L’approccio tonico- emozionale in terapia
Molè Giovanni
RINGRAZIAMENTI
Sono più di venti anni che vivo giornalmente con persone che si affidano alle mie cure. Esse sono i
miei migliori maestri, forse i più severi. Le ringrazio perché mi hanno aiutato a capire e a mettere in
crisi ciò che ho appreso permettendomi di crescere. I pazienti, con le loro domande poste
direttamente o indirettamente, non accettano risposte precostituite o mezze verità: un bambino con
grave cerebropatia, un ragazzino miodistrofico, un paziente con la sclerosi multipla ha tante
domande ed aspettative nei suoi occhi, nel suo corpo, nel suo sorriso e nelle sue amarezze che è
impossibile rimanere sordi. Essi ci obbligano a scendere nel profondo di noi stessi per rendere
sempre più limpido il rapporto terapeutico ed umano. Non è un cammino facile né completo, ma è
bello e a volte struggente.
Ho avuto la fortuna di incontrare e lavorare con molte persone splendide, ho imparato dalle loro
parole e dal loro modo di essere. Ho sempre cercato di capire e di colmare il divario tra le parole, i
fatti e l’aspetto umano. Ed in qualche modo la Vita mi ha condotto per mano attraverso vie
inimmaginabili che non mi hanno dato ciò che chiedevo ma ciò di cui avevo realmente bisogno.
Voglio ringraziare l’Associazione Casa Famiglia Rosetta che mi ha visto crescere e maturare
dandomi opportunità che non avrei mai sperato: essere docente in corsi di formazione e seguire le
lezioni del Prof. J. Lerminiaux è stata la realizzazione di una bellissima esperienza.
Ringrazio Padre Vincenzo Sorce. Egli ha avuto il Sogno dettato dalla Volontà di donare
Solidarietà e con coraggio lo ha realizzato. All’interno di questo Sogno siamo cresciuti con alterne
vicende, circondati da un ambiente spesso ostile ed ignorante. Auguro a tutti di riuscire a fare un
nuovo passo verso una realtà più serena e matura.
Ringrazio Annette DeCoene-Degehet, Trainer in Programmazione Neurolinguistica of the
Southern Institute of California; Madlene Feyter, Trainer in Catene Muscolari e soprattutto il prof.
J. Lerminiaux, con la loro guida, severità e dolcezza mi hanno condotto nel conoscere ed
approfondire molti dei concetti esposti in queste pagine e che sono alla base del mio nuovo modo di
pensare e di essere.
Ringrazio l’Istituto “La Nostra Famiglia” di Bosisio Parini dove ho studiato per la mia formazione
professionale. Sicuramente il rigore scientifico e la professionalità sono un terreno indispensabile,
ed Esso è stato eccezionale in tal senso.
Un grazie particolare lo dedico ai colleghi e agli allievi con i quali ho condiviso entusiasmo e
momenti bellissimi nel vivere assieme esperienze ed idee.
Ringrazio tutti coloro che continuano con professionalità e con quel qualcosa oltre la stessa
professionalità a studiare e ricercare in un campo così difficile quale è la riabilitazione. Con alcuni
di loro non mi sono mai incontrato fisicamente, ma ho condiviso studi, sogni e ricerche attraverso i
loro scritti.
Sono riconoscente a Grazia per la pazienza ed i suggerimenti nella correzione della prima e della
seconda stesura del libro, compito che lei ha svolto con competenza.
Infine rivolgo il mio pensiero con dolcezza verso il Brasile, dove i miei colleghi Giusi e Sergio
operano con molto coraggio ed entusiasmo. Grazie a loro ho avuto la possibilità di condurre un
seminario sull’approccio terapeutico assieme a Carlo. E’ stata un’esperienza indimenticabile.
Tante altre persone hanno contribuito direttamente o indirettamente alla mia crescita professionale
ed umana ed è impossibile nominarle tutte. Oggi spero di aiutare me stesso a far risplendere ciò che
i miei Maestri mi hanno insegnato per poterlo donare.
1
INTRODUZIONE
In ognuno di noi c’è la consapevolezza che i nostri comportamenti, in situazioni di difficoltà, non
sono sempre sotto il nostro controllo. Quando siamo coinvolti emotivamente la capacità di
osservare una situazione e di rispondere ad essa in modo adeguato è fortemente compromessa.
I pazienti con problemi neuromotori, per le difficoltà emotive dell’ambiente in cui vivono
(pensiamo ai sentimenti che un evento traumatico grave o la nascita di un bambino con problemi
può determinare) e per le effettive difficoltà fisiche nell’agire nella realtà quotidiana, arrivano
spesso da noi con gravi limitazioni, che vanno ben oltre l’impedimento proprio della patologia. Esse
sono causate dal vissuto emotivo che i pazienti hanno costruito durante la loro storia personale.
Molto spesso essi hanno una rappresentazione, un’immagine distorta di se stessi che influisce
sul loro comportamento, e soprattutto sulla possibilità di agire sulla loro patologia, bloccando
le loro potenzialità residue.
Ma come nasce il vissuto emotivo? Per rispondere a questa domanda ho usato come laboratorio
me stesso, la mia vita quotidiana, i miei pazienti e le persone che mi circondano per “sentire” il
percorso dei “movimenti interiori”. Ho cercato nella filogenesi, negli studi di psicologia, nella
psicocibernetica e nella neurobiologia una risposta.
Queste ricerche mi hanno fatto comprendere la necessità biologica dell’emotività per la
sopravvivenza, mi hanno aiutato a capire come avviene l’apprendimento emotivo nel bambino e
soprattutto come è possibile agire per aiutare il paziente ad elaborare i suoi blocchi emotivi per
favorire l’approccio terapeutico.
Spero di riuscire a riportare gli studi, le riflessioni e i frutti della mia esperienza in modo semplice,
anche se l’argomento non lo è. D’altronde non sono uno scrittore o un teorico, il mio stesso lavoro
mi porta ad essere pragmatico. Sono consapevole che non è facile esporre il mio modo di pensare
attraverso un libro e comprendo che non è sempre possibile esprimere fino in fondo ciò che riguarda
il corpo ed il suo vissuto. Preferisco il contatto diretto e l’esperienza.
Ho cercato di utilizzare il linguaggio che utilizzo tutti i giorni quando sono in contatto con i
bambini e i loro genitori riservando alle note l’aspetto scientifico di approfondimento. Ho introdotto
qualche termine tratto dagli studi di neurologia o dalle scienze del comportamento per rendere più
completo l’argomento, ed ho cercato di metterlo in un contesto che lo renda comprensibile.
In questo lavoro sintetizzo l’esperienza maturata attraverso il mio corpo e il mio vissuto personale
e professionale. Questa avventura inizia venticinque anni addietro quando ho intrapreso, da
autodidatta, lo Hata Yoga1: per quattro anni ho vissuto questa esperienza, ed è stato fondamentale
riuscire a superare la mentalità occidentale di approccio al corpo, ossia la tendenza ad essere in
competizione anche con se stesso. Solo dopo anni sono riuscito a vivere il movimento per il piacere
del movimento senza aspettarmi nulla. E solo allora il mio corpo libero da pressioni e tensioni mi ha
potuto donare sensazioni indescrivibili. Successivamente ho praticato il Training Autogeno per un
paio d’anni, seguito da un amico Psicologo. 2 Questa esperienza ha iniziato a farmi comprendere i
1
Lo Yoga è un insieme di discipline psico – fisiche e filosofiche che guidano l’essere umano all’armonia ed
all’unificazione di tutti i suoi aspetti. L’Hata Yoga è una di queste discipline che utilizza la visualizzazione, la pratica di
particolari posizioni (asana) ed esercizi respiratori.
“Il termine asana, o assetto, è usato per descrivere una grande varietà di posture, o posizioni, implicanti quasi tutte il
piegamento e lo stiramento del tronco del corpo per mantenerlo agile. Tra gli esercizi fisici indiani e occidentali c'è
questa grande differenza: i secondi mirano essenzialmente a sviluppare la forza muscolare, i primi affatto. Nella scuola
yoga, in ogni caso, l’obiettivo principale è quello di curare portamento ed equilibrio; ciò, sia quando stiamo seduti che
ritti o camminiamo, richiederà uno sforzo muscolare minimo e, se possibile, nessuno sforzo compensatorio.” E. Wood,
Yoga, G. C. Sansoni, Firenze 1974, pp.99.
2
Ringrazio il dott. A. Jacono per avermi introdotto in questi studi e per la fiducia accordatami.
“Con il termine di training autogeno J. H. Schultz definì un metodo di autodistensione da concentrazione psichica che
consente di modificare situazioni psichiche e somatiche. Training significa allenamento, cioè apprendimento graduale
di una serie di esercizi di concentrazione psichica passiva, particolarmente studiati e concatenati, allo scopo di portare
progressivamente al realizzarsi di spontanee modificazioni del tono muscolare, della funzionalità vascolare, dell’attività
cardiaca e polmonare, dell’equilibrio neurovegetativo e dello stato di coscienza; il preciso e costante allenamento a tali
2
meccanismi d’azione del pensiero e dell’immaginazione sul corpo. In quel periodo ho avuto alcuni
approcci con il metodo Feldenkrais che era in armonia con il mio modo di vivere il corpo.
Ma il desiderio di capire ed aiutare l’altro è nato quando sono stato ricoverato in un reparto di
neurochirurgia ed ho subito un delicato intervento; “essere insieme a” persone con problemi severi
(coma, tumori cerebrali, ecc.); vivere in attesa di esami o interventi devastanti; la paura di “non
sapere” cosa riserva il domani. Tutto questo vissuto in un ambiente “asettico” dal punto di vista
umano.
Sapevamo di essere in un’ottima struttura per quel che riguardava l’aspetto professionale e tecnico,
ma il senso di vuoto e di abbandono ci circondava. L’aiuto nasceva solamente dalla solidarietà e dal
contatto tra noi pazienti.
Questa esperienza mi ha ‘segnato’ e, nel tempo, mi sono reso conto che l’approccio medicale
classico presenta spesso delle lacune e pregiudizi ed ho continuato a cercare risposte che
corrispondessero al mio modo di sentire e che mi permettessero di utilizzarlo in terapia.
Tutto questo è maturato nel lavoro quotidiano come fisioterapista: volevo riportare in esso
l’esperienza positiva da me vissuta attraverso il mio corpo, per poterla donare ai miei piccoli e
grandi pazienti. Imparare ad essere vicino a loro, sentire le loro difficoltà e timori senza la paura di
essere ‘contaminato’ e ‘sottratto’ alla capacità professionale dal coinvolgimento emotivo.
Ho avuto la fortuna di poter collaborare come docente con il prof. J. Lerminiaux, allora direttore
scientifico dell’Istituto Mediterraneo per la Formazione, Ricerca, Terapia e Psicoterapia ed ho
ricevuto una formazione particolare attraverso seminari sulla Programmazione Neurolinguistica,
Catene Muscolari e Aptonomia assieme ad altri docenti. Durante questi seminari alcune esperienze
mi hanno colpito: era possibile ricevere informazioni su un’altra persona attraverso il semplice
contatto. Potevo modificare il comportamento di un’altra persona cambiando il mio, oppure alterare
la sua fisiologia cambiando tono, volume e timbro di voce. Potevo indurre stati di coscienza
particolari seguendo la sua fisiologia. Ecc.
Mi rendevo conto dell’importanza che questi fenomeni potevano avere nel mio lavoro. Potevo
“sentire” la spasticità di un paziente e seguirne le variazioni toniche senza toccarlo; potevo sentire
ciò che lui sentiva di sé nel mio corpo, e lo stato emotivo in risposta al contatto con lui. Un intero
universo di informazioni si riversava su di me. Queste esperienze mi hanno fatto capire quali
meccanismi agiscono durante una seduta terapeutica, essi vanno molto al di là delle manovre e
tecniche neuromotorie. Comprendevo l’importanza di strumenti terapeutici che mi permettevano di
aiutare il paziente a vivere il suo corpo libero da condizionamenti. Sono questi che molto spesso lo
bloccano ancor più di quanto faccia la patologia neurologica o ortopedica. Questa visione mi ha
aiutato a dilatare il mio modo di vedere e vivere il rapporto terapeutico in accordo con nuovi
modelli di pensiero.
Mi sono reso conto che molti meccanismi emotivi agiscono comunque in me e negli altri in modo
incontrollato (inconscio), causando blocchi o facilitazioni in terapia o nel rapporto. Ritengo
importante, quindi, per il terapista lo studio e la presa di coscienza di alcuni di essi per facilitare il
suo delicato compito.
Ho iniziato così il lavoro di ricerca e di elaborazione su ciò che ho vissuto nel mio corpo e appreso
durante lezioni, seminari e letture. Voglio premettere che esso è solo un punto di vista da cui potere
osservare i meccanismi corporei – emotivi – mentali. Una riflessione su quei meccanismi spesso
inconsapevoli che quotidianamente vive il terapista ed il paziente.
esercizi porta a modificazioni gradatamente sempre più valide, precise, consistenti.[…] La tecnica del Training
Autogeno ha essenzialmente lo scopo di consentire il raggiungimento e la realizzazione di quella specifica
deconnessione neuropsichica che si verifica nell’ipnosi suggestiva, da soli, cioè senza alcuna eteroinduzione.” J. H.
Schultz, Il training autogeno. Metodo di autodistensione da concentrazione psichica,Feltrinelli Editore, Milano 1981, p.
11.
3
I vissuti concreti di alcune esperienze sono comunque fondamentali per comprendere la bellezza e
la “magia” di alcune nostre potenzialità di cui non siamo coscienti, e questi possono avvenire solo
all’interno di seminari.
4
OBIETTIVO
La formazione che riceviamo durante il cammino professionale cura l’aspetto del “cosa fare” e del
“perché” di fronte ad un determinato caso clinico. Vengono apprese le basi di anatomia,
fisiopatologia, chinesiologia e soprattutto i metodi e trattamenti neurologici, ortopedici,
pneumologici, ecc. Quello che spesso manca è “come fare”, cioè l’approccio alla comunicazione:
la comprensione che la comunicazione e la relazione hanno valore di terapia in sé.
Quotidianamente possiamo osservare terapisti al lavoro, con qualità tecniche e formazione
professionale simile, che ottengono una partecipazione dal paziente qualitativamente differente. E si
osservano pazienti con patologie simili, reagire alla terapia in modo molto differente pur applicando
su di loro lo stesso metodo. E’ sufficiente questa osservazione per comprendere l’importanza della
qualità della relazione e della comunicazione in terapia.
Dalle scienze della comunicazione sappiamo che l’ottanta per cento della comunicazione è non
cosciente. Al di là della intenzione consapevole tradotta dal linguaggio e dalla gestualità cosciente
vi è un intero universo di microgesti e di segni fisiologici che indicano quello che noi stiamo
vivendo (tono muscolare, timbro di voce, colorito della pelle, respirazione, orripilazione, movimenti
oculari, atteggiamento globale, ecc.). Gli indicatori fisiologici traducono il nostro stato emotivo
di fronte ad una situazione e nella relazione con l’altro. Sono questi che comunicano all’altro
la nostra disponibilità, paura, indifferenza, tensione, ecc., al di là del nostro approccio
consapevole.3
Essere coscienti di questa comunicazione in se stessi e nell’altro è fondamentale per rendere
equilibrata la relazione e favorire la partecipazione del paziente al programma terapeutico.
L’obiettivo originario di questo lavoro sull’approccio terapeutico è di comprendere che è possibile
sviluppare una nuova attitudine all’osservazione ed all’approccio del corpo, focalizzando in modo
particolare il dialogo tonico-emozionale tra terapeuta e paziente. “Divenire sensibili alla
comunicazione vuol dire prima di tutto essere consapevoli dello scambio di messaggi tra me e
l’altro. Riuscire a comprendere in cosa consiste questo messaggio tonico emozionale in me stesso,
vuol dire sapere cosa dico a me stesso e cosa trasmetto all’altro. Leggere nell’altro tale dialogo può
aiutare a comprendere il suo cammino interiore nel senso letterale di prendere con sé.” 4
La consapevolezza di questa ‘relazione terapeutica’ fa comprendere un nuovo modo di essere
Terapista. In passato egli era il professionista che imparava, attraverso un adeguato training teoricopratico le tecniche da applicare alle varie patologie, ma studi sul funzionamento neuro-psicobiologico del sistema nervoso centrale integro o con problemi hanno messo in evidenza la sua
complessità e su queste nuove basi si sono sviluppati nuovi approcci all’osservazione ed alla
terapia. Da una visione meccanica e statica (ortopedica) si è progressivamente arrivati a quella
neurologica, a quella cognitiva ed alla funzionale in una progressiva tensione volta a risolvere i
numerosi problemi che il paziente neurologico vive.
In ambito terapeutico c’è sempre più la coscienza che terapia è situazone, contesto e che il
terapista è parte della terapia (A. Milani Comparetti). Il terapista attraverso il suo bagaglio
professionale ed il suo essere umano e relazionale, infatti, può creare o no le condizioni adatte alla
crescita del paziente assieme all’ambiente dove si sviluppano ed acquistano significato le cose, le
persone e gli eventi.
3
“Con la scuola di Palo Alto e Ray Birdwhistell, non distingueremo tra comunicazione (volontaria o involontaria) di un
messaggio, ed espressione (dei sentimenti...) e diremo «non si può non comunicare», e «si comunica sempre più ed altro
di ciò che si crede o si vuole comunicare». Si apprende a tener conto della prossemica, della cinesìa, dei « lapsus
gestuali», del ritmo respiratorio, del «contagio posturale», dell’«accessibilità del corpo», del suo orientamento e delle
sue tensioni.” C. Romano, Corpo itinerario possibile. Una metodologia di formazione per gli insegnanti, Giunti &
Lisciani Editori, Teramo 1988, p. 6.
4
J. Lerminiaux, Guida al dialogo non verbale nella seduta terapeutica, in “Solidarietà”, (1996), n. 25, pp. 62.
5
Questi aspetti dell’approccio riabilitativo sono però ancora concetti vaghi. L’attenzione degli
studiosi è ancora catturata dagli aspetti più visibili della patologia (movimento, i sintomi) e trascura
quelli apparentemente sottesi: emozionali e psichici in generale (anche se sempre presenti ai nostri
sensi).
Come potremo osservare in questo lavoro introduttivo il fisico-biologico (visibile) e lo psicologico
(invisibile) sono sempre e costantemente visibili, occorre solo avere gli strumenti per osservare.
Solo così potremo cogliere aspetti e significati che altrimenti perdiamo. “Questo si può verificare
proprio perché il movimento non è solo funzione neurofisiologica ma anche veicolo ed espressione
dell’affettività e delle emozioni.
Il corpo è infatti l’elemento centrale dell’esperienza psicologica e della personalità in quanto non
rappresenta la struttura oggettiva e inerte dell’anatomia ma è espressione più ampia dell’esperienza
corporea.
Nel corpo si iscrivono i significati delle varie determinanti psichiche.”5
È quindi importante che il terapista nel suo cammino tecnico e professionale sia formato attraverso
seminari pratico-teorici sull’approccio tonico-emozionale. Sarebbe più esatto dire ‘trasformato’,
poiché dovrebbe, in un primo momento, prendere coscienza dei meccanismi che guidano la propria
emotività per renderla più fluida ed elastica. Egli dovrebbe imparare a conoscere i suoi stati
emotivi per poterli padroneggiare e soprattutto giocare con essi. In un secondo momento egli può
utilizzare questo suo nuovo modo di ‘essere’ per aiutare il paziente ad affrontare gli stati emotivi
‘bloccanti’ che inevitabilmente accompagnano la patologia.
All’interno di questi seminari di formazione il terapista può vivere su di sé la condizione di
‘paziente’ e può comprendere meglio cosa si prova nell’affrontare le ‘proprie’ difficoltà. Penso che
questo sia il modo migliore per potersi mettere dal ‘punto di vista dell’altro’.
Questo processo potrebbe essere definito metaforicamente alchemico: il terapista trasforma se
stesso per trasformare il paziente. Tengo a precisare che non è un lavoro di manipolazione della
persona o sulla persona, ma un divenire consapevoli delle manipolazioni ricevute di cui siamo
coscienti o meno. Divenire coscienti di certi meccanismi, oltre a togliere loro drammaticità,
diminuisce il rischio di proiettare sul paziente i nostri fantasmi emotivi irrisolti.
Nasce così una nuova consapevolezza sulla capacità di essere e di relazionarsi che aiuta il terapista
a comprendere ‘dal di dentro’ i meccanismi emotivi che vive il paziente in se stesso e
nell’ambiente. Si può diventare più coscienti di come questi meccanismi possano avere un ruolo
decisivo nel determinare o eliminare la patologia nel senso di essere partecipe e consapevole dei
meccanismi che rafforzano l’evento patologico o, altrimenti, lo ridimensionano per ricondurlo
all’evento fisiologico originario.
Nei prossimi capitoli farò accenno ad alcuni studi recenti di neurobiologia che spiegano e
confermano questo approccio consapevole ed empatico: approccio possibile se si comprendono i
meccanismi del nostro bagaglio emozionale spesso inflazionato da schemi filogeneticamente
arcaici.
Il secondo capitolo, in particolare, riporta nelle note esplicative gli studi e gli autori a cui faccio
riferimento come base per la ricerca, ovviamente ciò rende più completa ma difficoltosa la linearità
del discorso. Per chi volesse una lettura più scorrevole si può attenere al solo testo.
Presenterò i protagonisti del processo terapeutico per entrare nella loro immagine, nel loro vissuto
e comprendere la complessità della relazione: il bambino, il terapista e la famiglia si muovono come
un’unità, consapevoli o meno della rete che li lega durante il cammino che li trasforma e, nel
migliore dei casi, li fa crescere.
Vedremo come si può sviluppare la capacità di ascolto: si può apprendere ad essere attenti verso se
stessi e verso l’altro per potersi incontrare sviluppando l’empatia senza perdersi in essa.
5
Questo è il pensiero della Scuola toscana sul corpo e quindi sul suo approccio espresso attraverso le parole della
dottoressa Lucia Vannucchi durante uno stage di formazione presso il Nostro Centro di Caltenissetta. La dott. L.
Vannucchi fa parte del centro formazione dell’Associazione “la Nostra Famiglia” sede di San Vito al Tagliamento
(PN).
6
Dedico un capitolo a riflessioni che toccano alcuni aspetti della realtà emozionale. Essa per sua
natura è complessa e contorta poiché si muove liberamente dalle reazioni innate ed istintive di paura
all’altrettanto innata ricerca di armonia. A tal fine utilizzo immagini, metafore6 ed esempi per
favorire la comprensione di alcuni aspetti sull’argomento altrimenti non traducibili se non con
l’esperienza diretta. Questo capitolo, non inserito linearmente nel contesto del libro, può aiutare a
comprendere meccanismi emozionali che a volte sfuggono al contesto cosciente pur essendo sempre
presenti in esso. Esso ha lo scopo di aiutare il terapista a spostare lo sguardo (ogni tanto) verso il
suo interno o quello dell’altro e non rimanere prigioniero della dimensione troppo personale che il
mondo emozionale spesso costruisce.
Introdurrò alcuni studi fatti sulle Catene Muscolari (esse traducono il modo di funzionare del
sistema nervoso centrale, e l’attitudine prevalente nell’affrontare le varie situazioni). Farò alcuni
accenni alla calibrazione: lettura del corpo sviluppata dalla Programmazione Neuro Linguistica
(essa ci aiuta nel misurare e seguire le variazioni fisiologiche determinate dal vissuto emotivo).
Infine parlerò dei mezzi che possono portarci a guidare in modo efficace il paziente, rispettando il
suo ed il nostro mondo interiore (prolungamento, aptonomia, risonanza, ristrutturazione,
Feldenkrais).
Spero che questo lavoro si inserisca armonicamente in quella corrente di pensiero che da alcuni
decenni ha permesso una visione sempre più ampia della complessità del fenomeno riabilitativo ed
in particolare sulla comprensione della realtà che il piccolo o grande paziente vive sulla sua pelle.
Personalmente non rinnego nessun momento di questo sviluppo storico e scientifico, comprendo la
necessità di ognuno di esso per arrivare al tempo attuale e, sicuramente, oltre.
In alcuni paragrafi ho focalizzato la mia attenzione ai problemi dei bambini con paralisi cerebrale
infantile, poiché il mio lavoro mi porta a stretto contatto con loro, ma il contenuto dell’approccio
proposto può essere esteso a tutte le patologie neuro-psicomotorie o laddove l’approccio relazionale
è considerato importante.
Questo lavoro vuole essere una riflessione sostenuta dall’esperienza personale. Qualche volta il
desiderio di ampliare i propri orizzonti prevale sull’aspetto pratico, per cui la teoria è più avanti
rispetto al risultato pratico, ma proprio questo divario permette la continua ricerca e la possibilità di
fare un ulteriore passo avanti nella complessità della realtà umana.
6
Le metafore che riporto nel presente volume appartengono ad un gruppo di racconti da me utilizzato durante i
seminari. Esse chiudono le giornate di lavoro secondo la tematica sviluppata. Alcune sono tratte liberamente da: N.
Senzaki - P. Reps, 101 storie zen, Adelphi Edizioni, Milano 1973, ed altre da me create. In Programmazione
Neurolinguistica si dà molto rilievo alla metafora nell’approccio terapeutico: D. Gordon, Metafore terapeutiche, modelli
e strategie per il cambiamento. Casa Editrice Astrolabio- Ubaldini Editore, Roma, 1992.
7
CAPITOLO PRIMO
I protagonisti
8
UN GENITORE….. I GENITORI
Riusciamo ad immaginare quello che vive il genitore di un bambino con problemi quando affida il
figlio a noi terapisti? Possiamo capire la preoccupazione di un genitore quando si accorge che
qualcosa non va nel proprio figlio? Quando un bambino sopravvive ad un parto con gravi
complicazioni e i medici fanno una prognosi infausta? Quando, infine, è definita la diagnosi da uno
specialista?
Immagino l’angoscia nei loro cuori. La paura dell’ignoto. La paura di non farcela. Immagino le
loro notti insonni e le loro guance rigate dalle lacrime nel silenzio.
Com’è difficile parlare dei propri sentimenti con la moglie o con il marito, con i propri genitori o
con gli amici.
Si deve essere forti, far finta di essere sereni e padroni di sé. Nasce la rabbia, nascono i sensi di
colpa, si diventa nervosi e meno disponibili verso gli altri figli. Tutto ciò aumenta l’ansia e
l’angoscia. Il genitore può arrivare a star ‘male’, a sentirsi non capito, solo e distrutto.
Purtroppo, se ciò accade, il bambino non ha un “luogo” dove potersi rifugiare. Egli è solo e
non ha aiuto perché chi poteva aiutarlo è ‘distrutto’. In questi casi, con molta delicatezza,
occorre far comprendere al genitore che se cede a quest’atteggiamento di chiusura e di dolore
rischia di perdere il suo bambino e alla fine se stesso.
Alcuni autori parlano di ferita al narcisismo dell’immagine genitoriale quando nasce un bambino
con problemi. Se dovessi vivere io una situazione simile non vorrei essere considerato ‘malato’. Ciò
di cui avrei bisogno è una mano amica; qualcuno che capisca quello che vivo e che è normale
provare ciò che vivo in un ambiente che non mi ha preparato e che non è capace di gestire queste
situazioni. Vorrei vicino qualcuno che non si nasconde dietro grosse parole. Vorrei sapere cosa
posso fare, come devo fare con il mio bambino per poterlo amare e proteggere. Vorrei conoscere ciò
che posso aspettarmi da lui per aiutarlo a raggiungere i suoi obiettivi.
Spesso per questi genitori iniziano i viaggi della speranza tra i migliori specialisti e terapisti.7
Purtroppo le parole hanno dei limiti quando devono esprimere dei sentimenti, ed ho descritto solo
un breve e piccolo spiraglio su un mondo che alcuni genitori vivono quotidianamente. Infatti:
“mentre il tecnico possiede un patrimonio di conoscenze teoriche e di esperienze pratiche che gli
permettono di governare le componenti emozionali del colloquio, i genitori finiscono per riversare
in esso tutte le proprie vicende personali, i drammi passati e le speranze per il futuro, le paure e le
illusioni, i dubbi e le certezze, i presagi più catastrofici e le più ingenue fantasie. Per capire in quali
termini la famiglia si appresta a stipulare il contratto terapeutico con il servizio bisogna saper
considerare non solo il contenuto esplicito dei suoi messaggi, ma anche e soprattutto il loro
contenuto latente, spesso inconscio e deformato dalla sofferenza provata nell’esprimerli. Si possono
allora capire i tanti significati del silenzio, le domande lasciate cadere, le risposte date ‘alla lettera’,
la riproposizione incessante degli stessi quesiti a tutti i tecnici incontrati.” 8
Le tensioni e le angosce che vivono i familiari, per quanto mascherate e nascoste, coinvolgono
tutte le dimensioni della persona e si manifestano, che lo si voglia o no, nel corpo e nel
comportamento. Il bambino ‘riceve’ l’ansia che vive il suo genitore attraverso il suo corpo.
Qualunque bambino piccolo riconosce le persone che lo tengono in braccio sin dai primi mesi di
vita. Egli sa se è nelle braccia della madre o di un estraneo; sente se chi lo tiene è timoroso e
insicuro oppure troppo rigido. I genitori trasmettono al bambino ciò che loro stanno vivendo
7
“ Accolta la diagnosi e con essa l’idea di una prognosi differenziale influenzabile dalla terapia, compare nei genitori la
paura di insuccesso ed il timore che quanto si stia facendo non sia adeguato alle necessità del bambino o non sia
sufficiente per i suoi molti bisogni. Spesso la famiglia oscilla fra la convinzione che esista, nascosta da qualche parte,
una terapia che guarisce e l’idea opposta della perfetta inutilità di qualunque intervento che la porta a rinunciare anche a
ciò che è realmente possibile raggiungere.” A. Ferrari, Proposte riabilitative nelle paralisi cerebrali infantili. Storia
naturale e orientamenti riabilitativi, Edizioni del Cerro, Tirrenia (Pisa) 1993, pp. 135 – 136.
8
A. Ferrari, Proposte riabilitative nelle paralisi cerebrali infantili, Edizioni del Cerro, Tirrenia (Pisa) 1997, cit., p.136
9
attraverso il loro corpo: il respiro, i muscoli tesi o rilassati, il tono della voce, ecc. Tutto ha
risonanza nel corpo del figlio.9
Il neuroscienziato Le Doux afferma che non esiste emozione senza reazioni toniche, viscerali ed
ormonali, esse si riflettono sul comportamento e il bambino può registrarle inconsciamente.10
Quando sentiamo attraverso il nostro corpo, coscientemente o no, sensazioni sgradevoli o piacevoli
nel contatto con un altro corpo, esse sono tradotte dal sistema nervoso nel sentimento
corrispondente.
Il bambino con problemi riceve il messaggio che ‘qualcosa’ non va attraverso il corpo dei genitori
(sotto forma di tensione o depressione muscolare). Esso si somma allo stato tonico alterato dalla
patologia lesionale, aggravando un quadro difficile da gestire per il bambino. Questo, di fronte alla
sua difficoltà e a quella dell’ambiente, sente crescere sempre di più in sé il disagio e su questo fonda
la propria identità: “comincia nell’interazione corporea fra genitore e bambino… nel dialogo
tonico… nella proposta del volto e delle mani (Tousquelles). Secondo Polletta, in queste prime
forme di gioco tra padre, madre e bambino la relazione è diretta, molto fisica, tutta corporea, senza
strumenti intermedi, concreti o astratti… Sono i corpi, i volti, la bocca che si animano… Ciò che
passa per questi canali è un qualcosa che i genitori chiamano gioia, incredulità, stupore,
ammirazione, che il bambino imparerà a conoscere come tale… Questi primi giochi tra genitori e
figli suggeriscono che la relazione di gioco per essere relazione vera deve essere simmetrica…
Quando qualcosa non va in modo serio e minaccia la futura normalità del bambino, ciò che si nota
più spesso è una specie di assenza di gioco, di suo congelamento, di mancanza di spontaneità nel
gioco col bambino, forse perché i genitori sono soffocati dalla prevalente preoccupazione per quello
che bisogna fare per lui… Allora il gioco fatto perché coi bambini bisogna pur giocare trasmette
fantasie spiacevoli sul bambino e sulla propria capacità di essere genitori.
Viene meno così il dialogo tonico corporeo fra figlio e genitori, si impoverisce il rapporto ludico e
con esso l’investimento libidico (Ferrari). Le prime esperienze senso motorie vengono distorte dalla
paralisi e aggravate dall’atteggiamento dei genitori, che tendono a prendere le distanze in senso
emotivo e fisico dal loro bambino. La ridotta libertà di scelta in senso motorio e la conseguente
carenza di esperienze percettive limita la costruzione dello schema e l’elaborazione del vissuto
corporeo, sia in senso somatognosico (corpo agito e percepito) che nel senso della coscienza di sé
(corpo come oggetto di rappresentazione o immagine corporea) (Ferrari).” 11
Ricordo le parole del prof. Lerminiaux: “In alcuni casi, quando l’ansia dei genitori è molto alta, e
quindi sono molto alte le loro richieste, occorre ricordare loro se è più importante la felicità del
bambino oppure che, ad ogni costo, egli faccia qualcosa per colmare le nostre ansie e paure.”
Dico queste cose per rendere i genitori consapevoli dei meccanismi tonico–emotivi che
influenzano la relazione con il figlio. Anche quando il genitore cerca di nascondere al bambino,
all’ambiente ed a se stesso l’angoscia, il suo corpo parla ed a volte urla nel disperato bisogno di
essere ascoltato e capito.
Questa non è un’accusa. Aiutare i genitori ad essere consapevoli di ciò che vivono e trasmettono
al loro bambino ed a se stessi può permettere loro di aprirsi quando accompagnano il figlio in
terapia. Lo spazio della terapia è un momento naturale perché ciò avvenga. Essi possono capire
9
“Molto è già stato scritto sulla difficoltà che sin dalla nascita i genitori si trovano a dover affrontare, dalle separazioni
iniziali, alla gestione dell’accudimento resa più complessa dalle condizioni cliniche del bambino, fino alle incertezze e
alle angosce che gravano sul suo futuro. Inoltre lo sviluppo del bambino spiato in cerca dei segni della patologia, l’ansia
che accompagna le visite di controllo, la delega ai medici del compito di giudicare dello stato di benessere o malessere
del bambino e la parallela difficoltà a sviluppare quell’insieme di attitudini che fanno della madre la persona
naturalmente più esperta a riguardo del figlio, rappresentano degli importanti fattori di rischio nella relazione col
piccolo neuroleso. Soulè ha parlato della ‘sindrome del bambino fragile’ per descrivere l’immagine del Sé che certi
bambini strutturano in conseguenza dei sentimenti di precarietà e vulnerabilità su di essi massicciamente proiettati.” A.
Ferrari – G. Cioni, Paralisi cerebrali infantili. Storia naturale e orientamenti riabilitativi, cit., pp. 205 - 206.
10 “Le emozioni sono evolute non come sentimenti coscienti, differenziati linguisticamente o meno, ma come stati del cervello e risposte del corpo. Sono questi i fatti fondamentali di
un’emozione.” J. LeDoux,
Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni, Baldini&Castoldi,Milano 1999, pp. 312.
A. Ferrari – M. Lodesani – S. Muzzini in A. Ferrari, Proposte riabilitative nelle paralisi cerebrali infantili.cit.,
pp.122 –123.
11
10
che non sono dei mostri perché provano angoscia, paura, solitudine, colpa e rabbia. I genitori si
trovano soli ad affrontare ‘problemi’ verso cui non sono preparati, e spesso non sono
adeguatamente sostenuti da strutture sociali e sanitarie. Dubito che qualcuno possa sentirsi a suo
agio in condizioni simili
“ Ciò si evidenzia quando si prende in considerazione l’esperienza di alcuni soggetti che vivono
serenamente la disabilità. In questi casi la relazione con gli altri è valida su tutti i piani. Essi si
sentono più che accettati, considerati e hanno la percezione che le proprie difficoltà non sono un
problema per gli altri; al contrario altri individui vivono in uno stato di continua tensione in
quanto non riescono a realizzare se stessi e avvertono che le loro difficoltà suscitano disagio e
creano ulteriori difficoltà negli altri, per cui essi oltre ad essere handicappati di fronte a sé stessi,
lo diventano anche di fronte alla relazione, agli altri.”12
E’ necessario aiutare il genitore a conoscere e liberarsi dei suoi inutili mostri. Si deve
aiutarlo a rispettare il bambino e se stesso per ritrovare forza e serenità, poiché con il suo
aiuto cresce e si sviluppa il piccolo. E’ con lui ed attraverso di lui che il bambino trova
significato e identità.
Quando un bambino ‘sano’ manifesta nuove capacità è un’esperienza affascinante, ma quando un
bambino con problemi fa un piccolo passo avanti nella sua evoluzione è una gioia immensa, esso
sembra più un dono che una conquista.
IL BAMBINO
Il bambino spastico, discinetico o atassico manifesta la patologia spontaneamente durante la
maturazione del sistema nervoso centrale. La maturazione (mielinizzazione) delle strutture cerebrali
evidenzia quali di esse sono deficitarie per la non attivazione delle loro funzioni e per lo squilibrio
che si determina nell’armonia della funzionalità globale del sistema nervoso centrale. Per cui il
bambino spastico, che ha una lesione corticale, non riuscirà ad inibire i riflessi attivati dalle strutture
più arcaiche (schemi di movimento geneticamente programmati presenti nel neonato alla nascita).
Ogni decisione volontaria e qualunque emozione attivano movimenti rudimentali con prevalenza di
pochi gesti stereotipati e tono muscolare troppo alto. Per esempio un bambino spastico fa molta
fatica nel portare un giocattolo in bocca per il prevalere d’alcuni riflessi primitivi, a volte, non
riesce del tutto.
Nello stesso tempo, la spasticità (rigidità muscolare) è vissuta dal bambino come un “sostegno”.
Egli la vive, la sente sin dalla nascita, è cresciuto con lei. La spasticità sembra dargli compattezza,
sicurezza. Il bambino vive la paura di abbandonare questo ‘abito’ che è il solo che conosce. Egli
crede che se scompare la spasticità, il suo corpo possa “crollare”. Per questo motivo il vissuto
fisico della spasticità diviene un vissuto mentale ben preciso. Una grossa mole del trattamento
riabilitativo consiste nel modificare (ristrutturare) queste immagini limitanti per permettere al
bambino di poter accedere alle sue potenzialità residue.
Un bambino discinetico, invece, non ha il controllo degli automatismi di movimento (è stato leso
quel complesso di strutture sotto-corticali che sono alla base degli automatismi di movimento. Esse
apprendono e memorizzano il movimento, e ne controllano automaticamente lo svolgimento). Per
cui, quando il bambino decide di muoversi, è come se fosse sempre la prima volta, i suoi movimenti
sono maldestri, a scatti e incontrollabili. Qualunque stimolo uditivo, visivo o corporeo un po’ fuori
12
F. Boscaini, La triade handicappata: il ‘diverso’, la famiglia, la società. Analisi e problematiche psico-pedagogicheriabilitative, cit., pp. 18-19.
11
del normale scatena nel suo corpo una rivoluzione di movimenti, perché il bambino sa di non poterli
controllare. Egli è consapevole di non poter controllare il suo corpo.
Il bambino atassico ha una lesione o disfunzione a livello del cervelletto, che è un importante
organo d’integrazione e controllo del movimento. Il bambino atassico manifesta disturbi gravi
d’equilibrio, tremori e gesti non coordinati. La sensazione che vive un bambino con tale patologia è
di essere sospeso nel vuoto, in uno spazio pericoloso, e di non poter muovere il proprio corpo per
rispondere agli stimoli.
Questi sono alcuni dei numerosi quadri clinici che si possono presentare con gradi variabili di
gravità. Questa semplice descrizione purtroppo non può far comprendere il vissuto di un bambino
con problemi neuromotori. Il bambino è bloccato in poche e stereotipate possibilità di
esprimere i suoi bisogni, il suo gioco e la sua affettività. La sua conoscenza della realtà (la mappa
del suo mondo) è determinata da ciò che sa fare o non sa fare: il bambino vede un gioco e non può
allungare la mano per prenderlo, oppure non è capace di gattonare per raggiungerlo o vi riesce con
molta fatica. Egli costruisce lo spazio e il tempo delle cose e del proprio corpo in modo diverso da
chi fa lo stesso gesto in modo semplice e spontaneo. Il bambino ripete questi gesti per il desiderio di
esplorare o perché sollecitato dai genitori, ma egli manifesta sempre la stessa difficoltà e
costruisce su questa base l’immagine di sé, il suo schema corporeo.
Il bambino vive nel suo corpo la difficoltà e più si sforza di superarla, per gioco o per venire
incontro all’ambiente, più la patologia si fissa. Questo avviene a causa dell’impedimento
neurologico della patologia (che tende a fissare i comportamenti motori) e per i problemi che si
creano nel rapporto con l’ambiente: egli vive qualsiasi reazione con maggiore contrazione
muscolare. Questo è l’unico modo che egli conosce nel rapportarsi con la realtà esterna. Di
fronte agli insuccessi il bambino attiva reazioni toniche muscolari abnormi che diventano abituali e
rischiano di essere considerate sintomo patologico. Alcune volte, quando egli perde sempre il suo
obiettivo, manifesta reazioni d’abbandono (scarsa vivacità, demotivazione al movimento), anche
queste mascherate dal sintomo neurologico.
Situazioni come queste non possono essere gestite dall’ambiente familiare a causa della mancanza
di strumenti terapeutici e per l’ansia che inevitabilmente accompagna la scoperta della patologia del
bambino.
L’incapacità nel gestire fisicamente il bambino e l’ansia che questo suscita può, quindi, causare
nell’ambiente atteggiamento emotivo di “rifiuto” o eccessiva “sollecitazione”, dimenticando spesso
il bambino e focalizzando tutta l’attenzione sulla patologia. Tutto ciò determina un apprendimento
emotivo “negativo” del bambino verso il suo corpo e la patologia con conseguenze disastrose.13
E’ difficile immaginare il vissuto di un bambino che “sente” di essere la causa dell’ansia e
dell’angoscia dei suoi genitori. Questo determina nel piccolo senso di colpa per qualcosa che
non ha commesso e atteggiamento d’autodifesa. È comprensibile come questo vissuto emotivo
possa creare nel bambino uno stato di tensione e di frustrazione.“In considerazione di tutto ciò,
oltre alla spasticità primaria dovuta alla lesione, s’instaura facilmente nel bambino un ipertono o
ipotono secondario, che è il primo da eliminare in terapia; poiché la funzione tonica è legata
strettamente ai fattori emotivi e affettivi non si può lavorare sull’uno escludendo l’altro. Lo stesso
discorso si potrebbe fare per l’equilibrio corporeo, anch’esso funzione tonica.[…].Si può capire
come sia difficile passare dalle concezioni teoriche alle attuazioni pratiche, soprattutto per una
famiglia che vive in prima persona il problema dell’handicap e della sua emarginazione, e come sia
difficile diseducare delle persone per aiutarle ad affrontare il problema riabilitativo in modo nuovo e
13
“In tal maniera il bambino è handicappato due volte, con l’insieme delle sue reazioni tonico-affettivo e relazionali,
traumatizzato dall’ansia della madre, facilmente, dalla terapia, finisce per vivere nel ‘non essere.” F. Boscaini, La triade
handicappata: il ‘diverso’, la famiglia, la società. Analisi e problematiche psico-pedagogiche-riabilitative,cit, pp. 6061.
12
in una dimensione più psicopedagogicamente corretta, nel rispetto della singola persona,
indipendentemente dall’essere portatore o meno di un handicap.”14
Altro fattore che agisce emotivamente sul bambino, sul paziente in generale e sull’ambiente
familiare è un certo atteggiamento popolare nei confronti di tutto ciò che è ‘diverso’. Esso nasce da
un’attitudine di ‘difesa ed esorcismo’ verso l’ignoto ed il diverso. Le sue radici affondano in
un’educazione negativa verso la propria immagine, soprattutto verso quegli aspetti considerati fuori
dal ‘normale’. Per fortuna quest’atteggiamento sta cambiando attraverso un’adeguata informazione.
Essere in difficoltà di fronte al ‘diverso’ ha creato l’attitudine di difesa che spesso si nota nei
pazienti e nei loro familiari, con la conseguenza di comportamenti esasperati che compromettono
emotivamente e fisicamente la patologia e l’ambiente in cui essi si manifestano.
Il terapista può modulare il rapporto in modo equilibrato, se il suo approccio non si limita
all’intervento rieducativo neuromotorio e riesce ad inserirsi nel dialogo bambino-ambiente. Egli può
trasformare l’ansia dei genitori in attitudine di contenimento adeguata alle potenzialità del bambino,
nel rispetto di questo.
È importante ricordare che, sebbene alcune volte il disagio del bambino si possa far risalire
all’ambiente (nel senso più esteso), una volta che si sia stabilizzato nel tempo, diventa in qualche
modo da esso indipendente. È il caso delle situazioni ormai cronicizzate. In questi casi, anche se le
circostanze esterne dovessero mutare, la patologia secondaria rimane se non cambia l’immagine che
il bambino o il paziente in generale ha di sé.15
Per fortuna l’immagine del bambino non si costruisce solo nel confronto con la realtà esterna. Il
bambino (in quanto essere vivente) è alla ricerca di un suo equilibrio interno dinamico (benessere
psico-fisiologico). Su questa base il terapista può introdurre un lavoro di ‘ristrutturazione’. Egli può
influire sul vissuto del bambino attraverso l’utilizzo consapevole di strumenti quali: i metodi
riabilitativi, la calibrazione, la risonanza, l’aptonomia. Attraverso questi strumenti egli può fare
sentire al bambino stati tonico-emotivi differenti nel suo corpo (diversi da quelli fissati dalla
patologia). In tal modo il bambino può vivere nuove esperienze, nuovi modi di sentire e si attivano
nuovi circuiti cerebrali che egli può decidere di usare, e di solito fa questo volentieri, perché queste
nuove esperienze lo aiutano ad uscire dalla costrizione della patologia. Il bambino diviene l’artefice
del suo corpo. Egli può imparare, tramite la terapia, a riconoscere ciò che prova nel suo corpo, a
cogliere le motivazioni che guidano i comportamenti, a recuperare l’autenticità dei suoi bisogni.
Il terapista che conosce e valorizza il vissuto del bambino, si pone in una relazione paritaria priva
di strumentalizzazioni. Egli aiuta il bambino nella sua espressione.
Il terapista può aiutare i genitori a riappropriarsi del loro bimbo rendendoli partecipi delle sue
difficoltà e soprattutto delle potenzialità. Egli deve aiutare insegnando loro come ‘manipolare’ il
figlio, come aiutarlo nel gioco senza trasformarsi in terapisti. 16 Per questi motivi nella Nostra
Struttura riabilitativa i genitori sono invitati ad entrare nella sala di riabilitazione. Assieme al
terapista, il genitore elabora le sue ansie e le richieste. Egli impara direttamente come muovere ed
aiutare il figlio attraverso l’esempio trasformando l’atto quotidiano in terapia senza fare terapia.17
14
F. Boscaini, La triade handicappata: il ‘diverso’, la famiglia, la società. Analisi e problematiche psico-pedagogicheriabilitative,cit, p.61.
