINE GENERALE DI TUTTE LE COSE ma di fondare nel ‘94 Amazonas Images, la sua agenzia sul Canal Saint-Martin, davanti alla Senna, altro fiume dolce. Qui è il regno di Lélia, curatrice di libri e mostre sempre all’ombra del mito, ma anche in gran parte sua creatrice. Lui invece quando è a Parigi è come un leone in gabbia. E adesso che è appena tornato dall’Indonesia — «per vacanza», dice, ma uno come lui non va in vacanza — e sta ripartendo per Sao Paolo, lavora a un libro sul petrolio che uscirà l’anno prossimo. Lei ha fotografato tutto il mondo: la sua America Latina, ma anche l’Africa, e la capacità dell’uomo a sopravvivere a tutto; ci ha mostrato la terra come un inferno, ma anche come il giardino dell’Eden; e ha incontrato missionari straordinari, come il suo amico Gabicho in Ecuador, che hanno dato l’intera vita a quelle popolazioni: nel suo lavoro è mai mosso da un sentimento religioso? «Assolutamente no. Mio padre era massone e detestava i preti. Mia madre era esoterica, di una religione indiana. Ho fatto il liceo dai salesiani: loro mi detestavano e io detestavo loro. Se ho cantato nel coro è perché avevo una bella voce. Dai salesiani ho avuto un’ottima formazione, ma neanche quando ero in Ruanda Dio mi è mai passato per la testa. Lì ho smesso di credere nell’Uomo, quindi nell’immagine di Dio. Fu una delusione brutale. Sono certo che spariremo come sono spariti i dinosauri, specie ben più resistente della nostra. Questo per dirle che no, non credo in Dio, ma credo nell’evoluzione. Credo che sia l’evoluzione a stabilire un ordine generale delle cose. Accetto al cento per cento la teoria di Darwin, e cioè che la stessa specie si sia evoluta in un ecosistema differente, che tutti veniamo dalla stessa cellula ma da posti diversi. Uno dei miracoli dell’evoluzione è la frutta. Il cocco, la noce del Brasile ha nutrito e cresciuto generazioni di esseri umani. Tutto è lì dentro: cade dall’albero, resta a terra per giorni, la apri ed è ancora fresca. Questi per me sono i miracoli». ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-09-13