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Cinecircoli Giovanili Socioculturali
23 febbraio
3 maggio
IL CUORE GRANDE DELLE RAGAZZE
Regia:
Pupi Avati
Cast
Cesare Cremonini, Micaela Ramazzotti,
Gianni Cavina, Andrea Roncato,
Erika Blanc
Durata 85 minuti
Prima metà degli anni Trenta del secolo scorso, in una cittadina dell'Italia
centrale immersa nella campagna. Tramite la voce fuori campo di Edo,
conosciamo le famiglie dei Vigetti, genitori e tre figli e degli Osti, marito,
seconda moglie, due figlie femmine di lui, una terza che torna da Roma
quando meno te lo aspetti.
Gli Osti sono i proprietari terrieri, i Vigetti sono gli affittuari.
Tra Carlino Vigetti e Francesca Osti viene combinato un matrimonio che
non era previsto. Anche se non tutto va per il meglio...
"Pupi Avati è uno degli ultimi cantastorie rimasti in Italia. Non importa,
poi, se i suoi racconti siano reali o meno. Riescono, comunque, a tener
viva la memoria di quei sapori nostalgici che sembrano fiorire da un
passato che appare, purtroppo, sempre più lontano. Come un vecchio
nonno, Avati fa sedere sulle sue gambe gli spettatori e, con rifiuto del
presente, narra loro le atmosfere irripetibili di un piccolo mondo antico, a
volte fiabesco, a volte crudele, maledettamente affascinante." (Maurizio
Acerbi, 'Il Giornale')
"Un super Avati torna al piacere della commedia col suo copyright che
acquista col tempo più cinismo pur trafficando con sentimenti anni 30 resi
in parte attuali. La storia dei nonni, nella campagna marchigiana, del
seduttore, della bellona e di una strana notte di nozze, si presta al gusto del
racconto balzachiano e spesso grottesco, in cui il naturalismo si appoggia
alla precisione della memoria e al contributo corale di un cast di eccellenze
come la Ramazzotti e il formidabile Roncato." (Maurizio Porro, 'Il
Corriere della Sera')
"Con sguardo leggero e umanissimo il regista affronta temi delicati, quali
il sesso e il tradimento. E racconta un tempo in cui l'uomo era cacciatore le immagini con i capifamiglia che imbracciano fucili sono decisamente
allusive - e la donna la preda. Predestinata, ma non sempre inconsapevole,
tutt'altro, e soprattutto forte. Forte di una forza sprigionata da un amore
capace di andare oltre: quella di un cuore grande, con una incredibile
capacità di sopportazione, in grado di capire e non di rado perdonare. Per il
bene della famiglia. Perché alla fine i mariti tornavano inevitabilmente a
casa. Era questo il loro potere, dolce e unico." (Gaetano Vallini,
'L'Osservatore Romano')
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LA VOCE DI EDO È DI ALESSANDRO HABER.
IN CONCORSO ALLA VI EDIZIONE DEL FESTIVAL
INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA (2011).
ANONYMOUS
Regia:
Roland Emmerich
Cast
Rhys Ifans, Vanessa Redgrave,
Sebastian Armesto, Rafe Spall,
David Thewlis, Edward Hogg,
Xavier Samuel, Derek Jacobi,
Mark Rylance, Tom Wlaschiha,
Jamie Campbell Bower, Joely Richardson
Durata 130 minuti
Ambientato durante i disordini politici dell'Inghilterra elisabettiana il film
affronta una questione che per secoli ha affascinato studiosi e brillanti
intellettuali, ossia: chi ha realmente scritto le opere attribuite a William
Shakespeare? Anonymous offre una possibile risposta, concentrandosi su
un momento in cui gli scandalosi intrighi politici e le illecite storie d'amore
alla Corte Reale vengono portati alla luce nel luogo più inaspettato: il
teatro di Londra. Edward de Vere, conte di Oxford, era un poeta e un
drammaturgo affermato alla corte della regina Elisabetta nel XVI secolo.
Alcune teorie letterarie del XX secolo ritengono che sia lui in realtà
l'autore
dei
lavori
attribuiti
a
Shakespeare.
"L''Anonymous' del titolo è il personaggio che secondo una certa scuola di
pensiero avrebbe scritto le opere passate alla storia sotto il nome di
Shakespeare, sulla cui vera identità si specula da secoli senza certezza. La
tesi qui abbracciata è quella degli 'Oxfordians', convinti che per parlare
con tanta cognizione di uomini di potere, ci volesse qualcuno appartenente
a quel mondo come Edward de Vere, XVII duca di Oxford. Gli interpreti,
a partire da Rhys Ifans, sono ottimi, la ricostruzione della Londra d'epoca
suggestiva e la regia di Emmerich professionale. Ed è fantastico come il
Bardo continui ad alimentare direttamente e indirettamente la fantasia dei
posteri." (Alessandra Levantesi Kezich, 'La Stampa')
Un thriller letterario, insolito e sorretto da un magniloquente e sfavillante
sforzo produttivo. Roland Emmerich, finora conosciuto come artefice di
sbrigativi kolossal apocalittici, vi sviluppa, infatti, la controversa leggenda
che mette in dubbio l'identità di William Shakespeare. L'allampanato Rhys
lfans è molto in parte, la Redgrave come sempre insuperabile. (Valerio
Caprara, 'Il Mattino', 18 novembre 2011)
"La teoria, tutt'altro che nuova, resta per alcuni affascinante: William
Shakespeare era un 'nom de plume'. Il bardo, dunque, non esisterebbe e le
geniali opere a lui attribuite sarebbero state scritte da qualcun altro.