15
Cfr. G. Buratti – I. Castaldi, Psicoterapia individuale sistemica,CittàStudi, Milano 1998.
16
“Altri problemi riguardano le pesanti interferenze della famiglia nel trattamento, dall’investimento idealizzato del
terapista dei primi momenti, alla competizione per il suo padroneggiamento della tecnica riabilitativa, al carico di
angosce rispetto al futuro evolutivo del bambino. Talvolta il terapista si trova a dover ‘custodire il segreto’, seppure
momentaneo, delle reali possibilità di recupero del bambino e a funzionare da filtro nella comunicazione col genitore
per non alimentare aspettative inutili ma neanche provocare perdita di fiducia ed investimento affettivo nel bambino.”
A. Ferrari – G. Cioni, Paralisi cerebrali infantili. Storia naturale e orientamenti riabilitativi, cit., p. 208.
17
“Il riabilitatore dovrà ‘consegnare’ adattativamente ai familiari non una lista di esercizi, bensì
alcuni ‘trucchi’ (e facilitazioni contestuali) per costruire un modello di interazione adattiva con il
bambino, ‘accompagnandolo’ ad esplorare i suoi limiti.[…]. Il suo obiettivo sarà la costruzione dei
compensi (Sabbadini 1978; Rosano 1980) nell’emergenza atipica delle funzioni adattive, attraverso
l’evoluzione dei sottosistemi residui.”
13
UN TERAPISTA
L’inizio di un nuovo trattamento crea sempre una certa ansia nel terapista. È l’inizio di
un’avventura professionale ed umana. È l’inizio di una sfida tra le “rigide” conoscenze acquisite da
un modello biomedico statico, e l’infinita variabilità che la relazione con il bambino e il suo
ambiente richiede.
Il rapporto continuo, giornaliero con un bambino con problemi neuromotori pone una complessità
di rapporto che facilmente può far “crollare” il terapista. Il quale, se non è aiutato, a volte trova
rifugio nella somministrazione d’esercizi e di tecniche sofisticate, rifuggendo tutte quelle dinamiche
che lo chiamano in causa ad un livello più “profondo”.18
La capacità del terapista d’essere flessibile e competente nel setting terapeutico è lasciata molto
spesso alla naturale predisposizione del terapista.
Ma un grande “vuoto” circonda questa figura così particolare: il terapista. Chi è al di fuori del
quotidiano universo riabilitativo difficilmente può immaginare cosa si vive, cosa succede e cosa non
si vede. 19
Il terapista è chiamato a gestire il “potere della terapia”: le aspettative dell’ambiente e la
responsabilità di aiutare il piccolo sapendo che si potrebbe fare meglio. Ma gli strumenti sono
rigidi, poco adattabili e spesso noiosi e improponibili ad un bambino che fa grande fatica ad
eseguire anche un gesto semplice.
La consapevolezza tacita del terapista di “essere strumento terapeutico” attiva spesso l’ansia di
non essere adeguato, preparato e disponibile. Al di là delle tecniche e delle metodiche, che
costituiscono la parte più controllabile dell’approccio, è richiesta una grande capacità di essere
disponibile per “raggiungere” il bambino e fare in modo che egli accetti di essere guidato. 20
Tutto questo nell’approccio riabilitativo, e medico in generale, è oggetto di discussioni generiche.
La capacità di avvicinare il paziente come persona e non solo come sintomo da correggere o curare
è ancora un discorso solamente teorico, e questo costituisce “il problema” in molti aspetti medicali
tra cui la riabilitazione.
Nelle scienze della comunicazione, della pedagogia e della psicologia troviamo studi e ricerche su
questi problemi, ma esse vivono il dramma inverso. Queste scienze, spesso si limitano a curare la
relazione e la psiche trascurando l’incidenza di questi aspetti in ambiti diversi da quello
psichiatrico, soprattutto quando si tratta di soggetti in cui è dato per scontato che abbiano problemi
18
“… a proposito della relazione tra bambino e terapista osservavamo come con l'avvio di un trattamento nella mente
del terapista si costruiva l'immagine di un bambino «ideale», ovvero un bambino futurizzato nelle sue potenzialità di
recupero, la cui collaborazione ed adattabilità alla proposta terapeutica venivano date più o meno per scontate. L
'impatto con la realtà del piccolo paziente può invece molto spesso rivelarsi una fonte di stress per il conflitto ricorrente
tra la soggettività, l'emotività, le motivazioni del bambino e gli obiettivi dell'intervento. Di fronte alla cronicità della
patologia e alla irreversibilità dei suoi esiti il terapista può trovarsi disarmato e in difficoltà a mantenere quella
posizione di attesa e sospensione di giudizio necessaria alla piena comprensione del bambino. Il rifugio nella tecnica, il
privilegio in seduta dell'universo dell'agire rispetto a quello del pensare, la scomposizione del piccolo paziente in un
insieme di segmenti da trattare possono rappresentare delle difese nei confronti degli aspetti più frustranti della
patologia come la passività, l'inerzia, l'inibizione e il negativismo.” A. Ferrari – G. Cioni, Paralisi cerebrali infantili.
Storia naturale e orientamenti riabilitativi, cit., p. 208.
19 “Il riabilitatore è di fatto solo, con le sue “qualità esistenziali” ad affrontare situazioni psicopatologiche pesantissime del bambino e della sua famiglia, senza contare, sia pure di
riflesso, la propria condizione esistenziale ”
. M. Pierro - P. Giannarelli - P. Rampoldi, Osservazione clinica e riabilitazione precoce, Edizioni del Cerro, Tirrenia
(Pisa)1984, p. 17-18.
p
“ Se attraverso l’esercizio il terapista si propone di migliorare le capacità dell’individuo di adattare e di adattarsi
all’ambiente esterno, attraverso l’interazione egli accede alle potenziali risorse del soggetto, ma deve parimenti
riconoscere i confini del proprio agire.
Spesso questo accesso è reso difficile dalla distorsione dei messaggi offerti da un corpo prigioniero della paralisi e
proprio per questo più sensibile nel cogliere accettazione o rifiuto, disponibilità o rinuncia da parte del terapista.” A.
Ferrari, Proposte riabilitative nelle paralisi cerebrali infantili,cit., p.89.
20
14
a causa delle loro difficoltà fisiche. Essi offrono, quindi, modelli d’approccio che ricalcano spesso i
pregiudizi e gli schemi dell’ambiente in cui si sviluppano. Ma un bambino con un’emiparesi ha e
vive delle sensazioni così diverse nei due suoi emilati del corpo che é difficile, per me “normale”,
anche solo immaginare cosa possa voler dire vivere in una realtà strutturata per due mani, quando di
mani disponibili ne ho una. Come possiamo spiegargli che entrambe le mani sono sue, se egli le
sente così diverse? Come “costringerlo” ad usare la mano che ha difficoltà per fare movimenti
“funzionali”? Come possiamo fargli capire che l’angoscia che provano i suoi genitori è causata
dalla paura dell’ignoto, la paura di essere incapaci di muoversi in un mondo difficile persino per
una persona “normale”? Come fargli dire che è solo un bambino e come tutti i bambini ha il
semplice desiderio di essere amato, accudito e di fare ciò che si sente di fare? Come spiegargli
l’ossessiva attenzione verso una parte di sé che ben presto diventerà fonte di problemi, d’angoscia e,
a volte, oggetto di accanimento terapeutico da parte di “esperti”?
Queste sono solo parole, ma il vissuto è profondo ed intenso.
Il terapista “sente” su di sé (consciamente o meno) il peso e la responsabilità di chi è chiamato a
dare delle risposte.
Il bambino è portato, sicuramente contro la sua volontà, davanti ad un estraneo. Egli è un
osservatore critico, poiché ancora non completamente condizionato dall’educazione sociale. Il
bambino sa misurare la disponibilità effettiva del terapista, riesce ad andare oltre le buone
intenzioni che questo manifesta e da questo dipenderà la riuscita della disponibilità e collaborazione
durante il trattamento. È comprensibile come l’apertura, la presenza e la trasparenza del terapista
siano importanti. Il bambino inconsciamente ‘sente’ se il terapista ha fiducia in una sua possibilità
di miglioramento: attraverso il linguaggio corporeo del terapista egli ‘sa’ se saprà guidarlo, oppure
se ha paura o non crede in ciò che sta facendo.
Saper gestire e donare il proprio aspetto umano ed emotivo all’interno della relazione terapeutica
può fare paura, ma aiuta il terapista ad essere coerente e senza doppie immagini, gli permette di
ottenere il suo scopo: essere Terapeuta. Alcune volte ciò è difficile, poiché non sempre riusciamo ad
essere disponibili, ma il solo fatto di esserne consapevoli impedisce di accanirci contro il piccolo.
Per il terapista, spesso è difficile gestire il rapporto con il bambino: non si può trasformare in gioco
ciò che gioco non è, ma si può aiutare il bambino ad esprimere i suoi bisogni, il suo desiderio di
muoversi, di conoscere ed esplorare, creando un ambiente e uno spazio adatto dove il terapista
s’introduce discretamente per aiutarlo a raggiungere il “suo scopo”. Tutto si trasforma: è un giocare
ed interagire dove la tecnica diventa un aiuto spontaneo.21 In questo rapporto prevale il desiderio del
gioco e la possibilità di essere aiutato e capito, prevale il rispetto e il trattamento è ridotto al minimo
necessario secondo il principio del good-enough (buono abbastanza). ‘Vanno privilegiate le
occasioni definibili esperienze contestuali’.22
Un bambino può, infine, decidere di dare la sua fiducia al terapista, al di là dalle buone intenzioni
di questi, perché si rende conto che il terapista, tra tutte le persone che conosce, è il più in gamba
nell’aiutarlo a muoversi.
Nuove acquisizioni in neurofisiologia stanno lentamente smantellando il predominio delle
metodiche in ambito riabilitativo (spesso contraddittorie nei loro presupposti ed interventi). Nuove
conoscenze dirigono gli sforzi verso la formazione di un riabilitatore più completo e competente, in
rapporto dialettico con il paziente: questo era spesso vissuto come il passivo esecutore di manovre.
Sta nascendo un nuovo pensiero riabilitativo fondato sul rispetto della persona e sulla crisi dalla
vecchia metodologia. I suoi pionieri: Adriano Milani Comparetti Giorgio Sabbadini, Silvano
Boccardi, Adriano Ferrari, Giovanni Cioni, Michele Bottos, Marcello Pierro e molti altri ormai
stanchi ed insoddisfatti stanno cercndo una via diversa. Nuovi modelli di pensiero e studi in
neuropsicologia danno strumenti teorici e pratici che aiutano a riflettere ed ampliare la visione
riduttiva classica del terapista e del paziente.
21
Cfr G. Molé, Riabilitazione. Un nuovo modo di sentire, in “Solidarietà”, (1995), n.22, pp.59-65.
Il pensiero di A. Milano Comparetti a questo proposito è citato in M.Bottos, Paralisi cerebrale infantile. Diagnosi
precoce e trattamento tempestivo, Ghedini Editore, Milano 1987, pp.187-193.
22
15
La vecchia concezione medica propina il trattamento riabilitativo assimilandolo a pillole che il
terapista somministra più o meno passivamente e che il paziente deve prendere passivamente, nella
spesso patetica pretesa miracolistica di “normalizzare” ciò che è stato profondamente modificato
neurologicamente. Questa concezione è stata fonte di frustrazioni per il terapista, per il bambino e
per la sua famiglia per troppo tempo giustificando approcci ‘invasivi’ e ‘cruenti’ (A. Milani
Comparetti).
La nuova figura del terapista deve saper sviluppare strategie d’intervento che si adattino ai diversi
soggetti con problemi. Egli può comprendere i fattori neurologici, psicologici e sociali (emotivi e
motivazionali) del paziente per poterlo aiutare nello sviluppo delle competenze emergenti a livello
di movimento. Il terapista può, contemporaneamente, permettere la realizzazione delle intenzioni
positive del paziente, in questo modo il movimento diviene coerente e facilitato nella sua intenzione
e dalla sua intenzione.
Il bambino, ed il paziente in generale, diventa il protagonista del trattamento, ed il terapista lo
aiuta con la sua competenza e i suoi mezzi (la conoscenza tecnica e il coinvolgimento di tutto se
stesso).
Per questi motivi, così complessi da definire perché ancora poco definiti, è importante che il
terapista: abbia le dovute ed aggiornate conoscenze di neurofisiologia; sappia avvalersi delle
conoscenze e della pratica delle metodiche (è importante avvalersi dell’esperienza di altri studiosi
effettuando una critica selezione su ciò che serve in un trattamento); sviluppi, con adeguati
strumenti, la capacità di leggere nel corpo del bambino le difficoltà, le paure e i desideri che sono i
veri direttori del setting terapeutico23; il terapista, infine, deve proporsi come strumento terapeutico
trasparente, consapevole del rischio umano e soprattutto dello scopo, guidato dalle sue capacità
professionali.
È fondamentale un buon lavoro multidisciplinare, affinché l’impegno del terapista sia sostenuto e
valorizzato: le dinamiche familiari, la necessità di consulti specialistici richiedono spesso
l’intervento d’altre figure dell’equipe, che devono avere un’adeguata formazione e capacità
d’intervento coerente con il trattamento in corso.
“Il dibattito di questi ultimi anni ha portato a definire la riabilitazione come un intervento
multidirezionale che tiene conto dei diversi aspetti della vita dell’individuo e considera centrale il
recupero di funzioni adattive. Questa concezione dell'intervento prevede il coinvolgimento di più
figure professionali e il conseguente costituirsi di un’equipe terapeutica. Tuttavia, trasformare la
formula organizzativa in una unità operativa realmente funzionante non è un compito ne facile ne
scontato. Il bambino e la complessità dei suoi bisogni possono infatti diventare terreno di scontro tra
i diversi operatori che condividono il progetto riabilitativo. Ad esempio, le esigenze e le regole
dell’ambiente scolastico possono differire molto rispetto a quelle della stanza di terapia e implicare
la mobilitazione di strategie da parte del bambino, diverse o addirittura antitetiche rispetto a quelle
apprese in terapia. La multidirezionalità dell’intervento implica cioè la capacità per ciascun
operatore di rivedere con spirito critico ed elasticità il proprio intervento e la possibilità di
ricalibrarlo alle esigenze del singolo bambino, in un confronto costante con gli altri componenti
dell’equipe.
Ma quest’attitudine al confronto, questa capacità di negoziare con i propri modelli culturali, questa
possibilità di lasciarsi permeare dalla relazione con l’altro non è innata ne acquisibile con la sola
formazione curriculare. È piuttosto una funzione che si può sviluppare se attorno agli operatori
vengono create le condizioni per riflettere e ripensare sull’esperienza clinica. D’altro canto il
rapporto diretto con l’utenza, col bambino e con la sua famiglia cimenta costantemente l’operatore
23 “
E’ nostra idea che il riabilitatore debba avvicinarsi ad uno studio pragmatico del movimento, anche se, a tutta prima,
può sembrare che questo indirizzo determini un tramonto degli ottimismi quantificatori. È opportuno però riconoscere
che la sequenza delle contrazioni non ha valore in assoluto, in quanto riducibile ad un numero preciso di gradi, chili o
metri (questo è solo un aspetto) ma in quanto prodotta da un utente, situazione e scopi sono altrettanto importanti,
almeno a fini riabilitativi, dei gradi, chili o metri al secondo, che, solo in rapporto ad essi, possono assumere valore e
significato.” C. Perfetti, Condotte terapeutiche per la rieducazione motoria dell’emiplegico, Ghedini Editore, Milano
1986, pp.14.
16
con queste problematiche.”24
Gli operatori che ruotano attorno al bambino devono costituire l’ambiente adeguato alla sua
crescita, ciò è possibile se essi sono motivati ed operano in un ambiente sereno. Il delicato compito
di aiutare e rispettare ‘l’altro’ è possibile solo se anche l’operatore è aiutato e sostenuto realmente.
Purtroppo i modelli sociali ed istituzionali attuali spesso sono carenti in tal senso. Essi hanno una
strutturazione piramidale ed una distribuzione dei compiti che impedisce una reale ed efficace
comunicazione.
La capacità d’intervento terapeutico, data la sua complessità, richiede doti professionali, ma anche
umane e di disponibilità perché sia coerente nel suo messaggio ed efficace nell’azione. Il terapista,
infatti, dovrebbe avere il supporto di un’adeguata supervisione. Durante il cammino terapeutico, il
terapista trasforma se stesso nell’aiutare l’altro a conoscersi. Può accadere che elementi del mondo
del paziente tocchino quelli irrisolti del suo mondo con il rischio di proiezioni dei propri fantasmi
sul paziente. In questi casi un supervisore può dare aiuto adeguato per superare il “blocco” e
permettere un sereno proseguimento del rapporto terapeutico.
Gli operatori possono essere aiutati in questo processo di crescita attraverso un’adeguata
formazione. Lo stesso cammino che l’operatore potrà poi utilizzare per aiutare i ‘suoi’ piccoli e
grandi compagni di viaggio.
Si potrà trovare alla fine due persone che giocano profondamente coinvolte. Esse hanno dimenticato
le loro difficoltà e senza rendersene conto si aiutano vicendevolmente a realizzare e continuare il
“gioco”.25
Si ride, si gioisce, si piange e a volte ci si stanca e si litiga, ma io penso che un rapporto “normale”
sia fatto di tutte queste cose.
24
A. Ferrari – G. Cioni, Paralisi cerebrali infantili. Storia naturale e orientamenti riabilitativi, cit., pp. 207 – 208.
“ Importanza sempre più grande lasciata all’attività spontanea che a poco a poco ha sostituito il ‘porre in situazione’,
sistematicamente programmato dell’adulto. Situazioni strutturanti nascono spontaneamente[…] sta a noi scoprirle,
utilizzarle, orientarle.” A. Lapierre – B. Aucouturier, La simbologia del movimento, Edipsicologiche Cremona, p. 20.
Quando è possibile, quindi, può essere bello ed utile farsi guidare dal bambino, dal suo desiderio di giocare.
25
17
CAPITOLO SECONDO
La nascita dell’emotività
18
SINTESI DEGLI STUDI SULL’EMOTIVITA’: ELEMENTI PER COMPRENDERE
L’INFLUENZA DELL’EMOTIVITA’ SUL COMPORTAMENTO E LE BASI DI UN EFFICACE
APPROCCIO TERAPEUTICO.
1) Lo sviluppo del sistema nervoso centrale attraverso la filogenesi e l’ontogenesi.
Una cellula primitiva, immersa nel mare delle origini, se è stimolata da segnali esterni reagisce con
una stereotipia di comportamento che si è tramandata sino ad oggi. Essa ha un tropismo positivo,
ossia tende a raggiungere le fonti di cibo, luce e calore e rifugge dai rifiuti, dal buio e dal freddo. La
ricerca di ciò che dà sostentamento genera, accanto a semplici attività motorie come il moto
ameboide o l’uso di flagelli, anche una forma di psichismo elementare: sensazioni di buono e
piacere verso il caldo nutriente habitat, e di cattivo, dispiacere contro il tossico, il freddo e il buio.
Perché ciò sia possibile negli esseri unicellulari si è sviluppato un livello di ‘attenzione elementare’
agli stimoli ambientali (risonanza elementare) che permette loro di essere presenti (essere con) gli
stimoli e di attivarsi per il nutrimento o rifuggire i pericoli. La tendenza naturale d’ogni organismo
vivente, infatti, è il raggiungimento e il mantenimento dell’equilibrio interno dinamico (omeostasi),
vissuto come stato di benessere.26 La necessità di quest’equilibrio interno determina il
movimento di ricerca (tropismo) o emotività elementare.27
Negli organismi viventi il tropismo è regolato da orologi biologici: strutture specializzate al
ripristino ciclico dell’equilibrio interno.
Gli esseri pluricellulari hanno sviluppato un sistema psichico superiore, ma gli ‘impulsi
emotivi’ primitivi restano come retaggio antico. Alla base del movimento c’è questa ricerca di
stimoli di nutrimento, di tropismo positivo che nella sua espressione più evoluta si estrinseca nei
rapporti interpersonali.28
26
“ Il fisiologo Walter Cannon riprese il principio della costanza dell’ambiente interno di un organismo, enunciato da
Claude Bernard, e lo perfezionò nel concetto di omeostasi, il meccanismo di autoregolazione che permette agli
organismi di mantenersi in uno stato di equilibrio dinamico attraverso l’oscillazione di funzioni variabili entro limiti di
tolleranza.” F. Capra, La rete della vita. Una nuova visione della natura e della scienza, Biblioteca Universale Rizzoli,
Milano 2001, p. 55.
27
Dal latino emovere: scuotere, smuovere, tirare fuori il movimento.
28
“I sistemi cerebrali che generano dei comportamenti emotivi si sono conservati attraverso molte tappe della storia
evolutiva. Tutti gli animali, noi compresi, devono soddisfare certe condizioni per sopravvivere e obbedire all’imperativo
biologico di trasmettere i propri geni alla discendenza. Come minimo, devono procurarsi cibo e un riparo, proteggere il
19
Quando le condizioni ambientali non permettono il raggiungimento dell’omeostasi, l’organismo si
modifica, oppure sente minacciata la sua sopravvivenza attivandosi in tutti i modi possibili, al fine
di ripristinare il suo benessere.29 Per soddisfare queste condizioni, e per adattarsi ai mutamenti
ambientali avvenuti nel corso di milioni d’anni, gli esseri viventi hanno sviluppato strategie di
comportamento sempre più perfezionate.
Inoltre “Recenti studi di neuroscienze hanno scoperto all’interno del corpo i neuropeptidi. Essi
collegano cervello, ghiandole e sistema immunitario in una rete di comunicazione che rappresenta
probabilmente lo strato biochimico delle emozioni.[…]. Tracciando le origini evolutive del sistema
dei neuropeptidi, Roth e i suoi colleghi hanno presentato la prova che è più antica dei sistemi
centrale, autonomo o endocrino; è il metodo di comunicazione negli organismi unicellulari, nelle
piante e negli ordini inferiori della vita animale. Poiché la natura tende a conservare i suoi sistemi,
possiamo capire ora come i neuropeptidi formino un più profondo e pervasivo sistema di traduzione
delle informazioni del corpo-mente di quanto sia il sistema nervoso centrale.”30
Attraverso l’attività di numerosi mediatori chimici (neuropeptidi e neurotrasmettitori prodotti da
numerosi organi interni, non solo dal Sistema Nervoso Centrale - SNC) tutto l’organismo riceve ed
invia informazioni sullo stato psico-fisiologico dell’essere vivente, ma lo sviluppo delle funzioni
proprio corpo e procreare. È vero per gli insetti e i vermi come lo è per i pesci, le rane, i topi e le persone. Ognuno di
questi diversi gruppi di animali ha propri sistemi neurali per raggiungere queste mete comportamentali. Entro i gruppi
di animali con una spina dorsale e un cervello (pesci, anfibi, rettili, uccelli e mammiferi, umani compresi) sembra che
l’organizzazione neurale di particolari sistemi di comportamento emotivo - come i sistemi collegati alla paura,
all’attività sessuale o alimentare sia abbastanza simile da una specie all’altra. Non vuol dire che i cervelli siano tutti
uguali, ma che la nostra comprensione di cosa significhi essere umani richiede una valutazione dei modi attraverso i
quali risultiamo uguali agli altri animali, o diversi.” J. LeDoux, Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni,
Baldini&Castaldi, Milano 1999, pp. 18 –19. “Gli studi comparativi dimostrano che non importa quale sottosistema
esistente nel sistema nervoso dei vertebrati inferiori esista ugualmente nei vertebrati superiori sotto forma più evoluta.
Lo studio dei vertebrati inferiori ci permette quindi di capire meglio come funzionano nell’uomo le sue strutture nervose
primitive.” J. Lerminiaux, Gli organizzatori dello psichismo, Istituto Mediterraneo per la Formazione, Ricerca, Terapia
e Psicoterapia, dispensa prodotta per i docenti del corso triennale Psicomotricisti ed Educatori Professionali,
Caltanissetta (1991-1993), p. 1.
29
“La dinamica fondamentale dell’evoluzione, secondo la nuova concezione dei sistemi, comincia con un sistema in
omeostasi: uno stato di equilibrio dinamico caratterizzato da fluttuazioni multiple, interdipendenti. Quando il sistema è
disturbato, ha la tendenza a mantenere la sua stabilità per mezzo di meccanismi di retroazione negativi, che tendono a
ridurre l’ampiezza della deviazione dallo stato equilibrato.[....].Questo modello basilare d’evoluzione, elaborato per le
strutture chimiche dissipative da Prigogine e dai suoi collaboratori, è stato applicato da allora con successo per
descrivere l’evoluzione di vari sistemi biologici, sociali ed ecologici.” F. Capra, Il punto di svolta. Scienza, società e
cultura emergente, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1995, pp. 238-239.
30
E. L. Rossi, Psychobiology of mind. Body healing, New York 1986, pp. 202.
20
superiori del SNC permette all’essere umano di essere consapevole dei ‘moti interiori’ propri
e riconoscerli nell’altro.
L’evoluzione della vita sulla terra ha utilizzato il SNC quale organo di integrazione sensoriale e
motorio per ottenere questo scopo.
2) Il neurofisiologo Paul MacLean ha descritto tre grandi organizzazioni cerebrali che sono emerse
in successione nella storia dell’evoluzione. 31 Il fisiologo Patigny e il pedopsichiatra Lerminiaux,
parlano più precisamente di sette livelli.32
Per semplicità didattica utilizzo la divisione di Mac Lean, ma nel contenuto faccio riferimento agli
studi di neurobiologia della scuola russa di A. Luria, alla teoria degli organizzatori di Lerminiaux e
Patigny, e agli ultimi studi sulla neurofisiologia dell’emotività.33
Secondo MacLean noi abbiamo tre cervelli: il primo è il cervello rettile (esso è comparso circa
300-400 milioni di anni fa) da cui si sviluppa il sistema paleomammifero (che ha 200 milioni di
anni) e successivamente il cervello neomammifero (circa cinque milioni di anni). Ogni cervello ha
un particolare tipo d’intelligenza, di memoria, di senso del tempo e dello spazio, e proprie
funzioni motorie e sensoriali. Ciascuno di questi tre cervelli continua a detenere i suoi compiti
specifici così come i suoi comportamenti caratteristici.34
31
P. D. MacLean, The Triune Brain in Evolution: Role in Paleocerebral Function, Plenum, New York, 1990.
J. Lerminiaux, Gli organizzatori dello psichismo, cit.
“Il biologo Woodger e molti altri posero l’accento sul fatto che una delle caratteristiche fondamentali
dell’organizzazione negli organismi viventi è la sua natura gerarchica. Di fatto, una delle proprietà preminenti di tutto il
mondo vivente è la tendenza a formare strutture a più livelli di sistemi dentro sistemi. Ognuno di questi forma un tutto
rispetto alle sue parti, mentre allo stesso tempo è parte di un tutto più ampio. Così, le cellule si combinano per formare i
tessuti, i tessuti per formare gli organi, e gli organi per formare gli organismi. A loro volta gli organismi vivono
all’interno di sistemi sociali ed ecosistemi. In tutto il mondo naturale troviamo sistemi viventi inseriti all’interno di altri
sistemi viventi.
Fin dai giorni che videro la nascita della biologia organismica, tali strutture a più livelli sono state chiamate gerarchie.
Tuttavia questo è un termine piuttosto fuorviante, poiché trae origine dalle gerarchie umane, che sono strutture rigide di
dominazione e di controllo, assai dissimili dall’ordine a più livelli che si trova in natura. Vedremo che l’importante
concetto di rete - la trama della vita - fornisce una nuova prospettiva sulle cosiddette gerarchie della Natura. Ciò di cui i
primi sistemici si resero conto molto chiaramente è l’esistenza di livelli differenti di complessità, con leggi di tipo
diverso operanti a ciascun livello.” F. Capra, La rete della vita. Una nuova visione della natura e della scienza, cit., p.
39.
33
J. LeDoux, Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni, cit – G. Rizzolatti, Uno specchio nella mente, in Quark,
(2001), n. 7, pp.60-66. D. Goleman, Intelligenza emotiva, RCS Libri S.p.A., (BUR Saggi), Milano 1999.
34
Cfr. J. LeDoux, Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni, cit, p. 101.
32
21
3) Il cervello rettile (sistema nervoso reticolare) è la più antica unità funzionale. 35 Esso mantiene il
tono corticale, lo stato di veglia e li regola in accordo con le effettive richieste dell’organismo. Il
SNC ricorre a questo cervello arcaico per attivare forme complesse di comportamenti istintivi nella
regolazione del cibo, del comportamento sessuale e di difesa: se osserviamo il comportamento dei
pesci, dei rettili e degli anfibi, possiamo notare che esso è dominato da abitudini e stabilità. Questi
animali hanno un forte istinto di sopravvivenza, e sono estremamente attenti agli stimoli ambientali
di fronte ai quali si allertano: quando uno stimolo arriva nel campo della loro coscienza essi devono
immediatamente decidere se attaccare la preda o fuggire per non essere uccisi, entrambe queste
decisioni (interpretazioni della realtà) sono fondamentali per la sopravvivenza. Lo stimolo innesca
nell’organismo di questi animali una serie di reazioni motorie ed ormonali (emotività elementare),
che cessa non appena il pericolo sparisce. Il cervello rettile si può definire il cervello della
sopravvivenza e dell’adattamento, poiché permette agli esseri viventi di attivarsi in risposta ai
mutamenti esterni ed interni per mantenere l’equilibrio.36 Esso, infatti, svolge costantemente
35
“Nell’organizzazione neurologica primitiva i neuroni sono disposti a rete. Essi possiedono dei dentriti lunghi, poco
ramificati e dritti, e i loro assoni al contrario si ramificano in numerose branchie collaterali che partono verso differenti
direzioni. Il neurone reticolare entra quindi in rapporto con numerosi neuroni ma in modo poco specifico.[…].Questo
tipo di sistema nervoso permette le funzioni minimali richieste per la sopravvivenza di un vertebrato acquatico.
Dapprincipio assicura un’informazione sulla modificazione dell’ambiente esterno, informandolo sulla preda o sul
predatore possibile, così come sulle costrizioni fisiche dell’ambiente esterno: gli oggetti solidi, come ad esempio le
rocce, possono ferirlo. Avvicinare l’animale alla preda o fuggire dal predatore o dal pericolo, non necessita che di una
sensazione locale (contatto, odore, rumore, luce) che si diffonde all’intero animale, senza che sia necessaria un’analisi
di tale sensazione. L’allarme è sufficiente senza che sia necessaria l’analisi del pericolo o del tipo di nutrimento.[….].
Inoltre, il più semplice dei vertebrati deve essere capace, per sopravvivere, di mantenere il suo equilibrio interno
fisiochimico. Il più semplice dei vertebrati viventi, la larva della lampreda, non ha dei vasi sanguigni nel suo sistema
nervoso centrale, il cilindro nervoso o nevrasse è in contatto diretto con i liquidi corporei sia verso l’esterno sia verso
l’interno del nevrasse. Queste cellule analizzano la composizione fisiochimica dei liquidi corporei ai quali esse sono
esposte. Esse devono mantenere la costanza dell’ambiente interno grazie, ad esempio a dei messaggi che spingono
l’animale a mangiare o ad arrestarsi dal mangiare, a seconda dei casi. Mantenere l’animale in equilibrio di fronte
all’ambiente esterno così come verso l’equilibrio interno può essere realizzato tramite la convergenza di fibre recettrici
periferiche e un sistema reticolare centrale. L’osservazione mostra che il sistema centrale somatosensoriale del pesce
primitivo è costituito proprio così.[.…].Ciò prova bene che un sistema nervoso centrale reticolare, malgrado l’assenza di
specificità delle sue connessioni, è tuttavia capace di realizzare dei comportamenti integrativi.” J. Lerminiaux, Gli
organizzatori dello psichismo,cit., pp 1 – 2.
36
La formazione reticolare, nell’organizzazione funzionale del cervello, è distribuita nel midollo spinale, nel midollo
allungato, nel mesencefalo nel diencefalo e nella corteccia ed è chiamata: sistema reticolare ascendente o formazione
reticolare attivatrice. Altre fibre della formazione reticolare vanno in direzione opposta: cominciano nelle strutture
nervose più alte del neocortex, dell’archicortex e dei nuclei talamici e si dirigono nelle strutture più basse del
mesencefalo, dell’ipotalamo e del tronco cerebrale. Queste strutture sono chiamate sistema reticolare discendente e,
come hanno mostrato successive osservazioni, permettono un’attività modulatrice sulle strutture più basse.
“La formazione reticolare attivatrice è la parte più importante della prima unità funzionale del cervello.[…].Come è
noto, il sistema nervoso esibisce sempre un certo tono d’attività, e il mantenimento di questo tono è una caratteristica
essenziale di tutte le attività biologiche. Esistono, tuttavia, situazioni in cui questo tono è insufficiente e deve essere
22
importanti funzioni organiche di riparazione, sostituzione, ricambio, digestione, assimilazione,
eliminazione, ecc., che si compiono al di sotto del livello di consapevolezza.
Questo cervello ha immagazzinato ogni esperienza dei nostri antenati, dalle forme di vita più
elementari sino al presente stadio di sviluppo. Ogni istinto degli animali antichi ha lasciato tracce in
questo cervello, esse possono riaffiorare sotto la pressione di circostanze particolari scatenando
reazioni violente d’attacco o difesa. Questo è il cervello degli istinti o emotività elementare
automatica. Negli animali inferiori esso è il servomeccanismo (meccanismo automatico) che attiva
i comportamenti istintivi, ma esso agisce anche nei vertebrati superiori e nell’uomo. “Ciò significa
dunque che noi portiamo ancora, nel nostro cervello umano che riteniamo così nobile, gli istinti
animali che sono comuni ai mammiferi o ai rettili, o agli esseri ancora più primitivi. Sono gli strati
antichi dell’evoluzione, sempre presenti e operanti. Dei veri fossili viventi, che premono dal basso
con i loro istinti.
Ma perché sono ancora presenti? Perché questi istinti sono sempre stati essenziali (nel corso delle
varie tappe evolutive) per la conservazione della vita e per la riproduzione: senza di essi i nostri
progenitori non avrebbero potuto sopravvivere e moltiplicarsi. Questa capacità di reagire
all’ambiente faceva parte del patrimonio genetico, ed è stata trasmessa nel corso delle generazioni.
Noi stessi continuiamo a usufruirne, in ogni istante della nostra vita: basti pensare, infatti, che oltre
alle emozioni legate a questi istinti primari (come paura, odio, sonno, amore, rabbia ecc.) siamo
innalzato. Queste situazioni sono le fonti primarie d’attivazione. Si possono distinguere almeno tre fonti principali di
attivazione; l’azione di ciascuna di esse è trasmessa attraverso la formazione reticolare attivatrice e, più precisamente,
per mezzo delle sue varie parti.[…]. La prima di queste fonti comprende i processi metabolici dell’organismo o come
sono qualche volta chiamati, la sua ‘economia interna’. I processi metabolici che portano al mantenimento
dell’equilibrio interno dell’organismo (omeostasi) nelle loro forme più semplici sono connessi con i processi respiratori
e digestivi, con il metabolismo degli zuccheri e delle proteine, con la secrezione interna, e così via; essi sono tutti
principalmente regolati dall’ipotalamo. La formazione reticolare del midollo (bulbare) e del mesencefalo (mesencefaloipotalamica) strettamente connessa con l’ipotalamo, gioca un ruolo importante nelle forme d’attivazione più semplici e
‘vitali’. Forme più complesse di questo tipo di attivazione sono connessi con i processi metabolici organizzati in certi
sistemi comportamentali innati; sono largamente noti come sistemi istintivi (o riflessi incondizionati) per la regolazione
del cibo e del comportamento sessuale.[…]. La seconda fonte di attivazione ha un’origine completamente diversa. È
connessa con l’arrivo sul corpo degli stimoli provenienti dal mondo esterno e porta alla produzione di forme
completamente diverse d’attivazione, che si manifestano come un riflesso d’orientamento. È quindi perfettamente
naturale che esistano nel cervello speciali meccanismi che provvedono ad una forma tonica d’attivazione e, in
particolare, nelle strutture della formazione reticolare, che usano come loro fonte l’afflusso d’eccitazione proveniente
dagli organi di senso e che possiedono un’intensità pari a quella della fonte d’attivazione appena nominata” A. R. Luria,
Come lavora il cervello. Introduzione alla neuropsicologia, Società editrice il Mulino, Bologna 1977, pp. 61 – 64.
23
permeati anche di istinti ancora i più inconsci; quelli per esempio del neonato, che comincia
improvvisamente a respirare senza che nessuno glielo abbia mai insegnato, o che ha già il riflesso
prensile, o quello di succhiare, o addirittura di camminare. Gli istinti sono « memorie » genetiche,
codificate dal DNA. Appartengono alla stessa categoria di « memorie » che fanno sì che l’uomo
possieda due mani, venti dita, trentadue denti e un solo naso. E fanno sì che il nostro cuore sappia
battere, le unghie crescere, le ghiandole secernere o i reni depurare, al di fuori della nostra volontà e
senza apprendimento. Sono meccanismi vitali innati, che ci danno la capacità di reagire bene con
l’ambiente e quindi di sopravvivere; un talento antichissimo, che si è arricchito nel corso di miliardi
di anni, modificandosi con l’evoluzione.
Non dobbiamo quindi stupirci se questi istinti, che appaiono così complessi, sono già innati:
ricordiamo che il principio, nell’essere unicellulare o nell'uomo, è sostanzialmente lo stesso.”
37
Negli animali superiori il cervello rettile diventa il servomeccanismo alla base di processi
neurologici superiori.38
Il cervello rettile domina il comportamento umano dalla nascita ai sette-otto mesi. In questa fase
della vita il bambino sviluppa i suoi primi movimenti organizzati (motricità, es. lo striscio). Egli è
molto attento alle sensazioni che vengono dal suo corpo e da quello delle persone che entrano in
contatto con lui, agli stimoli visivi e sensoriali in genere. 39 Queste sensazioni sono vissute dal
37
P. Angela, L’uomo e la marionetta, Garzanti Editore, Milano 1981, pp. 156 –157.
“Ci rimane da esaminare, a grandi linee, la terza, e forse la piu interessante, fonte di attivazione, in cui l’unità
funzionale del cervello che ho appena descritto (formazione reticolare) gioca la parte più stretta, benché non sia la sola
struttura cerebrale connessa nella sua organizzazione. I processi metabolici o l’afflusso diretto d’informazione non sono
le sole fonti dell’attività umana ad evocare un riflesso d’orientamento.[…]. Finora, quando ho discusso i meccanismi di
funzionamento della prima unità funzionale, ho considerato le connessioni ascendenti del sistema reticolare attivatore.
Tuttavia, ho ricordato che esistono anche connessioni discendenti tra la corteccia e le formazioni più basse: sono queste
connessioni che trasmettono l’influenza regolatrice della corteccia sulle strutture inferiori del tronco cerebrale e che
costituiscono il meccanismo per mezzo del quale le configurazioni funzionali di eccitazione, che nascono nella
corteccia reclutano i sistemi della formazione reticolare del «vecchio» cervello e ricevono da essa la loro carica di
energia.[…].Le fibre discendenti, che corrono dalla corteccia prefrontale (orbitale e mediale) ai nuclei del talamo e del
tronco cerebrale, formano un sistema per mezzo del quale i livelli più alti della corteccia, che partecipano direttamente
alla formazione delle intenzioni e dei piani, reclutano i sistemi più bassi della formazione reticolare del talamo e del
tronco cerebrale, modulandone perciò il funzionamento e rendendo possibili le forme più complesse dell’attività
cosciente.” A. R. Luria, Come lavora il cervello. Introduzione alla neuropsicologia, cit., pp. 66 – 68.
39
L’attenzione elementare e involontaria permette agli esseri viventi d’essere presenti e di reagire agli stimoli
ambientali. Essa è da me definita risonanza elementare poiché, più che un atto passivo di ricezione sensoriale, è “una
sensazione locale (contatto, odore, rumore, luce) che si diffonde all’intero animale.” (J. Lerminiaux). La risonanza
elementare è quel fenomeno che tras-forma l’essere vivente nel momento stesso in cui entra in contatto con lo stimolo
esterno o due esseri che vengono in contatto tra loro. Utilizzando un’immagine metaforica in fisica la risonanza è quel
38
24
bambino quale reazione corporea immediata allo stimolo, che gli permette di adattarsi alle
situazioni e persone dell’ambiente in una particolare ‘danza tonica’ (risonanza).40 Il bambino
vive tutto al presente: non appena gli stimoli cessano, le reazioni corporee si placano. 41
Anche nell’uomo il cervello rettile è il cervello delle reazioni istintive: quando viviamo una
situazione che ‘sentiamo’ o ‘interpretiamo’ come minacciosa, questo cervello allerta tutto
l’organismo con le reazioni tipiche di fuga o attacco e le reazioni ormonali proprie della paura. La
reazione di questo cervello, immediata ed inconscia, ci salva la vita se un’automobile
improvvisamente sta per piombarci addosso, prima che i circuiti cerebrali superiori e consapevoli,
ma più lenti, diventino coscienti dell’accaduto e possano reagire. Le nostre reazioni automatiche
fenomeno per il quale se avviciniamo un diapason 125 che vibra ad un altro diapason 125, anche quest’ultimo inizia a
vibrare. Negli esseri viventi la risonanza è attivata dagli stimoli sensoriali e dalle loro più piccole variazioni
biologicamente significative, infatti essa permette l’adattamento ai cambiamenti delle situazioni esterne e le reazioni
fisiologiche e motorie necessarie.
“La risonanza è alla base dei processi attentivi: per esempio può essere osservata sin dalle prime settimane di sviluppo
del bambino con comportamenti organizzati definiti da Pavlov riflessi d’orientamento. In una prima fase si ha una
reazione di risveglio del bambino ad uno stimolo, quando il piccolo è sveglio fissa lo stimolo esterno e successivamente
inizia un’attiva ricerca dello stimolo stesso. Cessano movimenti ritmici di suzione, si hanno cambiamenti nella
frequenza respiratoria, vaso-costrizione periferica e dilatazione dei vasi della testa. Attraverso misurazioni
elettrofisiologiche si osserva inibizione del ritmo alfa e rafforzamento dei potenziali evocati. Luria riporta studi sul
complesso di risposte del riflesso di orientamento fatti da Sokolov 1960 e Vinogradova 1959, i quali dimostrano che le
manifestazioni della risposta di orientamento precedono la risposta specifica (ad esempio, costrizione dei vasi sanguigni
in risposta al caldo e loro dilatazione in risposta al freddo) e sono condizioni essenziali per la formazione di un riflesso
condizionato. Esse, quindi, pre-parano l’organismo. La reazione di orientamento è inoltre molto direttiva e selettiva in
quanto è attivata da ogni piccola variazione sensoriale e si disattiva solo quando lo stimolo è ripetuto nel tempo, per un
processo di adattamento, per cui è alla base di comportamenti organizzati, direttivi e selettivi.” Cfr. Ibidem, pp. 285 –
286.
40
“Studi effettuati sul canto degli uccelli e successivamente suffragati da ricerche sull’uomo spiegano i modelli secondo
cui il SNC percepisce i suoni ed i movimenti. Utilizzando complicate tecniche di elettrofisiologia, che consentono di
registrare con dei sottili elettrodi l’attività delle cellule nervose, si è visto che nei soggetti in esame si ha l’immediata
attivazione di aree cerebrali arcaiche (in circa 10 millesimi di secondo) e subito dopo (60 millisecondi) si attivano le
aree motorie (fonatorie o di movimento) corrispondenti al suono o al gesto osservato. Il SNC mette in relazione il suono
o il movimento che ha appena percepito con lo schema motorio che serve a produrre lo stesso suono, fonema o
movimento. Se queste aree motorie vengono distrutte il soggetto perde non soltanto la possibilità di eseguire quegli
stessi suoni o movimenti, ma anche quella di comprenderla.” A. Oliviero, I mattoni del linguaggio, in “Scienza e
Dossier”, (1986), n.8, pp. 60-62.
Questi studi evidenziano una tra le più importanti funzioni del C. rettile, quella di permettere all’essere vivente di
entrare in ‘risonanza tonico – motoria’ con gli stimoli che provengono dall’ambiente, favorendo così l’adattamanto, la
relazione e l’apprendimento inconsapevole. Quando maturano l’area pre-frontale della cosapevolezza (LeDoux) e le vie
di collegamento di questa con le aree attivatrici ed emozionali (formazione reticolare discendente) la risonanza può
diventare consapevole.
41
E’ tipica la reazione del bambino di due mesi che risponde con il sorriso ad un volto in movimento (Cfr R. A. Spitz, Il
primo anno di vita, Editore Armando Armando, Roma 1975), oppure il disagio fisico che il piccolo manifesta se tenuto
in braccio da una persona spaventata o in tensione.
25
agli stimoli interni od esterni hanno origine qui.
42
Esse hanno il potere di sequestrare gli aspetti
superiori della coscienza se gli stimoli che riceviamo sono vissuti (o interpretati) come pericolosi.43
4) Il secondo cervello che si è sviluppato filogeneticamente è il paleomammifero. Esso contiene il
mesencefalo e il sistema limbico che avvolgono il cervello rettile. In particolare la maturazione
dell’amigdala prima (nucleo che attiva le reazioni emotive) e dell’ippocampo (preposto alla
memoria) verso i sette - otto mesi di vita del bambino, permettono lo sviluppo di nuove capacità: la
memoria e l’affettività.44
200 milioni d’anni fa, quando la terra era abitata dai grandi rettili, i dinosauri, fecero la comparsa i
nostri pro-genitori: i protomammiferi. Questi piccoli animali, simili a ratti, erano costretti a vivere
nel buio del sottobosco, in piccole caverne o di notte per evitare d’essere facili prede dei giganteschi
cugini, i dinosauri. In queste difficili condizioni ambientali il livello d’attenzione dei piccoli
mammiferi agli stimoli ambientali doveva essere molto alto ed essi svilupparono la capacità di riconoscere ciò che entrava in contatto con il loro corpo, gli stimoli sonori, gli odori, e ciò che
potevano manipolare al buio per capire se erano alla presenza di pericolo o di cibo. 45 E’ la
comparsa della capacità di costruire (o ricostruire) immagini mentali dalle esperienze vissute
(memoria), e le reazioni emotive corrispondenti: se il mammifero percepisce uno stimolo per
42
“ L’evoluzione potrebbe andare nel senso di rendere più veloce la cognizione, e il pensiero potrebbe così precedere
sempre l’azione ed eliminare dal repertorio comportamentale le azioni involontarie. Il costo però sarebbe altissimo. Ci
sono molte cose alle quali è meglio non pensare affatto: mettere un piede davanti all’altro, sbattere le palpebre quando
un oggetto si avvicina ai nostri occhi, calciare con l’angolazione giusta il pallone in porta, inserire il soggetto e il verbo
al posto giusto nella frase mentre parliamo, rispondere prontamente e adeguatamente al pericolo e così via. Le funzioni
comportamentali e mentali rallenterebbero in modo esasperante se ogni risposta dovesse essere preceduta dal pensiero.”
