Anno Accademico 2012-2013
Corso di Laurea in Farmacia
Insegnamento di CHIMICA CLINICA
FABIO DI LISA
MARCELLA CANTON
Dip. Scienze Biomediche Sperimentali
Complesso Vallisneri
I° Piano Nord, stanza 58
Tel. 049-8276132
[email protected]
www.bio.unipd.it/fdl
Tel. 049-8276414
[email protected]
DEFINIZIONE
La chimica o biochimica clinica è parte fondamentale della medicina
di laboratorio.
La medicina di laboratorio è quella disciplina che studia in campioni
biologici provenienti dall’uomo (ma anche “in vivo”: per esempio
spettroscopia a risonanza magnetica nucleare) quei parametri
fisicochimici che possono fornire informazioni su processi fisiologici
e/o patologici che avvengono nell’uomo stesso a vari livelli
d’organizzazione strutturale, e quindi di sistemi, d’organi, di tessuti, di
cellule, ed anche di singole molecole(vedi DNA, proteine, ecc).
In tale ambito la biochimica clinica è incentrata sull’analisi di campioni
di fluidi corporei, principalmente il plasma e altri fluidi quali urina,
liquido pleurico e peritoneale, fluido cerebro-spinale e altri.
La biochimica clinica studia l’effetto della malattia o dei
farmaci sui processi biochimici degli organi, dei tessuti e dei
fluidi biologici.
A differenza della biochimica che ha l’intento di ricavare
comportamenti e leggi generali, la biochimica clinica è
interessata allo studio del singolo individuo ammalato.
A questo scopo utilizza la misura delle eventuali alterazioni
riscontrabili nei materiali biologici per raccogliere dati che
abbiano valore di prove semeiologiche, a favore o contrarie,
all’ipotesi formulata dal clinico.
Utilità della biochimica clinica
• Diagnosi di malattie su base biochimica (errori del
metabolismo)
• Classificazione e caratterizzazione fisiopatologica di
malattie (es. diabete)
• Fornire dati per analisi statistiche e/o epidemiologiche
• Ruolo nel controllo della posologia dei farmaci
• Monitoraggio di farmaci
• Rischio lavorativo e tossicologia
Le principali finalità per la richiesta di indagini di laboratorio sono
le seguenti:
FINALITA’ DI SCREENING
FINALITA’ DIAGNOSTICHE
- confermare o escludere un sospetto diagnostico
- per formularne un altro.
Un singolo test, o gruppi di test, possono:
- fornire informazioni prognostiche
- essere utilizzati per il monitoraggio terapeutico o del decorso di
una malattia
Preparazione e conservazione
di campioni biologici
Variabilità pre-analitica legata al paziente
-
Età
Sesso
Non standard (pazienti ambulatoriali)
Assunzione medicamenti
Dieta
Attività fisica
Postura
Ritmi biologici
Variabilità pre-analitica legata al prelievo ed alla
conservazione del campione
-
Tempo di conservazione
Temperatura
Esposizione alla luce
Sterilità
Coagulazione
Emolisi
I provvedimenti adottabili per garantire una conservazione
ottimale dei campioni consistono sostanzialmente nella
scelta di opportune condizioni quali:
• temperatura di conservazione
• conservazione al buio
• liofilizzazione
• modificazione del pH (es. acidificazione o alcalinizzazione
per aumentare la stabilità di determinati enzimi)
• aggiunta di sostanze (es. anticoagulanti)
TRATTAMENTO DEL CAMPIONE
VARIABILITA’ ANALITICA
Precisione, accuratezza,
sensibilità e specificità
ERRORE TOTALE E ATTENDIBILITÀ
Se si eseguono più misurazioni di una stessa quantità,
raramente le misure coincidono: se ne trae la conclusione
ovvia che i valori misurati sono in genere diversi dal vero
valore della quantità oggetto di misura.
La differenza tra il valore misurato (x) e quello vero è detta
errore totale.
L’attendibilità esprime la capacità della misura in esame di
approssimare il valore vero
ERRORI DI MISURA
Gli errori grossolani sono quelli che vengono commessi in seguito
ad un'inappropriata applicazione del metodo analitico
Gli errori sistematici rappresentano la tendenza di un dato metodo
a sovrastimare (o sottostimare) il vero valore .
Gli errori sistematici hanno cause ben determinate, inerenti o al
metodo (es.: scarsa selettività del reagente usato per la titolazione di
un certo soluto), o alle condizioni di esecuzione del procedimento
analitico (es.:strumento non calibrato correttamente).