Stavolta a riproporre il tema è il regista Roland Emmerich e lo fa
ambientando la vicenda durante i disordini politici avvenuti nel periodo
elisabettiano, abbondantemente conditi con invidie, cospirazioni,
tradimenti e torbide passioni, per rendere il tutto cinematograficamente più
attraente. In più la messinscena è imponente, con una sontuosa
ricostruzione di Londra in computer grafica (Emmerich è quello di
'Independence Day' e 'The Day After Tomorrow'), e con costumi e
ambientazioni di grande suggestione. (Gaetano Vallini, 'L'Osservatore
Romano')
TERRAFERMA
Regia:
Emanuele Crialese
Cast
Donatella Finocchiaro, Beppe Fiorello,
Martina Codecasa,Claudio Santamaria,
Filippo Pucillo, Mimmo Cuticchio,
Tiziana Lodato, Titti, Robel Tsagay
Durata 88 minuti
Due donne, un’isolana e una straniera: l’una sconvolge la vita dell’altra.
Eppure hanno uno stesso sogno, un futuro diverso per i loro figli, la loro
terraferma. Terraferma è l’approdo a cui mira chi naviga, ma è anche
un’isola saldamente ancorata a tradizioni ferme nel tempo. È con
l’immobilità di questo tempo che la famiglia Pucillo deve confrontarsi.
Ernesto ha 70 anni, vorrebbe fermare il tempo e non vorrebbe rottamare il
suo peschereccio. Suo nipote Filippo ne ha 20, ha perso suo padre in mare
ed è sospeso tra il tempo di suo nonno Ernesto e il tempo di suo zio Nino,
che ha smesso di pescare pesci per catturare turisti. Sua madre Giulietta,
giovane vedova, sente che il tempo immutabile di quest’isola li ha resi tutti
stranieri e che non potrà mai esserci un futuro né per lei, né per suo figlio
Filippo. Per vivere bisogna trovare il coraggio di andare. Un giorno il mare
sospinge nelle loro vite altri viaggiatori, tra cui Sara e suo figlio. Ernesto li
accoglie: è l’antica legge del mare. Ma la nuova legge dell’uomo non lo
permette e la vita della famiglia Pucillo è destinata a essere sconvolta e a
dover scegliere una nuova rotta.
"Non è un film a tesi, 'Terraferma'. Non vuole dimostrare nulla. Non
credete allo snobismo elitario di quei critici che hanno arricciato il naso,
accusandolo di finire suo malgrado nell'estetica del barbarico,
nell'estetizzazione del folklorico o, ancora, nella fascinazione del
primitivo. Crialese ha in mente il mito piuttosto che il romanzo. Racconta
per blocchi. Non abbisogna di psicologie. Gli bastano i gesti. A volte opera
perfino per allegorie. (Gianni Canova, 'Il Fatto Quotidiano)
"A Emanuele Crialese sono bastati due film, 'Respiro' e 'Nuovomondo', per
proporsi fra gli autori più significativi del cinema italiano di oggi. Ce lo
conferma ampiamente questo suo terzo film, 'Terraferma', ambientato nella
stessa isola di 'Respiro', anche se, in questo caso, il desiderio dei suoi
principali personaggi è di lasciarla per rifarsi una vita in terraferma, luogo
mitico e ad un tempo reale, tramato di sogni ma anche di dati concreti. I
personaggi più coinvolti in questo sogno sono due donne e un ragazzo. (...)
Un film prezioso. Per i suoi climi, ma soprattutto per gli accenti tra favola
e cronaca con cui limpidamente si affrontano e per un senso del cinema studiato, meditato - che si realizza sempre all'insegna dello stile. Lo
completa un'interpretazione felice, da Donatella Finocchiaro (Giulietta) a
Filippo Pucillo (Filippo), già incontrato quest'ultimo in occasione di
‘Respiro’. Un duetto che lascia il segno. Specie se vi si aggiunge l'altra
donna, Timnit T., l'immigrata, un viso dolce da Madonna nera." (Gian
Luigi Rondi, 'Il Tempo')
"Terraferma si propone come una ballata corale, arsa dal sole e toccata da
una pietas che si vorrebbe intensa, emotiva, slegata dalla cronaca. La
fotografia di Fabio Cianchetti è densa, non artefatta; la musica di Franco
Piersanti intonata e non invadente; e gli interpreti, specialmente i 'locali',
offrono un timbro veritiero nell'uso del dialetto. (Michele Anselmi, 'Il
Riformista')
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PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA E PREMIO 'FRANCESCO PASINETTI'
ALLA 68^ MOSTRA INTERNAZIONALE D'ARTE CINEMATOGRAFICA DI
VENEZIA (2011). HA OTTENUTO ANCHE LA SEGNALAZIONE CINEMA FOR
UNICEF DELLA GIURIA DEL LEONCINO D'ORO AGISCUOLA.