J. LeDoux, Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni, cit, pp. 183.
43
Cfr. D. Goleman, Intelligenza emotiva, RCS Libri, Milano (1999).
“ La ricerca di LeDoux e di altri neuroscienziati sembra ora indicare che l’ippocampo – per lungo tempo considerato
la struttura chiave del sistema limbico – è coinvolto nella registrazione e nella comprensione degli schemi percettivi più
che non nelle reazioni emotive. La principale funzione dell’ippocampo sta nel fornire un ricordo particolareggiato del
contesto, vitale per il significato emozionale; è l’ippocampo che riconosce il diverso significato, tanto per fare un
esempio, di un orso visto allo zoo o nel cortile di casa. Mentre l’ippocampo ricorda i fatti nudi e crudi, l’amigdala ne
trattiene, per così dire, il sapore emozionale. Se cercate di sorpassare una macchina su una strada a doppio senso di
marcia ed evitate per poco una collisione frontale, l’ippocampo ricorderà le specifiche dell’incidente, ad esempio su
quale tratto di strada vi trovavate, chi era con voi e l’aspetto dell’altra auto. Ma sarà l’amigdala che da quel momento in
poi vi farà sentire ansiosi ogni volta che cercherete di sorpassare in cicostanze simili. Come mi spiegò Le Doux:
‘L’ippocampo è fondamentale per riconoscere in un volto quello di tua cugina. Ma è l’amigdala ad aggiungere che ti è
proprio antipatica.” Ibidem, pp. 38 – 40.
45
“Questo indica che nel cervello mammifero è presente un’iniziale capacità d’analisi e di cogliere l’analogia.” J.
Lerminiaux, Gli organizzatori dello psichismo,cit., p. 18.
44
26
esempio un suono, un rumore o tocca qualcosa già incontrato in precedenza, attiva tutta una serie di
reazioni corporee (reazioni emotive che originano dall’immagine costruita sull’esperienza passata e
non dalla percezione presente). Il ricordo, quindi, modifica il movimento (emotività reattiva). I
mammiferi vanno oltre le reazioni istintive immediate dei rettili, perché hanno la possibilità di
apprendere dall’esperienza (ritenerla in memoria) ed agire di conseguenza: il loro comportamento è
arricchito dall’esperienza, ma anche condizionato da essa.
La memoria permette il riconoscimento della prole e, quindi, la possibilità di allevare i piccoli;
favorisce i raggruppamenti tra membri della stessa specie e le reazioni di difesa da pericoli esterni al
gruppo.
Lo sviluppo della capacità di ritenere in memoria e di ri-conoscere fa si che il bambino manifesti
angoscia alla presenza dell’estraneo, egli riconosce e cerca volti noti (angoscia dell’ottavo mese,
Spiz R.).46
La relazione del bambino con il suo ambiente non è semplicemente tonica
(attivazione agli stimoli ambientali, c. rettile, risonanza elementare), ma tonico-emozionale (lo
stimolo suscita il ricordo di situazioni simili e il corpo si pre-para): per esempio quando la
mamma prepara il biberon, il bambino capisce che è il momento della pappa e si pre-dispone a
riceverla (si sviluppa la capacità di anticipare gli eventi). 47 Il piccolo riconosce non solo la
persona, ma anche la sua disponibilità alla relazione. Egli ha memorizzato in situazioni
precedenti lo stato d’animo della madre corrispondente a quel tipo di tono muscolare, a quel
modo di muoversi, ecc. Attraverso gli indicatori fisiologici (le reazioni fisiche ed ormonali che
manifestano a livello ‘fisico’ la tensione emotiva) il bambino ‘sente’ quello che il genitore vive
durante l’approccio con lui o con l’ambiente. Questa tensione e le sue variazioni sono ‘registrate’
dal bambino attraverso i recettori cutanei e muscolari durante il contatto corporeo (attraverso la
46
Cfr. R. A. Spitz, Il primo anno di vita,cit.
“ Il bambino non reagisce unicamente in funzione della situazione presente, ma il suo comportamento è composto da
‘un’altra scena’ interiore che non può essere spiegata che tramite la presenza di immagini interiori non necessariamente
coscienti.” J. Lerminiaux, Gli organizzatori dello psichismo,cit., p. 17.
47
27
sensibilità tattile, le tensioni muscolari, la respirazione, il ritmo cardiaco, ecc.). 48 Queste
modificazioni toniche sono memorizzate (cervello mammifero, emozionale) assieme alle risposte
motorie e viscerali che hanno suscitato nel bambino. Il piccolo associa al gesto fatto con un certo
tono, velocità, ecc., di chi lo accudisce, la connotazione emotiva, sia essa positiva o negativa,
che ha sperimentato nelle precedenti esperienze: cioè se quel gesto specifico ha soddisfatto o
meno il suo bisogno biologico-psicologico. In questo periodo, quindi, inizia l’apprendimento
emotivo e il gesto si carica di affettività.
Wallon sostiene, infatti, che l’affettività origina da quel particolare legame tra il gesto, il tono
muscolare e il ricordo del benessere fisiologico che esso ha procurato (in seguito il solo gesto è
sufficiente a richiamare lo stato di benessere o malessere).49 Il vissuto emotivo trasmesso
dall’adulto al bambino in modo non consapevole attraverso i cambiamenti fisiologici
dell’organismo è appreso in modo acritico e rimane nella memoria inconscia del bambino poiché
non sono ancora mature le aree corticali e i lobi frontali (della consapevolezza).
La memoria trasforma la motricità (movimento organizzato) in psicomotricità: il bambino ha la
possibilità di introiettare (memorizzare) le sensazioni che vive durante il movimento (egli ha
48
“Pensieri e sensazioni vengono spesso comunicati per via non verbale, mediante movimenti del corpo. Lo studio di
questa materia è detto cinestetica. La cinestetica si occupa della scoperta dei continui adattamenti che costantemente
impegnano l’individuo, non sempre consapevole, in rapporto alla presenza e alle attività di altri individui. Il massimo
studioso americano di cinestetica, Ray L. Birdwhistell, è convinto che il comportamento cinestetico venga appreso e sia
sistematico e analizzabile. ‘Questo’ dice, ‘non nega la base biologica del comportamento, ma sottolinea gli aspetti
interpersonali, più che quelli espressivi, del comportamento cinestetico’. Proprio nel rapporto interpersonale con la
madre, per via esterocettiva e propriocettiva, [...]il bambino stabilisce i suoi primi scambi comunicativi.” A. Montagu,
Il linguaggio della pelle, Garzanti Editore, Milano 1989, p. 92.
49
“In rapporto con i suoi bisogni elementari (bisogno di essere nutrito, ma anche di essere cullato, girato su un fianco,
etc.) il bambino stabilisce le sue prime relazioni le quali divengono veramente importanti verso i 6 mesi. In questo
stadio, il bambino ha necessità tanto di cure materne quanto di essere l’oggetto di manifestazioni propriamente affettive
da parte del suo ambiente. Egli ha bisogno di manifestazioni di tenerezza (carezze, cullate, parole, risa, baci, abbracci),
che sono, d’altra parte, generalmente le manifestazioni spontanee dell’amore materno. Oltre le cure, da cui trae
beneficio, il bambino reclama in questo momento delle intenzioni d’affetto, degli scambi di per se affettuosi.
L’emozione domina, dunque, secondo H. Wallon, tutti i rapporti del bambino con il suo ambiente: egli non trae
solamente delle emozioni dall’ambiente circostante, ma tende a condividerle con il suo o con i suoi partner adulti. Per
questo H. Wallon parla di simbiosi, poiche il bambino è una sola cosa con il suo ambiente, di cui condivide le emozioni,
in tutte le sfumature, siano esse di gioia o di angoscia.” J. De Ajuriaguerra, Manuale di psichiatria del bambino,
Masson Italia Editori, Milano 1979, p.33.
“È H. Wallon che con la sua vasta opera dà l’avvio a questi interessanti studi, il cui obiettivo è di unificare il biologico
con il mentale. Tutta la sua produzione è basata sulla nozione fondamentale di unità funzionale, di unità biologica della
persona umana in cui psichismo e motilità non costituiscono più due campi distinti o giustapposti, ma rappresentano
l’espressione dei rapporti reali dell’essere e dell’ambiente. I presupposti dell’armonica evoluzione dell’intera
personalità umana risiedono, quindi, nel movimento, nella sua ontogenesi, iniziata sin dai primi mesi di vita intrauterina; il movimento prefigura le diverse direzioni che potrà prendere l’attività psichica.” C. Romano, Corpo itinerario
possibile. Una metodologia di formazione per gli insegnanti,cit. p.20.
28
l’immagine dello sforzo e del tempo che occorrono per raggiungere un oggetto; il senso dello spazio
e del tempo nascono in questo periodo - Lerminiaux). Da questo momento l’azione è
condizionata dall’esperienza passata, dall’immagine del mondo che ci siamo costruiti (punto di
vista personale o posizionamento rispetto all’esperienza). Attraverso quest’immagine noi
interpretiamo le esperienze future.
5) La scomparsa dei dinosauri permette ai mammiferi di vivere all’aperto in grandi praterie.
Alcuni di essi sono scimmie dal cervello sviluppato (corteccia cerebrale). Queste assumono la
posizione eretta che favorisce una percezione più ampia e l’analisi del territorio per individuare la
preda o il predatore, permettendo di sviluppare strategie di caccia. Questi neo-mammiferi utilizzano
sempre più i sensi a distanza (vista ed udito) nella lotta quotidiana per la sopravvivenza.
“L’appartenenza a piccoli branchi facilita la comunicazione attraverso
segni corporei (gesti e mimica diventano significativi). Nasce la
trasmissione di rudimentali regole sociali utili per la sopravvivenza del
gruppo.” 50
Trascorrono milioni d’anni, i nostri pro-genitori migliorano la vita attraverso l’uso di strumenti
manuali (la stazione eretta permette di avere le mani disponibili). Si formano gruppi sempre più
numerosi, che richiedono regole sociali complesse e l’uso del linguaggio per poter meglio
comunicare (maturazione delle aree cerebrali del linguaggio). Si sviluppa l’apprendimento e la
tradizione: all’interno di gruppi numerosi vi è la specializzazione di compiti e ruoli ben precisi che
sono tramandati alla prole.
La motricità diventa abilità nel costruire e nell’inventare strumenti sempre più perfezionati che
diventano un’estensione dei sensi e delle capacità manuali.
La sopravvivenza del gruppo è resa possibile dalla capacità di riconoscere le intenzioni di uno
sconosciuto quando si avvicina ad esso. Questa capacità di comprendere le intenzioni dell’altro
50
J. Lerminiaux. Gli organizzatori dello psichismo, cit., p. 28.
29
attraverso la gestualità è fondamentale per i cacciatori preistorici, quando capirsi con “un’occhiata”
può fare la differenza tra la vita e la morte.
La maturazione delle aree corticali frontali, e lo sviluppo ulteriore della corteccia, permettono agli
individui di anticipare mentalmente il risultato delle loro opere e di elaborare la conoscenza.51 Il
movimento può essere immaginato senza l’esperienza fisica diretta e diventa movimento
concettualizzato (psichico): movimento interiorizzato alla base delle emozioni e del pensiero.
L’uomo va oltre la realtà concreta che conosce, egli elabora, immagina e costruisce il futuro
(inventa l’immagine del futuro).
Il bambino sviluppa gradualmente queste tappe nella sua ontogenesi: l’acquisizione della stazione
eretta intorno ai dodici-quindici mesi è la conquista dello spazio e dell’autonomia. Egli ha la
possibilità di esplorare esponendosi a pericoli che aumentano l’ansia e i divieti dell’ambiente, di cui
non comprende il senso. La sua gestualità si arricchisce di significato relazionale ed emotivo, egli
può imitare con il gesto un oggetto o una persona assente comportandosi ‘come se’ fosse presente
(linguaggio analogico, corporeo). Il bambino può sottrarsi alle situazioni sgradevoli attraverso
l’autonomia di movimento acquisita, ed impara ad opporre il rifiuto (prima fase d’opposizione,
Spitz).
La successiva comparsa del linguaggio verbale (digitale) e di livelli d’attenzione superiori, verso i
due-tre anni, permette al bambino di entrare nel mondo umano della comunicazione, delle regole
familiari, sociali e dell’apprendimento.52 La parola si sostituisce sempre più al gesto e all’oggetto:
51
“L’homo erectus prima e l’homo sapiens poi, avevano bisogno dell’astrazione che gli permetteva di estrapolare da
una situazione dei dati utili al fine di risolvere delle difficoltà, prevedendo ciò che era possibile.” Ibidem., p. 31
52
Vygotskij riconosce un’origine sociale alle forme d’attenzione superiori. Egli sostiene che l’attenzione volontaria
(risonanza attiva) si distingue dalle elementari reazioni d’orientamento poiché essa non è di natura biologica, ma
sociale, e che questo può essere spiegato con l’introduzione di fattori che sono il prodotto non solo della maturazione
biologica, ma di quelle forme d’attività create nel bambino durante le sue relazioni con gli adulti: quando la madre
nomina un oggetto e lo indica con un dito, l’attenzione del bambino è attratta dall’oggetto, mettendo da parte gli altri
stimoli. La direzione dell’attenzione del bambino, ottenuta con la comunicazione sociale, parole e gesti, segna uno
stadio di fondamentale importanza nello sviluppo dell’organizzazione sociale dell’attenzione. Più tardi provocherà la
nascita di un tipo d’attenzione più complessa, l’attenzione volontaria (risonanza consapevole): con lo sviluppo del
linguaggio il bambino impara a nominare gli oggetti da solo distinguendoli dal resto dell’ambiente e dirigendo la
propria attenzione. La funzione che prima era svolta nella relazione con il genitore, ora diventa un modo di
organizzazione interna dei processi psicologici. Dall’attenzione esterna, socialmente organizzata, si sviluppa
l’attenzione volontaria del bambino che diventa un processo interno d’autoregolazione. Cfr. L. S. Vygotskij, Storia
dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori e altri scritti, Giunti_Barbera, Firenze 1974.
30
ad esempio il bambino può dire acqua per richiamare qualcosa che gli manca, ma di cui ha
l’immagine mentale. Egli può utilizzare la parola al posto del gesto e dire bacio per intendere
l’azione. Queste acquisizioni permettono al bambino più grande (verso i cinque-sei anni) di
accedere al pensiero astratto e di giocare con le immagini mentali (maturazione dei lobi frontali), ad
esempio egli può immaginare un cavallo alato. La possibilità di spaziare tra le esperienze e di
costruirne di nuove proietta l’uomo oltre la dimensione del bisogno immediato. Egli accede alla
dimensione umana della Scienza, dell’Arte e della Religione.53
In questa fase l’uomo diviene consapevole dei suoi stati emotivi: i sentimenti (maturano le vie di
collegamento tra cervello mammifero-‘emotivo’ e cervello umano-‘consapevolezza’).54 La sua
consapevolezza può includere anche i sentimenti che provano altre persone, attraverso lo sviluppo
dei ‘neuroni a specchio’ nell’area di Broca.55 La risonanza tonico muscolare del cervello rettile e
I termini in corsivo e tra parentesi sono stati aggiunti da me per sottolineare lo sviluppo del fenomeno della risonanza
che attiva e permette i livelli di attenzione superiori descritti da Vygotskij.
53
Cfr.J. Lerminiaux. Gli organizzatori dello psichismo, cit., p 31.
Il progresso verso il pensiero astratto non deve far dimenticare all’uomo il passato e la sua natura biologica ed
emozionale, questa spesso condiziona alla base le sue scelte. Questa è la sua origine e non il lato ‘oscuro’. Solo
attraverso la conoscenza e il rispetto della sua natura biologico-emozionale l’uomo può avere una base reale e solida per
i suoi Progetti. In caso contrario rischiamo l’alienazione e l’interferenza da parte di ciò che abbiamo negato nel nostro
cammino.
54
“In particolare la maturazione delle aree corticali pre-frontali, che sono in stretto collegamento con le aree emozionali
sottocorticali (cervello limbico ed in particolare l’amigdala), permettono al bambino di essere consapevole dei propri
stati d’animo, cioè di provare dei sentimenti su se stesso.” J. LeDoux, Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni,
cit., pp. 306.
55
“Se interpretiamo correttamente le intenzioni degli altri è proprio grazie ai neuroni-specchio, di cui solo i primati
(uomo e scimmie) sembrano essere dotati. L’esistenza di queste cellule nervose è stata scoperta da un gruppo di
ricercatori dell'Università di Parma: Giacomo Rizzolatti, direttore dell'Istituto di Fisiologia umana della Facoltà di
Medicina, Vittorio Gallese, docente di Fisiologia umana, Leonardo Fogassi, docente di Neuroanatomia e
Neurofisiologia e Luciano Fadiga, che attualmente insegna Fisiologia umana all’Università di Ferrara.[…]. ‘L’esistenza
di questo sistema è stata dimostrata per la prima volta applicando stimoli magnetici alla corteccia motoria di alcuni
volontari durante l’osservazione di varie azioni compiute da altri.’, racconta Luciano Fadiga, che ha effettuato lo studio
sull’uomo in collaborazione con i colleghi Giovanni Pavesi e Giacomo Rizzolatti. ‘Contemporaneamente registravamo i
potenziali elettrici evocati dagli stimoli visivi nei muscoli dell’arto superiore’. I potenziali aumentavano quando il
muscolo entrava in attività. ‘Abbiamo così scoperto, per esempio, che se il volontario osservava un movimento di
chiusura delle dita su un oggetto, le registrazioni dei potenziali elettrici evocati nei muscoli della sua mano necessari a
compiere lo stesso gesto subivano un forte incremento.’, spiega Fadiga. ‘Era come se l’osservatore replicasse
internamente l’azione osservata.’[…].L’area di Broca è considerata responsabile del linguaggio, ma non solo. Come
dimostrano immagini ottenute con la PET (tomografia a emissione di positroni, un esame che consente di fotografare le
varie aree del cervello al lavoro), quest’area è coinvolta nell’esecuzione di movimenti che s’immagina di eseguire.
Addirittura, questa struttura si attiva anche in persone che hanno subito lesioni cerebrali, quando cercano di muovere
una mano paralizzata.[…]. I neuroni specchio sembrano avere un ruolo fondamentale non solo a livello motorio, ma
anche nello sviluppo del linguaggio e di ogni altra forma di comunicazione consapevole.[…]. Esperimenti compiuti
all’Università di Parma, all’University of Southern California e alla Los Angeles School of Medicine confermano che il
sistema specchio nell’uomo si trova in una regione del cervello dietro la tempia, sul lato sinistro, che comprende l’area
del linguaggio.[…]. Le lesioni dell’area di Broca non solo provocano afasia (incapacità a parlare), ma impediscono
anche di decodificare le espressioni del viso o la mimica.[…]. Ad un gesto possiamo attribuire intenzioni, desideri e
31
quella tonico emozionale dei mammiferi si trasformano in consapevolezza (sentimenti) ed
empatia nell’uomo: la capacità di ‘cogliere’ e ‘condividere’ stati emotivi propri e d’altre persone,
di ‘sentire ciò che l’altro sente’.56
Nell’adulto l’empatia può essere negata o razionalizzata per evitare il coinvolgimento emotivo, ma
in ogni caso essa è percepita inconsciamente dai cervelli più antichi attraverso gli indicatori
fisiologici (per risonanza).
Gli accenni alla filogenesi ed ontogenesi permettono di rilevare alcuni elementi di riflessione
sull’emotività.
Milioni d’anni or sono, quando i nostri antenati animali dovevano sopravvivere nella giungla, era
necessario avere un meccanismo di lotta o fuga dall’efficacia immediata (cervello rettile, attivatore).
Quando si era assaliti da un predatore, le reazioni emotive automatiche (istintive) potevano salvare
la vita. La sopravvivenza esigeva l’immediata dominazione della coscienza, per affrontare i pericoli
(Goleman). Con l’evolversi delle specie, la nascita dei primi raggruppamenti e delle prime città
(circa 10.000 anni addietro), la sopravvivenza cessò di dipendere dalla reazione istantanea di lotta o
fuga. Essa dipendeva dalla capacità di entrare in sintonia con gli altri, e con se stessi per il benessere
di tutti: l’empatia. Ma il nostro SNC è ancora programmato per la lotta o la fuga come se
fossimo nella giungla. Abbiamo comportamenti abnormi di collera o paura, con tutte le
reazioni fisiologiche ed ormonali tipiche di questi stati. Nelle nostre relazioni sociali, la
coscienza ingigantisce le problematiche e le vive con senso di pericolo costante.
57
Questa
significati che vanno al di là della situazione contingente. È la cosiddetta empatia, la capacità di ‘sentire insieme’,
condividere gioie e dolori altrui, commuoverci per un film o per una vicenda vera. Ora a queste emozioni può essere
attribuita una base neurobiologica. Gli studi di William Hutchinson, dell’Università di Toronto in Canada, hanno
dimostrato che nel cervello umano esistono neuroni che si attivano non solo quando si prova dolore, ma anche quando
si osserva un altro individuo provare dolore.” G. Rizzolatti, in Quark, (2001), pp. 60-66.
56
Quando vediamo qualcuno che si taglia sentiamo una reazione non volontaria immediata nel nostro corpo, di cui
prendiamo coscienza attraverso le reazioni emozionali fisiologiche che si attivano come se sentissimo noi stessi il
dolore (sentimento). L’empatia sembra, quindi, l’evoluzione consapevole del fenomeno di risonanza: la capacità innata
degli organismi viventi di essere attivati e presenti (essere con) agli stimoli ambientali ed interni.
57
“ I segnali in entrata provenienti dagli organi di senso consentono all’amigdala di analizzare ogni esperienza.[…].
Questo suo ruolo mette l’amigdala in una posizione di grande influenza nella vita mentale, facendone una sorta di
sentinella psicologica che scandaglia ogni situazione e ogni percezione, sempre guidata da un unico interrogativo, il più
primitivo:‘E’ qualcosa che odio? Qualcosa che mi ferisce? Qualcosa che temo? Se la risposta è affermativa[…]
32
continua distorsione distrugge la nostra energia, impedisce spesso di raggiungere gli obiettivi
e lo sviluppo delle nostre potenzialità.58
Il fenomeno di risonanza (la capacità fondamentale per la sopravvivenza d’ogni organismo
vivente di essere attivato e presente agli stimoli ambientali, l’essere con) è alla base delle risposte
istintive (c. rettile), emotive (c. mammifero) ed empatiche (c. umano), ma il modo in cui entriamo
in risonanza con l’ambiente e con gli stimoli specifici può essere alterato da uno stato di allerta
eccessivo dovuto a fattori ambientali, educativi o culturali: se per esempio stiamo per attraversare
una strada molto trafficata il nostro livello di vigilanza, e quindi di risposta agli stimoli, aumenta.
l’amigdala scatta immediatamente, come una sorta di ‘grilletto’ neurale e reagisce telegrafando un messaggio di crisi a
tutte le parti del cervello.[…].Quando scatta l’allarme della paura, ad esempio, l’amigdala invia messaggi d’emergenza
a tutte le parti principali del cervello: stimola la secrezione degli ormoni che innescano la reazione di combattimento o
fuga, mobilita i centri del movimento e attiva il sistema cardiovascolare, i muscoli e l’intestino. Altri circuiti che si
dipartono dall’amigdala segnalano l’ordine di secernere piccole quantità di noradrenalina, un ormone che aumenta la
reattività delle aree chiave del cervello, comprese quelle che rendono più vigili i sensi, mettendolo in uno stato di
allerta. Altri segnali ancora attirano l’attenzione su ciò che ha scatenato la paura e preparano la muscolatura a reagire in
modo appropriato.[…]. La ricerca di Le Doux ha rivoluzionato la nostra comprensione della vita emotiva perché è la
prima ad aver scoperto l’esistenza di vie neurali emozionali che aggirano la neocorteccia. I segnali che prendono la via
diretta passante per l’amigdala corrispondono ai sentimenti più primitivi e potenti; la conoscenza di questo circuito è di
grande aiuto per spiegare la capacità dell’emozione di soffocare la razionalità. Questa scoperta capovolge l’idea
secondo la quale, per formulare le sue reazioni emozionali l’amigdala dipenderebbe totalmente dai segnali provenienti
dalla neocorteccia. Essa può invece innescare una risposta emozionale attraverso questa via d’emergenza.[…]. Con la
sua ricerca sulla paura negli animali, Le Doux rivoluzionò la nostra conoscenza sulle vie percorse nel cervello dai
segnali emozionali. In un esperimento fondamentale, condotto nel ratto, egli distrusse la corteccia uditiva e poi espose
gli animali ad un suono, associandolo alla somministrazione di uno shock elettrico. Ben presto, i ratti impararono a
temere il suono, anche se esso non poteva essere registrato dalla loro neocorteccia, ma prendeva la via diretta
dall’orecchio al talamo all’amigdala, evitando i circuiti superiori. In breve, i ratti avevano appreso una reazione emotiva
senza alcun coinvolgimento da parte dei centri corticali superiori.[…].‘Dal punto di vista anatomico, il sistema
emozionale può agire indipendentemente dalla neocorteccia’ mi disse LeDoux. ‘Alcuni ricordi e reazioni emotive
possono formarsi senza alcuna partecipazione cognitiva cosciente” D. Goleman, Intelligenza emotiva,cit, pp. 35 – 38.
La frase di LeDoux sottolineata è importante per comprendere come l’apprendimento emozionale può influire
inconsciamente sul nostro comportamento determinando reazioni e attitudini automatiche non desiderate se non
s’interviene in modo consapevole sui condizionamenti.
58
“Il rapporto tra antico e nuovo cervello, diceva il professor Mac Lean, si può paragonare al rapporto che vi è tra il cavallo e il cavaliere. A volte il cavallo imbizzarrisce e può disarcionare il cavaliere[…]. Normalmente, però, è il cavaliere che comanda e guida. Sta nella sua capacità (cioè nell’educazione) tener strette le briglie, reggersi bene in sella e
utilizzare le risorse del cavallo.
Un numero sempre crescente di ricerche mette in evidenza il ruolo essenziale del cervello antico, anche nel comportamento quotidiano. Le emozioni primarie, come la paura, l’odio, l’amore, la collera (e anche l’istinto sociativo) ci
fanno agire in continuazione nella vita, anche se non ce ne rendiamo conto. Basti pensare all’influenza che hanno nel
lavoro, in famiglia, nei rapporti con il prossimo. Tutti gli stimoli che giungono dall’esterno mettono in mo to questi
meccanismi, e noi reagiamo in conseguenza, anche se « filtriamo » la nostra risposta attraverso l’educazione ricevuta.”
P. Angela, L’uomo e la marionetta,Garzanti Editore, Milano 1981, p.216.
33
Attraverso il processo educativo impariamo ad accettare o rifiutare certe sensazioni o
comportamenti, diventando più sensibili ad essi.59
Il sistema nervoso reticolare (cervello rettile) agisce da filtro all’infinità di stimoli che riceve
attraverso i sensi. Esso attiva l’organismo in risposta a quelli ritenuti biologicamente significativi.
Con lo sviluppo del cervello mammifero (memoria, emotività) ed umano, questo cervello antico
(rettile) diviene il servo meccanismo delle credenze emotive e culturali: interpretazioni della
realtà che derivano dalle esperienze vissute o indotte (educazione). Per questo motivo possiamo
avere risposte emotive abnormi a stimoli di natura culturale e sociale. I condizionamenti, infatti,
alterano la capacità percettiva dell’individuo, poiché la coscienza è dominata dalle cose che è
programmata a desiderare o temere.60 Essi determinano il nostro particolare punto di vista e
reazioni automatiche secondo schemi di comportamenti appresi durante la storia personale. In
questo stesso modo il bambino perde la capacità istintiva d’ascolto dei suoi bisogni e la sostituisce
con i modelli appresi.
59
“Condizionamento della paura: questa è l’espressione che gli psicologi usano per indicare il processo grazie al quale una
cosa assolutamente innocua finisce per essere temuta in quanto viene associata, nella mente del soggetto, a qualcosa di
spaventoso. Quando queste paure vengono indotte negli animali di laboratorio, osserva Charney, possono durare per anni. Nel
cervello, la struttura chiave che apprende, memorizza e mette in atto queste risposte di paura è il circuito che connette il
talamo, l’amigdala e il lobo prefrontale - quello stesso circuito responsabile dei «sequestri» neurali.
Di solito, quando s’impara a temere qualcosa attraverso il condizionamento, la paura con il tempo svanisce. Questo
fenomeno sembra dovuto a un ri-apprendimento naturale, che ha luogo quando il soggetto si ri-imbatte nell’oggetto
temuto, in assenza di alcunché di veramente spaventoso. Ad esempio, una bambina che abbia acquisito la paura dei cani
perché inseguita da un pastore tedesco ringhiante, a poco a poco e spontaneamente si libererà di quella paura se, ad
esempio, il suo vicino di casa possiede un cane affettuoso e la bimba passa il suo tempo a giocare con lui.” D.
Goleman, Intelligenza emotiva, cit., p. 245.
Quando il trauma è incisivo nel vissuto della persona o le situazioni negative perdurano nel tempo, il condizionamento
si fissa nella mente e si manifesta nel comportamento. Il bambino con problemi psico-neuromotori impara spesso molto
presto ad associare le sue difficoltà alle reazioni emotive negative dell’ambiente, ciò causa un livello elevato di ansia
che esaspera e rende più sensibile il bambino alle sue difficoltà e più problematico il già precario controllo sul
movimento.
60
I vissuti emotivi traumatici comportano un pericoloso abbassamento della soglia neurale che fa scattare l’allarme;
l’individuo reagisce quindi ai normali eventi della vita come se si trattasse d’emergenze. Il circuito neurale inconscio
dell’amigdala sembra fondamentale per le impressioni emotive che vi si depositano in seguito all’impatto di un singolo
episodio traumatico o a vissuti crudeli inflitti nell’arco di anni. Cfr. D. Goleman, Intelligenza emotiva, cit. pp. 240 –
241.
34
Spesso i circuiti più brevi e, quindi, più veloci dei cervelli più antichi impongono reazioni arcaiche
istintive o apprese dai modelli emozionali tipici dell’ambiente, prima ancora che il cervello
consapevole comprenda e possa inibire o contrastare le reazioni che si sono scatenate nel corpo.61
Altre volte sono proprio i cervelli superiori ad attivare reazioni emotive intense, attraverso i
circuiti che dalla corteccia vanno verso il cervello limbico e rettile (formazione reticolare
discendente). Ciò accade quando l’esperienza, i modelli socio-culturali ed educativi impongono
reazioni specifiche alle situazioni (credenze, interpretazioni). In quelle situazioni in cui l’individuo
sente minacciata la sua integrità, il cervello rettile, attivato dai cervelli superiori, mantiene uno stato
di allerta non legato necessariamente a fattori biologici.62
Il Sistema Nervoso Centrale apprende le reazioni agli stimoli interni ed esterni nell’impatto con
l’ambiente. La filogenesi e l’ontogenesi dimostrano che quest’apprendimento (memorie di strategie
risultate efficaci) si trasmette geneticamente, diventando patrimonio delle singole specie viventi: gli
istinti. Nell’uomo l’evoluzione sembra aver privilegiato l’adattabilità e l’apprendimento. La
plasticità del sistema nervoso del bambino permette l’apprendimento condizionando gli schemi
61
“Senza una pronta consapevolezza si esegue ciò che i vecchi sistemi cerebrali fanno a modo loro, anche se
l’intenzione di agire viene dal terzo sistema superiore. Inoltre, l’azione dimostra abbastanza spesso di essere l’esatto
opposto dell’intenzione originale. Ciò accade quando l’intenzione di agire viene dal sistema superiore, il cui legame con
le emozioni è debole, e costringe all’azione i sistemi inferiori, che hanno legami molto più forti con esse, a causa della
maggior velocità e della riduzione del ritardo fra intenzione ed esecuzione.
In tali casi l’azione più veloce ed automatica dei sistemi inferiori cerebrali fa sì che la parte di azione corrispondente al
sentimento più intenso sia eseguita quasi immediatamente, mentre la parte che è in relazione al pensiero (proveniente
dal sistema superiore) arriverà lentamente, quando l’azione è quasi completata o addirittura finita.” M. Feldenkrais,
Conoscersi attraverso il movimento, Celuc Libri, Milano 1978, p. 52.
Alcune volte il cervello consapevole non riesce a modificare reazioni emozionali intense se i cervelli più arcaici non
cessano il loro predominio: se una persona soffre di vertigini, serve a ben poco dire a se stessi che in una situazione
d’altitudine non c’è pericolo. Precedenti esperienze, anche inconsce, condizionano il vissuto attuale. Cfr. Le Doux. Il
cervello emotivo. Alle origini delle emozioni, cit. .
“Alcune ricerche hanno dimostrato che nei primi millisecondi della percezione non solo comprendiamo in modo
inconscio quale sia l’oggetto percepito, ma decidiamo anche se esso ci piace o no; l’inconscio cognitivo presenta poi
alla nostra consapevolezza non solo l’identità di ciò che vediamo, ma anche un vero e proprio giudizio su di esso. Le
nostre emozioni hanno una mente che si occupa di loro e che può avere opinioni del tutto indipendenti da quelle della
mente razionale.” D. Goleman, Intelligenza emotiva,cit., p38.
62
Moltissime situazioni rispecchiano quanto detto, a titolo d’esempio ricordo le emozioni che si vivono quando si vince
una gara sportiva; la sensazione di disagio che si prova quando non siamo vestiti in modo adeguato o la tensione e
l’eccitazione che si provano prima di affrontare un esame importante, ecc. Qualche volta l’eccessiva consapevolezza
può bloccare emotivamente o paralizzare la persona di fronte ad un’esperienza attivando uno stato di allerta
sproporzionato. I bambini con problemi neurologici sono spesso consapevoli delle loro difficoltà motorie a causa delle
precedenti esperienze negative nell’approccio con gli oggetti o situazioni. Essi spesso si pre-dispongono fisicamente ed
emotivamente nel rivivere situazioni simili al passato alterando il tono muscolare. È come se anticipassero mentalmente
e fisicamente la difficoltà che andranno a vivere.
35
istintivi. L’elemento importante che interviene in questa fase è il fattore educativo e culturale, che
incide fortemente e plasma l’aspetto genetico.63
Il piccolo dell’uomo non è in grado di affrontare la vita in modo indipendente per lungo tempo
dopo la nascita. Questo lungo periodo permette l’apprendimento di complessi modelli sociali come
il linguaggio, le reazioni emotive e i comportamenti tipici dell’ambiente in cui il bambino vive.64
Quest’apprendimento, che avviene soprattutto per condizionamento, si sostituisce progressivamente
alle reazioni istintive (emotive automatiche). Su queste, infatti, s’innestano i condizionamenti
inconsci appresi nel primissimo periodo di vita che possono scatenare reazioni emozionali intense
quando sono disattesi. Per questo motivo è predominante in noi la tendenza a conservare e
proteggere inflessibilmente le usanze abituali e i modelli personali.
63
“I geni ci danno la materia prima con la quale costruire le nostre emozioni. Specificano il tipo di sistema nervoso che
avremo, i tipi di processi mentali ai quali si può dedicare, e i tipi di funzioni fisiche che può controllare. Ma il modo
esatto in cui agiamo e pensiamo, e quello che proviamo in una particolare situazione sono determinati da molti altri
fattori e non sono scritti nei geni. Alcune e forse molte emozioni hanno una base biologica ma i fattori sociali, vale a
dire cognitivi, sono altrettanto cruciali. La natura e la cultura sono socie nella vita emotiva e il problema sta nello
scoprire quali siano i loro rispettivi contributi.” J. LeDoux, Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni, cit, pp. 141142.
“Durante lo sviluppo il sistema nervoso può essere considerato come una struttura 'ridondante' in quanto viene
programmata 'per eccesso', cioè con un numero di neuroni e di sinapsi superiori alle sue necessità. Se così non fosse il
rischio sarebbe troppo elevato in quanto una piccola lesione a carico di una catena nervosa o l’improprio funzionamento
di alcune sinapsi sconvolgerebbero dei programmi essenziali alla sopravvivenza. Tuttavia solo una parte di questa
massa di circuiti neuronici e sinapsi giocherà un ruolo critico nel cervello adulto, in quanto alcuni circuiti verranno
eliminati e altri stabilizzati. Il cervello può essere paragonato alla intricata e densa chioma di un albero, i cui rami e
rametti, cioè i diversi assoni, danno luogo a minute arborizzazioni, i dendriti e le sinapsi. La chioma di quest’albero è
ridondante all’origine, cioè nelle fasi iniziali dello sviluppo, ma ben presto viene sfrondata da un giardiniere che
consolida alcuni rami e ne pota altri inutili; a svolgere il compito di giardiniere, potando circuiti ridondanti, sono gli
stimoli che provengono dall’ambiente, gli eventi che a partire dagli stadi embrionali percorrono sotto forma di deboli
impulsi elettrici un determinato circuito, rafforzandolo e rendendolo funzionalmente efficiente mentre altri circuiti
alternativi decadono. In altre parole il programma dei geni non è da solo sufficiente per specificare la struttura e le
funzioni del cervello. I geni stabiliscono una traccia di connessioni essenziali ma queste vengono stabilizzate solamente
se vengono poste in funzione, se sono percorse da una serie di ripetitivi impulsi bioelettrici che lasciano il loro 'solco'
permanente. Ciò si verifica, come vedremo, per i circuiti nervosi coinvolti nella memoria e nell’apprendimento ma
anche per quelli, apparentemente meno complessi e suscettibili di modifiche, che riguardano i rapporti tra nervo e
muscolo, i riflessi, i comportamenti stereotipati.” A. Oliviero, Memorie di un neonato, in “Scienza e Dossier”, cit.,
pp27 –28.
Il bambino con paralisi cerebrale infantile è bloccato nelle sue potenzialità a causa del danno neurologico, esso altera il
programma di base e gli impedisce le normali esperienze sensomotorie. Ciò può essere aggravato da una non adeguata
educazione al movimento o da un vissuto negativo della sua condizione.
64
“Lo sviluppo del neonato umano procede molto lentamente rispetto ad altre specie animali. Questo esteso periodo di
plasticità postnatale permette una lunga esposizione all’ambiente circostante e una lunga fase di apprendimento.
L’evoluzione ha imboccato questa strategia nella specie umana preferendo, rispetto ad un ‘capitale’ di istinti preformati,
un lungo periodo di accumulo di comportamenti legati all’apprendimento individuale, all’esposizione all’ambiente e
alla cultura. Perché ciò si verifichi è necessario che il cervello sia capace di ‘assorbire’ stimoli e di modificare le sue
funzioni in particolari fasi dello sviluppo.” A. Oliviero, L’influenza dell’ambiente, in “Scienza e Dossier”, N.8, (1986),
p. 46.
36
L’acquisizione di modelli di comportamento sociale ed emotivi avviene in gran parte nei primi
anni di vita del bambino. In questo periodo egli non è consapevole, non è possibile per lui
analizzare e contrastare i messaggi che riceve, anche se non si adattano ai suoi bisogni. Queste
acquisizioni rimangono inconsce, poiché non sono maturate le aree del linguaggio e
dell’elaborazione cosciente (lobi frontali), ma condizionano il futuro apprendimento cognitivo ed
emozionale.
Il bambino può entrare in risonanza con altre persone inconsciamente (c. rettile e mammifero) o
consapevolmente (c. umano) utilizzando il contatto fisico e, successivamente, quello dei sensi a
distanza: vista e udito. Per questo motivo essi diventano i sensi deputati alla difesa. Attraverso la
maturazione delle vie intra ed interemisferiche, che permettono di mettere in comunicazione tra loro
i cervelli arcaici con quelli più recenti e le varie aree cerebrali tra loro, le sensazioni e le esperienze
sono elaborate in modo da essere patrimonio comune del sistema nervoso e quindi di tutto l’essere.
Attraverso i neuropeptidi e i neurotrasmettitori il SNC, il sistema immunitario, endocrino e molti
organi interni sono informati ed informano l’intero ‘corpo-mente’ circa ciò che succede dentro
l’organismo nell’impatto con l’ambiente esterno.65
I cervelli antichi sono preposti, evolutivamente, agli automatismi di movimento ed emotivi
permettendo all’individuo di sfruttare l’istinto o l’apprendimento consapevole o non consapevole
senza dover re-imparare.66 Questo stesso processo può rendere difficile il cambiamento se non
intervengono fattori esterni che lo favoriscono.
65
Riferimenti alla Psiconeuroimmunologia si possono trovare in: D. Goleman, Intelligenza emotiva, cit., pp. 200-202.,
F. Capra, La rete della vita. Una nuova visione della natura e della scienza, RCS Libri, Milano 2001., pp 306 – 314.
66
“Si ritiene oggi che il cervello contenga molteplici sistemi di memoria. La memoria cosciente, dichiarativa o esplicita,
è mediata dall’ippocampo e dalle aree corticali connesse, mentre le diverse forme di memoria inconscia o implicita sono
mediate da altri sistemi. Un sistema di memoria implicita è quello della memoria emotiva (paura) che comprende
l’amigdala e le aree collegate. In situazioni traumatiche, il sistema implicito e quello esplicito funzionano in parallelo.
In seguito, l’esposizione agli stimoli presenti durante il trauma può riattivare entrambi i sistemi. Attraverso il sistema
dell’ippocampo, ricordate con chi eravate e cosa facevate durante il trauma, e anche il fatto nudo e crudo che la
37
Quando si evolve il cervello mammifero (memoria ed apprendimento), la risonanza favorisce nel
bambino l’apprendimento emotivo non cosciente, cioè il modo particolare di rispondere agli stimoli
specifico per l’ambiente sociale in cui vive. L’apprendimento emozionale non cosciente è veicolato
dalle risposte emotive delle persone che lo circondano. Il comportamento emotivo si manifesta
attraverso risposte fisiologiche ed è in gran parte non consapevole.
Il bambino molto piccolo si adatta all’ambiente esterno attraverso la risonanza tonica
muscolare e viscerale (Cervello rettile). Successivamente, con lo sviluppo della memoria,
dell’apprendimento emotivo e della consapevolezza, il bambino impara a ri-conoscere e a ‘risentire’ su di sé i vissuti propri e dell’altro: egli può diventare cosciente delle manifestazioni
emozionali insite nel suo patrimonio genetico (istinti) attivate e vissute durante
l’apprendimento emozionale. 67
Le emozioni si manifestano (consciamente o no) attraverso gli indicatori fisiologici
dell’emotività: complesso di reazioni ormonali e comportamentali che indicano e rivelano
l’estrinsecarsi di un vissuto emotivo. 68
Il vissuto corporeo determina quello psichico e non viceversa. 69 A sua volta l’esperienza fisica,
mediata dalla relazione con le altre persone, è condizionata dallo psichismo di queste (per
situazione era atroce. Attraverso il sistema dell’amigdala (inconscio), gli stimoli provocheranno tensione muscolare,
variazioni della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca, il rilascio di ormoni e altre risposte fisiologiche e
cerebrali. Siccome i sistemi sono attivati dagli stessi stimoli e funzionano contemporaneamente, i due tipi di memoria
sembrano far parte di un’unica funzione della memoria. Soltanto distinguendoli, soprattutto grazie agli esperimenti con
animali ma anche mediante delle ricerche su rari pazienti umani, siamo riusciti a capire come i sistemi della memoria
operino in parallelo per produrre delle funzioni della memoria indipendenti.” J. LeDoux, Il cervello emotivo. Alle
origini delle emozioni, cit, pp. 209.
67
“I sentimenti costituiscono le esperienze soggettive attraverso le quali conosciamo le nostre emozioni, e sono la
caratteristica dell’emozione per la persona che prova tali sentimenti. Non tutti i sentimenti sono delle emozioni, ma tutte
le esperienze emotive coscienti sono dei sentimenti, come ha spiegato in maniera notevole Damasio (1994).” Ibidem, p.
336
68
“Il corpo è essenziale per un’esperienza emotiva, perché fornisce le sensazioni che danno all’emozione il suo sapore
immediato, oppure perché ha fornito nel passato le sensazioni che hanno creato i ricordi con quel sapore.” Ibidem, p.
308.
38
risonanza). L’apprendimento è reso ancora più complesso dalla particolare predisposizione genetica
(temperamento) che può condizionare alla base le esperienze. Non appena il vissuto psichico si
specifica, guida e condiziona le successive esperienze fisiche, mentali e psicologiche. 70
“L’acquisizione definisce la capacità del soggetto di selezionare e conservare piuttosto che di
sopprimere o rimuovere (aree ipotalamiche della gratificazione e del castigo) quanto ha appreso:
molte sono le cose che un bambino con paralisi cerebrale infantile (PCI) può apprendere e rendere
possibili, assai meno quelle che può fare proprie e rendere probabili. Solo un apprendimento
acquisito, cioè integrato e reso stabile, può rendere possibile una scelta. In questo senso la
69
“Il periodo post-natale rappresenta una fase di intense modifiche, ma queste si verificano anche durante il resto della
vita e permettono di immagazzinare o di ristrutturare nuove esperienze. Per stabilire quali siano le basi biologiche di
questo processo i ricercatori hanno utilizzato diverse strategie.[…]. Due ricercatori premiati con il Nobel per le loro
ricerche, D. H. Hubel e T. M. Wiesel, hanno condotto degli esperimenti sugli effetti della deprivazione visiva nel
gatto.[…]: nella corteccia visiva dei mammiferi esistono delle cellule che rispondono a stimoli che abbiano una
configurazione simile a barre verticali oppure diagonali o orizzontali. È stato effettuato un esperimento in cui dei gattini
indossavano dei particolari occhialini che lasciavano filtrare verso l’occhio destro delle immagini a strisce verticali e
verso quello sinistro delle immagini a strisce orizzontali. I gattini indossavano questi occhialini per alcune ore al giorno
mentre per il resto della giornata stavano in un l’ambiente privo di stimoli visivi. Dopo tre mesi di questo trattamento le
cellule corticali dei gattini avevano subito delle evidenti modifiche. Quelle che rispondevano all'occhio che aveva
captato soltanto delle linee orizzontali si dimostravano recettive soltanto a questo tipo di messaggio mentre quelle che
rispondevano all'occhio che aveva visto soltanto linee verticali si dimostravano recettive soltanto agli stimoli verticali.
Queste modifiche indicano che la fase dello sviluppo è estremamente sensibile agli effetti della deprivazione sensoriale.