Gli errori casuali sommano tutte le piccole e imprevedibili variazioni
nell'esecuzione delle varie operazioni analitiche. Pertanto le misure
fluttuano attorno a un valore μ, che si scosta più o meno dal valore θ,
a seconda dell'entità dell'errore sistematico.
LA VARIABILITA’ ANALITICA
La variabilità analitica è legata al metodo di analisi.
L’attendibilità di un metodo analitico dipende da diversi fattori,
tra cui i principali sono:
• l’accuratezza,
• la precisione,
• la sensibilità e
• la specificità.
L’operatività del laboratorio presuppone una serie di procedure
in grado di garantire l’affidabilità, cioè il sicuro significato dei dati
che fornisce.
Tali procedure conferiscono il controllo di qualità dei risultati e
presuppongono i criteri analitici dell’accuratezza e della
precisione, oltre al criterio clinico della plausibilità.
La precisione è il grado di convergenza di dati individualmente
rilevati su un valore medio della serie cui appartengono. La
precisione è di fatto collegata alla variabilità intrinseca di ogni metodo
e si valuta in base alla concordanza tra misure ripetute.
In una serie di frecce scagliate su un bersaglio, tanto più le frecce
giungono raggruppate, tanto più la serie di tiri è precisa.
La accuratezza indica quanto un valore medio si scosta dal valore
atteso. In altri termini, l’accuratezza equivale alla concordanza tra il
valore dato ed il valore vero e dipende dal metodo usato. Un metodo
di analisi è tanto più accurato, quanto più si avvicina ai valori
determinati mediante un metodo di riferimento.
L’imprecisione è la dispersione tra misure ripetute rispetto ad un
valore medio (allontanamento dalla media). Riflette l’errore
casuale. Si valuta analizzando lo stesso campione più volte.
L’inaccuratezza può anche essere definita come la differenza tra il
valore misurato e il valore vero. E’ dovuta alla presenza di un errore
sistematico del metodo adottato
In pratica il controllo si effettua utilizzando sieri di controllo, cioè
campioni appositamente predisposti con quantità note di vari
componenti e sottoposti ad analisi contemporaneamente ai sieri dei
pazienti. In ogni gruppo di analisi relative a sieri di pazienti vi saranno
così dati che si riferiscono ad un siero di controllo. La concordanza tra
i valori analitici e quelli noti dei composti usati come calibratori
garantirà la correttezza analitica dei risultati.
Il concetto di precisione contiene anche quelli di ripetibilità e
riproducibilità.
La ripetibilità è la misura della deviazione dal valore medio dei risultati
ottenuti da uno stesso operatore in un’unica serie analitica e senza
cambiare reattivi o apparechiature (precisione entro la serie).
La riproducibilità è la misura della deviazione dal valore medio dei
risultati ottenuti in un arco variabile di tempo da operatori diversi che non
conoscono l’identità del campione analizzato e che usano lotti di soluzioni
e reagenti diversi
La sensibilità analitica (da non confondere con la
sensibilità diagnostica) è data dalla minima quantità di
un analita rilevabile in un campione biologico.
La specificità analitica (da non confondere con la
specificità diagnostica) indica la capacità del metodo
di determinare un dato analita senza subire
interferenze, ossia la capacità del metodo di
distinguere tra una sostanza e possibili sostanze
interferenti.
Sensibilità analitica: indica l’attitudine del metodo a dosare
piccole quantità del componente studiato
Limite di rivelabilità: indica la più piccola quantità di
sostanza che il metodo riesce a dosare
I VALORI DI RIFERIMENTO
Il dato di laboratorio serve per poter decidere un comportamento
verso un paziente. Bisogna quindi avere il mezzo per confrontare il
dato ottenuto con quello della popolazione da cui il paziente
stesso è tratto.
Si dovranno stabilire dei valori al di fuori dei quali si presume vi sia
un’anormalità con un limite di errore accettabile.
Occorre osservare che il termine “normale” ha diversi significati:
• in senso statistico definisce un tipo di distribuzione;
• in senso epidemiologico può essere confuso con il valore tipico
di una popolazione;
• in senso clinico la parola normale spesso indica un’assenza di
una certa malattia.
Si preferisce quindi parlare di “VALORI DI RIFERIMENTO”.
Se la distribuzione è statisticamente normale, i valori di
riferimento vengono arbitrariamente fissati come pari alla
media+/- 2 E.S.; vi si include così circa il 95% della popolazione
sana.
Se la distribuzione non è statisticamente normale (cioè non è
descrivibile con una gaussiana) e non si può rendere normale
con procedimenti matematici, si usa prendere un limite inferiore
il percentile 2.5% e come limite superiore quello 97.5% degli
individui affetti dalla patologia.