THIS MUST BE THE PLACE
Regia
Paolo Sorrentino
Cast
Sean Penn, Frances McDormand,
Tom Archdeacon, Shea Whigham,
Seth Adkins
Durata 118 minuti
Cheyenne, ebreo, cinquantenne, ex rock star di musica goth, rossetto rosso
e cerone bianco, conduce una vita più che benestante a Dublino. Trafitto
da una noia che tende, talora, ad interpretare come leggera depressione. La
sua è una vita da pensionato prima di aver raggiunto l'età della pensione.
La morte del padre, con il quale aveva da tempo interrotto i rapporti, lo
riporta a New York. Qui, attraverso la lettura di alcuni diari, mette a fuoco
la vita del padre negli ultimi trent'anni. Anni dedicati a cercare
ossessivamente un criminale nazista rifugiatosi negli Stati Uniti.
Accompagnato da un'inesorabile lentezza e da nessuna dote da
investigatore, Cheyenne decide, contro ogni logica, di proseguire le
ricerche del padre e, dunque, di mettersi alla ricerca, attraverso gli Stati
Uniti, di un novantenne tedesco probabilmente morto di vecchiaia.
"Paolo Sorrentino nel suo primo film in lingua inglese e Sean Penn nel suo
primo film diretto da un italiano, hanno costruito insieme un personaggio
inquietante e commovente, esiliato dal mondo e da se stesso, che
all'improvviso torna ad affrontare il mondo e se stesso sulle tracce di un
passato che non ha vissuto. Una canzone del 1983 dei Talking Heads dà il
titolo al grande, umanissimo film, e lo spezza separando le due vite
dell'invecchiato Cheyenne. Prima era un bizzarro reperto di un tempo
finito, rifugiato tra le casine silenziose irlandesi, poi, abbracciando il
vecchio amico e ritrovando la seduzione della sua musica, ripiomba
nell'America della sua giovinezza, delle sue radici familiari e religiose.
L'italiano Sorrentino riesce a creare un itinerario americano sorprendente,
luoghi e persone che abbiamo visto in tanti altri film ma visti con uno
sguardo nuovo, profondo, che isola gli incontri con una serie di personaggi
solitari, malinconici e talvolta folli, immersi uno ad uno in paesaggi vuoti e
sconfinati, oppure chiusi in casette fragili e tristi." (Paolo D'Agostino, 'La
Repubblica')
"Bisogna vedere due volte il film di Paolo Sorrentino. Una per goderlo,
una per capirlo, perché il senso profondo (e abbastanza disturbante) di
'This must be the place' è diluito in una struttura narrativa leggerissima e in
una serie di immagini così fluide e affascinanti da mettere quasi in ombra
la sostanza del discorso. Molto meno ovvia, e più 'pesante', di quanto
sembri. (...) Un gioco di prestigio che lascia ammirati per l'abilità, ma
anche sgomenti per la disinvoltura. Le ultime parole sui titoli, così
seducenti, appartengono al carnefice. Non si era mai visto." (Fabio
Ferzetti, 'Il Messaggero')
Piacerà a chi da anni ritiene Sorrentino il nostro maggior regista e qui ha
una bella conferma (riesce a fare un film 'americano' come non molti
americani saprebbero). E chi ritiene, come noi, che Sean Penn sia uno dei
peggiori attori del mondo se gli tocca recitare una persona normale. Ma tra
i migliori se gli danno un 'eccentrico' (qui è grande e osceno nella sua
maschera da rocchettaro in disfacimento)." (Giorgio Carbone, 'Libero')
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PREMIO DELLA GIURIA ECUMENICA AL 64° FESTIVAL DI CANNES (2011)
LA KRYPTONITE NELLA BORSA
Regia
Ivan Cotroneo
Cast
Valeria Golino, Luigi Catani,
Cristiana Capotondi, Luca Zingaretti,
Libero De Rienzo, Fabrizio Gifuni
Durata: 98 minuti
Ogni famiglia ha i suoi segreti. Ma alcuni fanno più ridere di altri. Napoli.