Nell'uomo questi studi sono stati condotti […] su persone astigmatiche, un difetto visivo che rende meno distinta la
percezione delle linee che abbiano un particolare orientamento, per esempio quelle verticali, mentre altre linee, per
esempio quelle orizzontali, vengono percepite in modo normale. Anche in seguito a una correzione della vista con
occhiali adatti, gli astigmatici vedono con minor acutezza le linee con quel particolare orientamento: ciò sta a indicare
che la minor acutezza visiva per stimoli caratterizzati da un particolare orientamento non dipende soltanto dal difetto
oculare ma dalla codificazione a livello della corteccia visiva che risente negativamente per non essere stata esposta,
durante lo sviluppo, a stimoli appropriati.” A. Oliviero, Linfluenza dell’ambiente, in Scienza e Dossier, (1986), n.8, pp.
46 – 49.
Il bambino con PCI molto spesso perde l’opportunità di vivere le tappe dello sviluppo motorio nei tempi e modi dovuti.
Possiamo comprendere il danno che ne consegue per il suo apprendimento futuro. Oltre al danno neurologico-lesionale
primario il bambino subisce un danno neurologico-disfunzionale dovuto al mancato o distorto apprendimento
sensomotorio.
70
“Le nostre risposte all’ambiente sono determinate non tanto dall’effetto diretto degli stimoli esterni sul nostro sistema
biologico quanto dalla nostra esperienza passata, dalle nostre attese, dalle nostre intenzioni e dall’interpretazione
simbolica individuale della nostra esperienza percettuale. Il debole odore di un profumo può evocare in noi gioia o
tristezza, piacere o dolore, attraverso la sua associazione con l’esperienza passata, e la nostra reazione varierà
conformemente. Così i mondi interno ed esterno sono sempre interconnessi nel funzionamento di un organismo umano;
essi agiscono uno sull’altro e si evolvono assieme. Come esseri umani, noi plasmiamo in modo molto efficace il nostro
ambiente perché siamo in grado di rappresentare il mondo esterno simbolicamente, di pensare per concetti e di
comunicare i nostri simboli, concetti ed idee.” F. Capra, Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente,cit.,
pp.245 – 246.
39
dimensione percettiva (attenzione e tolleranza) e la dimensione intenzionale (soddisfazione e
pulsione) si rivelano determinanti.”71
Il bambino attraverso la memoria (le esperienze che vive e gli rimanda l’ambiente) crea
l’immagine di sé e del mondo (credenze).
Quando maturano i centri nervosi superiori (C. mammifero o umano) è sufficiente l’attivazione
dell’immagine interna o il linguaggio per suscitare reazioni emotive inconsce o coscienti. 72
Con la maturazione della corteccia cerebrale, delle aree del linguaggio e dei lobi frontali (cervello
umano) la risonanza tonica emotiva può diventare consapevole, questa è la base neurologica
dell’empatia. Essa, però, può essere bloccata da un’attitudine emozionale di difesa appresa
inconsciamente durante l’apprendimento emotivo.
Ciò che sentiamo e sperimentiamo attiva determinati circuiti del S.N.C e nei mammiferi l’azione
va in memoria. Quando immaginiamo un’azione fatta e sentita molte volte si riattivano gli stessi
circuiti che determinano dei cambiamenti fisiologici nel corpo, gli stessi che sono avvenuti durante
71
A. Ferrari, Proposte riabilitative nelle paralisi cerebrali infantili,cit., pp. 52 – 53.
“Il linguaggio, dice giustamente il biologo H. Laborit, ha trasferito su un piano simbolico una minaccia concreta: non
è più solo l’immagine del coltello che può far scattare una reazione di difesa ma una semplice parola: un insulto. L’antico cervello reagisce con un impulso di fuga o di lotta, che viene filtrato dal nuovo cervello attraverso l’astrazione del
linguaggio. La risposta può anche essere una pugnalata simbolica attraverso una frase perfida. E non è necessario che
l’insulto sia volgare: può anche vestirsi di un linguaggio raffinato e apparentemente calmo.
Ecco dunque in che modo gli istinti e le emozioni primitive continuano ad operare attraverso il nuovo cervello e il filtro
dell’educazione. Vi è una linea a due sensi tra l’antico cervello e la corteccia, in interazione continua: le memorie
acquisite « interpretano » la realtà e la comunicano all’antico cervello, che reagisce seguendo antichi istinti di
sopravvivenza. Questa sovrapposizione continua, tra memorie genetiche e acquisite, determina il comportamento.
Se osserviamo con quest’ottica il nostro comportamento di ogni giorno ci rendiamo conto che la « caldaia » preme in
continuazione e ci spinge ad agire, a costruire, a combattere, a godere, a difenderci. L’educazione avvolge il
comportamento primitivo in un diverso involucro, ma sostanzialmente obbedisce a certi fondamentali istinti primitivi.
Le società, anzi, hanno via via creato dei sistemi che poggiano proprio sulla sopravvivenza dell’individuo e della specie.
L’organizzazione per difendere 1’uomo dai pericoli, la costruzione di case e di prigioni, l’assistenza ai malati ecc. e tutti
i « valori » che accompagnano la vita sociale, rispondono appunto a questa esigenza di base.” P. Angela, L’uomo e la
marionetta,cit., pp. 216 – 217.
72
40
il vissuto concreto dell’esperienza.73 Dal S.N.C arrivano ai muscoli impulsi simili a quelli
sperimentati durante il vissuto pratico dell’azione e si osservano i micro-movimenti.74
La calibrazione (osservazione del vissuto emozionale attraverso gli indicatori fisiologici) si
sviluppa con la maturazione corticale: cervello sinistro (analitico) e destro (sintetico). 75 La capacità
di analizzare e cogliere la globalità di un’attitudine nasce dalle esperienze già vissute attraverso la
risonanza tonica e successivamente attraverso la risonanza tonico- emozionale. Queste esperienze
sono ‘ri-conosciute’ poiché fanno parte del nostro bagaglio d’esperienze corporee coscienti ed
inconsce.76
Verso la fine dell’infanzia, lo sviluppo del linguaggio verbale e l’educazione spostano l’attenzione
verso gli aspetti digitali della comunicazione (linguaggio verbale e cultura), ma l’apprendimento
tonico emozionale continua a livello inconscio attraverso la risonanza.
73
“Donald Hebb, un celebre psicologo canadese.[…]. Ipotizzò che quando un neurone invia ripetutamente dei messaggi
bioelettrici a un altro neurone, che li capta a mezzo dei dentriti, il secondo neurone diviene gradualmente più sensibile
ai messaggi del primo. Questi neuroni, legati tra loro in modo funzionale, farebbero parte di un ‘anello’ costituito da
diversi neuroni che in seguito ad un impulso, formerebbero una sorta di circuito riverberante, cioè percorso da una
corrente elettrica in modo circolare. Questa situazione sarebbe alla base della memoria instabile o a breve termine
mentre ripetute stimolazioni produrrebbero delle modifiche permanenti nella struttura neuronica che sarebbero alla base
della memoria duratura o ‘a lungo termine’. ” A Oliviero, Biologia dei ricordi, in Scienza e Dossier, (1986), n. 8, pp. 38
– 40.
74
I micromovimenti possono essere misurati attraverso sofisticati strumenti elettronici e sono ‘registrati’, spesso
inconsapevolmente, dall’interlocutore all’interno di una relazione. Cfr. D. Goleman, Il cervello emotivo, cit., p. 145.
75
“Le ricerche eseguite nel corso degli ultimi vent’anni hanno dimostrato costantemente che i due emisferi del cervello
tendono a essere implicati in funzioni opposte ma complementari. L’emisfero sinistro, che controlla il lato destro del
corpo, sembra sia più specializzato nel pensiero analitico, lineare, che implica un’elaborazione sequenziale
dell’informazione; l’emisfero destro, che controlla il lato sinistro del corpo, sembra funzionare prevalentemente in
modo olistico che è appropriato per la sintesi e tende a elaborare l’informazione in modo più diffuso e simultaneo.” F.
Capra, Il punto di svolta. Scienze, società e cultura emergente,cit., p. 244.
76
Il ri-conoscimento delle reazioni e comportamenti emotivi è solo il primo ma indispensabile passo verso la
consapevolezza dei moti emozionali. D’altra parte condividiamo questa esperienza con la maggior parte degli esseri
viventi. “Quando i comportamenti emotivi agiscono in un animale dotato di consapevolezza, si producono sentimenti
emotivi coscienti. Negli umani ciò avviene sicuramente, mentre non si sa fino a che punto altri animali abbiano questa
capacità. Non affermerò che certi animali sono coscienti e altri no, ma che quando uno di questi sistemi evolutisi molto
tempo fa (quello che produce i comportamenti difensivi in caso di pericolo, per esempio) opera in un cervello cosciente,
ne risultano dei sentimenti emotivi come la paura. Se così non fosse il cervello raggiungerebbe i suoi scopi emotivi in
assenza di una forte consapevolezza che, in tutto il regno animale, è l’eccezione piuttosto che la regola. Se i sentimenti
coscienti non spiegano il comportamento emotivo di certi animali, allora non servono nemmeno a spiegare quel
comportamento negli esseri umani. Le reazioni emotive sono generate per lo più inconsciamente. Freud aveva colpito
nel segno definendo 1’Io conscio come la punta di un iceberg.” J. LeDoux, Il cervello emotivo. Alle origini delle
emozioni, cit, p. 19.
41
Dalle riflessioni all’approccio efficace.
Ogni organismo vivente tende spontaneamente all’equilibrio dinamico interno (omeostasi), quindi
si riconosce la tendenza innata dell’organismo a guarirsi da sé. 77
Il paziente, come tutti gli esseri viventi, tende spontaneamente a ritrovare il suo equilibrio interno
se posto nelle condizioni adatte.78 La seduta terapeutica può essere utilizzata come momento
catalizzatore di questo processo. Quando ciò avviene il paziente attiva spontaneamente le sue
potenzialità residue e diviene colui che indica le direttive del trattamento. Il terapista deve saper
leggere attraverso il linguaggio analogico (corporeo), e digitale (verbale) del paziente il percorso
che sta vivendo per poterlo guidare a raggiungere questo fine.
La conoscenza della maturazione del sistema nervoso centrale attraverso la filogenesi e
l’ontogenesi, permette al terapista di risalire al blocco evolutivo del paziente. Questa conoscenza gli
permette di pianificare il trattamento idoneo. Egli potrà utilizzare un modo specifico di porgere gli
stimoli sensoriali e il movimento adatto a quel paziente.
Il fenomeno di risonanza, alla base della relazione tonica muscolare (cervello rettile), può essere
utilizzato consapevolmente (attraverso l’aptonomia ed il prolungamento) per guidare il paziente con
le metodiche riabilitative.
77
Cfr F. Capra, Il punto di svolta.Scienza, società e cultura emergente,cit.
“Un organismo vivente è un organismo auto-organizzantesi: ciò significa che il suo ordine e la sua struttura e
funzione non sono imposti dall’ambiente ma sono stabiliti dal sistema stesso. I sistemi auto-organizzantisi manifestano
un certo grado di autonomia; per esempio, tendono a stabilire le loro dimensioni secondo principi di organizzazione
interni, indipendenti da influenze ambientali. Ciò non significa che i sistemi viventi siano isolati dal loro ambiente; al
contrario, essi interagiscono con esso di continuo, ma quest’interazione non determina la loro organizzazione. I due
fenomeni dinamici principali dell’auto-organizzazione sono l’autorinnovamento - la capacità dei sistemi viventi di
rinnovare e riciclare di continuo i loro componenti, conservando l’integrità della loro struttura complessiva - e
l’autotrascendenza - la capacità di superare creativamente confini fisici e mentali nei processi d’apprendimento,
sviluppo ed evoluzione.[...]. La relativa autonomia degli organismi aumenta di solito con la loro complessità, e
raggiunge il suo culmine negli esseri umani.” Ibidem, pp. 224 – 225.
78
42
La capacità del terapista di sentire lo stato tonico emozionale del paziente (risonanza, calibrazione,
empatia) è un modo efficace per capire la difficoltà, le sensazioni e i cambiamenti che egli vive.
Ciò permette al terapista di agire tempestivamente e armonicamente in accordo con l’immagine
interna del paziente.
La conoscenza dei meccanismi d’apprendimento dell’emotività toglie drammaticità ai vissuti
emozionali appresi inconsciamente. La comprensione che molti stati emotivi non fanno parte della
nostra natura, ma sono stati appresi e fanno parte del bagaglio culturale in cui viviamo, attiva in noi
la ricerca del nostro equilibrio interno al di fuori dei condizionamenti inutili e dannosi.
Attraverso tecniche di ristrutturazione (in Programmazione Neuro-linguistica), si utilizza il
cervello corticale per indurre i cambiamenti desiderati (ampliare le possibilità di scelta spesso
limitate da apprendimenti distorti o carenti, fenomeno frequente nei nostri pazienti).
Il terapista può utilizzare consapevolmente la propria immagine interna per creare lo spazio fisico
e mentale adatto al paziente, tutto il suo corpo si pre-disporrà per aiutare il paziente (risonanza
consapevole), la stessa conoscenza degli strumenti tecnici sarà adattata spontaneamente.
Il bambino con problemi neurologici apprende il movimento attraverso la limitazione della
patologia (esercita sempre gli stessi schemi limitati). Egli non ha la possibilità di vivere e
memorizzare sensazioni differenti nel suo corpo, quindi rimane prigioniero di quest’immagine
limitata, spesso confermata ed esasperata dall’ambiente emotivo che lo circonda (apprendimento
emotivo negativo, spesso inconsapevole). In questi casi occorre ristrutturare il movimento
utilizzando le metodiche riabilitative adatte. Si può aiutare il bambino a percepire stati tonici
muscolari differenti nel corpo al fine di costruire un’immagine più ricca e più vera di sé, libera dalle
sovrastrutture emotive che bloccano.
43
Esistono tecniche che permettono di diventare consapevoli del linguaggio corporeo (calibrazione,
risonanza cosciente); altre aiutano nel guidare consapevolmente il paziente utilizzando l’approccio
tonico emotivo (aptonomia e prolungamento). Altre ancora permettono di indurre cambiamenti di
comportamenti indesiderati (ristrutturazione).
L’UOMO E L’EMOTIVITA’
Nella specie umana le risposte emotive si distinguono dai comportamenti degli organismi
primitivi. Esse si discostano dalla semplice ricerca del cibo, di protezione e di sopravvivenza, ma
alcune volte sono dominate da risposte abnormi agli stimoli, come se fosse in gioco la vita stessa.
Sappiamo godere di un meraviglioso paesaggio e piangere di gioia se incontriamo una persona
cara. Ma possiamo anche vivere livelli d’angoscia indicibili che possono portare all’annullamento
fisico della vita. Vi sono molti esempi di comportamenti emotivi che fanno comprendere che
l’uomo spesso si allontana drammaticamente dal suo equilibrio interno (omeostasi).
Come avviene l’apprendimento emotivo nella specie umana?
Immaginiamo di vedere un bambino di un anno e la sua mamma. Immaginiamo di seguirli nelle
attività della vita quotidiana. Tra la madre e il bambino vi è un continuo e reciproco scambio di
contatti visivi e tonici (le sensazioni di tensioni muscolari che riceviamo attraverso il contatto
fisico): c’è un continuo scambio di voci, parole, gorgheggi, carezze, richiami. Sono entrambi
immersi in un mondo di odori, profumi, latte, minestrine, e cacche. I loro visi e i loro gesti
cambiano espressione e si modulano tra di loro momento per momento.79
Immaginiamo adesso che la mamma esca con il piccolo in braccio. All’esterno ella incontra
un’amica. Si salutano. L’amica vezzeggia un po’ il bambino e poi le due donne si mettono a parlare.
Il bambino attraverso il tono muscolare della madre, il timbro di voce di lei, attraverso la sua
gestualità “sente” quello che la madre sta vivendo e adatta il suo tono muscolare.
Alcuni minuti più tardi accade un incidente ad un incrocio. Si sentono i rumori improvvisi e le urla
della gente. Immediatamente i muscoli della madre s’irrigidiscono. Ella stringe il bambino a sé
79
“Le più recenti ricerche della psicologia dell'età evolutiva segnalano la presenza nel neonato, fin dalle primissime
settimane di vita, di complesse capacità di discriminazione percettiva, nonché di coordinazione intermodale delle
differenti modalità percettive, di tipo audio-visivo, audio-motorio, visuo-motorio, ecc. (Meltzoff, 1981). Tale
coordinazione sarebbe dimostrata, tra l’altro, dalla precocità del bambino di imitare fin dalle prime settimane di vita,
alcune mimiche del volto materno, quali ad esempio la protrusione della lingua; imitazione che presuppone la coordinazione di modalità percettive diverse, in particolare di tipo visivo (guardare il volto materno) e motorio (imitarne la
mimica), nonché la presenza di iniziali forme di rappresentazione del proprio e dell’altrui corpo (Mounoud, Vinter,
1981).[…]. L’analisi microanalitica delle osservazioni, svolte con tecniche di video-registrazione, in primis
dell’interazione madre-bambino, ha permesso infatti di evidenziare l’esistenza nella prima infanzia di originarie forme
di intersoggettività intercorrenti tra il bambino e i suoi partner, centrate sulla condivisione di affetti e di
conoscenze.[…]. Centrale in tale contesto sarebbe il gioco ‘faccia a faccia’ intercorrente tra madre e bambino,
caratterizzato da forme di imitazione reciproca, riscontrabili sia nelle madre che nel neonato (Bowlby, 1977; Stern,
1974). In tale gioco proprio l’imitazione reciproca, in particolare del comportamento mimico-espressivo materno da
parte del bambino, tramite una più sistematica attività di rispecchiamento e di ‘echeggiamento’ del comportamento
infantile da parte della madre, svolgerebbe la funzione cruciale di permettere un’originaria condivisione di stati emotivi,
agevolando lo stabilirsi del contatto relazionale tra i due membri della coppia.[…].Acquista così ulteriore forza e
significatività l’immagine del bambino come dotato fin dalla nascita di una competenza relazionale ‘preadattata’
all’incontro con un partner sufficientemente disponibile a facilitere lo sviluppo.” G. Gobbi, Processi psicoaffettivi
all’inizio della vita,in “Ricerche e Studi in Psicologia del Corpo e in Psicomotricità” , (2001), anno XI – n. 3, p 2 – 3.
Quanto descritto da Gobbi esprime il fenomeno di risonanza descritto in precedenza.
44
mentre il suo respiro si fa corto e veloce. Il bambino attraverso il corpo della madre “sente” quello
che accade e collega nella sua memoria il vissuto tonico a ciò che ha visto.
Nel pomeriggio viene a trovarli a casa una persona cara che porta un bel vestitino al piccolo e una
camicetta alla madre. Questa tutta felice indossa subito il vestito al bambino. I suoi movimenti sono
veloci per la gioia, ma rassicuranti. Poi la madre e l’altra persona parlano delle loro amicizie in
comune, degli abiti alla moda, del comportamento scorretto di un vicino, ecc.
Il bambino attraverso la modulazione delle espressioni dei loro visi, delle
voci e della gestualità, impara a conoscere il mondo e le reazioni emotive
che si vivono nel suo ambiente. Il piccolo gradualmente impara a costruirsi
una mappa del mondo in cui vive attraverso la mappa del mondo di chi lo
accudisce.
“La forma che ognuno di noi ha assunto in rapporto alle proprie emozioni origina dal tipo di
dialogo corporeo instaurato con i genitori fin dai primi giorni di vita (alfabeto emotivo primario –
W. Stern), in quel dialogo tonico, gioco espressivo e comunicativo sotteso all’alternarsi di
contrazioni e decontrazioni muscolari, si articola il primo linguaggio dell’affettività.” 80
Prima ancora che maturi il cervello corticale analitico-razionale e del linguaggio, quindi, il
bambino diviene un “esperto” nella lettura del linguaggio corporeo, soprattutto di quegli aspetti di
esso che sono gli indicatori fisiologici dell’emotività.
Attraverso le variazioni fisiologiche non coscienti (reazioni emotive alle situazioni quotidiane)
della madre o di chi lo accudisce, il bambino impara ad accettare o rifiutare certi oggetti o
situazioni, impara i comportamenti sociali e morali. Allo stesso modo in cui costruisce l’immagine
del mondo che lo circonda, il bambino costruisce l’immagine di sé. Quest’apprendimento non
avviene attraverso l’intelletto ma attraverso l’esperienza.81
Attraverso il fenomeno di risonanza il bambino riceve le informazioni dall’ambiente in cui vive e
si adatta ad esso, allontanandosi, a volte, dal suo sentire naturale biologico, per sostituirlo a quello
sociale, non sempre in armonia tra loro.82
Quest’apprendimento è non cosciente poiché nel bambino sono maturi i cervelli arcaici (rettile e
mammifero: attivatore e della memoria). Attraverso la funzionalità di questi cervelli sottocorticali il
bambino ha la possibilità di apprendere (o meglio vivere-sentire) le variazioni tonico-emotive della
madre e capire in quali momenti ella è disponibile per il cibo, per il gioco e per le coccole. Egli
apprende anche i segni che indicano se la madre è occupata, spaventata, stanca, ecc.
La comprensione di queste variazioni è vitale per il bambino, affinché egli possa adattarsi
all’ambiente e capire qual è il momento più opportuno per richiedere la soddisfazione e
l’espressione dei suoi bisogni. Qualche volta, però, egli può utilizzare questo apprendimento per
manipolare l’ambiente.
La capacità del bambino di adattarsi (essere in risonanza tonica) rimane per tutta la vita anche se
essa è di solito inconscia anche nell’età adulta.
80
Lezioni di neuropsichiatria della Dott.ssa Lucia Vannucchi che opera presso l’Associazione “la Nostra Famiglia”,
San Vito al Tagliamento (PN).
81
“Non è il bambino cui si dice ‘ti voglio bene’, che impara ad amare, ma il bambino che ha provato l’amore nella sua
vita. Egli vive e rimanda l’immagine che di lui ha l’ambiente .” G. Burbatti – I. Castoldi, Psicoterapia individuale
sistemica, Città Studi, Milano 1998, pp.99.
82
“La mappa del mondo intrapsichico del bambino appare concepita come abitata da specifiche configurazioni derivate
dall’incontro tra l’originaria competenza relazionale, patrimonio del bambino e le particolari modalità d’interazione da
lui vissute con i suoi partner, centrate su esperienze reiterate e costanti di condivisione di affetti e conoscenze. Le
configurazioni relazionali così formatesi svolgerebbero il duplice ruolo di organizzare le cognizioni e gli affetti circa le
prime interazioni sperimentate dal bambino, fungendo da guida alle esperienze e ai comportamenti successivi. In questa
prospettiva la costruzione della realtà oggettuale appare ancorata fin dalle epoche più precoci a processi cognitivi e
affettivi, di schematizzazioni e d’internalizzazione, tra loro intrecciati.” G. Gobbi, Processi psicoaffettivi all’inizio della
vita,cit., P. 5.
45
Verso i tre-quattro anni, con la mielinizzazione degli emisferi corticali, il bambino sarà in grado di
analizzare le informazioni e di dirsele (nascita del linguaggio e del pensiero analitico), sino a quel
periodo ciò che vive è indicibile e globale.83
In questo periodo l’attenzione del bambino si sposta progressivamente dal linguaggio analogico
(corporeo) a quello parlato. Quest’ultimo si sostituisce in parte all’azione (ad esempio se il bambino
dice “carezza”, usa la parola al posto del gesto). La parola cattura l’attenzione all’interno della
comunicazione (Lerminiaux).
Vi sono altri fattori che influiscono sui comportamenti fisici e inibiscono la capacità d’essere
consapevoli delle reazioni fisiche che si legano all’emotività: il processo educativo tende ad inibire
l’espressione corporea attraverso divieti e correzioni. Esso spesso impone di mascherare ciò che
sentiamo quando questo può ferire le persone che amiamo o che temiamo, e li sostituiamo con un
comportamento falso.84 Pensiamo anche alla diversa educazione che ricevono i bambini rispetto alle
bambine, oppure alle variabili sociali di culture molto distanti per capire che molte delle nostre
espressioni emotive non sono naturali ma sociali (apprese).
Questi sono alcuni dei motivi per cui la capacità di essere spontanei nel corpo e pienamente
consapevoli viene in parte dimenticata. Paradossalmente verso la fine dell’infanzia, quando emerge
il livello più avanzato d’empatia, il bambino ha una scarsa percezione del suo linguaggio
corporeo.85 Egli diviene molto attento al linguaggio corporeo dell’altro. In questa fase il bambino è
molto attratto dal mondo sociale, cerca di comprenderne le regole e di trovare un posto al suo
interno, ma è poco consapevole dei messaggi che invia con il proprio corpo (le modificazioni
fisiologiche dell’emotività), e dell’impatto che esse hanno all’interno di una discussione. Una
persona esterna, però, può aiutarlo a diventare cosciente di come i suoi stati emotivi si riflettono sul
corpo.
Attraverso il linguaggio del corpo, quindi, inviamo in modo spesso inconsapevole la vera
immagine di noi e del mondo che abbiamo costruito attraverso l’esperienza, e possiamo
cambiarla con lo stesso metodo.
83
“ In particolare la maturazione delle aree corticali pre-frontali, che sono in stretto collegamento con le aree
emozionali sottocorticali (cervello limbico ed in particolare l’amigdala), permettono al bambino di essere consapevole
dei propri stati d’animo, cioè di provare dei sentimenti su se stesso.” J. LeDoux, Il cervello emotivo. Alle origini delle
emozioni, cit., p. 306.
84
“Le norme di espressione vengono apprese molto presto, in parte attraverso istruzioni esplicite. Quando diciamo a un
bambino di non mostrarsi deluso, bensì di sorridere e di ringraziare se il nonno si presenta pieno di buone intenzioni con
un regalo di compleanno orrendo, non stiamo insegnandogli altro che una norma di espressione. Questa educazione,
però, avviene più spesso attraverso l’esempio: i bambini imparano quel che vedono fare dagli altri. Nell’educare i
sentimenti, le emozioni sono al tempo stesso il mezzo e il messaggio. Se un bambino si sente dire «sorridi e dì grazie»
da un genitore che in quel momento è duro, severo e freddo - che sibila il messaggio invece di suggerirlo con calore probabilmente imparerà qualcosa di molto diverso, e risponderà al nonno con un’espressione corrucciata e un «grazie»
secco e reciso. L’effetto sul nonno è molto diverso: nel primo caso, sebbene ingannato, sarà felice; nel secondo si
sentirà ferito dal messaggio ambiguo.
L’esibizione delle emozioni, naturalmente, ha conseguenze immediate sull’impatto che esse hanno sulla persona che le
riceve. Il bambino apprende una norma di espressione in qualche modo simile a questa: «Maschera i tuoi veri sentimenti
quando essi possono ferire le persone che ami; sostituiscigli piuttosto un comportamento fasullo ma meno offensivo».’’
D. Goleman, Intelligenza emotiva,cit., pp. 143.
85
“Verso la fine dell’infanzia emerge il livello più avanzato di empatia; i bambini, infatti, sono ora in grado di
comprendere la sofferenza anche al di là della situazione contingente.” Ibidem, pp. 134.
46
Schema sintetico dell’evoluzione dell’emotività:
C. rettile: risonanza elementare con l’ambiente che permette le risposte
istintive fisse tipiche della specie. Esse si attivano quando l’individuo
riceve stimoli sensoriali esterni od interni ritenuti nocivi o appetibili
(credenze istintive che attivano le risposte geneticamente programmate:
memoria filogenetica arcaica). L’individuo in risonanza con l’ambiente,
cerca di ristabilire il suo equilibrio attraverso comportamenti motori
complessi.
C. mammifero: l’apprendimento emotivo è trasmesso per risonanza (in
gran parte non cosciente) attraverso la relazione. Le risposte istintive di
sopravvivenza sono condizionate dalle esperienze vissute (memoria
personale, emotività reattiva). Queste, a loro volta, sono filtrate dai fattori
socio-culturali (credenze tipiche dell’ambiente in cui l’individuo cresce). A
questo livello le reazioni emotive sono condizionate dalle credenze
personali e sociali.
C. umano: i moti emozionali istintivi ed appresi possono essere compresi e
riconosciuti in se stesso (diventano sentimenti), e nell’altro, per risonanza
consapevole (diventano empatia). L’individuo può assumere una metaposizione di osservazione che permette di utilizzare o di ristrutturare il
proprio o altrui vissuto emozionale secondo gli obiettivi prefissi (credenze
guidate da uno Scopo).
47
Nel prossimo capitolo accenno agli approcci che favoriscono la capacità di
osservare le variazioni emotive attraverso la fisiologia (Catene Muscolari e
Programmazione Neuro Linguistica). In seguito descrivo l’Aptonomia, il
prolungamento e il metodo Feldenkrais; essi utilizzano il contatto, l’ascolto dell’altro
e di se stesso per favorire il cambiamento.
48
CAPITOLO TERZO
Gli strumenti
49
Storia delle Catene Muscolari (CM)
E’ stata la terapista Francoise Mezieres ad intuire che i muscoli non lavorano isolatamente, ma in
catene che coinvolgono anche muscoli lontani quando vengono attivati.
Questa scoperta di Mezier nasce dall’osservazione quotidiana. Ella viveva in una cittadina
francese ed ogni giorno andava a piedi al lavoro. Lungo il tragitto incontrava sempre una signora
anziana affetta da Morbo di Parkinson che camminava piegata in avanti in modo impressionante.
Negli anni fecero conoscenza, e da terapista solerte avrebbe voluto aiutare l’anziana signora, ma
ogni tentativo di raddrizzare la schiena causava forti dolori e quindi resistenze. Un giorno la signora
morì e Francoise andò a salutarla per l’ultima volta nella sua casa. Il suo stupore fu grande quando
vide che l’anziana signora era perfettamente distesa sul letto come se un’improvvisa molla avesse
ceduto e avesse permesso di rilasciare i muscoli ormai bloccati da tanti anni. Lavorando su
quest’osservazione scoprì la Catena Muscolare Posteriore e le tensioni e le resistenze che essa crea
nel corpo umano.
Con alcuni collaboratori creò una scuola, che fu ostacolata da ortopedici e terapisti tradizionali.
Alcuni allievi, tra cui E. Suchard, T. Bertherat e G. D. Struyf continuarono e diffusero il lavoro di
Mezieres.
Suchard sviluppò e mantenne l’aspetto fisioterapico e tecnico. Bertherat lavorò molto sul legame
tensione psico-emotiva e muscolare. Struyf, collegandosi a studi sulla filosofia orientale, intuì
l’esistenza di altre cinque Catene Muscolari e il legame tra l’aspetto psicologico e attitudinale delle
CM.
In Belgio il dott. Patigny e il prof. Lerminiaux uno pediatra fisiologo, l’altro psicanalista
pedopsichiatra utilizzarono gli studi di Struyf per creare la ‘Teoria degli organizzatori dello
psichismo’ in accordo con i più recenti studi della fisiologia e le scoperte dei neuro scienziati sul
funzionamento del S.N.C.86
Nell’“Istituto Mediterraneo per la Formazione, Ricerca, Terapia e Psicoterapia” a Caltanissetta,
questi studi sulle C.M sono stati riportati quali programmi di formazione per insegnanti in corsi di
specializzazione in Psicomotricità, ed Educatore Professionale. Contemporaneamente alcuni di noi,
in qualità di operatori, utilizziamo queste conoscenze nel lavoro come verifica alla teoria (lavoro
psicomotorio, bambini autistici, fisioterapia).
Sono stati nostri insegnanti diretti il prof. J. Lerminiaux (allievo di Struyf e di Veldmann) in
Aptonomia; A. DeCoen Degehet, Trainer in P.N.L; M. Feyter (allieva di Struyf) in Catene
Muscolari.
Spero di riuscire ad introdurre alcuni aspetti fondamentali dell’approccio alla terapia corporea, per
iniziare un lavoro d’ascolto di se stessi e dell’altro che potrebbe richiedere anni per completarsi.
86
Cfr. J. Lerminiaux, Gli organizzatori dello psichismo, cit.
50
L E CATENE MUSCOLARI
Le CM manifestano il modo di funzionare del SNC attraverso l’attitudine corporea. La
lettura delle CM indica il livello di funzionamento degli organi sensoriali e di movimento,
quindi come la persona si relaziona. Esse permettono di individuare alcuni vissuti
comportamentali ed emozionali così come in altri sistemi basati sulle osservazioni tipologiche della
personalità.
Le ricerche fatte dal Dott. Patigny e dal Prof. Lerminiaux in Belgio, hanno portato ad intuizioni
originali sullo studio delle CM fatto da precedenti studiosi (Mezieres, Struyf). Essi hanno
evidenziato lo stretto legame tra fisiologia e psicologia nella “Teoria degli organizzatori dello
psichismo.”
Secondo questa teoria gli esseri viventi si sono evoluti sulla terra per rispondere in modo sempre
più efficace agli stimoli e ai mutamenti ambientali. Per questo motivo si è sviluppato un organo di
integrazione interno: il Sistema Nervoso Centrale (S.N.C.). Esso ha la funzione di coordinare le
complesse reazioni dell’organismo e permettere la raccolta di dati dal mondo esterno (sensazioni)
attraverso il movimento e lo sviluppo di sensi specifici. Ciò rende possibile all’organismo di
sintetizzare le risposte più adeguate (comportamenti) attraverso un delicato equilibrio tra
informazioni in entrata (analisi delle sensazioni) e movimenti in uscita, al fine di raggiungere gli
obiettivi di sopravvivenza, equilibrio ed espressione di sé (dei suoi bisogni).
Lo sviluppo filogenetico di un organo, la sua innervazione ed attivazione determinano una
relazione nuova e più ricca dell’organismo con l’ambiente circostante. Inoltre, la maturazione di
centri nervosi superiori, permette un utilizzo qualitativamente diverso dei vari organi: questa
organizzazione e riorganizzazione per arrivare ai livelli più complessi è un processo delicato e
vulnerabile.87
Durante l’infanzia il SNC si sviluppa lentamente, alcune aree cerebrali fondamentali per la vita
emotiva completano la loro maturazione entro la pubertà e i lobi frontali (sede dell’autocontrollo
emotivo e della consapevolezza) continuano a svilupparsi sino alla fine dell’adolescenza. In questo
periodo in cui ogni area cerebrale si sviluppa a velocità differente, il processo di apprendimento è
più incisivo poiché la maturazione progressiva delle aree e vie cerebrali li rende più sensibili agli
stimoli esterni e il fenomeno di ‘potatura’ neurale (pruning) permette di scolpire l’architettura
neurale rendendo più difficile i cambiamenti futuri.88
La complessità di questi processi fa si che il SNC divenga un organo integratore che favorisce
l’Emergenza di nuove e più efficaci relazioni con l’ambiente, fino ad arrivare alla complessità del
sistema uomo.
Il cammino filogenetico diviene quindi una via per la comprensione del funzionamento del SNC
nell’uomo, poiché egli, durante l’ontogenesi (sviluppo embrionale, fetale e dopo la nascita),
attraversa i vari stadi di sviluppo presenti nella filogenesi.
In una persona che non ha subito “traumi” (torsioni o blocchi), questo sviluppo sarà armonico, in
caso contrario lascerà tracce che indicheranno il livello di “torsione”. Fisiologicamente ne
osserveremo i segni: tutti gli organi funzioneranno bene al livello precedente il momento di torsione
per cui il bambino manifesterà un comportamento tipico sia esso fisiologico sia psicologico. 89
87
Cfr. J. Lerminiaux, Teoria degli organizzatori dello psichismo, cit.
Cfr. D. Goleman, Intelligenza emotiva, cit. Per il processo di ‘pruning’ vedi nota n. 38, p. 37.
89
“Il Dott. Patigny facendo riferimento alle nozioni di base dello psichismo, sulle funzioni organiche vitali e
d’evoluzione nello sviluppo del bambino, considera la fisiologia di un essere umano nel suo livello primario, ossia
l’ovulo fecondato. Quindi dal momento del concepimento fino ad arrivare al bambino, egli distingue diversi livelli
secondo il meccanismo di scambio tra l’organismo in crescita e l’ambiente esterno. Egli formula l’ipotesi che un
qualsiasi disturbo incontrato in uno di questi livelli può avere segnato il bambino che presenterà dei sintomi fisici
precisi, in relazione con il livello al quale corrisponde il disturbo.
È come se l’organismo non si fosse sviluppato armoniosamente dopo questo disturbo e ne portasse sempre la traccia.
Grazie a queste tracce e a questi sintomi somatici, il Dott. Patigny può determinare il livello psicologico del bambino.”
J. Lerminiaux, L’approccio psico-somatico,in “Solidarietà”, (1996), n. 28, p. 41.
88
51
La conoscenza delle linee generali dell’evoluzione del SNC a livello filogenetico permette, quindi,
di evitare l’interpretazione arbitraria dei comportamenti e fa comprendere il livello evolutivo
conseguente ad un blocco: possiamo osservare cioè il modo specifico di funzionare del SNC
attraverso le CM, il modo di utilizzare i sensi, il comportamento, l’attitudine psicologica
corrispondente.90 Possiamo così comprendere le potenzialità emergenti.
Dagli aspetti fisiologici e dal comportamento si può risalire al livello del blocco: al modo di
funzionare del SNC. Nel trattamento sarà poi più semplice per il terapista comprendere quale
ambiente psicologico-fisiologico creare per il paziente.
La difficoltà più grande per il terapista è raggiungere il bambino o il paziente con problemi
gravi al ‘suo livello’ di funzionamento ottimale per poter comunicare con lui. Per quanto grave
possa essere un paziente, infatti, c’è un livello (neuro-fisio-psicologico) in cui egli è ‘normale’. A
questo livello il bambino riesce a gestire gli stimoli che riceve secondo il suo proprio modo di
sentire.
Sebbene si possano conoscere i livelli di integrazione e di funzionamento del SNC non è facile
capire e comunicare con il bambino che si trova ad un livello molto basso, ma la non conoscenza
degli stessi rende la comunicazione impossibile, poiché può essere aiutato a partire da quel livello.
Richieste terapeutiche troppo elevate o troppo basse non inducono cambiamenti efficaci.
Lo studio fisiologico e comportamentale delle CM costituisce un valido aiuto per individuare il
livello del paziente. Per poterlo poi raggiungere occorrono altri mezzi (aptonomia, risonanza
consapevole, prolungamento).
È importante ricordare che tutti noi abbiamo dei blocchi (lievi torsioni) in alcuni livelli, e
spontaneamente ritorniamo indietro quando stiamo male fisicamente o psicologicamente
(comportamenti protettivi o autoconsolatori, ecc.). Per cui è possibile riconoscere anche nell’altro
questo processo.
90
“Quando l’organismo percepisce, esso forma una rappresentazione interna del proprio ambiente, quando un
organismo agisce effettua una rappresentazione esterna dei propri piani, i programmi neurali (codici complessi) del suo
cervello.” K. H. Pribram, 1971, citato in: M. Pierro - P. Giannarelli - P. Rampoldi, Osservazione clinica e riabilitazione
precoce, cit., p. 45.
52
Riporto in una tabella la correlazione tra alcuni aspetti presi in considerazione nella Teoria degli
Organizzatori. Descrivere tutte le varie sezioni, sebbene molto interessante, esula dagli scopi di
questo lavoro.
Nel capitolo precedente ho fatto una breve introduzione sulla filogenesi e l’ontogenesi.
Sensorialità
Evoluzione
Filogenesi
Asse
Equilibrio
Pesce
300-400
milioni
di anni
Circolazione
Kinestesia
Centrazione
Bocca
Ontogenesi
Organizza- Sviluppo
tori
dei cervelli
Embrionale VestiboloAncoraggio
Centrale
7-10 giorni
vestibolare
dal
concepimento
Primi rettili Stadio
Embrionale Cefalo
Lucertola
circolatorio
centrale
280milioni Motricità
Rubrod’anni
8-9
olivare
settimane
Batrace
Respiratorio Fetale
Oro-centrale
Rana
5-6 mesi
Genicolato
Catene
Muscolari
Starter
Inizio
Messa in
tensione
MacLean
AP
Catena
antero
posteriore
C. Rettile
AM
c. antero
mediana
C. Rettile
C. Rettile
NASCITA
Visualizzare
Occhi
Rettili
Dinosauri
Orale
2 mesi dalla
nascita
I di Spitz
Sorriso
Oculocentrale
Talamico
PM
c. postero
mediana
C. Rettile
Immaginazione
Manipolare
Primi
mammiferi
200 milioni
d’anni
II di Spitz
Angoscia
dell’estrane
o
Manocentrale
Cerv.
Limbico
PL
c. postero
laterale
Cervello
Mammifero
Verbalizzare
Udito
Prendere le
distanze
Primi
uomini
5 milioni
d’anni
Australopit
hecus
Primi
gruppi
2 milioni
d’anni
Homo
erectus
Città 10.000
anni Homo
sapiens
Orale
7-8 mesi
emotività,
affettività
Psicomotrici
tà
Anale
15 mesi
III di Spitz PiedeOpposizio- centrale
ne
Neocorteccia
PA
c. postero
anteriore
C. Umano
Sintassi
Organizzazione
delle cose
Progettare
Pianificare il
futuro
3-4 anni
Spazio
Cort.
Temporale
(Broca)
AL
c. antero
laterale
C. Umano
Fallica
5-6 anni
mov.
Concettualiz
zato
Tempo
Cort.
frontale
PENTAX
Tutte le CM
C. Umano
53
Quando prevale una CM si ha uno stile particolare. Il gesto ha una qualità pertinente a
quella CM Anche gli organi sensoriali saranno diversi a seconda se esprimono PM, AM, PA,
AP, ecc.
Quando vediamo qualcuno mangiare, camminare, ecc., osserviamo che egli utilizza sempre lo
stesso stile anche se il cibo che mangia o la strada che percorre è diversa. Così il modo di agire
(stile) è caratteristico d’ogni individuo. 91 Ascoltando il modo di camminare sappiamo chi sta
arrivando anche senza vederlo. Quando si filma una persona, si coglie il comportamento di tutti gli
organi ed è possibile vedere che sono tutti allo stesso livello (Lerminiaux).
Il Sistema Nervoso Centrale dell’uomo può manifestare tre tipi di movimento qualitativamente
differenti, subordinati tra loro dal più primitivo al più complesso e che si sviluppano
filogeneticamente ed ontogeneticamente (J. Lerminiaux):
Motricità: movimento organizzato già presente nei rettili (striscio): è presente la sensazione del
movimento come fatica per realizzarlo (PRESENTE).
Psicomotricità: movimento memorizzato (cervello limbico: mammifero) si ha l’immagine dello
sforzo e del tempo (sensazione introiettata) di ciò che si è vissuto per raggiungere un oggetto
(PASSATO).
Movimento concettualizzato: il movimento può essere immaginato senza l’esperienza fisica
diretta. Esso diventa movimento psichico (concettualizzato), interiorizzato alla base delle emozioni
e del pensiero ( PUO’ IMMAGINARE E COSTRUIRE IL FUTURO).
Attraverso lo studio filo-ontogenetico Patigny e Lerminiaux in Belgio, hanno ipotizzato che un
bambino che abbia subito una “torsione” a livello embrionale, fetale o dopo la nascita, avrà
caratteristiche fisiologiche e comportamentali proprie del livello del ‘blocco’.92 Riconosciuto il
livello di torsione attraverso gli elementi psico fisiologici presenti nel bambino, abbiamo una buona
base per capire l’approccio necessario all’ulteriore sviluppo. Lo stesso nella seduta terapeutica. Il
terapista che sa spaziare tra le varie CM può cogliere i segni neurologici, l’attitudine fisica e
sensoriale, il modo di utilizzare la cognizione, ecc. e potrà offrire più possibilità al paziente. Egli
riconoscendo il livello di funzionamento globale del paziente può meglio aiutarlo nel suo sviluppo.
Simbolicamente questo processo ricorda la costruzione di un muro difettoso, continuare a
costruirvi sopra può essere pericoloso: un bravo muratore, che si accorge del problema, rompe il
muro sino al livello della falla e lo ricostruisce in modo adeguato (Lerminiaux).
Qualche esempio ci può permettere di cogliere l’originalità dell’apporto che le CM possono dare
all’osservazione del comportamento di bambini con Paralisi Cerebrale Infantile (PCI). 93 Queste
riflessioni, che sono tuttora in corso di perfezionamento, nascono dalla comparazione degli studi
sulle CM, dall’esperienza concreta e da ricerche riportate da studiosi in campo riabilitativo.
Nei bambini con PCI, che hanno subito una torsione pre o perinatale (Asse, AP, AM), la ‘paralisi
motoria’ è aggravata o di fatto è l’espressione dell’incapacità del SNC di gestire gli input proprio ed
esterocettivi94. Il SNC a questo livello di maturazione, infatti, elabora i dati che riceve dal proprio
91
“L’individualità inizia nel sé fisico. Riconosciamo una persona dalla sagoma, da come cammina, da come piega la
testa. L’individualità fisica è modellata dalle forze della vita: come siamo nati, quando abbiamo imparato a muoverci, i
nostri obiettivi, esperienze, incidenti, atteggiamenti mentali ed emotivi. Tutti questi fattori lasciano una traccia nella
memoria mentale e in quella fisica, che sono simili in molti modi: il corpo e la mente sono testimoni dei turbamenti,
degli incidenti e delle cose incompiute della vita.” I. Rolf, Il rolfing e la realtà fisica, Casa Editrice Astrolabio, Roma
1996, pp. 130.
92
Vedi nota n. 4 p. 52.
93
Il termine PCI (secondo la definizione della Spastic Society, 1966) indica una turba persistente ma non immutabile
della postura e del movimento dovuta ad un’alterazione della funzione cerebrale per cause pre-peri-post natali prima del
completamento della crescita e dello sviluppo.
94
La sensibilità propriocettiva è data dalle terminazioni muscolo-tendinee che ci informano sulle posizioni e stati tonici
del corpo. La sensibilità esterocettiva è data dai sensi comunemente detti (vista, udito, tatto, ecc.) e ci informa degli
stimoli esterni al corpo.
54
corpo e dal mondo esterno attraverso la sensibilità protopatica (diffusa, aspecifica ed attivatrice). 95
Il SNC che ha un blocco a questo stadio di maturazione subisce un arresto nella possibilità di
integrare i programmi neuromotori di livelli più elevati che richiedono un’elaborazione fine e
specifica dei dati sensoriali (sensibilità epicritica).
Il programma neuromotorio insito geneticamente e specie specifico, quindi, funziona in modo
ottimale sino al livello del blocco, mentre ai livelli superiori di integrazione neurologica il
funzionamento risulta disarmonico o deficitario perché il programma di base risulta alterato e non
può supportarli. Il bambino con una torsione a questi livelli (Asse, AP, AM) è sequestrato dalla
propriocettività (sensazioni che provengono dal proprio corpo) in risposta agli stimoli esterni che,
per essere gestiti richiedono una fine discriminazione sensoriale e spaziale (sensibilità epicritica) di
cui il SNC non è capace. Egli in questo stadio risponde agli stimoli interni ed esterni con un
predominio dell’attività tonico riflessa (vestibolare e centroencefalica) che lo obbligano in posture e
stati tonici specifici, questi a loro volta inflazionano la sensibilità propriocettiva.