Ciò vuol dire che per il 5% dei casi si avranno valori troppo bassi
o troppo alti senza che vi sia una patologia presente (falsi
positivi).
L’intervallo dei Valori di Riferimento per un determinato analita è
l’insieme dei valori ottenuti con un determinato metodo su una
popolazione SANA e OMOGENEA rispetto al fattore di
variabilità legata al paziente che può influenzare quel parametro.
Affidabilità vs Validità
• Affidabilità: capacità del test di offrire sempre lo stesso
risultato nel corso di misurazioni ripetute
• Validità di un test: capacità del test di distinguere in una
popolazione i soggetti sani da quelli malati
FALSI POSITIVI E FALSI NEGATIVI
Non si può affermare a priori che un valore all’interno dell’intervallo di
riferimento appartenga ad un individuo senz’altro sano ed uno
all’esterno ad un individuo senz’altro ammalato.
Alcuni pazienti sani possono presentare dei valori non inclusi nei
valori di riferimento (falsi positivi).
D’altronde può accadere anche il contrario e cioè che persone
ammalate presentino valori che cadono all’interno dei valori di
riferimento (falsi negativi).
La produzione di falsi negativi e di falsi positivi è legata alla
distribuzione dei valori nelle due popolazioni.
Si possono avere 3 situazioni:
1) Le medie sono molto lontane e l’E.S. è molto piccolo: è il caso ideale.
Le probabilità che si possa far confusione tra il sano ed il malato sono
minime.
2) Le medie sono identiche e la distribuzione intorno alle medie simile. In
questo caso il test non è utile per la patologia che si vuol indagare.
3) Le medie sono abbastanza lontane, ma si ha anche una discreta
sovrapposizione dei valori.
E’ evidente che i casi 1 e 2 sono teorici. Infatti il primo presuppone che
non vi sia sovrapposizione tra i sani ed i malati ed il secondo che la
sovrapposizione sia completa (inutile prospettare l’uso del test).
Nel caso intermedio il test sarà più o meno utile in dipendenza della
minore o maggiore sovrapposizione tra i valori ottenuti in una
popolazione sana ed in una popolazione malata.
Sensibilità e specificità (diagnostiche) di un test.
La sensibilità e la specificità (diagnostiche) di un test sono
due caratteristiche che vengono prese in considerazione per
valutare la capacità del test di individuare, fra gli individui di
una popolazione, quelli provvisti del «carattere» ricercato e
quelli che invece ne sono privi. In pratica, per il nostro scopo,
il «carattere» è rappresentato dalla malattia.
Sensibilità (diagnostica)
La sensibilità è la capacità di identificare correttamente gli
individui ammalati.
In termini di probabilità, la sensibilità è la probabilità che un
individuo ammalato risulti positivo al test; si può anche dire che
essa è la proporzione degli individui ammalati che risultano
positivi al test.
Nella tabella gli individui ammalati sono rappresentati
da (VP+FN) e, fra questi, i positivi al test sono
rappresentati da (VP).
La sensibilità si calcola come rapporto tra i veri
positivi e tutti i malati, cioè:
Il termine «sensibilità» in senso epidemiologico/diagnostico viene
utilizzato diversamente da quanto avviene in immunologia, in
farmacologia o in altre discipline, per le quali «un test sensibile è
quello capace di svelare la presenza di
piccole quantità di anticorpi, tossine, enzimi ecc.».
Evidentemente, questo concetto di sensibilità è da tenere ben distinto
da quello utilizzato in epidemiologia: infatti, un test
immunologicamente «molto sensibile» può essere «poco sensibile»
sul piano della valutazione epidemiologica.
Sembrerebbe un eccellente risultato il poter identificare
correttamente tutti gli individui con la malattia impiegando un
test con una sensibilità del 100%.
Tuttavia, esaminando meglio la questione, si giunge alla
conclusione che la suddetta qualità non è sufficiente.
Infatti, è necessario anche un altro requisito: il test deve
identificare come positivi SOLTANTO gli individui che hanno la
malattia; cioè, è necessario che fra i positivi al test non siano
inclusi anche degli individui sani. Da questa osservazione
discende il concetto di specificità.
Specificità (diagnostica)
La specificità è la capacità di identificare correttamente gli
individui sani.
In termini di probabilità, la specificità è la probabilità che un
individuo sano risulti negativo al test; si può anche dire che
essa è la proporzione degli individui sani che risultano
negativi al test.
Nella tabella gli individui sani sono rappresentati da
(FP+VN) e, fra questi, i negativi al test sono i soli (VN).