1973. Peppino Sansone ha 9 anni, una famiglia affollata e piuttosto
scombinata ed un cugino più grande, Gennaro, che si crede Superman. Le
giornate di Peppino si dividono tra il mondo folle e colorato dei due
giovani zii Titina e Salvatore fatto di balli di piazza, feste negli scantinati e
collettivi femminili e la sua casa dove la mamma si è chiusa in un silenzio
incomprensibile ed il padre cerca di distrarlo regalandogli pulcini da
trattare come animali da compagnia. Quando però Gennaro muore, la
fantasia di Peppino riscrive la realtà e lo riporta in vita, come se il cugino
fosse effettivamente il supereroe che diceva di essere. Ed è grazie a questo
amico immaginario, a questo superman napoletano dai poteri traballanti,
che Peppino riesce ad affrontare le vicissitudini della sua famiglia e ad
accostarsi al mondo degli adulti.
"È un film di strana bellezza perché si sostituisce alla nostalgia, portandoci
nel cuore di un sentimento ancora pulsante. Quello di Cotroneo non è un
viaggio nel tempo ma è il viaggio dentro l'emozione ancora viva di un
momento specifico della vita, quando ancora bambini tutto sembra
deforme e strano, ambiguo e alterno, e sempre senza una vera ragione.
Non si può parlare di un film in costume (sebbene sia un film calato nella
moda del tempo), non si può parlare di un film storico (sebbene sia
ambientato agli inizi degli anni Settanta), non si può parlare di un film
nostalgico (anche se gira intorno al rimpianto per quel che eravamo), non
si può parlare di un film politico (perché quel rimpianto contiene una
domanda su ciò che siamo)." (Dario Zonta, 'L'Unità')
"E' sulla base di un proprio romanzo edito da Bompiani che lo
sceneggiatore Ivan Cotroneo ha scelto di esordire nella regia. Ed è stata
idea giusta perché, essendo scritto sul filo dell'autobiografia, 'La kryptonite
nella borsa' contiene un mondo di riferimenti noto, cosa che deve aver
semplificato al neo-autore il compito di ritrovare sullo schermo atmosfere,
luoghi, colori, caratteri. Per altri aspetti però si tratta di un soggetto non
facile: gioca su un doppio registro reale-surreale, è un po' commedia di
costume e un po' storia intimista, ovvero un piccolo romanzo di
formazione con tanti personaggi da raccontare." (Alessandra Levantesi
Kezich, 'La Stampa')
Cotroneo usa la chiave della commedia per interpretare il mondo con una
storia adulta vista ad altezza di bambino. Protagonista è Sansone Peppino
da Napoli, colto da questa storia sulla soglia dei 9 anni nel 1973. Intorno a
Peppino una famiglia multicolore (è il caso di dirlo: le ricercate
mostruosità cromatiche della mostruosa moda di quelle stagioni sono parte
importante del film) dove papà Luca Zingaretti tradisce impunemente
mamma Valeria Golino che cade in uno stato di muto sgomento dal quale
la risolleva il più che sollecito psichiatra Fabrizio Gifuni, mentre i due zii
Cristiana Capotondi e Libero De Rienzo spupazzano il nipotino. Insomma
un gran casino, simpatico e vitale. Che sa distillare, nella forma più
accattivante ma non superficiale, una classica lezione di vita: sii sempre te
stesso e segui la tua strada." (Paolo D'Agostino, 'La Repubblica', 4
novembre 2011)
LE IDI DI MARZO
Regia
George Clooney
Cast
George Clooney, Ryan Gosling,
Marisa Tomei, Evan Rachel Wood,
Philip Seymour Hoffman,
Paul Giamatti, Max Minghella,
Lauren Mae Shafer, Wendy Aaron
Durata 98 minuti
Il film racconta gli ultimi frenetici giorni della corsa per le primarie in
Ohio, in cui un giovane addetto stampa viene coinvolto in uno scandalo
politico che minaccia di compromettere la campagna elettorale, e finisce
invischiato in una rete di intrighi, pericolose manipolazioni di veterani
della casta e sedotto da una stagista. Il film è un’intensa storia di sesso,
ambizione, lealtà, tradimento e vendetta, ambientato nel contesto del
potere e della politica del mondo di oggi.
"Una democrazia fondata sul ricatto, sulla corruzione; su un potere dal
fascino talmente perverso da manipolare anche le convinzioni e gli ideali
apparentemente più radicati, forgiandoli e plasmandoli a seconda della
convenienza. Il tutto servito non con qualunquismo (il rischio era grosso)
ma con piglio shakesperiano, mettendo in scena, nell'arena della vita,
passioni e, soprattutto, vizi capitali di uomini e donne. Il risultato è un film
di una bellezza sconvolgente. Perfetto nei meccanismi, straordinariamente
interpretato (ogni attore, anche di supporto, si supera in bravura), con una
sceneggiatura impeccabile. Un thriller politico maestoso, che parte lento
ma che, dopo venti minuti, ti aggancia alla poltrona e non ti molla più."