L’incapacità di gestire gli stimoli esterni (percepiti in modo impreciso), la difficoltà nel poter e
sapere gestire il proprio corpo (propriocettività), la motricità del bambino dominata dall’attività
tonica che sequestra e sovraccarica il suo mondo percettivo, sono i fattori per cui il movimento
risulta limitato, impreciso ed, alcune volte, impossibile.96
In altre parole un bambino ‘non nato’ o ‘appena nato’ non è neurologicamente pronto a gestire gli
stimoli del proprio corpo in modo finalizzato, tanto meno gli stimoli provenienti dal mondo esterno,
pur avendo integri gli organi sensoriali. Però ad ogni livello di blocco prenatale (Asse, AP, AM) il
bambino manifesta in modo differente questi ‘segni’ per il diverso grado di maturazione e di
integrazione del SNC.
Alcuni bambini con blocco a livelli precoci (Asse) hanno pallore diffuso, insensibilità agli stimoli
esterni o ipersensibilità (con tendenza all’esclusione degli stessi), difficoltà nell’alimentazione (a
volte anche nella suzione e nell’assimilazione con rigugiti frequenti). Manifestano problemi nella
termoregolazione corporea e nel ritmo sonno veglia. La tendenza del bambino è verso l’immobilità,
questa è infatti la condizione che gli da senso di integrità.
I bambini AP sono molto sensibili agli stimoli esterni ed interni, ai quali rispondono con spasmi
tonici attivati dai riflessi (movimenti geneticamente programmati). Il tono di base è alto o fluttuante.
Vista, udito e tatto sono facilmente catturati dagli stimoli ma non riescono a focalizzarne la fonte. In
questi bambini la sensorialità e movimento sono globali ed aspecifici nei casi più gravi, in quelli più
lievi il movimento è comunque dominato dai riflessi.
I bambini AM mostrano una ricettività diffusa (vista in prevalenza non focalizzata, sguardo
erratico, udito facilmente catturato da stimoli vari, incapacità di sentire in modo selettivo la
sinestesia e la chinestesia, ecc.). L’incapacità di gestire lo spazio causa crisi di panico e respiratorie
95
“Talune forme di sensibilità hanno carattere diffuso, non differenziato; è questa la sensibilità che Head ha chiamato
protopatica; […] trattandosi di modalità sensitive relative alla percezione del dolore, degli stimoli termici, dei vari
stimoli nocivi raccolti a livello cutaneo. Un’altra forma di sensibilità più fine, più delicata, detta sensibilità epicritica
,assicura la coscienza spaziale e discriminativa degli stimoli tattili.” A. Delmas, Vie e centri nervosi. Introduzione alla
neurologia, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1977, p.60.
Per una descrizione più dettagliata della sensibilità protopatica vedi nota 10 pag. 24.
96
“Già negli anni '70 Sabbadini ha sostenuto l’esistenza della disprassia come fenomeno nascosto della PCI: - Ci si
rende conto che il disturbo motorio della "paralisi cerebrale" è il risultato dell’interferenza (o della somma) di più
fattori, probabilmente tutti esprimibili come disturbi esecutivi e conoscitivi ad alto livello di integrazione, che non
soltanto si aggiungono alla "paralisi spastica" (spasticità, rigidità, distonia, atassia), ma soprattutto influiscono sul
disturbo di moto o addirittura condizionano il disturbo motorio stesso, in misura assai rilevante rispetto alla paralisi
"centrale".[...]. Ammesso che sia possibile, anche temporaneamente, eliminare la "paralisi centrale" e l’ipertono
antigravitario (la spasticità), il bambino affetto da paralisi cerebrale si presenterebbe ancora ai nostri occhi con un
disturbo apparentemente soltanto motorio (più precisamente esecutivo) esprimibile come goffaggine o maldestrezza. In
verità tale disturbo “esecutivo” non è altro che il risultato della somma o dell’interferenza di vari disturbi che potremmo
definire complessivamente "aprassia" ed "agnosia", intendendo con questi due termini una serie di disturbi "esecutivi" e
"conoscitivi" ad alto livello di integrazione.” A. Ferrari, Proposte riabilitative nelle paralisi cerebrali infantili, cit.,
p.67.
55
per cui sviluppano la tendenza ad un’attitudine flessoria globale difensiva. Il tono muscolare di base
è ipotonico (a riposo) ma si accentua durante l’attività, in modo particolare quando deve affrontare
posizioni che richiedono controllo dello spazio circostante. In questi bambini la possibilità di gestire
il movimento è fortemente compromessa dalla incapacità di entrare spontaneamente in ascolto del
proprio corpo (oppure sono sequestrati dalla prorpiocettività) più che dalla paralisi motoria, perché
continuamente catturati dagli stimoli esterni (risonanza passiva): i movimenti spontanei sono più
ampi del necessario o ridotti e il tono muscolare fluttua facilmente passando dall’ipotono di base (a
riposo) all’ipertono durante l’attività con perdita di controllo e goffaggine. Hanno difficoltà
nell’apprendimento motorio e nell’acquisizione degli automatismi, infatti sembra che l’esecuzione
sia bloccata sempre allo stesso stadio. In questi ultimi casi è importante ridurre la difficoltà del
compito motorio semplificandolo nei suoi componenti ed invitare il bambino a porre attenzione alle
sensazioni che riceve dal corpo (centrarsi in se stesso, cm AM); è necessario favorire
contemporaneamente il movimento ed il senso di integrità corporea (cm AP ed Asse) utilizzando le
facilitazioni di movimento e la ripetizione modulata e prolungata nel tempo dei compiti motori. In
questo modo diamo sicurezza e senso di integrità.
L’accortezza di modulare lentamente le nuove acquisizioni non crea instabilità e non sollecita le
difficoltà di organizzazione corporea e spaziale che il bambino vive. Alcuni bambini AM se
adeguatamente aiutati e motivati possono arrivare ad acquisizioni motorie e di autonomia personale
soddisfacenti, altri (con livello di torsione più basso o grave, Asse o AP) possono essere aiutati
nella ricerca dei ritmi autonomici (ritmo sonno veglia, alimentazione, postura che dia senso di
integrità corporea, ecc.).
Anche i bambini con PCI a livello leggermente più alto di blocco (PM, PL), pur potendo
raggiungere discreti livelli di autonomia motoria presentano difficoltà nei movimenti fini (controllo
tonico). In questi bambini il tono muscolare è tendenzialmente alto in modo particolare quello
estensorio. Vista ed udito sono ben focalizzati e i bambini sono discretamente abili nelle attività
manuali grossolane e nel liguaggio verbale, che utilizzano spesso come compenso. Il linguaggio ha
la tendenza ad essere fluente ma, a volte, ecolalico. Il bambino PL in particolare, attraverso la
maturazione della memoria (cervello limbico), riesce a migliorare la rappresentazione di sé (del suo
corpo) e l’apprendimento.97
Si intuisce, quindi, l’importanza dell’apporto delle CM alla comprensione delle patologie neuropsicomotorie. L’osservazione permette di risalire dal comportamento al livello del blocco e, quindi,
al modo di funzionare del SNC del bambino, ciò permette un approccio adeguato e globale.
Il bambino autistico, che ha subito un blocco in fase precoce (Asse, AP, AM) (Lerminiaux,
Patigny), tende ad andare a livelli precedenti la torsione a causa di problemi di tolleranza
percettiva: incapacità di gestire gli stimoli esterni ed interni. Questi sono vissuti come insopportabili
(sensibilità protopatica esasperata): egli esclude gli stimoli o li infaziona con manovre autonomeautomatiche (stereotipie) che gli permettono il controllo delle sensazioni esterne (Lerminiaux). Se
un bambino autistico è bloccato in AP è un bambino “circolatorio”, sfarfalla nell’ambiente o attiva
stereotipie continue alle mani e dondolio del corpo, tocca e fugge, lo sguardo è erratico, ecc.
Spesso, però, il bambino con patologia neuro-psicomotoria sviluppa dei ‘picchi’ in CM superiori
al suo livello di funzionamento efficace. Questi picchi indicano lo sforzo che il bambino fa nel
tentativo di approcciare l’esperienza, cioè le strategie adattive che egli mette in atto per superare le
sue difficoltà.
Il terapista deve comprendere il livello funzionale in cui si trova il bambino (in cui il suo SNC
funziona bene) e proporre esperienze adeguate in modo che egli le possa elaborare senza difficoltà
e, se possibile (se il suo SNC lo permette), aiutare il bambino nel passare a livelli superiori di
funzionamento favorendo lo sviluppo di compensi nel suo approccio all’ambiente.
È importante, tuttavia, intendere i livelli descritti non come organizzazioni funzionali fisse: una
persona ha una torsione ad un livello specifico in modo variabile secondo la gravità della torsione
stessa (il grado di disfunzione subito o organizzato dal SNC ad un determinato livello) e non
97
Vedere più avanti la Scaletta delle Emergenze.
56
manifesta solamente aspetti psico fisiologici di quel livello. Il concetto di livello deve essere
utilizzato per rilevare i segni che indicano un modo globale di funzionare. Condizioni ambientali
e terapeutiche incidono in modo significativo sulle potenzialità residue del bambino in senso
motivazionale, ma è importante avere bene in mente le difficoltà neuro-fisiologiche che il
bambino ha e vive per poter adeguare la proposta terapeutica ed evitare accanimenti
terapeutici inutili o dannosi. Troppo spesso questi derivano da una scarsa cognizione sulle reali
difficoltà e potenzialità del bambino o da attuazioni terapeutiche troppo passive.
Lo studio sulle CM è una tra le tante chiavi di lettura possibili per la diagnosi e la terapia. Esso
offre un’utile sintesi tra molti aspetti fisiologici, psicologici e comportamentali, permettendo
un’approccio multidisciplinare coerente.
*****************
Farò un breve accenno alle CM dal punto di vista della espressione comportamentale così come ci
sono state presentate dal Prof. Lerminiaux e da Madlene de Feyter. 98
Ricordo che durante l’evoluzione è prevalso l’uso di una CM o l’altra e di organi sensoriali
specifici determinando il modo particolare di approcciare la realtà da parte del SNC:
l’Asse non è una catena muscolare. Il cervello primitivo vestibolare (dei pesci) permette la
direzione fondamentale del corpo, il dorso sopra e la pancia sotto (protetta). Tutte le CM si
sviluppano dall’ASSE: dai tre canali semicircolari dell’orecchio interno (organo vestibolare)
derivano tre possibilità di movimento ed il loro opposto nello spazio. Le CM sono l’espressione di
queste sei direzioni del movimento nel corpo umano. Quindi l’Asse, fisicamente e
psicologicamente, si riferisce alla capacità dell’individuo di fare riferimento in se stesso: essa è
all’origine della possibilità dell’individuo di attivarsi secondo un’immagine di sé in senso fisico,
intellettivo e affettivo. “Più tardi, quando lo psichismo si basa su questo funzionamento e quando si
sviluppa la capacità di rappresentarsi delle immagini, questa capacità di fissarsi, di situarsi in
rapporto ad un asse, costituirà (evocata in immagine) l’Asse centrale dell’Io”.99
La CM AP o catena antero posteriore è responsabile
dell’armonia e della coordinazione dei movimenti di
base del nostro organismo (è a questo livello che
originano i Riflessi Arcaici o movimenti
geneticamente programmati del bambino). I soggetti
in cui prevale questa CM hanno tendenza alla lassità
legamentosa e all’accentuazione delle curve del
rachide. La muscolatura respiratoria con il suo ritmo
è determinata da questa catena.
Essa permette la spontaneità, l’adattabilità, la
vivacità e la libertà di movimento, ma un suo eccesso
crea instabilità, mancanza di ritmo nel movimento e
nelle funzioni organiche sino a sentire se stessi senza
Asse.
La CM AM, catena antero mediana, origina dalla
bocca e riveste la parete anteriore del corpo favorendo
l’arrotolamento (posizione fetale) ed il ritorno in sé. I
muscoli sono astenici (deboli) con tendenza al
98
Questo aspetto è descritto in modo completo in G. Struyf, Les Chaines Muscolaires et Articulaires, Diffusion. TGDS,
asbl Rue de la Cambre 227, 1150 Bruxelles, 1987.
99
J. Lerminiaux, Gli organizzatori dello psichismo, cit., pp. 6.
57
valgismo degli arti inferiori ed
adduzione ed
intrarotazine dei superiori.
È la catena muscolare dell’affettività e dell’intuizione.
Nell’uomo rappresenta l’aspetto materno di
protezione, accoglienza e stabilità, ma qualora essa si
distorce
manifesta
possessività,
angoscia,
iperprotezione verso sé e gli altri.
La CM PM o postero mediana è formata dalla
muscolatura posteriore di sostegno del corpo. Essa
origina sopra gli occhi (dalla fronte) e scende sino alla
pianta dei piedi. Il tono muscolare è alto e serrato
soprattutto nella lordosi lombare e cervicale.
Questa è la catena di tipo cerebrale, essa favorisce la
propulsione in avanti e quindi la capacità di affrontare
le situazioni. Ma essa è anche la nostra ‘tigre in
corpo’100, cioè la nostra attitudine di difesa - attacco,
pronta ad aggredire. La cm PM utilizza la vista per
controllare lo spazio e preparare le nostre azioni. La
posizione eretta nell’uomo ha reso potente questa
catena. Essa rappresenta l’attitudine paterna di guida e
sostegno, ma se essa è in eccesso si manifesta con
durezza, freddezza, ansia, violenza.
La CM PL, postero laterale, consente di mettere gli
arti in rotazione esterna sia a livello delle spalle, sia
alle anche e favorisce ‘l’apertura’, l’estroversione,
l’esplorazione. La muscolatura è molto sviluppata ed
il tipo PL ama essere ammirato (mister muscolo).
Questa catena muscolare favorisce la socialità e la
relazione, ma se eccessiva causa invadenza,
dispersione e poca consapevolezza degli altri.
La CM PA. La muscolatura postero anteriore
permette l’equilibrio della colonna vertebrale nel suo
asse verticale, favorisce, quindi la posizione eretta e
l’equilibrio. Questa è la CM del dinamismo,
dell’adattabilità e della sensibilità. L’esasperazione di
questa CM porta impulsività, ipersensibilità, fuga
dalla realtà.
(nella figura PA equilibrato e PA eccessivo)
La CM AL o antero laterale, mette gli arti superiori
ed inferiori in rotazione interna favorendo la
‘chiusura’ rispetto al corpo e, quindi, la
100
T. Bertherat, La tigre in corpo, Arnoldo Mondatori Editore, Milano 1990.
58
concentrazione, l’organizzazione, la tenacia e la
concretezza. Il tono muscolare è teso e stressato.
L’attitudine prevalente è l’introversione ed il
perfezionismo (a volte esasperato).
(AL ha un atteggiamento ripiegato ed arrotolato su se
stesso)
Pentax : tutte le CM e i sensi sono integrati. La capacità di spaziare tra le varie CM aiuta a
riconoscere il proprio vissuto (consapevolezza) e quello degli altri (empatia). Il Pentax favorisce la
sintesi dell’esperienza e la possibilità di concettualizzarla (elaborare interiormente un’esperienza
senza doverla vivere concretamente). L’individuo sa adattarsi alle varie situazioni e prevede
l’attitudine necessaria all’esperienza che vivrà in futuro. Egli agisce non solo sulla base
dell’esperienza passata o attuale, ma anche su un progetto (futuro) che ha sé come riferimento
(Asse).
Le tensioni muscolari indotte da un vissuto emozionale o comportamentale persistente causano
delle modificazioni nell’assetto corporeo che può determinare, nel tempo, alterazioni muscoloscheletriche: in ogni CM si possono osservare alterazioni specifiche.
Le CM sono comunque da intendere come ‘una tendenza a ….’, e non come una classificazione
rigida. Nella loro espressione psico-fisica, inoltre, le CM possono manifestare quadri misti
equilibrati o disarmonici che rendono le classificazioni più ricche e complesse.
59
LA SCALETTA DELLE EMERGENZE101
Un altro schema che ritengo molto importante per individuare il livello funzionale del SNC in
modo dinamico è la Scaletta delle Emergenze:102
FUNZIONE
MOVIMENTO
SENSAZIONE
POSIZIONAMENTO
PERCEZIONE
MEMORIA
IMMAGINE
SEPARAZIONE
PAROLA
Riprendo un concetto già accennato: la maturazione (mielinizzazione) di alcuni circuiti neurologici
del SNC (FUNZIONE) e la comparsa di nuovi organi negli esseri viventi a livello fiologenetico ed
ontogenetico determinano l'EMERGENZA di nuove capacità funzionali. Esse permettono
un’analisi sempre più fine dell’ambiente in cui l’essere vive, per un migliore adattamento.
Il SNC riceve le SENSAZIONI attraverso il movimento dell’organo innervato (es. il movimento
degli arti permette le sensazioni tattili ed il senso di posizione degli stessi nello spazio; il
movimento degli occhi rende possibile le sensazioni visive e l’esplorazione dello spazio circostante;
101
Molti concetti descritti in questo paragrafo fanno parte delle lezioni del prof. J. Lerminiaux, allora Direttore
‘dell’Istituto Mediterraneo per la Formazione, Ricerca, Terapia e Psicoterapia’ di Caltanissetta, per i docenti del Corso
triennale di Psicomotricità e del Corso per Educatori Professionali. Altri sono stati da me elaborati nel rispetto del
pensiero di base.
102
“Ciò di cui i primi sistemici si resero conto molto chiaramente è l’esistenza di livelli differenti di complessità, con
leggi di tipo diverso operanti a ciascun livello. […]. A ogni livello di complessità, i fenomeni osservati mostrano
proprietà che non esistono al livello inferiore. Per esempio, […] il sapore dello zucchero non è presente negli atomi di
carbonio, idrogeno e ossigeno che ne costituiscono i componenti. Nei primi anni Venti, il filosofo C. D. Broad coniò la
definizione di ‘proprietà emergenti’ per quelle proprietà che emergono a un certo livello di complessità ma che non
esistono a livelli inferiori.” F. Capra, La rete della vita. Una nuova visione della natura e della scienza, cit. p. 39.
60
ecc.). Le sensazioni nascono dall’incontro degli impulsi che riceviamo dal mondo esterno con il
SNC. A sua volta questo è arricchito e modificato dagli input (sensazioni) che riceve e diviene un
organo d’integrazione.103 Il SNC infatti si organizza secondo le esperienze che vive e su questa base
attiva le sue risposte.104
Le sensazioni che provengono dal mondo esterno sono tantissime: in un istante il nostro SNC è
capace di elaborare due milioni di sensazioni visive e centomila uditive, ma solo una piccola parte
di esse sono messe a fuoco dalla coscienza attraverso il posizionamento. Questo è il modo
particolare di entrare in rapporto con la realtà permesso da fattori genetici, culturali ed educativi,
che agiscono da filtri nella relazione con la realtà: ad esempio nella relazione madre-bambino, le
sensazioni tattili, visive, uditive, ecc., che il piccolo vive nel contatto con il corpo della madre, sono
condizionate dal modo in cui esse gli vengono presentate. L’apprendimento emotivo, che avviene
per risonanza nel bambino piccolo, è un esempio di particolare posizionamento educativo-culturale
indotto dalla madre. Il modo di vivere le situazioni della vita quotidiana si riflette inevitabilmente
sul comportamento e sul tono emotivo materno (la tensione dei suoi muscoli, il battito del suo
cuore, il suo respiro, ecc.). La madre influenza consapevolmente o inconsapevolmente il modo in
cui il bambino sente e vive queste esperienze attraverso di lei. Queste esperienze, la stabilità
dell’ambiente, le sensazioni che il bambino incontra nella vita quotidiana esplorando il suo mondo,
fanno si che alcune di esse che egli esperimenta abitualmente diventino importanti
(PERCEZIONI).105
Nel bambino con PCI molto spesso la patologia limita o distorce l’attività motoria e quindi il
posizionamento rispetto al proprio corpo ed alla realtà che lo circonda risulta condizionato. “Per
poter compiere un movimento corretto bisogna infatti poter disporre di una corretta informazione
percettiva e viceversa per poter raccogliere una corretta informazione percettiva bisogna saper
realizzare un movimento corretto. Nella paralisi cerebrale infantile entrambi questi postulati
risultano impossibili ed a livello prognostico condizionano le possibilità di recupero del
paziente.”106
Il posizionamento acquisito, quindi, diventa significativo per l’organismo nella ricerca
dell’equilibrio fisico e psichico futuro. Qualora esso risulti negativo può avere conseguenze
disastrose per le potenzialità di un individuo, evento frequente nei nostri pazienti.
Sino a questo livello funziona il cervello rettile dell’attivazione e dell’adattamento (risonanza).
Con la maturazione del cervello mammifero (memoria ed apprendimento) il bambino impara a
riconoscere le situazioni che ha già vissuto poiché si depositano nella sua memoria (ippocampo).
In realtà non ricordiamo tutte le sensazioni vissute durante un’esperienza. Il SNC costruisce
un’IMMAGINE globale della situazione attraverso le percezioni che si fissano (ancorano) nel SNC.
Per esempio immaginiamo di vivere un incidente d’auto: nell’impatto proviamo sensazioni dolorose
nel nostro corpo, sensazioni viscerali, rimaniamo scossi, traumatizzati. Avvertiamo l’odore della
benzina versata, le urla, le immagini, ecc. La somma di queste sensazioni sono l’esperienza totale,
ma quello che memorizziamo di tutta la scena, che si fissa dentro di noi (ancoraggio), può essere
un’immagine visiva, uditiva o corporea, a seconda di quello che ha colpito la nostra attenzione
nell’attimo dell’incidente (risonanza con l’evento). Rivivendo quella specifica sensazione si
103
Il modellamento della funzione (SNC) è indicato dalla freccia di ritorno sulla sinistra della scaletta. Esso ha un
significato neurologico e comportamentale, infatti nuove esperienze creano e rafforzano nuovi circuiti cerebrali
eliminando quelli non utilizzati, e nuovi comportamenti modificano quelli di base.
104
“Secondo la scuola neuropsicologica russa ed in particolare P. K. Anochin, il movimento è il risultato di una
complessa elaborazione delle afferente (sensazioni) che continuamente si confronta con un modello interno.” M.Bottos,
Paralisi cerebrale infantile. Diagnosi precoce e trattamento tempestivo, cit., pp15.
105
Di fronte ad una stessa situazione, ciascuno ha una percezione che gli è propria ed originale. Per questo motivo un
avvenimento vissuto contemporaneamente da un gruppo di persone è riferito in modo differente da ognuno di esse. La
loro esperienza interiore (il posizionamento nell’ osservare l’evento e quindi la percezione di esso) è differente. Come
abbiamo visto in precedenza questo fenomeno ha una base nell’esperienza, quindi neurologica e condiziona le
esperienze future.
106
A. Ferrari, Proposte riabilitative nelle Paralisi Cerebrali Infantili, cit., p.55.
61
richiama alla memoria il vissuto globale. Nel nostro caso potrebbe essere il luogo dell’incidente o
l’odore della benzina e del sangue, ecc.
Anche l’immagine di sé si costruisce attraverso l’esperienza sensoriale vissuta nel proprio corpo in
relazione con la realtà esterna.
La memoria, nell’esperienza quotidiana, permette di ritenere la percezione quale immagine interna
(azione, sensazione interiorizzata). A questo livello, nasce la possibilità di rappresentarsi
mentalmente un oggetto, una persona o un’azione indipendentemente dalla sua presenza.
L’immagine, nel momento in cui è interiorizzata, guida il comportamento poiché condiziona
le sue risposte (emotività). Noi tutti ci muoviamo secondo l’interpretazione, la credenza che
leghiamo alle circostanze basandoci sulla nostra precedente esperienza (condizionamento passato: il
posizionamento rispetto ad essa). A sua volta il movimento esprime l’immagine interna (vedi
CM, stato interno e processo interno).
Il terapista può utilizzare (calibrare) il movimento per capire cosa vive il paziente, cioè il suo
modo di utilizzare il SNC.107
Molti bambini con paralisi cerebrali infantili hanno problemi di movimento e spesso le
problematiche di questi bambini si manifestano con difficolttà motorie derivate dall’elaborazione
dei dati sensoriali più che da problemi di paralisi del movimento (aprassia o disprassia), 108entrambi
i fattori comunque si condizionano e rafforzano a vicenda. In ogni caso l’impossibilità di vivere
l’esperienza o la distorsione di informazioni ricevuta nel suo corso infuisce sulla costruzione di
un’immagine di sé e nella relazione con la realtà. Infatti molto, troppo spesso il paziente
neurologico è prigioniero di un’immagine limitante di sé che si fissa nella memoria cosciente ed
inconscia. Questa assieme all’immagine che gli rimanda l’ambiente può bloccare definitivamente le
risorse potenziali che possiede (paralisi intenzionale – A. Ferrari).
Avere un’immagine interna di qualcosa fa si che si possa essere consapevoli della sua presenza o
meno alla nostra realtà sensoriale e, quindi, diventiamo coscienti di essere separati da essa. Per il
bambino questa è una fase molto delicata, egli diviene consapevole che l’oggetto del suo desiderio
(madre, cibo, giocattolo, ecc.) è esterno a lui. Ciò che prima sembrava arrivare al bambino
magicamente rispondendo ai suoi bisogni, adesso può mancargli o non rispondere alla sua
aspettativa causando le prime frustrazioni. Ciò è tanto più vero per il bambino con PCI per le sue
difficoltà nell’autonomia motoria e, quindi, nella possibilità di gestire i suoi desideri e bisogni.
Quando siamo in possesso di un’immagine ben definita possiamo esteriorizzarla utilizzando la
PAROLA. Il richiamo verbale è dato dalla consapevolezza della separazione ‘dall’oggetto’ che è
nella nostra immagine. Io posso chiamare una persona, posso chiedere un bicchiere d’acqua o una
qualsiasi cosa mi manca perché ne ho fatto esperienza. Allo stesso modo, in senso metaforico, posso
inviare baci o abbracci per telefono, verbalizzare un gesto, ecc.109
107
Tra i componenti fisici, fisiologici, emotivi ed intellettivi di un individuo sicuramente il movimento e l’attitudine
corporea sono i più evidenti ed immediatamente osservabili. Essi sono dotati di una realtà oggettiva oltre che soggettiva.
108
“La disprassia non definisce un problema di movimento in quanto tale, ma identifica un complesso disturbo
dell’organizzazione dell’azione, connotato dalla incapacità di riprodurre movimenti intenzionali coordinati in
combinazioni e sequenze, appresi e finalizzati in funzione di un risultato.” A. Ferrari,Proposte riabilitative nelle
paralisi cerebrali infantili,cit., p. 49.
109
“ Utilizzare il segno è prima di tutto rimpiazzare la realtà esterna con un segno e manipolare il segno al posto della
realtà esterna. Significa creare una distanza, una differenza fra la realtà nella quale il bambino è immerso ed il segno da
lui costituito. La distanza fra il segno e la cosa permette al soggetto di costituirsi in opposizione alla realtà esterna in un
processo di separazione di de-fusione dalla realtà. Divenire soggetto significa uscire dalla fusione originaria, accettare il
taglio, la separazione dalla realtà introdotta dal segno, perdendo così il sentimento di beatitudine della fusione. Ancor
prima di accedere al linguaggio il bambino ha dovuto attraversare un gran numero di esperienze simili: uscire dal
grembo materno, lo svezzamento, le esigenze della proprietà, e sicuramente sarà sempre posto davanti a della scelte,
delle rinunce. Ma utilizzare il segno ed acquisire il linguaggio rappresenta il taglio più radicale e la tappa capitale per
l’accesso alla dimensione umana e alla comunicazione con i propri simili. Si tratta di rinunciare a qualche cosa, a non
avere tutto, ad avere il segno al posto della cosa e quindi di accettare una condizione di mancanza che introduce ad un
più essere; in altri termini accettare la cacciata dal paradiso terrestre e condurre una esistenza umana e non essere un dio
onnipotente. In termini freudiani, accettare la castrazione che introduce al piacere o, in termini filosofici, la separazione
che costituisce l’uomo come soggetto.” J. Lerminiaux, Gli organizzatori dello psichismo,cit., p. 25.
62
***
Questa scaletta può aiutare il terapista ad individuare il livello del bambino osservando il suo
modo di relazionarsi con la realtà (il livello funzionale del SNC) e permette di sapere cosa e come
fare per favorire le sue competenze emergenti. In questo senso essa completa la Teoria degli
Organizzatori.
I pazienti con danno neurologico presentano un’alterazione di movimento (spasticità, atassia,
ecc.), di conseguenza le sensazioni corporee e quelle che ricevono dalla realtà esterna sono
condizionate.
A causa del posizionamento fisico alterato e delle reazioni emotive ambientali il paziente ha una
percezione distorta che incide sull’immagine di sé e sulla organizzazione dell’esperienza con il
mondo esterno.
Con i pazienti neurologici è importante, quindi, lavorare sia sul livello fisico-fisiologico
aiutandoli a sentire e vivere sensazioni nuove e più ricche nel loro corpo (ristrutturazione fisica), sia
sul piano dell’immagine per evitare che l’immagine alterata impedisca o blocchi il cambiamento
fisico (per esempio paura di abbandonare la spasticità; rifugiarsi nella patologia per non affrontare
situazioni difficili; paura di vivere sensazioni sconosciute nel proprio corpo; manipolare gli altri per
i propri bisogni; ecc. – ristrutturazione dell’immagine)
***
Possiamo utilizzare questa scaletta per riflettere su alcuni meccanismi mentali: se utilizziamo il
linguaggio in modo specifico, per esempio il linguaggio ‘sensoriale’ (senti dove c’è tensione; dove
è il peso del tuo corpo; quando parli rilascia i muscoli del corpo; ecc.), possiamo indurre dei
cambiamenti psico-fisici, poiché aiutiamo il paziente a prendere coscienza delle sensazioni che si
legano al suo vissuto corporeo. Usando un linguaggio per immagini possiamo aiutare il paziente a
richiamare e vivere esperienze positive nella sua mente e ciò induce dei cambiamenti nel suo corpo
e nella sfera emozionale. Questo avviene perché un certo modo di usare il linguaggio, che è il
linguaggio dell’ipnosi eriksoniana (studiato in PNL), favorisce cambiamenti fisiologici e, di
conseguenza, ai vari livelli.110
Gli studiosi di comunicazione umana sostengono che con il linguaggio possiamo agire
sull’immagine interna, sulle percezioni, sulle sensazioni e quindi sul SNC.111
Seguendo la via inversa, il terapista può servirsi della propria immagine interna per favorire
cambiamenti fisiologici nel proprio corpo che lo aiutano a condurre il paziente attraverso la
risonanza consapevole (Aptonomia e prolungamento).
Utilizzando in modo appropriato la scaletta della emergenze, quindi, possiamo indurre
cambiamenti partendo dal livello fisico- fisiologico, dall’immagine e dal linguaggio verbale.
**************
Lo studio di questa scaletta, inoltre, fa comprendere che la rappresentazione interna della
realtà, influisce sul comportamento e condiziona l’approccio alla realtà stessa confermandosi
(indice di computazione in PNL): una volta assunto su di sé un posizionamento fisso verso
qualcosa o qualcuno, la possibilità di entrare in ‘contatto’ con l’oggetto del posizionamento è
condizionata dall’angolo da cui il soggetto osserva (dal punto di vista). Infatti è trasformata la
risonanza con esso, cioè il modo di essere con l’oggetto. Di conseguenza sono modificate la
110
“Recentemente la ricerca sperimentale sta mostrando le vie psicobiologiche attraverso le quali la mente modula la
biochimica del corpo. Stiamo imparando a capire come i linguaggi della mente (pensiero, immaginazione, emozione e
sensazione) comunichino con i linguaggi del corpo (ormoni, molecole messaggere, sostanze di informazione).” Milton
H. Erickson, La comunicazione mente-corpo in ipnosi, a cura di E. Rossi e M. Ryan, Volume III, Casa Editrice
Astrolabio – Ubaldini Editore, Roma 1988, p. 7.
111
Cfr. R. Masters, Neurospeak. Le parole che trasformano la mente e guariscono il corpo. Gruppo Editoriale Armenia,
Milano 1996.
63
sensazione, la percezione di esso, la memoria e la capacità di descrivere l’oggetto in questione
(persona o cosa). Questo concetto ci fa comprendere l’importanza del movimento e del
posizionamento (il modo di porgere o ricevere l’esperienza) per favorire il cambiamento. Attraverso
la risonanza consapevole possiamo modulare la difficoltà dell’altro ed utilizzare il movimento per
cambiare l’immagine interna di una persona (il modo di ‘osservare’ se stessa e di interagire con il
mondo esterno), poiché le facciamo vivere nuovi modi di reagire, nuove sensazioni, percezioni e
memoria di sé che può arrivare a verbalizzare.
È comprensibile l’importanza di questi studi sulla possibilità di intervento verso i pazienti con
problemi neuromotori se consideriamo la distorsione d’immagine fisica ed emozionale che essi
spesso vivono.
La scaletta delle Emergenze offre molti modelli operativi, quindi può essere utilizzata per riflettere
e studiare l’approccio al paziente e verso se stesso in modo dinamico ed efficace.
PROGRAMMAZIONE NEUROLINGUISTICA (P N L)
È un approccio alla comunicazione e al cambiamento.
Due ricercatori americani R. Bandler (matematico, psicologo e studioso di cibernetica) e J. Grinder
(psicologo e linguista) studiando i modelli di intervento di esperti terapeuti (M. Erickson, V. Satir,
F. Perls) sono riusciti a sviluppare un approccio pragmatico alla comunicazione umana: un insieme
di tecniche e procedimenti che possono essere appresi per sviluppare la propria abilità nella
relazione e determinare cambiamenti profondi e duraturi. Essi unirono le conoscenze delle scienze
della comunicazione, del linguaggio e gli studi sul funzionamento del cervello per identificare gli
schemi di comportamento umano e agire efficacemente su di essi.
Quest’approccio si chiama P N L.
Programmazione: in un certo senso noi siamo simili a computer, sin dalla nascita abbiamo
ricevuto dei programmi nei nostri dischetti. Essi sono di tipo genetico, sociale e costruiti dalla
nostra storia unica e personale. Questi programmi (comportamenti) sono riconoscibili e modellabili
(c’è la possibilità di cambiarli se non funzionano).
Neuro: ogni comportamento è attivato da specifici circuiti neurologici. Per cui vi è una
fondamentale relazione tra funzionamento cerebrale e comportamento. Nuove possibilità relazionali
implicano l’arricchimento di connessioni neurologiche.
Linguistica: i ‘programmi’ si esprimono attraverso il linguaggio corporeo (analogico) e verbale
(digitale). Il nostro modo di pensare, la nostra rappresentazione del mondo, si riflettono nel nostro
modo di agire e reagire agli stimoli esterni ed interni e manifestano le nostre credenze.
Gli autori sostengono che nel percepire la realtà attraverso i sensi ognuno di noi utilizza un canale
sensoriale privilegiato (visivo, uditivo o kinestesico-corporeo), che a sua volta determina un modo
particolare di dare significato alla propria esperienza: per esempio, nell’osservare un tramonto,
persone diverse possono mettere in risalto aspetti differenti come la bellezza dei colori o l’armonia
nel rapporto tra le parti di esso, oppure essere rapiti dagli odori a dalla brezza. Come ho già detto la
rappresentazione interna della realtà, influisce sul comportamento e condiziona l’approccio alla
realtà stessa confermandosi (indice di computazione). Ciò accade perché le esperienze si fissano
(ancoraggio) nel nostro cervello con modalità particolari ad ogni individuo (soggettive, punto
di vista particolare) secondo griglie di osservazione della realtà imposte da fattori genetici e
soprattutto socio-educativi.
Per la persona che sperimenta, il vissuto ha la sembianza di assolutezza e di universalità,
impedendogli di accedere ad angoli visuali differenti a meno che qualcuno lo aiuti ad ampliare
la sua esperienza. Ed è questo il compito del terapeuta qualora l’immagine di sé del paziente è
distorta, bloccata o limitata.
64
La P N L offre al terapista diversi strumenti per favorire l’approccio al paziente:
1) La possibilità di conoscere ed acuire la sensibilità verso gli indicatori fisiologici dello
psichismo che il paziente manifesta. Gli autori hanno evidenziato che i processi mentali si
esprimono all’esterno attraverso i comportamenti. In modo specifico, i vissuti emozionali
si manifestano attraverso gli indicatori fisiologici, che permettono di calibrare (misurare)
ciò che si organizza nella mente della persona (stato interno, processo interno).112
2) Rapport (rispecchiamento): capacità del terapista di utilizzare il proprio corpo e il linguaggio
per entrare in sintonia con il paziente.
3) Tecniche di cambiamento per favorire la ristrutturazione di un comportamento indesiderato.
Si può aiutare il paziente nella ricerca di soluzioni in armonia con il suo modello di mondo e
soprattutto in accordo con i suoi bisogni, arricchendo l’esperienza.
1) La calibrazione, come già detto, permette di individuare il modo di funzionare del sistema
nervoso centrale e il suo canale preferenziale di comunicazione. Esistono molti ‘indicatori’ di
questo funzionamento: ad esempio la respirazione può essere addominale, toracica o subclavicolare (alta) se il paziente utilizza in quel momento, o abitualmente, un modo di rapportarsi
emotivo-viscerale (emotività profonda), emotivo superficiale o razionale. Questi tipi di respirazione
indicano il canale di comunicazione privilegiato dal paziente: corporeo-tattile, uditivo o visivo, e
facilitare l’approccio allo stesso.
Anche i micromovimenti oculari permettono di capire se la persona è chiusa nel suo dialogo
interiore o nelle sue sensazioni corporee quando gli occhi si dirigono in basso a sinistra o a destra;
se essa sta ripensando ad un dialogo, o ad una canzone gli occhi si dirigono orizzontalmente a
sinistra; se sta costruendo mentalmente una risposta essi si dirigono orizzontalmente a destra. Se
invece sta rivivendo un’immagine interiore gli occhi vanno in alto a sinistra; ecc. (l’80% della
popolazione utilizza queste risposte a stimoli ambientali).
La calibrazione del linguaggio verbale: attraverso l’analisi dei predicati e soprattutto con il
metamodello, abbiamo altri modi per capire se il paziente vive una dimensione corporea, emotiva o
razionale, e possiamo indagare sul contenuto profondo di un messaggio linguistico liberandolo da
cancellazioni, distorsioni e generalizzazioni.113
La calibrazione può essere uno strumento per cogliere quando il paziente ha difficoltà e quale tipo
di difficoltà presenta (chinestesica, percettiva, emozionale) affinando la capacità di osservazione del
terapista.
2) Quando si comprende il vissuto del paziente e il suo canale preferenziale di comunicazione è
possibile entrare più facilmente in armonia con lui attraverso il rapport (rispecchiamento):
112
Per conoscere gli indicatori fisiologici dello psichismo vedi ‘processo interno – stato interno’ nel quarto capitolo.
Alcune reazioni emotive attivate dall’amigdala sono state descritte nella nota n. 22 del secondo capitolo.
113
“Il linguaggio umano è un modo di produrre rappresentazioni del mondo. La grammatica trasformazionale è un
modello esplicito del procedimento con cui si rappresenta il mondo e se ne comunica la rappresentazione. I meccanismi
operanti nell'ambito della grammatica trasformazionale sono universali per tutti gli esseri umani, e sono il modo in cui
rappresentiamo la nostra esperienza. Il significato semantico che questi procedimenti rappresentano è esistenziale, ed è
infinitamente ricco e vario. Il modo in cui questi significati esistenziali sono rappresentati e comunicati è retto da
regole. La grammatica trasformazionale modella non già il significato esistenziale bensì il modo in cui viene formato
questo insieme infinito: le regole stesse delle rappresentazioni.
Il sistema nervoso responsabile della produzione del sistema rappresentazionale del linguaggio è 1o stesso sistema
nervoso con il quale gli uomini producono ogni altro modello del mondo: di pensiero, visivo, di movimento, ecc. In
ciascuno di questi sistemi operano gli stessi princìpi di struttura. Pertanto i princìpi formali che i linguisti hanno
individuato nell'ambito del sistema rappresentazionale chiamato linguaggio ci offrono un approccio esplicito alla
comprensione di ogni sistema di modellamento umano.” R. Bandler – J. Grinder, La struttura della Magia, cit., pp. 56.
Bandler e Grinder hanno sviluppato il metamodello ispirandosi alla grammatica trasformazionale.
65
a) il rispecchiamento di comportamento fisico si nota spontaneamente in due persone che sono
in sintonia tra loro. In questo caso, infatti, i movimenti, il tono di voce, il respiro sono in armonia
tra di loro. Purtroppo esso agisce (per risonanza) anche nelle situazioni conflittuali: in questi casi la
tensione emotiva si trasmette, spesso inconsapevolmente, tra gli interlocutori, anche se ognuno di
loro crede che il sentimento sia nato in lui spontaneamente.
Esiste un’esperienza guidata, chiamata ‘ancoraggio spaziale in tre posizioni’ di R. Dilts, che
permette di comprendere la capacità del nostro inconscio di registrare l’immagine dell’altro
attraverso la fisiologia durante una relazione conflittuale (risonanza - cervello rettile e mammifero):
quando riusciamo a richiamare coscientemente l’attitudine fisiologica dell’altro nel nostro
corpo possiamo arrivare a sentire i suoi sentimenti (cervello umano, consapevolezza ed
empatia). Quando la persona guidata arriva a ‘sentire l’altro’ avvengono dei cambiamenti fisiologici
ed emozionali che permettono di superare l’attitudine di difesa. Questa, infatti, spesso impedisce di
porsi dal punto di vista dell’altro e di risolvere situazioni conflittuali.
La stessa tecnica può essere utilizzata per capire, o meglio ‘sentire’, la difficoltà del paziente e
riconoscerla quando egli la manifesta.
Utilizzando questa esperienza si può fare la diagnosi di un paziente attraverso il terapista, quando
questi è bloccato dal paziente (in risonanza con lui). In questi casi il terapista ha un vissuto ben
preciso che può elaborare.
b) Il rispecchiamento del linguaggio verbale: utilizzando termini (predicati) in accordo con il
canale di comunicazione preferenziale del paziente (corporeo, uditivo o visivo) si entra in contatto
con l’angolo da cui l’altro osserva ed elabora la realtà.
c) Il rispecchiamento del contenuto: si ottiene rispettando le credenze del paziente (non si
devono necessariamente condividere) e cercando soluzioni in armonia con il suo modello di mondo.
Successivamente lo si può guidare ad ampliare le sue scelte ed arricchirle in base alle reali necessità
e possibilità del paziente stesso.
3) quando il terapista arriva a comprendere (prendere su di sé) ciò che vive il paziente, sarà
più facile per lui riuscire ad aiutarlo al momento opportuno con gli strumenti professionali a
sua disposizione. Il paziente a sua volta, legge inconsciamente nel corpo del terapista la
disponibilità (per risonanza) e difficilmente attiverà resistenze durante il trattamento.114 Utilizzando
questo cammino terapeutico sarà più semplice per il terapista favorire il cambiamento nel paziente
permettendo una vera e propria ristrutturazione.115
Esistono diverse tecniche che si basano sulla ristrutturazione ma il senso profondo di esse è quello
di permettere al paziente di recuperare le proprie capacità (risorse) per diventare l’artefice
del cambiamento.
114
M. Erickson, uno tra i grandi terapeuti contemporanei, ha posto questo principio alla base del suo intervento. Il
pensiero di M. Erickson è stato studiato e descritto da molti terapeuti, consiglio la lettura di alcuni libri sull’argomento:
D. Gordon – M. Meyers-Anderson, Phoenix, i modelli terapeutici di Milton H. Erickson.Casa editrice AstrolabioUbaldini Editore, Roma 1984. - J. Haley, Cambiare gli individui. Conversazioni con Milton H. Erickson, Casa editrice
Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma 1987. - R. Bandler – J. Grinder, Ipnosi e trasformazione. La programmazione
neurolinguistica e la struttura dell’ipnosi, Casa editrice Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma 1983.
115
“Dare una nuova struttura alla visione del mondo concettuale e/o emozionale del soggetto e porlo in condizione
di considerare ‘i fatti’ che esperisce da un punto di vista tale da permettergli di affrontare meglio la situazione
anziché eluderla, perché il modo nuovo di guardare la realtà ne ha mutato completamente il senso.” P. Watzlawick
- J. H. Weakland - R. Fisch, Change. Sulla formazione e la soluzione dei problemi, Casa Editrice Astrolabio Ubaldini Editore, Roma 1974, pp. 102.
66
Ristrutturazione
La ristrutturazione è una strategia utilizzata in P.N.L. che aiuta la persona a cercare nuove risorse e
nuovi modi di vedere riguardo ad un comportamento che crea problemi.116
Per il terapista essa è un potente mezzo per aiutare il paziente, ma il terapista deve tenere in
considerazione alcuni punti fondamentali:
1. Rispettare l’immagine e i valori del paziente e farli propri (assumerne il punto di vista).
2. Cogliere l’intenzione positiva che si cela dietro il comportamento: cioè comprendere il bisogno
profondo che la persona cerca di colmare spesso in modo distorto a causa di esperienze passate.
3. Essere delicati nell’entrare in contatto con i meta messaggi del paziente (i segni che egli invia
inconsciamente con i quali possiamo entrare in risonanza).
4. Proporre risorse compatibili con l’ambiente del paziente.
5. Valutare se il nuovo comportamento è accettato da altre “parti della personalità” del paziente
(ecologia).
La ristrutturazione non deve essere proposta in modo “didattico” e artificioso. Essa deve essere
vissuta, interpretata e compresa dal terapista (il fare, il metodo).
Una volta assimilata sarà proposta gradualmente per guidare il paziente verso il suo obiettivo, vale
a dire, la realizzazione della sua intenzione positiva.
Se il terapista ha introiettato bene l’immagine del paziente e il procedimento di ristrutturazione
(nei seminari di PNL si elaborano diverse tecniche che si basano su di essa) entrerà nel non fare: il
comportamento del terapista sarà spontaneamente adeguato all’immagine del paziente e
all’obiettivo da raggiungere.117
116
Cfr. R. Bandler – J. Grinder, La ristrutturazione. La programmazione neurolinguistica e la trasformazione del
significato, Casa Editrice Astrolabio – Ubaldini Editore, Roma 1983.
117
Riporto un esempio di ristrutturazione veloce tratto dall’esperienza quotidiana. Tempo addietro un caro amico e
collega mi fece una confidenza: “Quando sono bloccato nel traffico automobilistico ad un semaforo o ad un passaggio a
livello mi sento soffocare. Sento il corpo irrigidirsi, mi riempio di sudore e sono costretto ad uscire dall’automobile.”
Questo vissuto lo faceva sentire a disagio e creava un’immagine negativa di sé. Dentro di me compresi l’angoscia che lo
assillava e cercai una soluzione. Assunsi un’espressione stupita ed immediatamente risposi: “ Davvero ti succede
questo? Pensa che a me accade di dover correre per sbrigare delle faccende e non ho mai un momento per me stesso.