La specificità si calcola con il rapporto tra veri negativi
e tutti i sani
Un test ottimale dovrebbe essere contemporaneamente molto
sensibile e molto specifico.
Nell’ambito dello stesso test, la specificità e la sensibilità sono
due caratteristiche interdipendenti, cioè quando si abbassa l’una
s’alza l’altra e viceversa.
Nella pratica clinica, volendo confermare la presenza di una
certa malattia si sceglierà un esame che presenti elevata
specificità, volendo invece escluderla si sceglierà un esame con
alta sensibilità
Le due caratteristiche del test possono essere dosate
sacrificando l’una all’altra. Basta variare il valore di riferimento
del test spostando il punto di discriminazione tra positivo e
negativo.
si aumentano i FN che
diminuiscono la specificità
si aumentano i FN che
diminuiscono la sensibilità
Il punto di discriminazione più conveniente di un test si ricava
dalle curve ROC (Receiver Operating Characteristics),
Ad ogni soglia di decisione corrisponde una coppia (sensibilità
(SE) e specificità (SP)).
VP
Il valore di FP è
inversamente
proporzionale alla
specificità
Riportando in ascisse 1-SP che
rappresenta la frazione di FP ed i
ordinata SE che rappresenta la
frazione VP, si può tracciare una curva
i cui punti rappresentano le prestazioni
del metodo di decisione (test
diagnostico) per ogni possibile scelta
della soglia di decisione clinica
Il punto di ottimo e quello in alto a
sinistra (SE=1,SP=1) per il quale la
regola di decisione (test diagnostico) è
infallibile (nessun FP e FN)
Pertanto più la curva ROC è arcuata
verso quel punto, migliore è il test
decisionale. L’area grigia sopra la
curva ROC rappresenta pertanto
l’errore connesso con l’uso del test
stesso.
Il clinico però non è interessato (solo) alla sensibilità e specificità
analitiche a priori.
L’interesse va anche alla probabilità di trovarsi di fronte ad una
persona malata, dato il risultato patologico del test (valore predittivo
positivo) o di fronte ad una persona sana, dato il risultato normale di
un test (valore predittivo negativo)
Si tratta della “probabilità a posteriori”.
Il valore predittivo (che ci indica la percentuale dei pazienti
ammalata dopo test positivo) non dipende soltanto dalla
sensibilità e dalla specificità analitiche del test, ma anche dalla
prevalenza della malattia.
La prevalenza è il numero dei pazienti che sono affetti da una
data malattia (calcolati su 100000 individui)
L’incidenza è il numero di persone (sempre ogni 100000) che
contraggono la malattia ogni anno.
Quindi esiste la seguente relazione:
PREVALENZA = INCIDENZA X DURATA
Maggiore è la prevalenza, maggiore è la probabilità che il
risultato positivo del test corrisponda alla presenza della
malattia.
Per prevalenze piccole aumentano le probabilità che il risultato
positivo corrisponda ad una falsa positività.
Detto in altre parole, la prevalenza sposta il punto discriminante.
meglio per l’esclusione di una patologia
meglio per una diagnosi accurata
Prima di stabilire il valore soglia sarebbe quindi opportuno chiedersi
se il test in questione sarà orientato all’esclusione di patologia o alla
diagnosi.
Nel primo caso si dovrà sacrificare la specificità a favore della
sensibilità (non dovranno esserci FN),
nel secondo caso sarà invece necessario prediligere la specificità a
spese della sensibilità (non dovranno esserci FP).
LIVELLI DECISIONALI
Si possono individuare alcuni valori soglia, universalmente definiti, che il medico
può usare per operare determinate scelte cliniche (donde il nome di livelli
decisionali) ogni volta che il risultato di un test si collochi sopra o sotto il valore
soglia.
I livelli decisionali corrispondono a valori limite ( universalmente accettati) utilizzati
per confermare o meno la appartenenza di un determinato paziente ad una
definita categoria clinica.
Un esempio è dato dalle relazioni esistenti tra livelli decisionali nel caso del calcio
sierico e categorie cliniche.
L’intervallo di riferimento per il calcio sierico è 9,0-10,6 (mg/dl).
• I valori di calcemia nei soggetti con tetano ipocalcemico variano da 7 a 3
(mg/dl). Al valore 7 è posto il primo livello decisionale.
• Nei soggetti con paraparoitidismo primario il valore di calcemia va da 11 a 19
mg/dl); al valore 11 è posto il secondo livello decisionale.
• Nei soggetti con coma ipercalcemico il valore di calcemia va da 13,5 a 20
(mg/dl); al valore di 13,5 è posto il terzo livello decisionale.
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Sensibilità (diagnostica)