(Maurizio Acerbi, 'Il Giornale')
"George Clooney ha scritto e diretto un film decisamente buono, di solida
struttura narrativa (non a caso all'origine c'è una pièce di Beau Willimon) e
con un cast di attori che si vorrebbe non finissero mai di recitare. 'Le idi di
marzo' del titolo non sono quelle in cui Cesare fu ucciso, ma poco ci
manca. Anche qui si sprecano le pugnalate, e molti personaggi potrebbero
dire: «tu quoque...». Nel film, come nella storia romana e nella tragedia
shakespeariana, il tema che tiene unito tutto è quello del potere. (...) Dopo
l'entusiasmo della prima parte, il film diventa una specie di percorso di
iniziazione al contrario, dove il cinismo e la sopraffazione portano in luce
le vere facce delle persone. (...) Anche noi poveri spettatori avremmo
voglia di credere nei sogni, specialmente in quelli della politica, e quando
qualcuno ci fa aprire gli occhi allora siamo pronti a trasformarci in tanti
Marco Giunio Bruto. Nos quoque..." (Paolo Mereghetti, 'Il Corriere della
Sera')
“La pellicola parla a tutte le democrazie del mondo, quella italiana
compresa, perché parla di politica, del suo fascino irresistibile e del suo
lato oscuro, mefistofelico. Parla, soprattutto, della 'macchina del fango',
quell'arma impropria con cui viene distrutto un avversario usando una
campagna di stampa ben orchestrata (e poco importa se è vera). (...) È
un'analisi nitida e implacabile, dolorosamente coerente nei bisturi che
squartano le piaghe del potere e nei fili che ne suturano le ferite. (Marco
Dell'Oro, 'L'Eco di Bergamo')
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HA OTTENUTO IL 'PREMIO BRIAN' ALLA 68^ MOSTRA INTERNAZIONALE
D'ARTE CINEMATOGRAFICA DI VENEZIA (2011)
S C I A L L A ! (stai sereno)
Regia
Francesco Bruni
Cast
Fabrizio Bentivoglio, Barbora Bobulova,
Filippo Scicchitano, Vinicio Marchioni,
Giuseppe Guarino, Prince Manujibeya
Durata 95 minuti
Bruno Beltrame ha tirato i remi in barca, e da un bel po’. Del suo antico talento di
scrittore è rimasto quel poco che gli basta per scrivere su commissione "i libri degli
altri", le biografie di calciatori e personaggi della televisione (attualmente sta
scrivendo quella di Tina, famosa pornostar slovacca divenuta produttrice di film
hard); la sua passione per l’insegnamento ha lasciato il posto a uno svogliato tran-tran
di ripetizioni a domicilio a studenti altrettanto svogliati, fra i quali spicca il
quindicenne Luca, ignorante come gli altri, ma vitale e irriverente. Un bel giorno la
madre del ragazzo si fa viva, come un fantasma dal passato, con una rivelazione che
butta all’aria la vita di Bruno: Luca è suo figlio, un figlio di cui ignorava l’esistenza...
Non solo: la donna è in procinto di partire per un lavoro di sei mesi come cooperante
in Africa, e il ragazzo non può e non vuole certo seguirla laggiù. La donna chiede a
Bruno di ospitarlo a casa sua e di prendersi cura di lui, ma senza rivelargli la sua vera
identità. Inizia così una convivenza improbabile fra l’apatico ex professore e
l’inquieto adolescente; sei mesi durante i quali Luca si troverà a confrontarsi con una
figura maschile adulta e Bruno, suo malgrado, non potrà fare a meno di prendersi
cura di quel figlio segreto, che oltretutto sembra destinato a infilarsi in un grosso
guaio…
"Nell'esordire alla regia, il livornese Francesco Bruni ha potuto contare su
un copione ben scritto e intimamente legato alle sue corde. Ora, la cosa
potrebbe sembrare scontata considerato che da oltre vent'anni Bruni lavora
proprio come sceneggiatore; e assai bene, come dimostrano i film firmati
per il concittadino Paolo Virzì, di cui è usuale collaboratore, e tanti altri
cineasti. Ma il discorso non è così lineare: in verità, capita sovente che gli
scrittori passando dietro la macchina da presa tradiscano in qualche modo
se stessi. Bruni, no: è un punto a suo favore dal quale ne consegue un altro,
e cioè che 'Scialla!' è opera personale, motivata. (...) In pratica 'Scialla' è
l'ambivalente simbolo di quella difficoltà di comunicazione fra
generazioni, che è uno dei temi portanti del film. Vitale, ingenuo e
accattivante, l'inedito Filippo Scicchitano non è mai banale nel suo essere
un ragazzo come tanti. Il guaio in cui si caccia è serio e plausibile, con una
soluzione spiritosa e un pizzico cinefila, che ci ricorda che stiamo vedendo
un film e non una storia vera, come è giusto sia" (Alessandra Levantesi
Kezich, 'La Stampa')
"Dal buio dei 'Soliti idioti' alla luce di 'Scialla!'. Da un mare di parolacce
senza tregua allo splendido confronto tra due generazioni. E pazienza se il
botteghino non sarà altrettanto generoso. Davvero bravo l'esordiente
Francesco Bruni, già affermato sceneggiatore di Virzì, di Calopresti e
perfino di Ficarra & Picone, e ovviamente autore di questo eccellente
copione, a delineare con rapidi tocchi il mondo degli adolescenti e quello,
lontanissimo, dei loro genitori. (...) Di più non si può dire, però si può
raccomandare caldamente il film anche a chi non sopporta il romanesco.