Quando mi accade di rimanere bloccato nel traffico e sono costretto a fermarmi, sai cosa faccio? Spengo il motore,
aumento il volume della radio e mi rilasso. Cerco di godere quei pochi minuti che il tempo mi regala.” A queste
parole il mio amico mi guardò con aria sorpresa e poi parlammo d’altro. Passati due mesi ci incontriamo nuovamente. Il
mio amico, un po’ imbarazzato mi confessò: “Sai Giovanni, non ho più quell’antica fobia. Quando ci siamo incontrati,
tempo addietro, mi è sembrato strano che qualcuno potesse vivere quella mia stessa situazione in modo così diverso.
Ho imparato a rilassarmi. E mi sembra così strano non provare paura o ansia. Però sono felice di averlo superato.”
67
Esempio che può aiutare a comprendere il ‘movimento’ interiore di un terapista o di un paziente
che manifesta un problema di approccio:
TERAPISTA
accanimento terapeutico o, al contrario, distacco
LIVELLO COSCIENTE: desiderio, bisogno di aiutare l’altro, guarirlo.
LIVELLO INCONSCIO: frustrazione del terapista di fronte alla malattia, alla resistenza che
l’altro fa alla terapia.
INTENZIONE POSITIVA: aiutare l’altro.
BLOCCO: sentirsi impotenti, responsabili di ciò che l’altro vive affidandosi a noi.
COMPORTAMENTO: accanimento terapeutico o fuga dalla relazione.
PAZIENTE
Eccessivo attaccamento alla terapia
LIVELLO COSCIENTE: desiderio di essere aiutato da una persona competente.
LIVELLO INCONSCIO: la malattia mi protegge da una situazione emotiva difficile.
INTENZIONE POSITIVA: superare la sofferenza, farsi aiutare, superare il blocco emozionale.
BLOCCO: se si toglie la malattia mi trovo indifeso, devo affrontare una situazione difficile,
so di non farcela, perché nel passato mi ha distrutto.
COMPORTAMENTO: appoggiarmi morbosamente al terapista perché mi guarisca senza farmi
affrontare il trauma (in modo asettico).
In questi casi la comprensione dell’intenzione positiva (spesso inconsapevole) permette la
ristrutturazione durante il setting terapeutico.
Se il terapista considera tutti questi eventi, di se stesso e del paziente, non cade nella trappola del
comportamento. Aiuterà il paziente a ricentrarsi, a riscoprire il suo corpo e il vissuto in una
situazione emotivamente protetta (terapia).
Il paziente potrà rivivere (re-immaginare) ciò che ha vissuto e cercare nuove soluzioni (nuovi
comportamenti) che lo rendano più soddisfatto.
Il terapista ottiene due risultati: il paziente allenta la sua tensione e i sintomi e scopre di avere in sé
le risorse per guarirsi.
PROGRAMMA MENTALE E COMPORTAMENTO
Sin da piccoli mettiamo nel nostro cervello dei programmi. Alcuni funzionano sempre bene, altri
per un certo tempo e altri male.
Il cervello è simile ad un computer molto sofisticato, se impartiamo una cattiva programmazione
esso darà risultati pessimi: le potenzialità del computer non possono essere attivate o si alterano i
risultati. In base alla passata programmazione (genetica e apprendimento emotivo) scegliamo,
spesso inconsciamente, tra migliaia di programmi quello che verrà usato per generare i nostri
sentimenti e l’esperienza di ciò che accade. La programmazione imporrà quali sentimenti emotivi
devono scattare di fronte ad una situazione.118 Una cattiva programmazione limita la capacità della
consapevolezza imponendo angoli di osservazione limitati o distorti.
Immaginiamo un bambino che non riesce ad attirare l’attenzione dei genitori, perché questi sono
troppo stanchi od occupati. Poi, casualmente, accade che si interessino di lui quando il bambino
118
“Si definisce imprinting una esperienza significativa del passato attraverso la quale una persona si è formata una
convinzione o un insieme di convinzioni. Il periodo dell’imprinting è considerato quello che va da 0 a 7 anni, durante il
quale mettiamo le basi della nostra programmazione individuale e siamo però anche come spugne e inconsciamente
facciamo nostro il comportamento dei genitori. L’esperienza di imprinting spesso implica infatti l’assunzione inconscia
del modello di ruolo di altre persone significative.” Dispensa n. 2 di Programmazione Neurolinguistica, Bologna 1995.
68
rompe qualcosa (viene rimproverato). In questo modo il bambino ottiene il suo scopo. Questo
comportamento nel tempo potrebbe rafforzarsi se l’ambiente, chiuso nelle sue problematiche, non si
accorge dei bisogni e dei richiami del bambino. Questi, infatti, può attivare il comportamento
distruttivo per avere i genitori a sua disposizione (a volte è meglio ricevere uno schiaffo che sentirsi
escluso o abbandonato). Crescendo egli si comporta allo stesso modo in altri ambienti. Per esempio,
a scuola lo stesso bambino rompe gli occhiali del maestro e spera inconsciamente di ottenere
l’attenzione dell’insegnante. Ma il programma mentale (comportamento) che si è creato in casa può
essere catastrofico in un ambiente diverso.
Un altro bambino potrebbe attivare una strategia differente, ad esempio egli attira l’attenzione su
di sé quando sta male. In questo caso, per colmare i suoi bisogni, egli utilizza inconsapevolmente
questo richiamo rivelatosi efficace.
Le nostre esperienze possono strutturare dei comportamenti ripetitivi, fissi, finalizzati a
certe risposte che l’ambiente ci ha dato. Se l’ambiente conferma sempre tali comportamenti
essi diventano definitivi. Colui che li attua si aspetta sempre la stessa risposta dall’ambiente
(credenza).
Molto spesso i vissuti dei bambini con PCI sono aggravati da più fattori che co-agiscono in modo
da bloccare le sue potenzialità residue. Il fattore neurologico lesionale o disfunzionale altera
l’esperienza fisica; quella cognitiva è spesso dominata da problemi di elaborazione dei dati
sensoriali e dalla mancata o distorta esperienza fisica; quella emotiva è appesantita dal vissuto
ambientale, spesso drammatico, dell’evento patologico. Questi vissuti si fissano nell’immagine di sé
del bambino determinando molto spesso uno stato tonico di difesa quando il piccolo sta per vivere
una situazione di difficoltà. Se queste situazioni si protraggono nel tempo, lo stato tonico alterato
diventa fisso, una seconda natura inconsapevole: la credenza di ‘essere così’ (ipertono secondario –
Boscaini). Aiutare il bambino a prendere coscienza di questo tono alterato di difesa, in modo da
poter utilizzare meglio le proprie risorse, occupa una grossa parte del lavoro e, soprattutto, richiede
una grande attenzione e sensibilità da parte del terapista.
La società di fatto ha creato dei modelli (immagini) ai quali inconsciamente ci con-formiamo: ne
assumiamo la forma, per risonanza. Questi modelli condizionano il nostro comportamento. Per cui
in una situazione x (inconsciamente) ho un comportamento x. Il problema nasce quando si modifica
il contesto in cui si attua il comportamento e non ho scelta perché non conosco, non ho sperimentato
esperienze diverse. Questa è spesso la condizione del bambino con PCI prigioniero dei suoi schemi
motori. Il non aver potuto vivere situazioni facilitanti crea un’immagine limitata e limitante anche
nell’affrontare situazioni in cui ha delle discrete abilità. L’ambiente, infatti, contribuisce
rimandandogli un’immagine che lo blocca (paragone con il ‘normale’). Un esempio di ciò è la
scarsa attitudine all’autonomia personale che questi bambini spesso dimostrano anche quando
hanno delle buone potenzialità.
La nuova scienza della Cibernetica ci fornisce delle prove sul cosiddetto ‘subconscio’ e sui
comportamenti che da esso derivano. Secondo questa scienza esso è un meccanismo (anzi un servo
meccanismo) formato dal cervello (cervello rettile e mammifero: attivatore, della memoria e
dell’apprendimento) che la mente utilizza per raggiungere una meta. Questo meccanismo agisce
automaticamente e impersonalmente per raggiungere un fine: un obiettivo determinato dalle
immagini mentali che si forma attraverso le precedenti esperienze, tutto ciò che ‘crede’ e le sue
‘interpretazioni’. Quando questo meccanismo ha imparato ad agire nelle varie situazioni, plasmato
dall’educazione, dai modelli sociali e dalla storia personale, diviene autonomo ed automatico. 119 Per
esempio presso alcune popolazioni le cavallette sono considerate cibo (Messico), in altre il solo
contatto fisico suscita sensazioni intense e viscerali di rifiuto. Questo esempio fa comprendere che
si possono vivere reazioni emotive a volte intense e viscerali a stimoli non collegati alla
sopravvivenza, ma a fattori ambientali appresi che spesso si sostituiscono o alterano il bisogno
biologico.
119
Cfr. M. Maltz, Psicocibernetica, Casa Editrice Astrolabio – Ubaldini Editore, Roma 1965.
69
Se immettiamo nel nostro subconscio informazioni e dati pensando di essere indegni, inferiori e
incapaci essi vengono elaborati come qualsiasi altro dato condizionando la nostra esperienza. 120 Ma
la programmazione si può cambiare ed il computer può lavorare sfruttando nuove possibilità.
E’ fondamentale per il terapista entrare nella credenza del paziente. Comprendere il modello di
mondo che si è creato nel suo ambiente e dare nuove risorse affinché nuove scelte e quindi nuovi
comportamenti risultino più efficaci.
Comprendere questi meccanismi mentali permette al terapista di capire le strategie
sviluppate dal paziente e lo aiuta a ristrutturare l’immagine di sé quando essa impone limiti
per il raggiungimento di una migliore conoscenza del suo corpo e di se stesso.
Per fare questo anche il terapista deve conoscere e sapere riconoscere i suoi meccanismi
interiori: coscienti-inconsci-semicoscienti e deve saperli gestire con delicatezza.
Schematicamente la nostra capacità di essere cosciente dei nostri comportamenti potrebbe essere
descritta attraverso la Finestra di Johari:121
Conosciuto da me
Sconosciuto da me
Conosciuto dall’altro
Sconosciuto dall’altro
A
B
Chiaro
Cieco
C
D
Nascosto
Sconosciuto
In A) Tutto è chiaro, io lo so e lo manifesto.
B) Mi è sconosciuto e può essere importante avere informazioni di tipo fisiologico (terapia).
C) Mi nascondo, sarebbe bene prendere coscienza ed aprirsi se possibile (auto consapevolezza,
ristrutturazione).
D) Tutto è sconosciuto. Solo qualcuno esterno al gruppo può dare informazioni (meta-posizione)
Terapia.
120
“Avete forse smesso di essere orgogliosi del vostro corpo a causa delle critiche frustranti che vi esortavano di continuo a stare diritti, come se lo star diritti dipendesse dalla vostra volontà e prontezza nell’obbedire? Oppure è stata
l'ammirazione della gente per le vostre prestazioni da bravo bambino a insegnarvi che per sentirvi dire quanto eravate
meravigliosi dovevate inevitabilmente chiamare a raccolta tutte le vostre forze ed esibirvi? Avete fatto di tutto per
eccellere agli occhi del maestro, avete fatto di tutto per impressionare i compagni. Anni e anni dopo, anche quando
eravate soli, il vostro ego, sempre in cerca di approvazione, aveva ancora bisogno di un pubblico, anche se questo
esisteva solo nella vostra immaginazione. Accettando le critiche o l'ammirazione, avete conferito agli altri la facoltà di
giudicarvi e vi siete abituati a dipendere dal giudizio altrui, crescendo lontani dalla vostra voce interiore.” R. Alon,
Guida pratica al metodo Feldenkrais, Edizioni red/studio redazionale, Como 1992, pp. 33.
121
“ Il nome ‘Johari’ nasce dall’unione di due nomi Joe e Harry che si riferiscono rispettivamente agli psicologi Joe
Luft e Harry Ingham (dell’Università di California) ideatori del modello. Esso tende a fornire una consapevolezza del
comportamento dell’uomo ed è aperto a componenti diversificate quali la crescita, i bisogni psicosessuali, i bisogni di
sicurezza, i bisogni sociali.” I. Acerbo- F. Arena, L’evoluzione dell’individuo e l’interazione con l’ambiente. Linee di
psicologia sociale e di psicologia applicata,Editrice Canova, Treviso 1997, pp. 50 – 51.
70
“L' apertura verso nuove esperienze e nuove relazioni, che hanno la capacità di modificare
radicalmente il nostro vissuto, è una potenzialità che ciascun individuo possiede e che non sempre
ha la capacità di sfruttare fino in fondo.
Noi non ci conosciamo veramente perché indossiamo una maschera che non permette di rivelare il
nostro io più autentico se non in momenti di particolare stanchezza o abbandono. Raramente, in
tutta la vita, abbassiamo queste difese di fronte a un altro essere umano. Soltanto nel sonno o da
svegli in certi momenti di sospensione, di quiete, di solitudine si abbassano le difese; ma questi
momenti sono percepiti raramente anche dalla persona che li sperimenta.
Dobbiamo imparare, suggerisce questo modello, a esplorare noi stessi e ad abbandonare gli
atteggiamenti convenzionali per realizzare una esperienza compiuta del nostro 'io profondo' dal
punto di vista corporeo e spirituale, in altre parole dobbiamo imparare ad ascoltarci superando le
tensioni per renderci conto di ciò che accade.
La possibilità di conoscere i bisogni, di divenire consapevoli delle sensazioni e dei vissuti ci mette
a contatto con la nostra più autentica identità e ci permette di realizzare un’apertura nuova verso il
contesto situazionale nel quale siamo immersi e di cui, spesso, non siamo consapevoli.
In altre parole, per conoscere l’altro, dobbiamo entrare più intimamente in contatto con noi
stessi.”122
I settori della nostra “consapevolezza” o dell’altrui comportamento descritti nella Finestra di
Johari, vanno toccati con prudenza.
Una descrizione fisiologica, fisica-sensoriale di ciò che osserviamo (respirazione, atteggiamento
globale, tono di voce, volume, ecc.) permette di cogliere il legame (ancoraggio) tra stato emotivo,
azione e fisiologia e possiamo modificarlo senza ferire. Il giudizio invece crea difesa e chiusura.
Esso va rifiutato.
************************
Come ho già detto per le CM anche la PNL è un campo molto vasto di studi, ricerca e applicazione.
Ho deliberatamente trascurato di affrontare argomenti quali ‘indice di computazione’, ‘i livelli
logici di G. Bateson’, ‘posizione d’eccellenza’, ‘tecniche di cambiamento’, ecc., che meriterebbero
molto spazio per la loro importanza nella costruzione di un modo diverso di pensare i processi
mentali ed il corpo.
In questa sede mi sono limitato ad accennare ad alcune linee teoriche. Anche in questo caso
rimando il lettore interessato alle molte pubblicazioni e soprattutto ai seminari sull’argomento.
L’apprendimento di queste tecniche richiede che il terapista abbia rispetto verso le credenze del
paziente e flessibilità mentale. Esso costituisce un training di cambiamento permanente per le
attitudini del terapista stesso.
122
I. Acerbo – F. Arena, L’evoluzione dell’individuo e l’interazione con l’ambiente. Linee di psicologia sociale e di
psicologia applicata, cit., p. 51.
71
APTONOMIA
Il fiammingo Veldman ha sviluppato una metodologia di approccio che è l’Aptonomia e il
Prolungamento. Ma più che un metodo, è un ‘contatto’, un modo di ‘toccare’ l’altro.
Il Prof. Lerminiaux quando ci ha presentato l’Aptonomia ha utilizzato la metafora del cieco: un
cieco attraverso il suo bastone ‘sente’ lo spazio attorno. La sua attenzione è focalizzata sulla punta
del bastone, per mezzo di essa sente gli ostacoli nel suo cammino e riconosce ciò che incontra.
Attraverso le vibrazioni che l’oggetto trasmette al bastone il cieco può capire se l’oggetto è di legno
o di metallo, se esso è morbido o duro, può esplorarne i contorni, ecc. ed adatta il suo cammino ed il
comportamento a queste sensazioni. Perché egli possa fare questo deve essere ‘presente ed aperto’
alle sensazioni che riceve. La metafora ci aiuta a comprendere che la nostra consapevolezza è lì
dove si dirige la nostra attenzione, e in terapia si dovrebbe utilizzare un modo di ‘toccare
consapevole’.
Il terapista, quando tocca il paziente, registra attraverso il tatto ed i fusi neuromuscolari la
resistenza al movimento e la tensione del muscolo del paziente. 123 I fusi neuromuscolari del
terapista si ‘adattano’ al tono (tensione muscolare) del paziente così come adattano la forza del
muscolo nel sollevare pesi di diversa misura. Essi, inoltre, funzionano come ‘termostato’ per il tono
di base: i mammiferi, infatti, hanno la possibilità di cambiare l’eccitabilità dei fusi neuromuscolari.
Se si modifica l’immagine interna, per esempio davanti ad un pericolo, il termostato si posiziona su
stati tensivi diversi (più bassi del normale) attraverso le vie sottocorticali per essere più pronti a
reagire.
Un esempio che utilizza spesso il prof. Lerminiaux per spiegare aspetti più raffinati di questo
meccanismo è quello dell’attore che si ‘immedesima’ nel personaggio ‘modificando’ il suo
comportamento, il modo di parlare, le espressioni del viso, ecc, in accordo con l’immagine che egli
ha del personaggio.
Il terapista, quindi, ‘misura’ e ‘registra’ consciamente (calibrazione, aptonomia) o
inconsciamente (risonanza passiva) tutte le variazioni toniche che sono un linguaggio ben
preciso sullo stato neurologico e sul vissuto del paziente. In questo modo egli riceve moltissime
informazioni sullo stato fisiologico ed emozionale del paziente. La tensione dei muscoli, la
resistenza che essi fanno al movimento o al cambiamento, le fluttuazioni del tono muscolare sono
sensazioni che un terapista esperto conosce molto bene, ma non sempre siamo ‘presenti ed aperti’
per poterle cogliere. Affinare questo ‘ascolto’ significa avere una fonte preziosa, una guida ed una
risposta al modo di operare.
Il terapista può utilizzare l’Aptonomia non solo per ‘essere in ascolto’, ma anche per indurre
cambiamenti fisiologici ed emotivi nel paziente: se egli comprende che un’immagine mentale
determina nel corpo uno stato fisiologico corrispondente, espressione di quello emozionale, può
creare in sé l’immagine della situazione di cui il paziente ha bisogno e tutto il suo corpo si trasforma
permettendo al paziente un contatto tonico-emozionale che induce dei cambiamenti per
123
I fusi neuromuscolari sono organi sensoriali del muscolo che permettono di registrarne e modularne il tono, la
lunghezza e la forza da applicare allo stesso durante l’attività motoria.
72
risonanza.124 Ciò è possibile se il terapista è consapevole del vissuto proprio e di quello del
paziente.
In un momento successivo si può aiutare il paziente a richiamare su di sé lo stato tonicoemozionale più adatto in modo consapevole ed in autonomia.
In ogni caso toccare ha una connotazione emotiva intensa. Il tatto è il senso dello spazio
primordiale, noi siamo là dove giunge il nostro tatto, siamo le cose che tocchiamo o per distinguerci
da esse. Essere in contatto con un’altra persona mette in gioco la nostra e l’altrui
vulnerabilità. Il terapista deve essere consapevole delle sue difficoltà e di quelle del paziente
quando entra in contatto fisico. Possiamo diventare ‘corazzati’ per non essere mai toccati realmente
dalla vita del paziente, oppure possiamo diventare sempre più preoccupati dei ‘nostri stessi bisogni’,
sino a che ascoltare il paziente diventa difficile.
Lavorando su questi ‘problemi’, queste ‘difficoltà’ il terapista diventa Terapista. Io stesso ho
imparato molto dalle mie difficoltà. Molto spesso entro in risonanza passiva con le persone con le
quali sono in contatto. Questo mi causa dei cambiamenti non sempre desiderabili, ma ho imparato
ad utilizzare consapevolmente questa capacità in terapia. Essa mi aiuta a ‘prendere su me stesso’ ciò
che ‘sente e vive’ il paziente. Ed è uno strumento eccezionale nel momento in cui ho necessità di
capire come, quando e cosa l’altro ha di bisogno.
Quando il terapista riconosce che il suo cammino e quello dell’altro coincidono molto più spesso
di quanto non differiscano, può abbandonare la preoccupazione per se stesso e creare buone
condizioni per la terapia. Il terapista crea lo ‘spazio’ che avrebbe voluto avere per superare i suoi
problemi e l’altro vi entra.
Il terapista ed il paziente possono e devono comprendere che la situazione terapeutica è un
momento privilegiato in cui non occorre essere vulnerabili o aggressivi. Si può semplicemente
partire così come si è. E da lì costruire una nuova storia.
L’aptonomia e gli altri sensi
Toccare è un gioco continuo tra dentro e fuori: è conoscere, conoscersi e delimitare lo spazio. Gli
altri sensi sono una differenziazione specializzata della pelle, del tatto. Essi ci permettono di
“toccare” i suoni con l’udito, i colori con la vista, i sapori con il gusto e gli odori con l’olfatto.
La corteccia cerebrale è formata da diverse aree preposte a ricevere ed elaborare i dati sensoriali.
Queste aree sono collegate tra loro, per cui uno stimolo percepito e riconosciuto da una specifica
area (per esempio l’area della sensibilità tattile) può attivare altre aree connesse. Ciò permette il
riconoscimento percettivo (memoria) vissuto attraverso gli altri sensi: per esempio posso
riconoscere un oggetto con la vista e ricordare le sensazioni tattili che esso mi ha sucitato (peso,
consistenza del materiale, superficie, ecc.).
Quando tocco l’altro con le mani, con gli occhi, quando l’altro mi tocca con la voce, il mio
cervello (rettile e mammifero) è estremamente attento a cogliere quelle micro-variazioni
fisiologiche che rappresentano ciò che vive l’altro a livello emotivo (questa capacità non cosciente
di apprendere la lettura del corpo si sviluppa nel primissimo periodo di vita del bambino
nell’interplay con la madre e le persone dell’ambiente). Nel lungo tirocinio di esperienze sensomotorie della prima infanzia il bambino impara a riconoscere i movimenti e lo stato tonico
muscolare per adattarsi in modo efficace alle persone e allo spazio circostante. In questa prima fase
tattile e corporea l’attenzione e la consapevolezza del bambino sono incentrate sulle sensazioni
suscitate dai movimenti del suo corpo nell’impatto con la realtà (contatto con la madre, con gli
oggetti, ecc.). Successivamente egli utilizza gli organi di senso a distanza (vista ed udito) per entrare
in contatto e quindi controllare lo spazio e gli oggetti. L’attenzione del bambino si sposta
124
Questo concetto richiama quello espresso nella scaletta delle Emergenze: tutti i livelli, da quello fisiologico
(funzione, movimento) a quelli superiori, esprimono lo stesso vissuto.
73
progressivamente su questi canali sensoriali a distanza quando egli introietta le sensazioni corporee
prossime (tattili e chinestesiche) e le ri-conosce quando si manifestano nel corpo dell’altro.125
Attraverso un adeguato allenamento si può utilizzare il tatto, la vista e l’udito per riconoscere, cioè
riportare alla coscienza le sensazioni toniche emotive che si osservano nel corpo dell’altro e che
abbiamo vissuto tante volte nel passato in noi stessi e nella relazione corporea con altre persone. La
capacità di leggere le variazioni fisiologiche del corpo è innata nel bambino (cervello rettile,
mammifero e poi corticale), essa è la base dell’empatia. Verso la fine della prima infanzia
l’attenzione viene sequestrata dagli aspetti digitali della comunicazione (linguaggio parlato), ma il
cervello rettile ed emozionale continuano a registrare, quasi sempre inconsapevolmente, gli aspetti
analogici della relazione (linguaggio corporeo o tonico-emozionale). “Nel dialogo fra gli adulti lo
sviluppo del verbale offusca il linguaggio del corpo e consente di potersi nascondere dietro al velo
delle parole. Ma quando le parole non valgono che per la loro melodia, come nel dialogo con un
bambino piccolo o con un bambino grave, è di nuovo il corpo a dover esprimere chi siamo e cosa
pensiamo nei confronti dell’altro (metacomunicazione). Spesso i messaggi non verbali, meno
consapevoli e perciò più veritieri, confortano o feriscono, seducono o allontanano reciprocamente
terapista e bambino, più di quanto non possano fare i messaggi verbali. Il terapista deve perciò saper
seguire le prestazioni del bambino non solo in senso fisico, ma anche in senso emozionale e
motivazionale, senza per questo perdere di vista il proprio scopo o confondersi con lui. Non a caso
il primo obiettivo del terapista è capire il bambino e renderlo comprensibile agli occhi dei suoi
genitori.”126
Attivare nel terapista le potenzialità innate di conoscere e riconoscere il linguaggio tonicoemozionale è possibile, ma occorre che sia abituato ad accettare che i propri messaggi tonicoemozionali affiorino alla coscienza (atto di consapevolezza). All’individuo che è stato educato a
reprimere ciò che “sente” sarà più difficile diventare consapevole dei sentimenti. Egli impara sin da
bambino a non manifestare il disagio fino a negarlo a se stesso ed inconsciamente blocca i
movimenti che lo manifestano, ed impara a non rivelare neanche a se stesso la sua difficoltà. In
questi casi il cervello razionale tende a censurare tali “necessità” rendendole inconsce. Però esse
condizionano il comportamento e la relazione: quando siamo di fronte a situazioni per noi
problematiche il nostro comportamento si altera. Una persona allenata nella lettura del linguaggio
corporeo può comprendere cosa stiamo vivendo e può aiutarci in modo efficace.
****************
Abbiamo visto che nell’adulto si hanno contemporaneamente due livelli di comunicazione. Il
livello cosciente che è attivato dall’intenzionalità di risposta agli stimoli ambientali ed interni
(situazioni, linguaggio, bisogni fisiologici) ed il livello inconscio che registra e, secondo i
condizionamenti vissuti, filtra attraverso i sensi un’infinità di messaggi. L’inconscio emette a sua
volta dei messaggi attraverso gli indicatori fisiologici (attività dei cervelli arcaici) secondo una
modalità che è propria a quell’individuo ed alla sua storia personale.
125
“Più che la semplice pressione sulla pelle, è il messaggio raccolto dal bambino attraverso i recettori delle proprie
inserzioni muscolari, è il modo in cui viene tenuto a dirgli che cosa ‘sente’ per lui chi lo tiene. La pelle appartiene a
quella classe di organi chiamati esterocettori perché percepiscono le sensazioni provenienti dall’esterno del corpo. I
recettori che vengono stimolati principalmente dalle azioni del corpo stesso sono detti propriocettori. Attraverso la pelle
e i propriocettori, il bambino capta il comportamento dei legamenti delle inserzioni muscolari della persona che lo tiene
in braccio.
Il bambino fa le proprie valutazioni pressapoco come fanno gli adulti quando deducono il carattere di una persona dalla
sua stretta di mano. Infatti chi non ha perso questa sensitività riesce a fare tale deduzione con una certa accuratezza.
Ogni bambino, evidentemente, nasce con il senso cinestetico, e tutte le prove di cui disponiamo (provenienti da
sperimentazioni, osservazioni, esperienze dirette o da aneddoti) confermano che, proprio come si impara a parlare
ascoltando chi ci parla, e infatti parliamo come gli altri hanno parlato con noi, così si impara a rispondere alla
stimolazione esterocettiva della pelle e alla stimolazione propriocettiva delle inserzioni muscolari soprattutto grazie alla
nostra esperienza infantile, o condizionamento, in questo senso.” A. Montagu, Il linguaggio della pelle, cit., pp. 91-92.
126
A. Ferrari, Proposte riabilitative nelle paralisi cerebrali infantili,cit., p. 89.
74
Il terapista può diventare consapevole dei messaggi che il paziente invia coscientemente e
inconsciamente attraverso la risonanza, la calibrazione e l’aptonomia e poi può guidarlo attraverso il
prolungamento.
E’ importante andare oltre la vista-udito che sono i sensi di difesa usati a distanza, per favorire
l’incontro “tonico-emozionale” attraverso il con-tatto corporeo. Comunque in terapia possiamo
usare la vista e l’udito per guidare l’altro, accarezzarlo, per farci sentire vicino a lui, ecc.
Aptonomia e Prolungamento
Quando si entra in contatto con altre persone possono accadere tante situazioni piacevoli o
spiacevoli, abbiamo “bisogno” di conoscere l’altro per sapere come, quando e quanto avvicinarci.
Nascono così le norme sociali di saluto che permettono il contatto “controllato” ed evitano le
“invasioni”. Esse danno il tempo di conoscere.
Nel rapporto con l’altro si può decidere di essere aperti o chiusi e ciò può accadere a livello
inconscio o cosciente. Quando si sviluppa la consapevolezza attraverso metodiche tratte dalla
scienza delle comunicazioni questo processo può diventare consapevole ed essere utilizzato in
terapia.
I momenti in cui siamo in contatto con gli altri sono tanti: brevi o prolungati, volontari come il
saluto, o forzati quando ad esempio si è in un pullman affollato. I punti di contatto possono essere la
mano, la spalla, gli abiti, un oggetto interposto, lo spazio tra due persone, ma l’esempio più bello è
la danza in cui vi è armonia quando i due entrano in sintonia.
Questa relazione con lo spazio e con l’altro, questa capacità di entrare in sintonia è un retaggio dei
nostri cervelli più antichi, infatti, se osserviamo uno stormo di uccelli in volo possiamo cogliere
l’armonia del gruppo come se si trattasse di un solo individuo: gli uccelli ruotano, volteggiano e
planano senza mai scontrarsi in modo affascinante e magico, tra i componenti dello stormo vi è una
perfetta risonanza.
Possiamo sentire cosa accade in noi e negli altri quando, consapevolmente, siamo aperti nel
ricevere le variazioni fisiologiche nostre e degli altri (tono, respiro, sensazioni, emozioni). Possiamo
imparare a cogliere i segni esterni di tale processo attraverso la calibrazione (cervello corticale
analitico), oppure possiamo sentire attraverso il nostro corpo ciò che vive l’altro (aptonomia,
prolungamento e risonanza - cervello corticale sintetico e cervelli arcaici ).
Il prolungamento è un processo naturale ed un modo particolare di entrare in relazione con gli altri
e con le cose: quando dormiamo prolunghiamo il nostro corpo nel letto, ciò impedisce di cadere;
quando guidiamo l’automobile ci prolunghiamo in essa come se fosse un’estensione del nostro
corpo ed evitiamo di strisciare un muro o un’altra auto nel fare manovre; quando incontriamo
qualcuno e stringiamo la sua mano inconsciamente (e più raramente consciamente) riceviamo una
grande quantità di informazioni su quella persona e sul suo modo di rapportarsi con noi. Ci si può
prolungare nello spazio fisico attorno a noi, in un’altra persona (Aptonomia), in un’immagine (es.
l’attore che si immedesima in un personaggio).
L’aptonomia ed il prolungamento utilizzati in terapia sono essenzialmente aspetti
consapevoli della risonanza. Il terapista, attraverso l’aptonomia e il prolungamento, può diventare
consapevole del vissuto del paziente e capire cosa trasmette lui stesso nella relazione.
La possibilità di abbinare il prolungamento e l’aptonomia con alcuni metodi di riabilitazione neuro
e psicomotoria è veramente qualcosa di eccezionale ed efficace.
Molti terapisti sviluppano inconsapevolmente una buona capacità di prolungamento ma, a volte, si
rischia di entrare in risonanza psico-fisica con il paziente, cioè di farsi carico delle sue
problematiche (simbolicamente potremmo dire che il terapista perde il proprio Asse, la propria
75
centratura ed assume l’abito tonico-emozionale del paziente, cioè la sua CM). Per questo motivo è
molto importante che il terapista sia cosciente di questi processi.
La capacità di entrare nel vissuto del paziente attraverso il contatto è un bene prezioso, ma è
importante che il terapista sappia gestire ciò che riceve per non confonderlo con il proprio vissuto.
Il terapista deve poter prendere le distanze dal problema per gestirlo attraverso i mezzi terapeutici.
Per guidare qualcuno con il prolungamento, per ottenere una risonanza positiva ed efficace, per
condurre senza ambiguità una seduta terapeutica occorre:
Presenza mentale (attitudine di ascolto).
Trasparenza (sincerità di sentimenti).
Prudenza (capire dagli indicatori sin dove si può arrivare).
Con il prolungamento si può toccare con gli occhi, accarezzare con la voce, gustare con il tatto,
oppure, ferire con la voce, fulminare con lo sguardo, ecc.
CONOSCERSI ATTRAVERSO IL MOVIMENTO127
Moshe Feldenkrais, dottore in scienze naturali, in seguito a gravi problemi fisici personali cercò
una strategia che lo aiutasse a superare le sue difficoltà. Con mente da ricercatore si mise in ascolto
del suo corpo e, nel corso di alcuni anni, ha sviluppato un metodo per risvegliare l’intelligenza del
corpo e la sua naturale sponteneità. L’autore parte dallo studio dei meccanismi emotivi ‘ereditati’
dalla società e dalle esperienze (storia personale) proprie dell’individuo e comprende che esse
spesso inibiscono il nostro completo potenziale. Liberarsi dagli automatismi acquisiti e dai blocchi
emotivi che ne derivano è lo scopo del suo lavoro. Egli dimostra come ogni tensione emotiva si
manifesta nel piano fisico con muscoli contratti, posizioni non equilibrate e dolori che sequestrano
o distruggono le nostre energie. Tutto questo rende difficile o impossibile il raggiungimento dei
nostri obiettivi.
I nostri piccoli e grandi pazienti vivono sul loro corpo il problema legato alla lesione o disfunzione
neurologica, e quasi sempre presentano problemi muovendosi secondo schemi patologici esasperati
(abitudine emotiva). Per esempio il bambino spastico usa molta più ‘forza’ di quella necessaria
attivando in tutto il corpo la spasticità anche se deve semplicemente parlare, o prendere un oggetto.
L’abitudine ad agire secondo schemi patologici esasperati nasce nel bambino dalla difficoltà vissuta
nel passato di eseguire il gesto liberamente: la patologia ostacola il raggiungimento dell’obiettivo e
lui mette più forza per superarla. In questo modo, neurologicamente, egli accentua la patologia (il
movimento spastico) poiché la lesione impedisce un adeguato controllo. Questo modo di muoversi
si fissa nella memoria del corpo e nell’immmagine diventando una seconda natura che
impedisce al bambino di sviluppare strategie differenti.128
127
M. Feldenkrais, Conoscersi attraverso il movimento, Celuc Libri, Milano 1978.
“La persona tende a considerare l'immagine che ha di sé come qualcosa che la natura le ha concesso, mentre invece,
in effetti, è il risultato della sua esperienza. L’aspetto, la voce, il modo di pensare, l’ambiente, il rapporto con lo spazio e
il tempo - per esempio - sono accettate come vere in quanto realtà nate con essa, mentre ogni elemento importante nei
rapporti dell’individuo con gli altri e con la società in generale è il risultato di un lungo tirocinio. Le arti di camminare,
parlare, leggere e vedere a tre dimensioni una fotografia, sono capacità che l'individuo acquista nell’arco di molti anni;
ciascuna dipende dal caso e dal luogo e dal momento della sua nascita. L’acquisizione di una seconda lingua non è
facile come quella della prima e la pronuncia della lingua appresa per seconda risentirà dell’influenza della prima; la
128
76
Utilizzando i principi del metodo Feldenkrais si invita il paziente ad eseguire i movimenti in modo
fluido, piacevole, evitando lo sforzo eccessivo. Il terapista guida il paziente con il prolungamento
affinché questi porti sul suo corpo l’attenzione durante l’esecuzione dei movimenti ed impari ad
‘ascoltare’ le risposte che il corpo da. Nasce un nuovo modo di ‘sentire’ e ‘rispettare’ il proprio
tempo e ritmo abbandonando gradualmente tensioni muscolari e comportamenti appresi
inconsapevolmente. Il paziente arriva a sentire il ‘troppo’ nel suo corpo ed impara ad
allentare, togliere le tensioni muscolari (ed emotive) sino ad arrivare a sentire il corpo libero.
Quando raggiunge questa percezione del corpo nasce una sensazione particolare che è difficile
descrivere: silenzio nel corpo e nello spazio circostante, come se il tempo rallentasse. È una
sensazione di ‘pace’ interiore, ed è un buon modo per ricominciare a conoscere se stesso.
struttura della frase della lingua madre s’imporrà sulla seconda. Ogni modello d’azione assimilato interamente
influenzerà i modelli delle azioni successive.
Le difficoltà nascono quando, per esempio, una persona impara a sedersi secondo l’usanza di nazioni diverse dalla sua.
Poiché i modelli precedenti del sedersi non sono il risultato della sola eredità, ma derivano dal caso e dalle circostanze
della nascita, le difficoltà implicate stanno non tanto nella natura della nuova abitudine quanto nel cambiare le abitudini
del corpo, del modo di sentire e della mente, partendo dai modelli già acquisiti. Ciò è vero per quasi tutti i cambiamenti
di abitudini, qualunque sia la loro origine. Naturalmente, ciò che s’intende, non è una semplice sostituzione di
un’attività con un'altra, ma un cambiamento del modo in cui si compie un atto, della sua intera dinamica, in modo che il
nuovo metodo sia, sotto ogni aspetto, efficace quanto il vecchio.” Ibidem, pag. 26-27.
Queste osservazioni sono suffragate dalle ricerche in neurobiologia (vedi capitolo secondo del presente libro). Esse
sostengono che la mancanza di esperienza senso-motoria non attiva i circuiti neurologici corrispondenti alla funzione,
ciò causa incapacità a vivere e sentire certe esperienze. È comprensibile, quindi, l’importanza di arricchire l’esperienza
del corpo (e l’esperienza in generale) attraverso un ascolto facilitato e consapevole.
77
CAPITOLO QUARTO
Riflessioni
78
Il muscolo parte di un Tutto
Il muscolo, parte di un tutto, è una via per risalire all’osservazione. Il muscolo, per il suo
stretto rapporto tra fisiologia e relazione, è un mezzo ideale per cogliere lo stato interno di
una persona attraverso la sua espressione esterna.
I muscoli si modificano se sono utilizzati molto o molto poco. Se si ha un’attitudine corporea di
all’erta nell’affrontare le situazioni, la CM PM sarà più sviluppata. Il terapista che guarda un corpo
può vedere il modo di pensare e di reagire della persona. Quando un paziente ha delle distorsioni di
movimento, il terapista può capire come questi ha vissuto le sue esperienze.
Osserviamo i muscoli di una persona che ha i polpacci molto sviluppati, possiamo pensare che
hanno molto lavorato o che appartengano ad un calciatore. I muscoli mascellari di una persona che
mangia molta carne sono molto sviluppati perché è un cibo che richiede molta masticazione. Ci
sono persone con movimenti oculari continui e veloci, se questi si dirigono spesso nei quadranti
laterali si può pensare che sono abituate a controllare l’ambiente.
I muscoli, quindi, dicono qualcosa su una persona: il suo modo abituale di muoversi, di
relazionarsi e di esprimersi.
“La locomozione come funzione è qualcosa di più complesso che non una ‘ semplice’ successione
di passi e comporta l’integrazione dell’attività di più sistemi, ad esempio l’equilibrio e la difesa,
l’orientamento e la direzione, la percezione visiva, tattile, barestesica e cinestesica e via di seguito,
fino agli aspetti cognitivi e relazionali (chi sono, dove sono, dove vado, a quale scopo).”129
Viceversa alcuni movimenti, anche se fisiologicamente possibili, sono assenti. Ognuno di noi
ha delle tensioni e delle deviazioni nel corpo di cui non è cosciente. Molti dei nostri malesseri,
irrigidimenti, dolori di schiena, tensioni ai muscoli del viso o degli arti, rivelano la nostra
storia dalla nascita sino ad oggi.
Ci siamo dovuti adattare a pressioni educative: fai il bravo, sbrigati, non toccare, non toccarti, fai
così, ecc. Ogni movimento spontaneo ‘congelato’, bloccato ha determinato tensione nei muscoli che
non hanno potuto esprimerlo. Per conformarci, ci siamo deformati.130 Ci sono comportamenti che
129
A Ferrari,Proposte riabilitative nelle paralisi cerebrali infantili,cit., pp. 157 - 158.
“Sono stati forse i vostri genitori, pieni d’apprensione nei vostri riguardi, a porvi dei limiti? Quando vi divertivate a
camminare in equilibrio su una trave o sul bordo di un marciapiede, mettendo cautamente un piede davanti all'altro con
lentezza, e praticando il più acuto dei vostri talenti nel muovervi, ovvero il senso cinestetico dell’equilibrio, è stato forse
130
79
non possiamo accettare di noi stessi, li rendiamo incoscienti a causa della programmazione ricevuta
quando eravamo piccoli attraverso il condizionamento ambientale (quindi l’immagine che abbiamo
di noi si distorce). Gli altri quando osservano il nostro comportamento hanno un’informazione
molto precisa ed hanno ragione di non essere d’accordo con noi, quindi l’inconscio é visibile.131
Tutto rimane nel corpo, se si ha la chiave di lettura esso ci racconterà molte cose.
“Il corpo con il duplice accesso del sentire e del muoversi rappresenta il veicolo e lo strumento
dell’affettività e delle emozioni.
Queste ultime sono, infatti, direttamente influenzate dai segnali che provengono dall’organismo in
quanto, anche senza avere necessariamente il coinvolgimento della coscienza, le variazioni dello
stato di tensione dei nostri muscoli o della frequenza cardiaca ci fanno sapere come ci sentiamo.
Ugualmente gli stimoli che giungono dall’ambiente esterno vengono percepiti dal nostro cervello e
le successive rapide reazioni del corpo diventano il segno di cosa queste percezioni significano per
noi (emozione-pensiero-comportamento).
In questo modo si crea un circuito in cui le risposte del corpo possono influenzare i meccanismi di
valutazione e indirizzare i processi di elaborazione attraverso stati di attivazione specifici.
Damasio parla di percezione e rappresentazione dei cambiamenti degli stati corporei a livello
cerebrale come di marker somatici dalla cui natura dipende poi come ci sentiamo.
Gli inputs, relativi alle risposte corporee a determinati stimoli, che arrivano al nostro cervello (alla
corteccia somato-sensoriale per la muscolatura degli arti e del volto, alla corteccia orbito frontale
per gli organi interni) stabiliscono delle associazioni con le esperienze connesse che diventano
apprendimenti. Ecco che stimoli interni (pensieri, immagini, ricordi) possono attivare a loro volta
marker somatici indipendenti dal contesto in cui ci troviamo realmente che però vengono percepiti
con la stessa intensità di risposte reali dirette a stimoli esterni contingenti (ad esempio ricordando
eventi che ci hanno spaventato attiviamo reazioni corporee tipiche delle reazioni di paura).” 132
Nel lavorare con il corpo è possibile che tensioni fisiche richiamino i vissuti emozionali che li
hanno determinati e che erano stati rimossi: “Ogni irrigidimento muscolare contiene la storia e il
significato della sua origine. Eliminarlo non solo libera energia, ma fa affiorare alla memoria la
situazione infantile in cui si è verificata la rimozione.”133
Sviluppare l’ascolto verso se stessi e verso gli altri, utilizzando la fisiologia muscolare, implica la
possibità di entrare in contatto con i blocchi e le resistenze che portiamo inconsciamente addosso
allora che i vostri genitori vi hanno gridato: “Scendi subito! Stai per cadere!” Oppure quando giravate come una trottola
su voi stessi, più e più volte, una cosa di cui è capace esclusivamente il bipede umano, e la vitalità accelerata insegnava
ai vostri occhi la scioltezza necessaria per il complicato coordinamento di una rotazione a una velocità tanto alta, è stato
allora che i vostri genitori vi hanno detto: “Smettila di girare, ti verranno le vertigini!” Avete ricevuto un chiaro
messaggio da coloro che erano le persone più importanti per voi allora: il messaggio che movimento era sinonimo di
pericolo, e che il vostro bisogno di osare e di sperimentarlo, di esplorare e decifrare le sensazioni, li metteva in
apprensione. Correre qualche pericolo, arrampicarsi con agilità, sono cose che rientrano nelle possibilità umane,
atrofizzate dagli ammonimenti di adulti autoritari, che, spinti da una sincera preoccupazione per la sicurezza dei figli,
hanno trascurato l’importanza della spinta vitale, che incita a sperimentare e ad imparare. La tendenza all’esplorazione
che si sviluppa nel bambino o nella bambina non sempre è riuscita a superare le preoccupazioni dei genitori, e il
bisogno di interagire con l’ambiente, che si scopre attraverso l’esperienza la forza e la competenza per fargli fronte non
è stato sufficientemente rispettato. Un simile atteggiamento di ammonimento penetra nella mente in fase di crescita, e il
giovane lo assorbe malgrado la resistenza suscitata in lui. Come un lavaggio del cervello, condizionerà tutte le
considerazioni e le reazioni future in un modo che non facilmente si potrà poi modificare, proprio come tutti gli altri
atteggiamenti sociali che i bambini colgono nell’ambiente nel corso della loro crescita.” R. Alon, Guida pratica al
metodo Feldenkrais, cit., pp. 36-37.
131
“ Il dott. Morgan in psichiatria condivideva con Feldenkrais l’idea che sia inutile rivivere il passato, che esso è qui,
adesso, fuso nel nostro corpo, e che non si può liberarlo, ameno di cambiare la nostra struttura muscolare, cioè il modo
in cui ci serviamo di noi stessi.” A. Degehet, Il metodo Feldenkrais, in “Solidarietà”, (1996), n. 28, pp. 22 – 23.
132
Lezione di neuropsichiatria tenute dalla Dott.ssa Lucia Vannucchi che opera presso l’Associazione “la Nostra
Famiglia”, San Vito al Tagliamento (PN).
133
W. Reich, La funzione dell’orgasmo, SugarCo Edizioni, Milano 1961, pp. 256.
80
(sentirli e toccarli). Divenire consapevole vuol dire non identificarsi, ma creare spazio tra noi e la
tensione. Questo spazio (meta-posizione) permette di inserire il cambiamento desiderato.
Per alcuni potrebbe essere l’inizio di una nuova sensazione e percezione di sé, e soprattutto
accettazione di sé in senso affettivo. È proprio questo lo scopo di questo lavoro rivolto ai terapisti
ed ai nostri piccoli e grandi pazienti.
Essere presente a questi processi in se stessi e saperli ‘riconoscere’ nell’altro attraverso gli
indicatori fisiologici significa essere vicini al vissuto dell’altro (al suo cammino interiore). Questa
nuova attitudine ci permette di aiutare l’altro nello stesso momento in cui ha bisogno: riesco ad
essere consapevole della difficoltà dell’altro e posso “sentire” come vorrei essere aiutato se vivessi
io la stessa difficoltà.
Quanto detto è molto importante in riabilitazione poiché essere attenti all’espressione motoria ed
al vissuto che manifesta permette al terapista di cogliere quelle sfumature che altrimenti si riducono
ad una generica ‘paralisi motoria’ o ‘goffaggine’: un bambino può non muoversi o avere difficoltà
perché non riesce a gestire lo spazio attorno a sé, un altro è dominato dai riflessi tonici ad ogni
minimo stimolo e si blocca, un altro ancora è paralizzato dalla paura di sbagliare. Viceversa alcuni
bambini non riescono a gestire gli stimoli proprio ed esterocettivi e sfuggono al compito motorio
rifugiandosi nell’iperattività, ecc.
D’altra parte per il terapista è importante avere percorso almeno un breve tratto di cammino verso
l’ascolto di sé, per capirsi, comprendere le difficoltà a cambiare ed accettarsi. Egli attraverso la
lettura del proprio corpo e delle tensioni che si legano ad esso può capire quando è ‘vicino’ ad una
situazione ‘problema’. Quest’attitudine permette di aprirsi all’altro con maggiore comprensione
delle difficoltà che attraversa e possiamo evitare fenomeni di proiezione emotiva su pazienti che ci
ricordano inconsciamente personaggi del nostro passato per mezzo di una maggiore
consapevolezza.
Infatti non è possibile capire ed educare il corpo di un’altra persona e tutto ciò che esso
rappresenta se non abbiamo vissuto su di noi questo stesso cammino (A. Lapierre, B.
Aucouturier).134
(metafora)
La creazione
La Creazione è terminata e Dio è soddisfatto per ciò che vede……. Un giorno chiama i Saggi
e chiede loro: “Tutto è stato creato ed è bene, anche l’uomo cammina e vive in mezzo a tutti
gli esseri. Vi chiedo, o Saggi, dove possiamo mettere la verità e la conoscenza, affinché l’uomo
la cerchi? Affinché la sua vita diventi un cammino degno di essere vissuto?”
I Saggi si consultarono e poi uno di loro disse: “Si potrebbe nasconderla in cima al monte più
alto.”
Rispose Dio: “Prima o poi l’uomo imparerà a scalare le montagne e sarà facile per lui
scoprire la verità.”
“Nel profondo degli abissi dell’oceano.” Disse un altro Saggio.
“Anche lì l’uomo arriverà con i suoi progressi.” Rispose l’Altissimo.
“Sulla luna o su una stella.” Suggerì un altro Saggio.
“E’ vero, sembrano così lontane, ma alla fine l’uomo le conquisterà.” Rispose Dio.
Venne il più anziano tra i Saggi e disse: “Mettiamo la verità nell’intimo dell’uomo. Quando
egli avrà esplorato tutto l’universo e sarà stanco per non averla trovata……inizierà a
guardare dentro di sé e la scoprirà, e come un sole la farà risplendere intorno a sé……”
“E così sarà.” Dio disse.135
134
135
Cfr. A. Lapierre - B. Aucouturier, La simbologia del movimento, Edipsicologiche, Cremona.
Liberamente tratta da una leggenda indù.
81
Processo interno – Stato interno
Spiegare i comportamenti dando un’interpretazione può essere pericoloso. Mettere una persona di
fronte ai suoi problemi è il modo sicuro di farla fuggire o di attivare la sua aggressività poiché sono
toccate le sue difese (catena muscolare PM). Inoltre si corre il rischio di colorare l’esperienza
attraverso il filtro della nostra visione della realtà, che non è sempre limpida.
Per evitare questi problemi occorre dare informazioni di tipo fisiologico: “ Il tuo movimento è
veloce. Ho notato che il tuo respiro cambia e i muscoli sono in tensione”. Questo porta alla
coscienza dell’attitudine fisiologica che si lega ad un vissuto interiore. La persona può
comprendere il legame emotivo con l’esperienza che sta vivendo (creando distanza tra sé e il
vissuto) e può cambiarlo.
E’ importante per il terapista acquisire gli strumenti per identificare ciò che vive il paziente per
essere con lui e poterlo aiutare. Alcuni strumenti possono essere gli studi sulle CM, la calibrazione
in Programmazione Neurolinguistica e l’Aptonomia.
Le CM rappresentano l’attitudine neuro–fisiologica–comportamentale della persona e
quindi l’abito emozionale che indossa. Il terapista può leggere nell’attitudine corporea (macro
movimenti) il modo prevalente del paziente di affrontare una situazione, vale a dire il suo stato
interno. Esso indica l’immagine che abbiamo di noi stessi.136 L’immagine costruita durante la
nostra storia personale (ontogenesi) in rapporto all’ambiente.
La calibrazione (misurare) permette, invece, di cogliere i micro-movimenti che rappresentano
il processo interno: cosa mi dico, quali pensieri ed immagini affollano il mio cervello. Il sistema
nervoso durante l’attività rappresentativa del pensiero riattiva i circuiti neurali che erano attivi
durante l’azione, movimenti che adesso immagina soltanto. 137 I movimenti sono ridotti a
modificazioni fisiologiche minime in continua variazione secondo il processo di pensiero, e
costituiscono solo una minima parte dei cambiamenti che subisce il corpo. Secondo studi recenti di
neuroscienze, inoltre, l’organismo partecipa come un tutt’uno all’attività di pensiero ed emozionale
del corpo.138 Questi studi sono confermati dall’esperienza quotidiana. Tutti abbiamo sperimentato le
136
“ Lo stato più importante è quello della presa di coscienza interiore: la presa di coscienza di sé, del proprio
movimento, della propria sensazione, del proprio sentimento, del prorio pensiero…L’immagine corporea, le emozioni e
il pensiero sono inseparabili. S’influenzano e agiscono in ogni istante, in qualsiasi situazione, come un tutto. Per
esempio, una persona ansiosa manterrà le spalle in avanti, e non terrà il collo ben dritto. Avrà un tono elevato dei
muscoli flessori e questo schema muscolare influenzerà tutti i suoi movimenti. Allo stesso tempo, tutte le sue
sensazioni, i suoi pensieri saranno filtrati dal condizionamento psichico. Se vi ponete nella posizione fisica di timidezza,
di collera, di arroganza, sentirete le emozioni corrispondenti e la vostra postura interferirà con i vostri movimenti
intenzionali. Ciascuno stato scelto dirige il vostro pensiero in direzioni diverse. Di tutti questi parametri (sensazione,
pensiero, sentimento, movimento) il movimento è il più accessibile all’osservazione pratica. Il movimento è un indizio
del funzionamento del sistema nervoso, dello sviluppo di altri aspetti del nostro essere, e un indizio della struttura della
nostra personalità.” A. Degehet, Il metodo Feldenkrais, cit., pp. 15 – 16.
137
“Per compiere un movimento è necessario attivare un programma motorio ma è anche necessario possedere una certa
motivazione a farlo. Non ci deve stupire quindi il fatto che un’area premotoria si possa attivare anche in assenza di
movimento.
Nell’uomo è stato dimostrato con la tecnica tomografica ad emissione di positroni che, quando un soggetto immagina di
compiere un certo movimento, avviene un’attivazione delle aree premotorie anche in assenza della successiva
realizzazione del movimento pensato. Questo dato attribuisce alla intenzionalità un nuovo significato, che la riscatta
dalla semplice appartenenza alla sfera motivazionale e le attribuisce un preciso ruolo neurofisiologico nella
realizzazione dei programmi motori.” A. Ferrari, Proposte riabilitative nelle paralisi cerebrali infantili, cit., p71.
138
Le cellule del corpo sono in comunicazione tra loro attraverso sistemi complessi. La Neuroimmunologia è la giovane
scienza che studia la stretta relazione tra SNC, sistema immunitario, endocrino e i vari organi: “Molte persone pensano
ancora che i nervi si servano di cariche elettriche, come il sistema telegrafico.[…]. Negli anni settanta però avvenne una
serie d’importanti scoperte riguardanti dei piccoli elementi chimici chiamati neurotrasmettitori. Come dice il nome, si
tratta di sostanze chimiche capaci di trasmettere gli impulsi nervosi; agiscono nel corpo come ‘molecole di
comunicazione’, permettendo ai neuroni del cervello di parlare al resto del corpo. I neurotrasmettitori sono i podisti che
corrono dal cervello a tutti i nostri organi e viceversa, per comunicare i pensieri, le emozioni, i desideri, i ricordi, le
82
metamorfosi che avvengono nel nostro corpo quando viviamo esperienze emotive di gioia, paura,
tensione, ecc. Le emozioni non sono vissute ed espresse dal solo SNC, ma da tutto l’organismo.
Comunemente i micro-movimenti sono non coscienti, ma vi sono tecniche per guidare alla loro
osservazione sviluppate in P N L.
Ogni contatto per il terapista è un arricchimento: quando si è aperti si possono ascoltare e
osservare le variazioni del tono muscolare, del respiro, ecc. Si può entrare in sintonia con il tono e il
respiro del paziente (rispecchiamento fisiologico) e poi indurre delle modificazioni.
In sintesi le variazioni del tono muscolare e degli indicatori fisiologici ci mostrano la tensione
psichica espressione di ciò che l’altro vive, sente e crede (J. Lerminiaux).
Elenco degli indicatori fisiologici:
Tono-volume della voce.
Espressione e mimica del viso.
Movimenti oculari e battito ciliare.
Micro gesti (micromovimenti).
Movimenti specifici e tic.
Respirazione: blocco e ripresa dell’atto respiratorio, ampiezza, localizzazione (addominale,
toracica, sub-clavicolare).
Colorito della pelle, sudorazione, pelle secca, rughe, secrezioni..
Battito cardiaco, pulsazione dei vasi sanguigni.
Tono muscolare.
Il terapista che osserva nel paziente un cambiamento nel suo respiro o nel suo colorito, comprende
di avere causato una reazione emozionale con le sue parole o con il suo agire. Questa variazione
indica come il corpo partecipa all’emozione. Il terapista non incontra direttamente l’emozione
dell’altro (il vissuto personale) ma può osservare la traccia visibile sul corpo del paziente a livello
fisiologico e comprenderne, attraverso gli indicatori, lo stato emotivo (J. Lerminiaux).
Il terapista osserva la respirazione del paziente durante la seduta terapeutica, se essa diventa alta e
veloce o viceversa bassa, addominale e rilassata, può comprendere mentalmente cosa accade a
livello emozionale (tensione emotiva o rilassamento). Osservando la reazione fisiologica, quindi, il
terapista scopre l’emozione nel suo svolgersi a livello neurale e nella sua tonalità globale. 139
Può essere difficile entrare nella pienezza del vissuto personale dell’altro, ma il terapista ha in ogni
caso delle informazioni su ciò che accade dal punto di vista emozionale durante la relazione
terapeutica: se egli tiene in considerazione:
intuizioni e i sogni. Nessuno di questi avvenimenti resta confinato solo nel cervello. E allo stesso modo, nessuno di loro
è strettamente mentale, dato che può essere codificato in messaggi chimici. Ogni volta che formuliamo un pensiero, si
debbono mettere in moto i neurotrasmettitori; senza di essi i pensieri non possono esistere. Pensare significa far
funzionare la chimica cerebrale, mettendo in moto una cascata di risposte lungo tutto il corpo. Abbiamo visto che
l’intelligenza, intesa come Know-how, permea la fisiologia: ora ha acquistato delle basi materiali.” D. Chopra, Guarirsi
da dentro, Sperling &Kupfer Editori, Milano 1992, pp. 56.
139
“In questo momento il vostro corpo è l’immagine tridimensionale di quel che state pensando. Questo fatto
stupefacente ci sfugge per diversi motivi. Uno è che l’aspetto fisico non cambia drasticamente per ogni pensiero.
Tuttavia il corpo proietta in modo piuttosto evidente i pensieri. Possiamo leggere letteralmente la mente degli altri
osservando il continuo cambiare delle loro espressioni facciali; senza notarlo, registriamo anche migliaia di gesti del
linguaggio del corpo come segno degli umori e delle intenzioni che hanno nei nostri confronti.[…]. Essi consistono in
minime variazioni della chimica cellulare, della temperatura corporea, delle cariche elettriche, della pressione sanguigna
ecc. sulle quali non posiamo la nostra attenzione. Possiamo essere comunque certi che il corpo è sufficientemente
plastico da rispecchiare qualsiasi avvenimento mentale.” Ibidem, p. 67-68.
83
contesto in cui avviene la reazione emozionale;
messaggio che il terapista invia a livello linguistico (verbale);
il messaggio corporeo del terapista (tono, voce, gestualità, respiro, mimica, ecc.);
può considerare: la risposta fisiologica, meta-messaggio del paziente, una reazione emozionale alla
situazione da lui creata.
Gli indicatori fisiologici sono numerosi e indicano in qualsiasi momento le variazioni emozionali.
Se il terapista è consapevole di ciò che provoca con il suo intervento può modificarlo agendo su se
stesso e può leggerlo sul corpo degli altri quasi istantaneamente (J. Lerminiaux).
(metafora)
L’indio
Un giovane indio vive nella foresta con la sua gente. È abituato alla dura lotta per la
sopravvivenza. I suoi occhi e il suo udito sono allenati a cogliere i più piccoli rumori e i più
piccoli particolari per capire se egli è vicino ad un amico o ad un nemico.
Un giorno, al compimento della maggiore età, è portato fuori dal suo piccolo mondo. Deve
affrontare la foresta da solo per tre giorni e tre notti, senza ripari, senza cibo, avanzando in
posti sconosciuti nella penombra degli alberi.
Il giovane sente il fruscio delle foglie sulla pelle, l’odore della terra umida, sente rumori e
sensazioni nuove. Tutti i suoi sensi sono vigili. Mentre vive questa esperienza si avvicina ad
uno strano luogo che non aveva mai visto. Egli osserva davanti a sé una distesa lucida, piatta,
molto grande, che ha il colore del cielo. Il giovane si sporge per guardare da vicino e…. si
ferma stupito nel vedere un tizio che lo osserva con aria insolita. Subito si ritira e non vede
nessuno attorno a se. Attende un po’ e si sporge nuovamente. Egli rivede la stessa persona di
prima con gli occhi sbarrati, i lineamenti tirati e i movimenti veloci. L’altro sembra impaurito
e lo vede ritirarsi mentre lui stesso si ritira.
Il giovane si ritrova nuovamente solo ma intuisce qualcosa: quella grande distesa luminosa
rispecchia il cielo, le montagne e gli alberi e, forse….. quel viso riflesso è il suo.
Il giovane indio specchia se stesso nel lago e si riconosce….non ha più paura. Egli vede i
lineamenti del suo viso distendersi, gli occhi diventano più aperti, vede e sente il suo corpo
rilassarsi mentre il colore ritorna sul suo viso.
Egli comprende che la paura e l’angoscia nascono dal non capire che ‘l’altro’ è se stesso e
sente in sé i cambiamenti che lo riportano ad uno stato di benessere…..Mentre vive su di sé
questi mutamenti….. li osserva nell’immagine riflessa….
Una nuova sensazione nasce nel giovane come un lampo: “Quando incontro qualcuno che ha
quegli occhi serrati, quei muscoli tesi, quel respiro corto e breve…..so cosa sta vivendo, perché
io stesso l’ho sentito, l’ho vissuto…..Conosco anche il cammino per rassicurarlo….l’ho sentito
e l’ho vissuto.”
Il ragazzo si sente rilassato e felice.
Passati i tre giorni, il giovane ritorna al suo villaggio e lo Sciamano lo saluta mentre coglie
nello sguardo del ragazzo e nel suo corpo che qualcosa è cambiato…….egli lo riconosce,
perché anche lui……. l’ha sentito e l’ha vissuto.
Il punto di vista
84
I filtri che impediscono di percepire la realtà per quello che è, determinando i punti di vista
particolari, sono di tre tipi:
1) Filtro genetico: esso permette di percepire attraverso i sensi specifici solo alcuni elementi della
realtà per una data specie (per esempio noi non riusciamo a percepire i raggi infrarossi o
ultravioletti), inoltre la nostra particolare predisposizione genetica determina un certo temperamento
e modo personale di rispondere agli stimoli interni ed esterni.
2) Filtro sociale: attraverso l’educazione s’insegna a dare un significato agli eventi, alle persone ed
alle cose, ma il significato ed i valori cambiano in situazioni sociali differenti ed in momenti storici
differenti.
3) Filtro personale o storia personale: l’incontro della personale predisposizione genetica con
l’educazione particolare che riceviamo nel nucleo familiare e sociale e le vicende che ci accadono
formano la nostra personalità.140 L’apprendimento emozionale, in gran parte non cosciente,
appartiene al filtro personale.
Come conseguenza delle esperienze personali noi possiamo essere incapaci, in senso neurologico
ed in quello più ampio psicologico (di vissuto e relazionale), di cogliere certi aspetti piuttosto che
altri della realtà.141
Riflettendo su quanto detto possiamo comprendere come gli oggetti e gli eventi che sono sempre
davanti ai nostri sensi sono sempre gli stessi, quello che cambia nel tempo è l’interpretazione che
diamo di essi. Per esempio i fenomeni naturali per i Greci antichi erano espressione della
manifestazione dei desideri degli dei sugli elementi. Oggi diamo agli stessi un’interpretazione
scientifica sulla base delle leggi di fisica che l’uomo moderno ha “scoperto”. Lo stesso accade per
l’etica, i costumi sociali, ecc. Di fatto, le interpretazioni sono credenze che si modificano quando “si
sposta” il “punto di vista” e conseguentemente si modifica l’agire sulla realtà. 142
Questo fenomeno si verifica anche in campo riabilitativo. L’approccio alla diagnosi ed al
trattamento nella patologia neuromotoria: “risente tuttora di una notevole disomogeneità degli
approcci metodologici e degli strumenti utilizzati: ciò è da riferirsi in primo luogo alla diversità
degli indirizzi culturali e dei modelli teorici relativi alla patogenesi del disordine motorio che si
sono succeduti negli anni, in secondo luogo alla reale difficoltà di valutazione dei risultati del
trattamento riabilitativo in questa patologia, caratterizzata dal dinamismo evolutivo proprio delle
patologie croniche in età infantile.”143 Ed ancora: “Probabilmente la difficoltà di costruire una
classificazione accettabile e significativa per tutte le forme di Paralisi Cerebrali Infantili (PCI) nasce
dal postulato stesso della complanarità classificativa e dalla scelta delle linee guida. È molto
difficile pensare che un fenomeno complesso come la PCI possa essere analizzato esaustivamente
da un solo angolo visivo, cioè attraverso un solo piano di esplorazione, per quanto suggestivo e
significativo questo possa apparire. […]. Per classificare la PCI è dunque necessario rinunciare alla
complanarità fra le diverse forme, all’omogeneità delle linee guida ed all’immodificabilità
dell’angolo visivo. Per questo una classificazione ‘limitata’ all’analisi del disturbo motorio (postura
e gesto) e della sua localizzazione somatica, come quelle attualmente in uso (Hagberg, Bobath,
Milani Comparetti), non può che avere precisi limiti.[…]. Dobbiamo imparare ad utilizzare oltre a
quello del movimento anche altri angoli visivi, tra i primi e più significativi l’angolo visivo della
percezione e quello della intenzionalità, in modo da aver accesso ad altre decisive informazioni, che
l’angolo visivo del movimento non ci consentirebbe di raccogliere.[…]. In sostanza, a seconda del
punto di osservazione prescelto e dei criteri classificativi adottati, lo stesso fenomeno potrà
apparirci secondo contorni differenti.”144 La flessibilità nell’osservazione e la possibilità di
140
Cfr R. Bandler – J. Grinder, La struttura della magia. Cit.
vedere note del capitolo secondo.
142
Un altro esempio per descrivere quest’aspetto della percezione ci viene dalla storia dell’arte: nel Medio Evo gli
artisti non sapevano raffigurare la prospettiva nei loro disegni poiché non era stata scoperta, anche se essa era presente
ai loro sensi. Quindi essa non era percepita e non poteva essere riprodotta e studiata.
143
E. Fedrizzi, La riabilitazione della paralisi cerebrale infantile: metodologie, strumenti e modelli teorici dello
sviluppo, in A. Ferrari – G. Cioni, Paralisi cerebrali infantili. Storia naturale e orientamenti riabilitativi, cit., p.213.
144
A. Ferrari – G. Cioni, Paralisi cerebrali infantili. Storia naturale e orientamenti riabilitativi, cit., pp. 44 - 45.
141
85
strumenti diversificati quindi permette all’operatore di cogliere molti aspetti altrimenti ‘invisibili’.
L’aspetto tonico-emozionale è in quest’ottica un arricchimento e non una soluzione unica per
l’osservazione del bambino o dell’adulto con problemi.
Se l’operatore riesce a cogliere le molte dimensioni del bambino o dell’adulto da cui origina il
quadro clinico che manifesta, può attivare strategie adeguate e diversificate per aiutarlo.
In ogni campo le interpretazioni possono essere negative o positive ma l’aspetto più importante è
che esse sono spesso limitanti e precludono possibilità non “viste” o comunque visibili dalla
posizione da cui si osserva. In quest’ottica le credenze mediche, cioè le interpretazioni della
patologia, possono costituire, in alcuni casi, un forte impedimento a cogliere aspetti potenziali del
paziente. Ancora oggi, infatti, la diagnosi e la prognosi si basano spesso su una semeiotica che
puntualizza troppo spesso i segni evidenti (sintomi) negativi della patologia, trascurando gli aspetti
potenziali o gli elementi relazionali e ambientali (contestuali) che sono parte dell’evento.
Le interpretazioni (credenze) agiscono sul modo in cui viviamo un’esperienza e creano
un’immagine di noi stessi e del mondo ed in conformità all’immagine si attiva il nostro
comportamento.145 Anche l’approccio diagnostico e, di conseguenza, terapeutico risentono
necessariamente di questi limiti, ed è importante esserne consapevoli per evitare fenomeni quali
l’accanimento terapeutico che nasce da una visione troppo rigida ed univoca della patologia.
Il particolare punto di vista ed i comportamenti che ne scaturiscono, in sintesi, sono frutto delle
credenze contingenti che agiscono sulla nostra storia personale e professionale. Essi non sono
migliori o peggiori rispetto ad altri, ma gli effetti che essi riescono a determinare possono essere
costruttivi o disastrosi nell’impatto che hanno con la realtà.
Il proprio punto di vista si costruisce nella necessità di dare una risposta agli eventi esterni
coerentemente con le credenze correnti o in opposizione ad esse.
Per questo motivo il punto di vista ha un valore contestuale e può essere capito, ma non
sempre i suoi effetti sono giustificabili. In ogni caso irrigidirsi in un punto di vista è limitante.
Una volta assunto un punto di vista rigido si corre il rischio di distorcere la realtà con la quale
interagiamo e si perde la capacità di vedere gli eventi in modo naturale e di poter fluire con loro.
La patologia di qualunque tipo è sinonimo di limitazione e blocco.146 Ciò è vero in campo
personale e professionale. Acquisire flessibilità di vedute è comunque fondamentale per un
‘approccio’ più vicino alle reali problematiche del paziente.
Se il terapista riesce a sospendere il giudizio (che nasce da una visione parziale, posizionamento
personale verso una persona o situazione), può seguire una persona nel suo percorso esteriore e
profondo. Egli può capire il modo abituale del paziente nell’affrontare una situazione per mezzo del
livello fisiologico e relazionale (tensione muscolare, comportamento, CM) permettendogli di
risalire alle sue credenze (il punto di vista da cui osserva il mondo e dal quale agisce di
conseguenza). Questa capacità di osservare senza pre-giudizi è un arricchimento per il terapista
poiché può accedere a nuove esperienze e nuovi modi di affrontare la realtà. Essa permette di
aiutare il paziente offrendogli nuove strategie per il raggiungimento dell’obiettivo terapeutico in
armonia con le sue credenze o per ristrutturarle, se necessario.
C’è un particolare esercizio chiamato ‘il punto di vista’, esso è una metafora, come tutte le
esercitazioni che si vivono in seminari di formazione e ci aiuta a fare esperienza delle possibilità
latenti in noi. Attraverso quest’esperienza comprendiamo che vi è uno stato problema che
impedisce di assumere una posizione di osservazione flessibile e creativa. L’attitudine terapeutica
inizia, infatti, quando riusciamo a metterci dal punto di vista dell’altro; quando sappiamo esplorare
soluzioni nuove. Ciò implica una grande disponibilità e flessibilità mentale da parte del terapista.
Queste osservazioni si possono estendere all’ambito psicomotorio. Anche questo caratterizzato da molteplici indirizzi.
145
Cfr. R. Bandler – J. Grinder, La struttura della magia, Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma 1981.
“ La normalità è ‘variabilità’. Al contrario, in generale, la funzione patologica è ‘stereotipia’, sempre uguale, con
scarse od assenti soluzioni alternative (Prechtl e Connolly 1980).” A. Ferrari – G. Cioni, Paralisi cerebrali infantili.
Storia naturale e orientamenti riabilitativi, cit., p. 227.
146
86
Comprendere la necessità di quest’attitudine nel terapeuta non è sempre scontato considerando che
quest’ottica, molto spesso, non fa parte della sua formazione professionale.
Inoltre possiamo e dobbiamo comprendere e imparare ad accettare in noi e negli altri quegli aspetti
che sono ‘disturbanti’. Possiamo comprendere che essi ci sono stati utili in tante situazioni in cui
eravamo in difficoltà. In quei momenti costituivano la sola risorsa a nostra disposizione. 147
Pensiamo per esempio alla limitazione e distorsione di movimento che il bambino neuroleso
manifesta, ma che costituisce comunque la sola possibilità di esprimersi. Se l’ambiente inibisce
troppo l’espressione patologica o richiede al bambino abilità impossibili finisce per inibire
anche le sue potenzialità residue. Per questo motivo è importante non distruggere o accettare
passivamente il nostro o l’altrui punto di vista (credenza), ma comprendere le ragioni profonde del
comportamento da esso generate: le sue intenzioni positive spesso distorte a livello superficiale. Il
passo successivo consiste nel cercare le strategie adeguate per soddisfarle attraverso la
ristrutturazione, tenendo conto dell’attuale situazione di vita nostra o dell’altro e nei casi specifici
della sua situazione neurologica.
Possiamo imparare a metterci in meta-posizione: posizione interiore da cui si osserva
contemporaneamente il proprio punto di vista e quello dell’altro. Il terapista non si fa intrappolare
dalle proprie ed altrui distorsioni emotive, ma si fa guidare dall’obiettivo terapeutico ed umano:
dallo scopo, dall’intenzione positiva profonda del paziente.148
Utilizzando una metafora la meta-posizione può essere così descritta: immaginiamo una persona in
mezzo ad una folla che cerca d’individuare un amico. Egli incontra molti ostacoli (le sue e le altrui
distorsioni). Immaginiamo adesso che salga al primo o secondo piano di una casa e guardi verso la
folla. In questo caso egli potrà individuare più facilmente il suo obiettivo (incontrare l’altro e la sua
intenzione positiva).
Quest’attitudine può essere appresa se si capisce che le distorsioni emotive spesso impediscono di
raggiungere gli obiettivi terapeutici e relazionali.
C’è tuttavia, un’attitudine particolare che è difficile da raggiungere coscientemente: riuscire ad
essere l’altro che osserva. Quest’attitudine, detta empatia, può essere sviluppata nell’uomo poiché
fa parte del suo bagaglio ontogenetico.149 È sufficiente osservare una madre che ‘sente’ i bisogni del
suo piccolo, oppure il nostro stato d’animo quando vediamo qualcuno soffrire o gioire:
immediatamente siamo partecipi di ciò che l’altro vive e sente (risonanza consapevole), cambia la
nostra fisiologia e reazione emotiva.
Il terapista può utilizzare quest’attitudine per entrare nel mondo emotivo del paziente attraverso la
risonanza consapevole (Aptonomia e Prolungamento).
“Un intervento terapeutico che non dichiari il proprio scopo non può essere considerato tale. Non
può esistere un esercizio terapeutico assoluto, ma un esercizio adatto a quel bambino, per quella
funzione, rivolta a quello scopo, che in quel momento è interessante ed importante per lui. Bisogna
però considerare che non sempre il significato che il terapista attribuisce ad un certo esercizio
coincide con quanto fa il paziente stesso. Quello che realmente conta è il significato che il risultato
dell’azione assume per chi attua il movimento (Maturana e Varela, 1988). In termini pragmatici
questo aspetto costituisce un problema molto reale: spesso si ritiene in modo arbitrario che una certa
proposta debba risultare interessante in una certa fase dello sviluppo per il bambino, che invece non
vi trova alcun interesse. Per poter fare terapia occorre per questo imparare a vedere il mondo
attraverso gli occhi del bambino che s’intende aiutare.”150
147
Vedi più avanti in: I sintomi e la ristrutturazione.
A questo proposito può essere molto interessante la lettura del libro: C. Andreas - T. Andreas, I nuclei profondi del
Sé. In viaggio verso se stessi, Casa Editrice Astrolabio. Ubaldini Editore, Roma 1995.
149
Vedi capitolo secondo.
150
A. Ferrari, Proposte riabilitative nelle paralisi cerebrali infantili, cit., p.102.
148
87
Questo ‘sentire’ aiuta il terapista a creare l’ambiente mentale e fisico adatto alla difficoltà del
paziente. Egli comprende (prende su di sé) ciò che l’altro ha di bisogno nel momento stesso in
cui il ‘bisogno’ si manifesta.151
Il prof. Lerminiaux, per favorire questo processo, ha proposto una serie di esercizi per ‘sentire’ ciò
che ‘sente’ il paziente. Il terapista è guidato ad immaginare e a ‘calarsi’ nella fisiologia di questi:
nel modo di muoversi, di respirare, di assumere espressioni, ecc. Egli può così comprendere
(prendere su di sé) le difficoltà del paziente nell’affrontare le varie situazioni, quindi il suo
vissuto.152
In un secondo momento il terapista può mettersi in posizione distaccata (meta-posizione), per
trovare le soluzioni idonee al vissuto del paziente: dare l’aiuto fisico necessario (attraverso l’utilizzo
dei metodi riabilitativi, ristrutturazione fisica) e trovare le risorse che possono servire per superare
lo stato d’animo bloccante (ristrutturazione emotiva). In questo modo, il paziente può sentire nel
corpo e nel linguaggio del terapista la risposta al suo bisogno, e seguirla spontaneamente (attraverso
il prolungamento).
E’ importante capire che questo processo richiede consapevolezza ed apertura, ma anche prudenza,
poiché può accadere di incontrare situazioni emotive per noi irrisolte e difficili da gestire (in questi
casi occorre l’aiuto della supervisione).
Per il terapista è importante la sincera e competente ricerca d’aiuto, non l’infallibilità. Egli deve
guidare con professionalità, attenzione ed empatia. Il paziente ‘sente’ questo consapevolmente o
inconsapevolmente. Ma il passo definitivo, il salto verso l’acquisizione di un vissuto più ampio,
deve essere fatto dal paziente stesso, con il suo ‘sentire’, con il suo corpo e con la sua
‘apertura’. Solo così egli cresce verso la sua autonomia, e il terapista conferma questo processo.
(metafora)
Il monaco girovago
Immaginate il Giappone dei tempi antichi. I monaci girovaghi potevano fermarsi in un monastero
e ricevere ospitalità, ma dovevano sostenere una discussione sul Buddismo e uscirne vittoriosi. Se
perdevano dovevano andarsene.
In un monastero vivevano due fratelli monaci. Il più anziano era istruito e il più giovane era
sciocco ed aveva un solo occhio. Arrivò un monaco girovago e chiese alloggio invitandoli, secondo
la regola, ad un dibattito sulla Sublime Dottrina. Il fratello più anziano quel giorno era molto stanco
e chiese al più giovane di sostituirlo: “Vai tu e chiedigli il dialogo muto…Mi raccomando!”
Il giovane monaco e il forestiero andarono a sedersi in una stanza.
Poco dopo il viaggiatore venne a cercare il monaco più anziano e disse: “Il tuo giovane fratello è
un tipo straordinario. Mi ha battuto.”
“Riferiscimi il vostro dialogo.” Chiese il più anziano.
Il viaggiatore disse: “ Per primo ho alzato un dito, che rappresenta il Budda, l’Illuminato. E lui ha
alzato due dita, per dire il Budda e il suo insegnamento….. Io ho alzato tre dita per rappresentare il
Budda, il suo insegnamento e la sua comunità, che vivono la vita armoniosa. Allora lui mi ha scosso
151
“Carl Rogers affermò il bisogno di creare una speciale atmosfera di solidarietà per intensificare l’esperienza del
cliente e accrescere le potenzialità di autoattualizzazione. Rogers suggerì l’opportunità che il terapeuta si trovi col
cliente in uno stato di intensa consapevolezza, concentrando appieno la sua attenzione sull’esperienza del cliente e
riflettendone profondamente le espressioni verbali e non verbali da una posizione di empatia e di considerazione
positiva incondizionata.” F. Capra, Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente, cit.,pp.317.
Una approfondito studio sull’approccio rogersiano si può trovare in C. R. Rogers, Un modo di essere, Psycho di G.
Martinelli & C., Firenze 1983.
152
Questo esercizio in PNL si chiama rispecchiamento fisico. Esiste anche una strategia di cambiamento che si basa
sullo stesso processo: ancoraggio spaziale in tre posizioni di R. Dilts.
88
il pugno chiuso davanti alla faccia, per mostrarmi che tutti e tre sono una sola realizzazione. Così ha
vinto ed io non ho nessun diritto di fermarmi.” Il monaco girovago salutò ed andò via. Nel mentre
arrivò il monaco più giovane correndo: “Dov’è quel tale?” Chiese all’anziano fratello.
“Ho saputo che hai vinto il dibattito.” Disse questo.
“Non ho vinto un bel niente. Voglio picchiare quell’individuo!” Esclamò il monaco più giovane.
“ Raccontami la vostra discussione.” Lo pregò il più anziano.
“Accidenti, non appena mi ha visto ha alzato un dito, insultandomi con l’allusione che io ho un
solo occhio. Poiché era un forestiero, ho pensato che dovevo essere gentile con lui ed ho alzato due
dita, congratulandomi perché aveva due occhi. Poi quel miserabile villano ha alzato tre dita per dire
che tutti e due avevamo solo tre occhi. Allora ho perso la tramontana e sono balzato in piedi per
dargli un pugno, ma lui è scappato via e così è finita.”153
Tre livelli dell’essere
Dalle osservazioni precedenti nasce spontanea la comprensione che la suddivisione dell’uomo in
corpo, mente e psiche è artificiosa. L’uomo è un essere multidimensionale. Le varie dimensioni si
compenetrano ed esprimono lo stesso vissuto.
Il nostro modo di muoverci, di parlare e le espressioni del nostro viso sono caratteristiche e uniche.
Chiunque ci conosce può anticipare la nostra venuta ascoltando il modo di camminare o la voce.
Anche l’aspetto emozionale è tipico per ognuno di noi. Reagiamo in modo particolare alle varie
situazioni: attraverso il corpo emozionale (comportamento), possiamo essere riconosciuti.
L’educazione plasma gran parte dei nostri gusti ed atteggiamenti, determinando l’angolo da cui
osserviamo le cose e le persone: il nostro particolare punto di vista, le credenze. Queste
condizionano i nostri comportamenti e, quindi, le reazioni fisiche.
Se incontro un amico (credenza) il mio comportamento (relazione, psiche) sarà di una qualità
particolare che si manifesta nel corpo, la cui fisiologia (atteggiamento disteso, movimenti rilassati,
respiro, mimica, ecc.) avrà un’attività armonica.
Se sta per arrivarmi addosso un’automobile, l’immediato senso del pericolo (credenza) attiva in
me mutamenti fisici (fisiologia) che alterano il mio comportamento (relazione).
Quanto accennato è confermato dai recenti studi di Psiconeuroendocrinologia. La scoperta dei
neuropeptidi e dei neurotrasmettitori sembra aver colmato il vuoto tra biochimica ed attività
mentale. Secondo questi studi il corpo e la mente sono lo specchio uno dell’altra. L’attività di
pensiero ed emotiva attraverso questi mediatori chimici è diffusa in tutto il corpo, non solo nel
SNC. Nel cuore, nei reni, nello stomaco, nel sistema immunitario e ormonale sono stati trovati
recettori specifici dei suddetti mediatori chimici, a loro volta questi organi ed apparati li producono.
Quando provo gioia o paura tutto l’organismo riceve in modo pervasivo questo messaggio per
adattarsi a quello che accade. Allo stesso modo lo ‘stato’ di un organo o apparato influisce su tutto
l’organismo.154
D’altronde se mente e corpo fossero separati, come potremmo muovere un piede semplicemente
pensando il gesto?
Questo modo di pensare, che unifica l’ambiente interno dell’essere vivente, comprende inoltre la
risposta dell’organismo in relazione con l’ambiente in cui vive. Potremmo affermare che essa si
sviluppa ed acquista significato in un organismo più grande che è l’ambiente. Ciò permette di
cogliere il senso del vissuto tonico-fisiologico-emozionale nel contesto socio-ambientale dove esso
acquista significato.
La divisione in piani: fisico-fisiologico, relazionale-psichico e delle credenze è solo didattica
ed è attuata dal linguaggio il quale per descrivere separa (cervello sinistro), mentre il vissuto è una
immagine globale (cervello destro).
Queste osservazioni sono importanti in terapia. Esse fanno comprendere l’unicità dell’individuo e
la necessità di capire su quali piani agisce il nostro intervento.
153
154
Racconto liberamente tratto da: N. Senzaki – P. Reps, 101 storie zen, cit, pp.42-44.
Cfr. D. Chopra, Guarirsi da dentro, cit.
89
Solitamente il lavoro del fisioterapista è inteso solo sul piano fisico-fisiologico con vaghe
connotazioni psicologiche, ma abbiamo “visto e sentito” che la relazione è più complessa.
A questo proposito mi viene in mente l’esperienza da me vissuta con la piccola M. di cinque anni.
M. è una bambina vivace e simpatica. La piccola giunge in trattamento da me a diciotto mesi perché
presenta un quadro di diplegia spastica (spasticità agli arti inferiori). Le piace molto giocare e
attraverso il gioco riesce a superare le sue difficoltà ottenendo una buona capacità di camminare e
una buona autonomia. Gli schemi patologici si evidenziano maggiormente quando lei corre, quando
ha paura o è arrabbiata.
In seguito alla nascita di un fratellino, e soprattutto quando la madre inizia un’attività lavorativa, si
osserva un progressivo peggioramento della spasticità agli arti inferiori. La bambina arriva spesso in
trattamento nervosa o triste e qualche volta piange per alcuni minuti scaricando la sua tensione. Poi
iniziamo a lavorare attraverso i giochi che le piacciono e il suo corpo si rilassa. Ella riesce a
poggiare bene i piedi e cammina bene, ma appena esce dalla sala di terapia ritorna a camminare
sulla punta dei piedi. Questa situazione si protrae per alcuni mesi e i genitori decidono di far visitare
la bambina da uno specialista in chirurgia ortopedica in Belgio, approfittando di un viaggio presso
dei parenti. In questa visita, e in una successiva fatta in Puglia, gli specialisti consigliano un
intervento chirurgico d’allungamento del tendine d’Achille. Questa decisione mi lascia perplesso
poiché sono consapevole che la bambina riesce a gestire il suo tono muscolare quando è serena.
Un giorno, mentre la bambina sta piangendo dice: “È colpa di Gesù se sono così”. Dopo un attimo
di riflessione comprendo ciò che vive la bambina. Immagino le frasi insistentemente ripetute delle
persone nell’ambiente in cui lei è cresciuta: “Il Signore certe cose non le dovrebbe permettere.”
La bambina attivando il suo tono alterato esprime la rabbia per ‘l’ingiustizia subita’…e la mostra
al mondo.
Capisco il suo dramma (credenza) e comprendo la tensione che ella vive. Con molta dolcezza le
ricordo che se la sua situazione fosse stata veramente causata da Gesù, ella non potrebbe mai
camminare bene, perché Gesù glielo impedirebbe. Lei, invece, riesce a superare la sua difficoltà
quando è con me in terapia. Ciò vuol assicurare che essa dipende da lei e che è lei la padrona del
suo corpo.
Affermo che lei ha ragione di essere in tensione e fa bene ad attivare la patologia quando è
arrabbiata o vuole attirare l’attenzione. In altri momenti però, quando vuole giocare con i suoi amici
e vuole correre senza cadere, è meglio che lei controlli le sue gambe per ottenere ciò che vuole.
In seguito a quell’episodio la bambina abbassò il tono muscolare spastico al punto che non fu più
necessario l’intervento. Sembrava che un antico nodo si fosse sciolto allentando le tensioni del suo
corpo.
Spesso le nostre tensioni interiori (causate in questo caso da una credenza della bambina)
mantengono o attivano uno stato patologico, se esse non sono rimosse qualsiasi intervento è
bloccato.
Ciò implica che il terapista ha molte possibilità di intervento sul paziente e non solo a livello
fisico. Ogni bravo terapista intuisce ciò, ma occorre conoscere la strada per arrivare al ’blocco’e
rendersi disponibili senza correre rischi.
Un approccio unitario, che tenga conto dei diversi livelli, ha ripercussioni sul corpo e genera nuovi
comportamenti. E’ importante essere capaci di cogliere il cambiamento e saperlo guidare al suo
manifestarsi.
Il sintomo e la deconnessione
90
L’immagine interna guida il nostro modo di essere al mondo e condiziona gli eventi esterni
confermandosi.155 Questo concetto, espresso in precedenza, indica la nostra capacità, spesso
inconscia, di manipolare gli eventi.
Immaginiamo una persona timida che entra in una stanza dove ci sono persone che conosce
appena. Ella sente il suo corpo irrigidirsi e i movimenti divenire impacciati. Questa persona è molto
attenta a come gli altri la osservano mentre la sua tendenza è di stare in disparte. Qualcuno la invita,
ma tende ad essere ritrosa. Dopo un po’ gli altri parlano tra loro e la persona timida si sente messa
da parte confermando l’immagine che ha di sé.
Quando abbiamo un comportamento che non ci piace, o un sintomo fastidioso, la nostra
coscienza è polarizzata (connessione), c’identifichiamo con il comportamento o con il sintomo.
La connessione e la deconnessione sono processi naturali del S.N.C e sono spontanei in tante
situazioni della vita: se ad esempio ascolto con interesse un film dimentico il luogo in cui mi trovo;
qualche volta quando guido l’automobile sono assorto nei miei pensieri ed arrivo alla meta senza
rendermi conto della strada percorsa; la sensazione dei vestiti sulla pelle scompare quasi subito
dopo averli indossati per un processo di adattamento; ecc.
Fattori culturali possono determinare potenti nuclei che polarizzano la coscienza, essi possono
inibire e plasmare i fattori genetici.156 Questi, a loro volta, frutto dell’evoluzione della vita sulla
terra avvenuta in miliardi di anni, spingono per manifestarsi e trovano possibilità di espressione in
modelli sociali e credenze culturali contingenti. L’interazione tra genetico e ambiente, infatti,
determina l’evoluzione o meglio la co-evoluzione individuo-ambiente. Quando, però, l’ambiente
distorce eccessivamente le pulsioni biologiche attraverso fattori socio-culturali inibenti o devianti,
impedisce all’individuo di accedere e comprendere la propria saggezza organica.157 La coscienza (e
l’inconscio) dell’individuo, in questi casi, si polarizza (connessione) nei modelli che gli sono offerti
causando, spesso, continui conflitti tra la ‘spinta interna’ e la necessità di distorcere la sua
espressione. Tutto questo impedisce all’individuo di canalizzare liberamente le sue energie e
consapevolezza verso finalità e scopi.
In terapia si può utilizzare la deconnessione e la connessione per favorire processi di
cambiamento: ad esempio si può chiedere ad un paziente diplegico di concentrarsi e rilasciare gli
arti superiori (che riesce a controllare meglio) ed automaticamente rilascia il tono muscolare
spastico agli arti inferiori, dove è localizzato il problema (ipertono). Si può dire al paziente
emiplegico di sentire lo stesso tono del lato sano in quello spastico ed osservare (calibrare) i
mutamenti fisiologici progressivi. E’ possibile dissociare le sincinesie patologiche (movimenti
associati per irradiazione) chiedendo al paziente di sollevare l’arto superiore spastico e
contemporaneamente di rilasciare i muscoli del collo e dell’arto superiore controlaterale; ecc.
La deconnessione o la connessione crea una frattura nello stato di coscienza della persona, quindi
interrompe per un certo tempo la sua immagine, determinando necessariamente un cambiamento
fisiologico. Quando la persona ritorna all’immagine solita sente, anche se per un breve tempo, il
cambiamento fisiologico e ciò diventa una variabile che destruttura lentamente l’immagine che ha
di sé. Questo processo può permettere un nuovo assetto corporeo.
La spasticità è una immagine che il paziente ha strutturato nel tempo, soprattutto quando ha
avuto difficoltà (ancoraggio - connessione – identificazione). Il tono muscolare elevato
(spastico o rigido) da sensazione d’integrità fisica (si sostituisce all’Asse), e su questa
sensazione il bambino costruisce il suo schema corporeo. Egli vive la paura che allentando la
spasticità il suo corpo possa crollare a causa delle competenze scomparse o mai acquisite.
Il tono muscolare nel bambino con PCI è primariamente alterato da fattori neurologici e attivato in
situazioni di difficoltà. Il bambino, infatti, manifesta i suoi ‘problemi’ attraverso l’incapacità di
gestire le sensazioni proprio ed esterocettive e/o nella difficoltà ad eseguire compiti motori più o
meno complessi e questo può diventare il solo vissuto corporeo, in pratica la sola percezione che
155
Indice di computazione in PNL.
Vedi capitolo secondo.
157
G. Molè, Il linguaggio dimenticato, in “Solidarietà”, (1995), n..24, pp. 73 – 79.
156
91
egli sa richiamare nel suo corpo in situazioni simili. In questo modo il bambino neurologico rievoca
nel suo corpo le situazioni patologiche che gli hanno fatto fallire il compito motorio (perché spesso
sono le uniche che conosce). Egli ripropone sempre lo stesso comportamento motorio (ed emotivo
che si lega ad esso) confermando la sua immagine interna (connessione) (indice di computazione in
PNL).
Il terapista può richiedere al paziente o al bambino di fare alcuni movimenti semplici, rispettando i
suoi ritmi e tempi, stando attento alle compensazioni e ai punti in cui il paziente concentra il tono
muscolare (parti del corpo da cui s’irradiano gli schemi patologici). Egli diviene il “lettore” degli
indicatori tonici del paziente aiutandolo a portare l’attenzione su di essi. Il terapista che riesce a
fare questo lavoro d’ascolto nel paziente gli permette di dissociarsi, di creare distanza e di
controllare progressivamente il tono muscolare da utilizzare, sino ad avere “esperienze” e
sensazioni di tono muscolare e posizioni del corpo diverse. 158 Se il terapista riesce a modulare il
tono muscolare del paziente con adeguate facilitazioni sia nel preparare l’ambiente (disposizione e
scelta dei giochi), sia nell’approccio fisico può aiutare il bambino ad uscire da quest’immagine
imprigionante. Ciò può avvenire senza che il piccolo se ne renda conto perché preso dal gioco e
l’intervento è ben equilibrato sulle difficoltà, potenzialità e scopi dello stesso.
Divenire consapevole di queste “nuove” sensazioni che il bambino vive non cambia subito
l’immagine prevalente, tuttavia è sicuramente una nuova immagine che nasce (emergenza).