Ma il giovanissimo debuttante Filippo Scicchitano è cosi intonato, che
dopo un po' non ci si fa più caso. Quanto a Fabrizio Bentivoglio è talmente
bravo, che, se fosse in palcoscenico, si prenderebbe chissà quanti applausi
a scena aperta. Non vergognatevi se, tra tante risate, vi scapperà una
lacrima." (Massimo Bertarelli, 'Il Giornale')
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PREMIO DELLA SEZIONE 'CONTROCAMPO ITALIANO' ALLA 68^ MOSTRA
INTERNAZIONALE D'ARTE CINEMATOGRAFICA DI VENEZIA (2011).
HA RICEVUTO IL PREMIO AIF-FORFILMFEST E IL PREMIO VITTORIO
VENETO FILM FESTIVAL.
MIRACOLO A LE HAVRE
Regia
Aki Kaurismäki
Cast
Jean-Pierre Léaud, Kati Outinen,
Jean-Pierre Darroussin,
André Wilms, Elina Salo,
Evelyne Didi, Blondin Miguel
Durata 103 minuti
Marcel Marx, ex scrittore e noto bohémien, si è ritirato in una sorta di
esilio volontario nella città portuale di Le Havre, dove sente di aver
costruito un rapporto di maggiore vicinanza con la gente, che serve
praticando l'onorevole ma poco redditizio mestiere del lustrascarpe.
Abbandonata ogni velleità letteraria, vive felicemente dividendosi tra il
suo bar preferito, il lavoro e la moglie Arletty, quando all'improvviso il
destino mette sulla sua strada un piccolo profugo arrivato dall'Africa.
Con Arletty gravemente ammalata e costretta a letto, ancora una volta
Marcel deve affrontare il freddo muro dell'indifferenza umana armato solo
del suo innato ottimismo e della solidarietà della gente del suo quartiere:
ma contro di lui lavora la cieca macchina dello stato occidentale, questa
volta rappresentata dalla polizia che lentamente stringe il cerchio intorno al
bambino africano.
Per Marcel è arrivato il momento di rimboccarsi le maniche, lucidarsi le
scarpe
e
mostrare
i
denti.
"La crisi della migrazione africana secondo il Chaplin finlandese Aki
Kaurismäki è una storia che si ripete nel suo universo di colori tenui,
cinema classico e personaggi perduti, ma non perdenti, nella composta e
taciturna solidarietà sulla frontiera permanente tra la malinconia degli
onesti e l'aggressività degli altri. E' un mondo a parte, quello di
Kaurismäki, l'unico grande 'stilista' del cinema europeo, un microcosmo
perfetto per accogliere la peripezia di Idrissa, ragazzino magrebino in fuga
per ricongiungersi con la madre a Londra, di passaggio e braccato dalla
polizia nella imperturbabile Le Havre." (Silvio Danese, 'Nazione-CarlinoGiorno')
"L'uomo bianco dialoga col bimbo nero. Appena incontrati, sembra si
conoscano da sempre, che intimamente sanno di essere uguali, fratelli,
l'uno 'albino dell'altro'. E odiano buonismo, catechismi e retoriche, perché
escono dallo sguardo Aki Kaurismäki, il genio degli universi capovolti.
Che se da anni ci ha abituato a cine-miracoli, questa volta ci offre forse il
suo più bello, summa di uno stile maturato nella migliore delle direzioni: il
senso di verità. Una fiaba potente dentro a un film perfetto. Con splendidi
rimandi al cinema che Aki omaggia più di cuore che di testa, come i
polverosi bordi di certa Francia marginale. Il trittico d'attori restituisce al
meglio il taglio netto sull'ironia dei dialoghi secchi e vitali insieme. 'lo non
ho soluzioni per la crisi mondiale, faccio solo film'. Ci permettiamo una
correzione: le sue sono 'opere d'arte'." (Anna Maria Pasetti, 'Il Fatto
Quotidiano')
"Benvenuti nell'era dell'ottimismo. Sembra un controsenso visti i tempi
che viviamo, ma qualcuno azzarda una possibilità, presentando una realtà
diversa, dove per essere felici basta poco e quel poco si è pronti a dividerlo
con chi ha meno. Kaurismäki - grazie a una sceneggiatura leggera ma non
banale, a bravi attori con volti veri e a una colonna sonora a tratti d'altri
tempi - vuole convincerci che i miracoli possono accadere. Anche quando
non ci si crede. Ottimismo è, quindi, la parola chiave. Ma forse ancora di
più lo è fiducia. Una fiducia che si traduce nella speranza che le cose
possano cambiare, che il mondo possa diventare un posto migliore.
(Gaetano Vallini, 'L'Osservatore Romano')
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MENZIONE SPECIALE DELLA GIURIA ECUMENICA E PREMIO FIPRESCI
AL 64° FESTIVAL DI CANNES (2011).
IL VILLAGGIO DI CARTONE
Regia
Ermanno Olmi
Cast
Michael Lansdale, Rutger Hauer,
Massimo De Francovich,
Alessandro Haber, John Geroson,
El Hadji Ibrahima Faye,
Irma Pino Viney, Fatima Alì
Durata 87 minuti
Come un mucchio di stracci buttato là, sui gradini dell’altare. È il vecchio
Prete, per tanti anni parroco in quella chiesa che ora non serve più e viene
dismessa. Gli operai staccano dalle pareti i quadri dei santi e gli oggetti
sacri più preziosi. Un lungo braccio meccanico stacca il grande Crocefisso
a grandezza d’uomo appeso alla cuspide per calarlo a terra come uno
sconfitto. È inutile opporsi: nulla potrà fermare il corso degli eventi che
l’incalzare delle nuove realtà impone alla storia. Tuttavia, di fronte allo
scempio della sua chiesa, il Prete avverte l’insorgere di una percezione
nuova che lo sostiene. Gli pare che solo ora quei muri messi a nudo
rivelino una sacralità che prima non appariva. Da questo momento di
sconforto avrà inizio una resurrezione in spirito nuovo della missione
sacerdotale. Non più la chiesa delle cerimonie liturgiche, degli altari
dorati, bensì la Casa di Dio dove trovano rifugio e conforto i miseri e i
derelitti. Saranno costoro i veri ornamenti del Tempio di Dio. E pure la
vita del vecchio Prete troverà nuove vie della carità, della fratellanza e
persino del coraggio di compiere quegli atti d’amore che chiedono anche il
sacrificio estremo, quale alto significato della consacrazione sacerdotale.
Ha inizio un tempo in cui il mondo ha bisogno di uomini nuovi e giusti per
smascherare l’ambiguità delle parole con l’oggettività degli atti.
"La narrazione non evidenzierà solamente il più appariscente, e talvolta
scontato, problema razziale ma soprattutto il dialogo tra religioni che,
quando si liberano dal gravame delle chiese come rigide istituzioni che
separano, allora rendono non solo possibile l'incontrarsi ed il riconoscersi
ma suscitano anche condivise solidarietà." (Dalle note di regia)
"Il bellissimo film di Olmi parte dal 101° chiodo, quello da cui cade il
Cristo di una chiesa sconsacrata in cui il prete, accogliendo i migranti,
ritrova la radice della pietas. Iper Olmi che con la costanza della ragione
offre un apologo non realistico ma necessario intriso di cinema, molto
teatro (vedere il cast) e anche un poco di tv nella claustrofobia di un
ambiente (luci d'inverno dentro, nebbia e grigio fuori) in cui i sentimenti
vivono con la nuova sacralità di chi non teme il passo dalla teoria
all'azione." (Maurizio Porro, 'Il Corriere della Sera')
"Di 'Il villaggio di cartone' di Ermanno Olmi molto si è parlato, si parla e
si parlerà. (...) Le forze nuove sono quelle per ora deboli e impari dei
pellegrini africani che sullo schermo arrivano simbolicamente da Goréé, il
porto senegalese da cui venivano imbarcati gli schiavi per le Americhe.
Sono gli esuli, infatti, a ridare senso allo spazio un tempo sacro, usando le
panche per dormire, l'acquasantiera per raccogliere l'acqua piovana e le
candele per scaldare. II regista orchestra come le voci di un coro questo
presepio di personaggi volutamente stereotipi, mentre da fuori arrivano
inquietanti segnali di pericolo - sirene, urla, tuoni - che intrecciati ad arte
con gesti, dialoghi, luci (fotografia di Fabio Olmi) e musica (di Sofia
Gubajdulina) creano una compatta atmosfera teatrale. Un teatro ispirato
alla realtà dei sentimenti. Più anarchico che mai, Olmi ha radicalizzato il
suo pensiero fino a estrarne un puro distillato. Dietro al suo film c'è il
travaglio di un sofferto ripensamento approdato al riscatto di una rarefatta
serenità, nella speranza che lo svalorizzato paesaggio umano possa
riacquistare un significato. (Alessandra Levantesi Kezich, 'La Stampa')
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REALIZZATO CON IL PATROCINIO DELL'ALTO COMMISSARIATO DELLE
NAZIONI UNITE PER I RIFUGIATI - UNHCR - UFFICIO PER IL SUD EUROPA.
FUORI CONCORSO ALLA 68^ MOSTRA INTERNAZIONALE D'ARTE
CINEMATOGRAFICA DI VENEZIA (2011).
J. E D G A R
Regia
Clint Eastwood
Cast
Leonardo DiCaprio, Naomi Watts,
Armie Hammer, Judi Dench,
Damon Herriman
Durata 137 minuti
J. Edgar Hoover durante la sua vita divenne l’uomo più potente di tutta l’America.
Come capo dell’FBI per circa 50 anni, non si fermò davanti a nulla pur di proteggere il
suo Paese. Passando attraverso 8 Presidenti e tre guerre, Hoover si è lanciato in una
guerra contro minacce sia vere che immaginarie, infrangendo spesso anche le regole
per proteggere i suoi concittadini. I suoi metodi erano spietati ed eroici e ricevere
l’ammirazione del mondo era quello a cui teneva di più.
Hoover è stato un uomo che dava grande valore ai segreti - in particolare a quelli degli
altri - e non ha avuto paura di usare quelle informazioni per esercitare la sua autorità
sui
leader
più
importanti
della
nazione.
Consapevole che la conoscenza è potere e che la paura crea le opportunità, ha usato
entrambe per ottenere una influenza senza precedenti e per costruirsi una reputazione
formidabile ed intoccabile. Era molto schivo nella sua vita privata quanto in quella
pubblica, permettendo solo ad un ristretto gruppo di persone di far parte della sua vita.
Il suo collaboratore più stretto, Clyde Tolson, era anche uno dei suoi amici più cari. La
sua segretaria, Helen Gandy, che probabilmente è stata la persona a lui più vicina e al
corrente di tutte le sue attività, gli è rimasta fedele fino alla fine…e oltre. Solo la
madre lo lascerà, lei che era stata la più grande ispirazione e coscienza. La sua morte
avrà un effetto devastante su di lui, il figlio che ha cercato eternamente il suo amore e
la sua approvazione.
"Cosa proverà Leonardo Di Caprio, rivedendosi sullo schermo in
'J.Edgar'? La squadra di truccatori capeggiati da Jack Taggart ha compiuto
su Di Caprio un lavoro pazzesco, ma l'attore ci ha messo del suo,
lavorando su gesti, sguardi e camminate fino a sembrare veramente un
anziano malmesso. Da un lato gli sembrerà, rivedendosi, di osservare il
proprio (futuro) invecchiamento; dall'altro dovrà essere orgoglioso del
proprio lavoro. Dev'essere, al tempo stesso, gratificante ed inquietante. La
prova prodigiosa di DiCaprio e degli altri attori (Naomi Watts, Armie
Hammer e Judi Dench non sono da meno) non deve far passare in secondo
piano i valori cinematografici e politici di 'J. Edgar'. (...) Eastwood e Black
sono espliciti, ma con grande finezza. Anche le due scene più estreme del
film sono risolte con gusto, sapienza drammatica e - oseremmo dire affetto, più che rispetto. (Alberto Crespi, 'L'Unità')
Nel film c'è tutto. Eppure quest'uomo odioso non arrivi mai a odiarlo nel
corso dei 140 minuti. Per J. Edgar, Eastwood nutre evidentemente l'odio
amore che Orson Welles portava al magnate di 'Quarto potere', che
Eisenstein nutriva per 'Ivan il terribile'. Come in 'Ivan', Clint fa salire il suo
antieroe al trono in un Paese che sembra in preda al caos, giustificando in
parte la serie di carognate che vedremo fare a Hoover (come a dire, in un
mondo di carogne per metter ordine ci voleva la carogna e mezza). In
realtà Eastwood da buon americano ha un innato rispetto per chiunque
sappia fare bene il proprio 'job', il proprio lavoro. E Hoover lo fece
benissimo. Anche se i suoi metodi farebbero rivoltare le budella a
qualunque persona perbene. (Giorgio Carbone, 'Libero')
Eastwood preferisce l'analisi psicologica alla ricostruzione cronologica,
rinunciando così a molte vicende personali di Hoover non meno
imbarazzanti di quelle raccontate. Ma le contraddizioni dell'uomo lo
interessano di più, e attraverso queste vuole ricostruire i tratti salienti di
una personalità duplice. Con 'J. Edgar' Eastwood si conferma regista di
razza, realizzando un film di fattura classica, come nel suo stile, cupo nei
toni, diretto nelle intenzioni, senza scappatoie consolatorie o assolutorie,
che tuttavia non rende al meglio l'incrocio dell'introspezione psicologica
con la sfera pubblica. (Gaetano Vallini, 'L'Osservatore Romano)
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CANDIDATO AI GOLDEN GLOBES 2012 COME MIGLIOR FILM
DRAMMATICO E MIGLIORE ATTORE PROTAGONISTA
è una iniziativa del
CENTRO CULTURALE
Flash
Cinecircoli Giovanili Socioculturali
in collaborazione con
COMUNE DI LIVORNO
CIRCOSCRIZIONE 4
CINEMA TEATRO SALESIANI
© CGS
Flash
a cura di
Marco Scariot e Gaetano D’Ottone
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Regia - Cinema Teatro Salesiani Livorno