Riprogrammando la funzione, il paziente ha una nuova memoria del suo corpo ed è sicuramente
destrutturante per l’immagine limitante che aveva di sé (spastico, distonico, atassico, ecc.).
Richiamo quanto ho detto a proposito della teoria degli organizzatori: è importante proporre ai
pazienti compiti adeguati al livello d’integrazione del suo S.N.C. Quindi le richieste devono essere
fatte tenendo in considerazione il livello di torsione del paziente in modo che egli possa avere
controllo sul movimento, sulla capacità di ricevere ed elaborare gli stimoli, ecc. Da lì egli ha una
percezione del suo corpo diversa. Attraverso adeguate facilitazioni (fisioterapiche e non), il terapista
può aiutare il bambino a gestire strategie che lo aiutino in compiti motori di complessità adeguata o,
se possibile, superiore modulando la difficoltà.
Queste strategie, assieme ad un’adeguata preparazione professionale sui metodi, permette al
terapista di facilitare le potenzialità residue del paziente.
Quest’approccio inoltre, ricorda il metodo Feldenkrais: la persona è guidata attraverso il
movimento a ri-scoprire aspetti sepolti o mai esplorati del suo corpo, semplificando o variando il
compito motorio e rispettando il suo ritmo.
Risonanza
Per introdurre il concetto di risonanza utilizzo una metafora tratta dalla fisica: quando si
avvicinano due diapason 125, dei quali uno vibra, anche l’altro inizia a vibrare. La stessa cosa
accade tra due persone che si relazionano: esse entrano in risonanza (in PNL questo fenomeno si
definisce rispecchiamento spontaneo). L’immagine interna di uno degli interlocutori induce
nell’altro, attraverso il linguaggio corporeo, le variazioni fisiologiche che si legano al suo stato
emotivo. Il cervello rettile registra e si adatta all’immagine, quello mammifero la traduce
158
Attraverso la connessione consapevole si può aiutare il paziente a diventare cosciente delle tensioni e distensioni del
corpo. Possiamo aiutarlo ad utilizzare la forza minima necessaria al movimento per non attivare la spasticità o gli
schemi patologici più del necessario (deconnessione). Il paziente può sentire nel suo corpo la ‘forza’ utile affinché il
movimento avvenga in modo fluido e senza la tensione emozionale che accentua o distorce lo stato tonico. Egli può
imparare a non attivare la ‘spasticità secondaria’, vale a dire il movimento carico delle tensioni fisiche ed emotive che
ha sperimentato nel muoversi spontaneamente all’interno della patologia.
92
nell’emozione vissuta durante l’esperienza personale passata e, se vi è consapevolezza, il cervello
umano permette d’essere presente al sentimento che l’altro vive.
Può accadere così di provare sentimenti ed emozioni sino a pochi minuti prima assenti nella nostra
coscienza.159 Da quanto descritto si comprende che il fenomeno di risonanza è spontaneo, esso
permette l’adattamento, ma molto spesso è non consapevole.160
Posso spiegare il concetto con un esempio semplice e quotidiano. Immaginiamo una persona che
ha un bambino. Questa persona non ha alcun problema finché si tratta di nutrirlo e giocare con lui,
ma quando occorre cambiare il pannolino, essa ha difficoltà: sentire la puzza, dover toccare le feci
suscita sensazioni viscerali di vomito, la paura di sporcarsi, ecc. Queste sensazioni alterano i suoi
movimenti ed il comportamento. Durante il rapporto le difficoltà del genitore sono trasmesse
direttamente al bambino. Il bambino le ‘sente’ attraverso i recettori cutanei (tatto), muscolari e
cinestesiche (modo in cui è manipolato), visive, ecc. Esse sono registrate e collegate alla situazione
che vive dal suo SNC. Il bambino riceve un messaggio ben preciso riguardo alla sua ‘cacca’ e sarà
condizionato, bloccato in quest’esperienza proprio per l’ancoraggio (connessione) o risonanza che
si è venuta a creare.
Con la maturazione del cervello mammifero, la risonanza diviene attiva al servizio dell’emotività
(reazioni emozionali) e della memoria: il ricordo di ciò che si è sperimentato altera il
comportamento. Il bambino ‘ricorda’ il ‘modo’ in cui ha vissuto le precedenti esperienze ed il suo
corpo si pre-para (tono muscolare d’attesa o aspettativa). Le sue reazioni fisiche sono condizionate
dalla precedente immagine e condizionano ciò che vive. 161
I nostri piccoli e grandi pazienti, a causa dell’ansia di prestazione o in seguito al vissuto
neurologico tonico fisso (determinato dalla patologia), attivano sempre un tono alterato poiché sono
159
“E’ interessante far notare che l’immagine corporea propria può essere imposta all’altro più o meno
consapevolmente. A questo proposito Tomatis racconta una sua esperienza in Sud-Africa, con un soggetto balbuziente.
Una persona estremamente brillante, affetta da balbuzie molto forte che si accompagnava a movimenti scoordinati. In
breve tempo, durante la consultazione, alla quale assistevano altre persone, tutti si muovevano come lui, con gli stessi
gesti. Il più sorpreso era l’interprete che era il più coinvolto nel linguaggio di questo soggetto. La sua immagine del
corpo era così forte che nel corso della consultazione l’aveva imposta a tutti.[…]. Secondo queste prospettive un
dialogo avviene quando due persone si mettono in vibrazione l’uno con l’altro. Secondo Tomatis quello che noi
desideriamo trasmettere originariamente non sono i modi, né dei suoni, ma delle sensazioni profondamente sentite,
profondamente vissute in noi dai nostri neuroni sensoriali. Ciò che desideriamo comunicare sono le impressioni tattili
che la parola fa correre sulla nostra chiave sensoriale. Senza saperlo, trasmettiamo gli stessi accordi al nostro
interlocutore che inconsciamente fa funzionare la propria chiave a immagine della nostra, cosicché entreremo in
risonanza.” C. Campo, L’orecchio e i suoni fonti d’energia. Il metodo Tomatis, Edizioni Riza, n. 74, Milano 1993, pp.
22 – 23.
160
“In ogni interazione, noi inviamo segnali emozionali che influenzano le persone con le quali ci troviamo.[…]. Come
avviene questa magica trasmissione? La risposta più probabile è che noi inconsciamente imitiamo le emozioni mostrate
dagli altri attraverso una mimica motoria inconsapevole che coinvolge l’espressione facciale, i gesti, il tono di voce e
altri segnali non verbali dell’emozione. Attraverso questa imitazione l’individuo ricrea in se stesso lo stato d’animo
dell’altro.[…]. Solitamente, l’imitazione dei sentimenti nelle interazioni quotidiane è estremamente sottile. Ulf
Dimberg, un ricercatore svedese presso l’Università di Uppsala, scoprì che quando un individuo osserva un volto che
sorride o esprime collera, la sua faccia riproduce quello stesso stato d’animo attraverso leggeri cambiamenti della
muscolatura mimica. I cambiamenti sono evidenti grazie all’applicazione di sensori elettronici, ma non sono visibili a
occhio nudo. Quando due persone interagiscono, lo stato d’animo viene trasferito dall’individuo che esprime i
sentimenti in modo più efficace, a quello più passivo.[…]. John Cacioppo, lo studioso di psicofisiologia sociale della
Ohio State University che ha studiato questi impercettibili scambi emotivi, osserva : ‘Può bastare la vista di qualcuno
che esprime un’emozione per evocare in noi quello stesso stato d’animo, indipendentemente dal fatto che ci si renda
conto o meno di imitare l’espressione facciale dell’altro. Questo ci accade in continuazione – c’è una sorta di danza, di
sincronia – una trasmissione di emozioni. È la sincronia degli stati d’animo che determina se l’individuo ha una
percezione positiva o negativa dell’interazione in corso.[…]. In breve, l’essenza di un rapporto sta nella coordinazione
degli stati d’animo, che è poi la versione adulta della sintonizzazione di una madre con il suo neonato. ” D. Goleman,
Intelligenza emotiva., cit., pp. 144 – 146.
161
La memoria favorisce l’apprendimento ed il condizionamento sociale. Essi sono in gran parte non consapevoli
(sottocorticali), ma condizionano le nostre reazioni coscienti fisiologiche e quindi emotive future (sentimenti). La
consapevolezza (C. umano) è importante per sottrarsi ai condizionamenti e raggiungere i propri scopi.
93
abituati a viversi in questo modo. Quindi il paziente manifesta il suo vissuto profondo (o
contingente) attraverso il suo stato tonico (come un termostato che modifica la sua taratura
secondo lo stato emozionale appreso) ed il terapista può rilevarlo attraversi i suoi recettori
sensoriali (per risonanza). Egli può diventare cosciente se è consapevole di certi processi e presente
durante l’approccio terapeutico.
Il Prof. Lerminiaux spesso dice ironicamente che gli piacerebbe essere presente in terapia per
vedere chi ‘dirige’ la seduta. Infatti, se il terapista entra in risonanza non consapevole con il
paziente, quest’ultimo conduce il trattamento. Il terapista si farà sequestrare dal paziente,
oppure si opporrà a lui (alla sua patologia o situazione esistenziale), ma in ogni caso agirà in
funzione dell’immagine del paziente. Può accadere, quindi, che il terapista si trovi allo stesso
livello del paziente, avendone fatto sua l’immagine per risonanza.
Ricordiamo inoltre, che l’ambiente in cui vive il paziente, e quindi i familiari, si trovano allo
stesso livello di blocco del paziente (essi sono in risonanza) poiché nell’ambiente si strutturano
la difficoltà, le credenze e le immagini che hanno determinato la situazione emotiva attuale del
paziente.
Ricordo il caso di A., questo bimbo giunge alla mia osservazione all’età di nove mesi. Rivedo
nella mia mente l’immagine di A. in opistotono ( il corpo rigidamente esteso) in braccio a sua
madre, che era visibilmente stanca e spaventata. Ella brevemente mi racconta la storia del piccolo.
A. nasce di otto mesi e rimane alcuni giorni in incubatrice. Dopo un breve periodo a casa la madre
osserva che il bambino tende ad irrigidirsi e a piangere in modo inconsolabile. Il piccolo soffre
anche di una lieve stitichezza, ma i medici sostengono che la madre è troppo apprensiva e che il
bambino non ha nulla d’importante. Il bambino, tuttavia non si calma, e la madre è costretta a
tenerlo in braccio notte e giorno. Questo è l’unico modo in cui il piccolo trova un po’ di sollievo ed
infine si addormenta sfinito. Non appena la madre si siede o lo mette nel letto il bambino
immediatamente si sveglia, s’irrigidisce ed urla. Per questo motivo all’età di cinque mesi portano il
bambino a Genova per farlo esaminare da specialisti. Dopo accurati esami si rileva che il piccolo ha
un idrocefalo ormai maturato. Ciò nonostante il bambino continua ad avere le crisi in opistotono
come se avesse ancora la compressione cerebrale. Egli trova sollievo solamente tra le braccia della
mamma come se l’ipertensione endocranica lo facesse ancora soffrire. Comprendo la stanchezza
della madre e la sua paura, poi con delicatezza tento un approccio con il bambino. Cerco di
prenderlo in braccio e sento immediatamente che il suo corpo s’irrigidisce e si agita. Capisco che è
inutile continuare. Porgo il piccolo alla madre ed osservo cosa accade: il bambino e la madre, dopo
un primo momento in cui si ritrovano (un momento d’assestamento tonico-muscolare), sembrano
formare ‘un solo corpo’ e ritorna la calma. Nella mia mente ripenso alle parole della madre quando
afferma che ormai l’idrocefalo non costituisce più pericolo, e comprendo che quello che si presenta
è il perpetuarsi dell’immagine originaria, quando il bambino sfinito, in preda ai lancinanti dolori
della compressione cerebrale, trova consolazione tra le braccia della madre impaurita da ciò che
accade. Questa situazione sembra essersi cristallizzata nel tempo, ed è diventata l’unica strategia
che conoscono per gestire una situazione così grave. Propongo alla madre una terapia particolare: in
alcuni momenti della giornata ella deve sedersi su una poltrona con il bambino in braccio, e cercare
di rilassare il proprio corpo e il respiro anche se il bambino s’irrigidisce (in questo caso la madre
deve tenerlo stretto a sé e poi gradualmente rilassarsi). Osservo sul volto della madre la
disperazione, e su quello del nonno, che li accompagna, una smorfia d’incredulità.
Dopo appena quindici giorni il piccolo è completamente rilassato. La madre afferma che riesce a
coricare il piccolo nel letto. Le crisi di rigidità sono quasi completamente scomparse e lei si sente
rinata.
In questa situazione, la risonanza tra madre e figlio ha permesso il superamento di una fase critica.
Entrambi rispecchiano la sofferenza, l’ansia e la paura uno sull’altra. Occorreva aiutarli a superare
la paura che qualcosa di terribile potesse ancora accadere se avessero ceduto il loro atteggiamento
protettivo. Qualunque tentativo di introdursi nella loro simbiosi sarebbe stato inutile, ma loro stessi
potevano cambiarla dall’interno con le loro risorse. Questo è stato il solo aiuto che ho dato nella
94
fase iniziale, ed occorreva semplicemente questo. Qualunque intervento fisioterapico ‘esterno’ alla
simbiosi o d’altro genere, avrebbe trovato una forte resistenza nella loro paura e l’avrebbe
rafforzata.
Se il terapista rimane cosciente dell’obiettivo terapeutico e prende atto consapevolmente del
vissuto del paziente attraverso il meta-linguaggio corporeo, può gradualmente guidare la seduta
terapeutica utilizzando gli strumenti terapeutici. 162
Un’adeguata formazione può aiutare il terapista a diventare cosciente del linguaggio corporeo del
paziente e del proprio attraverso la calibrazione e l’aptonomia. In questo modo egli può evitare
fenomeni di risonanza passiva o emotiva che sono spesso bloccanti.
La notte dei mammiferi
Nei seminari sull’approccio terapeutico si fanno esperienze pratiche di vissuti particolari. Una di
queste esperienze è chiamata in modo metaforico “la notte dei mammiferi”. I partecipanti sono
guidati ad occhi bendati ad immedesimarsi nei comportamenti e nei vissuti sensoriali ed emotivi dei
piccoli mammiferi vissuti sulla terra duecento milioni d’anni addietro, al tempo dei grandi e
pericolosi dinosauri.
L’esperienza fa affiorare tanti vissuti emotivi. Una sola esperienza, tanti modi di viverla. Le
reazioni nascono perché è eliminata la vista: uno dei sensi per eccellenza deputati alla difesa (catena
muscolare PM). La vista permette di controllare lo spazio prossimo e distante, e ci pre-para ad
affrontare una situazione attivando nel corpo le reazioni di lotta o di fuga. Quando un organo
sensoriale così importante è eliminato si accede a livelli di coscienza più primitivi (cervelli arcaici),
più prossimi, più tattili e quindi più legati alla difesa immediata. Queste reazioni parlano di noi,
della nostra fiducia o meno nelle nostre risorse. Parlano delle nostre attitudini di fronte ad una
situazione. Memorie antiche attivano in noi comportamenti dettati dalla nostra storia istintiva
e personale.
Un comportamento, quindi, indica il modo di funzionare del sistema nervoso centrale in
conformità a precedenti esperienze. Con parole differenti possiamo dire: un comportamento
manifesta il posizionamento prevalente che la persona assume di fronte alle situazioni della
vita, rivela le sue precedenti esperienze efficaci o meno e l’immagine di sé in relazione ad esse.
Le CM ci indicano ‘l’abito emotivo’ che indossiamo nella relazione con noi stessi e con gli altri.
Se una persona s’irrigidisce in un’attitudine (CM), rischia di essere bloccato in molte esperienze. Se
per esempio una persona assume sempre un’attitudine razionale di difesa (rappresentata dalla catena
muscolare PM o postero mediana) può essere favorito in situazioni in cui è necessario dirigere o
affrontare un pericolo fisico o un’emergenza. La stessa attitudine è fuori luogo in una relazione
affettiva, dove la rigidità può essere distruttiva. Può accadere la stessa cosa se la persona è molto
materna e disponibile (cm AM). In alcune situazioni ciò è indispensabile, ma in altre la stessa
persona potrebbe avere difficoltà nel gestire in modo efficace relazioni che richiedono decisioni
ferme ed autorità.
Non esiste, tuttavia, un comportamento giusto o sbagliato in assoluto. Ogni comportamento
nasce, si sviluppa o si fissa in un determinato ambiente e lì trova la sua giustificazione. Esso è
stato il migliore possibile in quell’ambiente, in quel momento, per quella persona. In altre
situazioni o ambienti lo stesso comportamento può rivelarsi negativo per gli scopi che la
persona si prefigge.
162
“Il dialogo tra terapista e bambino segue canali verbali (suono, parola) e non verbali (intonazione, ritmo, mimica,
sguardo, gesto, assetto posturale, ecc.), che devono essere ugualmente accolti ed interpretati perché possa nascere una
vera intesa, cioè una comprensione ed una condivisione di obiettivi e di percorsi. I termini del messaggio, espliciti ed
impliciti, vanno adeguati all’età del soggetto, alla sua patologia, al suo potenziale cognitivo.” A. Ferrari, Proposte
riabilitative nelle paralisi cerebrali infantili, cit., p. 89.
95
In terapia è importante comprendere l’origine di un comportamento che può bloccare le
potenzialità del paziente (paralisi intenzionale – A. Ferrari). Esso può derivare da molteplici cause.
Per esempio un blocco emozionale dell’ambiente dove vive il paziente può contribuire in modo
determinante ad impedire un suo sviluppo. In questi casi è importante cogliere l’intenzione positiva:
cosa si propone la persona (o l’ambiente) di proteggere o realizzare in sé attivando quel
comportamento. Solamente dopo aver capito questo processo è possibile ricercare comportamenti
più efficaci (in accordo con il modello di mondo del paziente), che soddisfino i suoi bisogni, le
potenzialità ed i suoi scopi. E’ importante aiutare il paziente ad osservare se stesso e il suo mondo
da punti di vista nuovi in modo da poter trovare nuove soluzioni e quindi nuovi comportamenti
(ristrutturazione).Ciò richiede al terapista una grande flessibilità ed apertura. Il terapista deve capire
e non criticare, comprendere e non sostituirsi al paziente.
Torsione-comportamento-risorsa
Poter danzare tra le varie attitudini divenendo fluidi con le situazioni della vita è indice di
ricchezza. Irrigidirsi in una sola attitudine è vicino alla patologia o è la sua manifestazione:
secondo W. Reich, ostacoliamo la libera circolazione dell’energia per cui zone rigide e morte ci
cerchiano come anelli a diverse altezze del corpo. Per difenderci contro l’angoscia come contro il
piacere, contro ogni sensazione, blocchiamo la circolazione dell’energia (come fanno la
maggioranza delle persone che respirano superficialmente e rinunciano all’ossigeno). Questi
blocchi sono l’origine di malattie, di malesseri, di paralisi d’ogni tipo.163
Una torsione, un sintomo, un comportamento indesiderato, indica spesso come approcciamo una
situazione. È la strategia che abbiamo sviluppato in un momento di difficoltà. In quel momento essa
è stata una risorsa, forse l’unica possibile in quel contesto e con le conoscenze che avevamo. Anche
adesso essa è una risorsa, quando abbiamo problemi in una situazione che nell’immaginario è
difficile.
Essa è utile:
a) perché siamo particolarmente sensibili a questa situazione (attraverso le reazioni emotive
suscitate dal cervello mammifero, emozionale). Il nostro S.N.C, infatti, diviene più ricettivo
(in stato di allerta, cervello rettile) e possiamo avere capacità d’analisi più attenta
sull’ambiente (cervello umano).
b) Lo stato di disagio (tensione, malattia, sintomo, comportamento indesiderato) indica che
siamo in una situazione verso la quale possiamo diventare coscienti spettatori e creare
distanza: per esempio, invece di dirmi: “Sono allergico”, mi chiedo: “Che cosa vuole ‘dirmi’
la mia allergia? In quali situazioni si accentua?”. A volte il sintomo è l’unica risorsa per
esprimere un disagio interiore altrimenti inesprimibile.
c) Il comportamento sviluppatosi ha delle valenze positive in molte situazioni: es. la nostra
testardaggine può aiutarci a portare avanti un compito e farlo bene.
d) Nel tentativo di superare il ‘problema’ sviluppiamo spontaneamente la nostra personalità e
le doti naturali.
Questi esempi fanno comprendere perché il comportamento o il sintomo non deve essere distrutto
ma ristrutturato.
I sintomi e la ristrutturazione
La diagnosi classica si basa sul riconoscimento di una serie di sintomi che rientrano in un quadro
clinico. Essa è importante per riconoscere i processi fisiopatologici di una malattia. Purtroppo non
dice molto sulle cause profonde, vale a dire il terreno su cui l’evento si è determinato. 164
163
Cfr. W. Reich, La funzione dell’orgasmo, SugarCo Edizioni, Milano 1961.
“Seguendo l’approccio cartesiano, la scienza medica si è limitata al tentativo di capire i meccanismi biologici
che hanno parte nel cattivo funzionamento di varie parti del corpo escludendo ogni influenza di circostanze non
biologiche su processi biologici. La conoscenza di questi aspetti è ovviamente, molto utile, ma essi rappresentano
164
96
Per conoscere le cause profonde occorre avere un’ottica sistemica (l’ambiente in cui vive la
persona, i valori, ecc.), e comprendere l’equilibrio che il paziente ricerca all’interno del suo
ambiente (il ruolo che gli assegnano o si assegna). Immaginiamo un bambino con un padre dal
carattere rigido ed autoritario. Egli avrà difficoltà a mostrare le sue paure e debolezze. Sin da
piccolo cercherà di mostrarsi un “uomo” secondo il modello da lui conosciuto. Sarà efficiente,
ubbidiente e fermo nelle decisioni. Da grande cercherà di mantenere questo ruolo in famiglia, per
essere sempre all’altezza d’ogni situazione. Il suo organismo sottoposto a stress richiederà dei cibi
che aumentano il tono come il caffè, cibi ricchi e forti, vino. La pressione del suo sangue tenderà a
mantenersi alta ed il cuore batterà veloce per essere sempre pronto all’azione e alla decisione.
Quanto più le situazioni saranno difficili, maggiori saranno le richieste dell’organismo per rimanere
sempre ad un livello alto d’efficienza, sino a quando…………ictus o infarto lo bloccheranno.
Il paziente sarà improvvisamente posto di fronte alla sua paura più profonda: non posso essere un
‘uomo’ efficiente, quindi non valgo nulla……...
Viceversa immaginiamo una persona che cade e riporta una brutta frattura che richiede
ingessatura. Ella ha una grande paura di caricare sull’arto leso. Quando le tolgono il gesso, dopo
qualche tempo, ha ancora timore di caricare sull’arto fratturato e mantiene un’andatura antalgica (di
compenso) caricando sull’arto sano. Ciò altera la posizione di tutto il corpo e, nel tempo, possono
determinarsi disturbi in distretti lontani con incapacità di svolgere in modo efficace compiti
semplici. Questo può determinare senso di frustrazione, irritabilità o depressione.
La conoscenza di questi itinerari interiori aiuta a comprendere la difficoltà che può avere un
paziente nell’affrontare la sua malattia: il desiderio profondo di ‘non voler guarire
veramente’ per non affrontare antiche paure.
Nel primo caso il paziente trova finalmente un blocco ad una situazione (immagine di sé) ormai
insostenibile. Guarire fisicamente per lui può significare dover riprendere il ruolo che lo ha
perseguitato per tutta la vita (la credenza di dover essere ‘un uomo’). Solo un nuovo approccio
verso se stesso e l’ambiente può dargli “la guarigione”. Il terapista deve operare una sottile opera di
ristrutturazione sull’immagine.165
Nel secondo caso la persona deve abbandonare gli atteggiamenti fisici e psichici che l’hanno
protetto per cercare un nuovo equilibrio. L’approccio del terapista, in questo caso, deve basarsi sulla
ristrutturazione fisica ed emozionale.
solo una piccola parte della storia. In generale, la pratica medica che si fonda su un approccio così limitato, non è
molto efficace nel favorire e conservare una buona salute. Spesso anzi sono causa di sofferenze ancora maggiori
di quanto non guariscano. Questa situazione cambierà quando la scienza medica connetterà lo studio degli
aspetti biologici con la condizione generale fisica e psicologica dell’organismo umano e del suo ambiente.” F.
Capra, Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1995, p.
118.
165
“A causa dei condizionamenti sociali e culturali, spesso la gente trova impossibile liberare il proprio stress in modi
sani e sceglie perciò - in modo cosciente o inconscio - la malattia come via d’uscita. La malattia può essere fisica o
mentale, o può manifestarsi come un comportamento violento e temerario, comprendente il crimine, l’abuso di farmaci,
incidenti e suicidi, che possono essere considerati altrettante forme di malattia sociale. Tutte queste "vie d'uscita" sono
forme di cattiva salute, e la malattia fisica è solo uno fra i vari modi non sani di far fronte a situazioni di vita stressanti.
Perciò la guarigione dalla malattia non renderà necessariamente sano il paziente. Se la fuga in una particolare malattia
viene impedita efficacemente da un intervento medico mentre la situazione stressante persiste, la risposta della persona
alla situazione di stress potrà trasferirsi semplicemente su un piano diverso, come la malattia mentale o un
comportamento antisociale, che saranno altrettanto patologici. Un approccio olistico dovrà considerare la salute da
questo punto di vista ampio, distinguendo chiaramente fra le origini della malattia e la sua manifestazione; in caso
contrario non avrà molto senso parlare di terapie efficaci.[…]. L’idea della malattia come modo per far fronte a
situazioni di vita stressanti conduce naturalmente alla nozione del significato della malattia o del "messaggio" trasmesso
da una particolare malattia. Per capire questo messaggio si dovrebbe considerare la cattiva salute come un’opportunità
per l’introspezione, così che il problema originario e le ragioni per la scelta di una via di fuga particolare possano essere
portati a un livello cosciente a cui il problema possa essere risolto. È qui che la consulenza psicologica e la psicoterapia
possono svolgere un ruolo importante, persino nel trattamento di malattie fisiche. L’integrazione di terapie fisiche e
psicologiche equivarrà ad una rivoluzione importante nell’assistenza sanitaria, in quanto richiederà il pieno
riconoscimento dell’iterdipendenza di mente e corpo nella salute e nella malattia.” Ibidem; PP. 271 – 272.
97
Può, quindi, accadere che il paziente inconsciamente non voglia e non possa guarire, in questi casi
occorre rispetto e comprensione per la sua decisione. Ma, se la sua sofferenza è troppa, possiamo
aiutarlo cercando di capire quale intenzione positiva ha guidato la sua vita e sostenerlo nella ricerca
di un nuovo modo di affrontare la situazione (ristrutturazione).
“Il primo passo in questo tipo di autoguarigione sarà il riconoscimento, da parte del paziente, di
aver partecipato in modo cosciente o inconscio all’origine e allo sviluppo della sua malattia, e
quindi di essere in grado di partecipare anche al processo di guarigione. In pratica questa nozione
della partecipazione del paziente, che implica l’idea della sua responsabilità, è estremamente
problematica ed è negata con grande energia dalla maggior parte dei pazienti. Condizionati come
sono dalla cornice concettuale cartesiana, si rifiutano di considerare la possibilità di avere avuto
parte nella loro malattia, associando l’idea a biasimo e ad un giudizio morale. Sarà perciò
importante chiarire con esattezza che cosa s’intenda per partecipazione e responsabilità del
paziente.
Nel contesto di un approccio psicosomatico, la nostra partecipazione allo sviluppo di una malattia
significa che noi decidiamo d’esporci a situazioni stressanti e, inoltre, di reagire a questi stress in
certi modi. Queste scelte sono influenzate dagli stessi fattori che influiscono su tutte le scelte che
facciamo nella nostra vita. Esse vengono fatte in modo inconscio più spesso che in modo cosciente
e dipenderanno dalla nostra personalità, da varie costrizioni esterne e da condizionamènti sociali e
culturali. Ogni responsabilità potrà essere perciò solo parziale. Come il concetto di libero arbitrio, la
nozione di responsabilità personale deve essere naturalmente limitata e relativa, e né l’uno né l’altra
può essere associata a valori morali assoluti. Lo scopo del riconoscimento della nostra
partecipazione nell’origine della nostra malattia non è quello di farci sentire colpevoli in proposito
ma di adottare i mutamenti necessari e di renderci conto che possiamo aver parte anche nel processo
di guarigione. Atteggiamenti mentali e tecniche psicologiche sono mezzi importanti tanto per la
prevenzione delle malattie quanto per la guarigione. Un atteggiamento positivo, combinato con
tecniche specifiche di riduzione dello stress, avrà un forte impatto positivo sul sistema mente-corpo
e sarà spesso in grado di rovesciare il processo della malattia, e anche di guarire da gravi disturbi
biologici. Le stesse tecniche possono essere usate per impedire la malattia, usandole per far fronte a
situazioni di stress eccessivo, prima che si verifichi un qualche grave danno.”166
Questi concetti fanno comprendere l’importanza della partecipazione attiva del paziente alla sua
‘terapia’ e come questo atteggiamento lo renda il protagonista della sua ‘guarigione’. Ciò è tanto
più vero per i nostri piccoli e grandi pazienti che devono spesso convivere con problemi fisici e/o
psichici non indifferenti e nonostante ciò trovare il loro equilibrio, il loro scopo e l’accettazione di
sé.
Ogni essere vivente ha le potenzialità per indurre dei cambiamenti in se stesso quando lo si
aiuta ad ampliare il suo punto di vista: questo è uno dei presupposti fondamentali della P N L.
La progressione dei vari meccanismi psico-fisiologici della malattia si potrebbe sintetizzare così:
evoluzione somato-psichica:
fattori fisici = alterazioni fisiologiche e strutturali = comportamenti antalgici = difficoltà fisiche =
difficoltà relazionali = problemi emotivi.
evoluzione psico-somatica:
fattori emotivi = alterazioni fisiologiche = alterazioni organiche = malattia 167
166
Ibidem, pp.273-274.
Se una persona vive per lungo tempo una condizione emotiva, per esempio di paura, l’organismo, attraverso il
sistema neurovegetativo ed ormonale, si mantiene in uno stato che la natura ha predisposto per situazioni d’emergenza.
Alcuni organi sono soggetti a costante sollecitazione fisiologica. Per un lungo periodo possono manifestarsi disturbi
167
98
Partendo dal danno fisico o da quello emozionale, si può determinare un blocco o ‘torsione’ ad un
determinato livello, una regressione a blocchi precedenti oppure una riorganizzazione funzionale
deficitaria o disarmonica.
Non tutti i meccanismi psico-fisiologici possono essere spiegati, alcune volte essi semplicemente
accadono, ma noi molto spesso non sappiamo accettarli: entrano in gioco le reazioni emotive che
hanno e ci siamo costruiti nella nostra storia personale (l’immagine di noi stessi e del mondo).
Spesso non possiamo controllare ciò che ci accade, ma possiamo fare qualcosa a proposito del
modo in cui reagiamo. Allentare lo stato d’ansia (cervello rettile), abbandonare vecchie reazioni
emotive apprese (cervello mammifero) può permettere di trovare soluzioni più serene, rispettose e
adatte al problema (cervello umano). In questo cammino l’aiuto del terapista può essere prezioso
per il paziente, poiché affrontare da soli i propri ‘fantasmi bloccanti’ è difficile.
In quest’ottica il sintomo diventa un modo per entrare in contatto con noi stessi. Esso agisce
spesso come anello di retroazione quando la tensione interna aumenta ed allontana l’individuo
dall’omeostasi psico-fisiologica. “L’infermità è una conseguenza di una situazione di squilibrio e di
disarmonia, derivante spesso da una mancanza d’integrazione che può verificarsi a vari livelli
dell’organismo e che quindi può generare i sintomi di natura fisica, psicologica o sociale. La
malattia è la manifestazione biologica dell’infermità, e il modello distingue chiaramente fra origini
della malattia e processi della malattia. Si ritiene che uno stress eccessivo contribuisca in misura
significativa all’origine e allo sviluppo della maggior parte delle malattie, manifestandosi nello
squilibrio iniziale dell’organismo e, successivamente, incanalandosi in una particolare configurazione della personalità per dare origine a disturbi specifici. Un aspetto importante di questo
processo è il fatto che la malattia viene spesso percepita, in modo cosciente o inconscio, come una
via d’uscita da una situazione stressante (e vari tipi di malattia rappresentano vie di fuga diverse).
La guarigione dalla malattia non renderà necessariamente sano il paziente, ma l’infermità potrebbe
essere un’opportunità d’introspezione per risolvere i problemi alla radice.
Lo sviluppo della malattia implica la continua interazione fra processi fisici e mentali che si
rafforzano l’un l’altro attraverso una rete complessa di anelli di retroazione. I tipi di malattia
appaiono in ogni fase come manifestazioni di processi psicosomatici sottostanti di cui ci si
fisici definiti funzionali. Se, tuttavia, la continua sollecitazione non si risolve, questi stessi organi possono subire una
disfunzione o un’alterazione permanente, determinando la malattia organica (lesionale).
“Quando si adotta la concezione sistemica della mente, diventa ovvio che ogni infermità ha aspetti mentali.
L’ammalarsi e il guarire sono entrambi parti integranti dell’auto-organizzazione di un organismo, e poiché la mente
rappresenta la dinamica di quest’auto-organizzazione, i processi di ammalarsi e di guarire sono fenomeni
essenzialmente mentali. Poiché la mentalizzazione abbraccia processi a molti livelli, la maggior parte dei quali hanno
luogo nell’inconscio, noi non siamo sempre del tutto consapevoli di come entriamo nella malattia e di come ne usciamo,
ma ciò non incide in alcun modo sul fatto che la malattia è per sua stessa essenza un fenomeno mentale.
L’intima interconnessione fra processi fisici e mentali è stata riconosciuta in tutti i tempi. Noi tutti sappiamo che
esprimiamo emozioni attraverso gesti, inflessioni, ritmi respiratori e movimenti minuti impercettibili all’occhio non
addestrato. I modi precisi in cui aspetti fisici e psicologici interagiscono sono ancora poco compresi, e quindi la
maggior parte dei medici tendono a limitarsi al modello biomedico e trascurano gli aspetti psicologici della malattia. Ci
sono stati però in tutta la storia della medicina occidentale importanti tentativi di sviluppare un approccio unificato al
sistema mente/corpo. Vari decenni fa questi tentativi culminarono nella fondazione della medicina psicosomatica come
disciplina scientifica, interessata specificamente allo studio dei rapporti fra gli aspetti biologici e psicologici della
salute. Questa nuova branca della medicina sta acquistando oggi rapidamente favore, specialmente grazie alla sempre
maggiore consapevolezza dell’importanza dello stress, ed è probabile che sia destinata a svolgere un ruolo importante in
un futuro sistema olistico di assistenza sanitaria.
L’espressione ‘psicosomatico’ ha bisogno di una chiarificazione. Nella medicina convenzionale fu usata con
riferimento a disturbi privi di una base organica chiaramente diagnosticata. A causa della forte propensione
biomedica oggi esistente, tali ‘disturbi psicosomatici’ tendevano ad essere considerati immaginari, e non reali.
L’uso moderno del termine è del tutto diverso; esso deriva dal riconoscimento di una fondamentale
interdipendenza fra mente e corpo in tutte le fasi della salute e della malattia. Diagnosticare un qualsiasi
disturbo come dovuto a cause psicologiche sarebbe altrettanto riduzionistico quanto la convinzione che ci siano
malattie puramente organiche senza alcuna componente psicologica. Oggi ricercatori e clinici sono sempre più
consapevoli del fatto che praticamente tutti i disturbi sono psicosomatici, nel senso che implicano la continua
interazione di mente e corpo nella loro origine, nel loro sviluppo e nella loro guarigione.” Ibidem, p.272.
99
dovrebbe occupare nel corso della terapia. Questa visione dinamica dell’infermità riconosce
specificamente la tendenza innata dell’organismo a guarire, - a ritornare in uno stato
equilibrato - cosa che potrebbe comportare fasi di crisi e mutamenti importanti nella vita.
Periodi di cattiva salute implicanti sintomi minori sono fasi normali e naturali, le quali
rappresentano i mezzi di cui l’organismo dispone per ripristinare l’equilibrio, interrompendo
le proprie attività usuali e imponendo un mutamento di ritmo. Di conseguenza i sintomi
associati a queste infermità minori scompaiono di solito dopo alcuni giorni, anche se non si
riceve alcun trattamento. Infermità più gravi richiederanno sforzi maggiori per recuperare il
proprio equilibrio, di solito con l’aiuto di un medico o di un terapeuta, e l’esito dipenderà in
misura decisiva dagli atteggiamenti mentali e dalle attese del paziente. Le infermità gravi,
infine, richiederanno un approccio terapeutico che si occupi non solo degli aspetti fisico e
psicologico del disturbo, ma anche dei mutamenti dello stile di vita e nella visione del mondo
del paziente che saranno parte integrante del processo di guarigione.” 168
Il sintomo indica, in altre parole, quando qualcosa non va e ciò di cui abbiamo di bisogno in
rapporto a noi stessi ed all’ambiente. La malattia, l’handicap, la disabilità, il sintomo, il
comportamento cessano di essere un evento isolato e s’inseriscono in una rete di eventi. È così che
acquistano significato il vissuto, il messaggio verso l’ambiente in cui esso si è sviluppato e,
soprattutto, può essere condiviso dal terapista e dall’ambiente ristrutturato creando una nuova rete
di significati dove il paziente è un vettore attivo assieme agli altri (e non subisce passivamente il
suo stato). Egli esce dal suo ‘isolamento’ e vive in modo attivo ed interattivo modificando la
relazione con se stesso e l’ambiente in un processo che lo può portare a vedersi in modo nuovo e
verso la ‘guarigione’, o meglio un vissuto sereno della propria condizione e delle proprie
potenzialità.
Il sintomo e il comportamento indesiderato sono simili agli indicatori sul cruscotto della macchina:
se si accende la spia rossa, posso cercare di capire cosa manca. Sicuramente non distruggo la spia o
faccio finta di niente, ma do alla macchina ciò che le serve. Allo stesso modo il sintomo non va
distrutto, ma capito per dare a noi stessi qualcosa che “abbiamo dimenticato”.169
Nell’approccio medicale classico si trascurano molto spesso le motivazioni dell’insorgenza di un
sintomo. Non di rado accade che la cura di un sintomo faccia insorgere nel tempo malattie in altri
distretti del corpo. Ciò avviene perché non sono state curate le cause profonde del malessere e
queste chiedono di essere ascoltate.
L’approccio medicale attuale molto spesso finalizza la cura alla malattia e non alla persona.
Qualche volta si osserva l’accanimento terapeutico: la tendenza a combattere a tutti i costi ed in
modo cruento il sintomo, ma se esso è l’espressione di un malessere interiore, sappiamo bene che la
cura ‘superficiale’ sortisce scarsi effetti. Il sintomo si sposta su altri organi per esprimere il disagio
non ascoltato.
“A voler eliminare il sintomo attraverso cui il bambino si esprime, non si fa che aumentare le
tensioni interne. Ogni rieducazione normativa è vissuta come un’aggressione non rassicurante,
ansiogena e colpevolizzante. Si arriva in tal modo ad un rafforzo delle resistenze.[…]. Accade
persino che il bambino accetti d’abbandonare il suo sintomo, ma per trasferire la sua domanda
affettiva inconscia in un altro sintomo. Questo spostamento è ben conosciuto in psichiatria; la
pulsione inconscia, rimossa, deve trovare un mezzo d’espressione simbolica e fintanto che non
trova una via d’uscita migliore essa va successivamente ad investirsi in ulteriori sintomi. Se ogni
mezzo d’espressione è precluso, si manifesta l’angoscia o appaiono delle turbe psicosomatiche.
Capita anche che si verifichino delle rieducazioni riuscite senza incresciose contropartite. Ci si è
accorti, analizzandole, che in quei casi è stata determinante la qualità della relazione e della
comunicazione affettiva che si è potuta sviluppare tra il rieducatore e il bambino [...] e che le
168
Ibidem, pp. 275-276.
“ La malattia allora può diventare un ‘pretesto’ per attivare in noi quel dialogo interno e quelle risorse da tanto tempo
dimenticate dietro a dolorosi compromessi tra noi e il mondo esterno.” G. Molé, Il linguaggio della malattia, in
“Solidarietà”, 9 (1995), n.23, p. 76.
169
100
tecniche impiegate hanno avuto ben poco peso.”170
È importante e necessario dare le dovute cure mediche quando la persona sta male per offrirle il
sollievo di cui ha bisogno, ma è necessario anche capire qual è la vera richiesta che si cela dietro il
malessere. Non si deve dimenticare che questo è spesso il grido del suo mondo interiore che non sa
esprimere in altro modo la sofferenza.
Curare la persona vuol dire comprendere il disagio interiore che ha preparato il terreno alla
‘malattia’ per darle ciò che le serve, ossia aiutarla a trovare in se stessa le risorse e le soluzioni al
suo disagio.
I nostri pazienti presentano problemi a livello fisico, cognitivo, ecc. e questi, come abbiamo visto
sopra, hanno ripercussioni a livello relazionale ed emozionale per la difficoltà ad agire secondo
schemi normali e nel confronto con questi. Purtroppo lo stato emotivo negativo attiva ulteriormente
la patologia e la fissa, impedendo al paziente di accedere a livelli di potenzialità superiori, ed in
ogni caso, al suo benessere.
Spesso, infatti, i segni del quadro patologico si accentuano quando il paziente vive uno stato
emozionale negativo contingente. Così come in altri stati patologici cronici, gli organi colpiti
agiscono da “organi bersaglio”, essi indicano attraverso le loro variazioni e modulazioni il vissuto
interiore del paziente e le perturbazioni nel suo ambiente. Ad esempio molto spesso un bambino con
PCI accentua i suoi sintomi (rigidità muscolare, ipotonia, incoordinazione, ecc.) quando ha un
problema emotivo contingente che non riesce ad esprimere. Lo stesso accade quando egli ha in
incubazione una malattia: prima dell’evidenziarsi dei sintomi influenzali o di una malattia
esantematica il quadro clinico sembra peggiorare. O quando il bambino sta attraversando una fase
di ‘spinta’ legata all’accrescimento. Essere “aperti” nell’accogliere queste variazioni nel paziente
può essere ed è importante per il terapista, il quale può aiutare il paziente ad elaborare sul piano
emozionale il vissuto bloccante, attraverso un rapporto comprensivo ed amichevole ed un’adeguata
analisi della situazione che si è determinata. Ad esempio un bambino spastico incontra
inevitabilmente problematiche psico-fisiologiche di un certo tipo nell’ambiente della scuola
materna. Crescendo e con il diversificarsi delle richieste di prestazioni i vissuti saranno sempre più
complessi (per esempio nella scuola elementare). Il terapista deve saper essere un buon e
competente amico nel cogliere elementi che possono favorire l’autonomia (invece di bloccarla) e
possono far crescere l’autostima (invece di far regredire il ragazzo) in questi importanti e delicati
passaggi. D’altra parte se la temporanea accentuazione dei sintomi si manifesta prima di una
malattia, possiamo avere la possibilità di coglierne i segni premonitori ed evitare l’accanimento
terapeutico per il calo di prestazioni manifestato dal bambino.
Gli eventi che possono creare blocchi emozionali nei pazienti neurologici sono molto frequenti se
pensiamo ai continui ricoveri, prescrizioni d’interventi cruenti o di esami invasivi, inserimento in
strutture sociali molto spesso non preparate fisicamente (barriere architettoniche) e
psicologicamente (pregiudizi), ecc.
Il terapista, quindi, può e deve aiutare il paziente a comprendere con rispetto, comprensione e
competenza le sue tensioni e difficoltà lungo il cammino che li lega per un lungo tempo.
Il paziente impara a comprendere quando e quanto i vissuti emozionali lo bloccano. Egli impara a
chiedere a se stesso se ancora oggi occorre che le tensioni emotive lo difendano compromettendo la
sua autonomia e il suo benessere attraverso un tono ‘esasperato’ di difesa.
Egli può imparare a centrarsi in se stesso (Asse) e sviluppare la possibilità di vivere serenamente il
suo stato. Solo partendo da questo presupposto è possibile iniziare un nuovo cammino libero da
inutili blocchi emotivi ed attivare le potenzialità mai espresse.
(metafora)
Tempi di guerra
170
A. Lapierre – B. Aucouturier, La simbologia del movimento, Edipsicologiche, Cremona, p. 16.
101
Sono tempi di guerra e regna desolazione e tensione. I soldati, lontani dalle loro famiglie, sono
stanchi, senza un tetto per riparo, senza cibo e in costante pericolo contro possibili attacchi del
nemico. Essi spesso scorazzano commettendo soprusi e furti. Uno di loro entra in una piccola
chiesa, deciso a prendere in giro il prete.
Nella penombra scorge il parroco in preghiera. Il soldato si avvicina al prete e con voce alta ed
imperiosa chiede: “Ehi tu! C’è davvero un Paradiso e un Inferno? Rispondi….”
Il prete apre gli occhi, lo osserva e poi chiede: “Chi sei tu?”
“Sono un soldato.” Risponde l’uomo.
“Tu… un soldato!” Dice il prete: “Quale governante ti vorrebbe per difenderlo? Hai la faccia da
stupido…”
Il soldato diventa paonazzo per la collera e con gesti bruschi impugna il fucile e lo punta contro il
prete. Mentre fa questo il prete dice: “Così hai un fucile! Sicuramente è così sporco e incrostato che
s’incepperà.”
Il soldato sente il suo corpo irrigidirsi e sta per premere il grilletto del fucile quando il prete dice:
“Qui si aprono le porte dell’Inferno.”
Il soldato si blocca. Comprende l’insegnamento del prete. Il suo corpo si rilassa ed abbassa il
fucile facendo un inchino.
“Adesso si aprono le porte del Paradiso.” Risponde il prete.171
La vulnerabilità e la consapevolezza
Il cammino descritto è semplice e molto complesso allo stesso tempo. Il fine è di riuscire ad essere
testimoni, essere presenti semplicemente a ciò che si vive in se stessi ed attorno a sé.
Semplicemente sentire ed essere consapevoli per aiutare l’altro in modo limpido e trasparente. Ma
la capacità d’essere presenti lì dove sono i nostri sensi è spesso distorta dalle nostre ‘difese’.
Siamo sempre all’erta per non essere feriti, e siamo pronti a ferire. Spesso tutto quello che si
presenta alla nostra coscienza rientra in queste due categorie.
All’inizio della nostra vita eravamo completamente ‘aperti’. Non c’era nessuna distinzione tra
‘dentro’ e ‘fuori’. Tutto era un semplice fluire di sensazioni senza barriere.
Poi, lentamente, sono nati i limiti quando abbiamo sperimentato la ‘separazione’ dall’oggetto
(dalla madre, dal cibo, dal giocattolo, ecc.). Esso non corrispondeva sempre al bisogno interno nel
momento stesso in cui lo desideriamo. Così nascevano le prime frustrazioni e le reazioni emotive:
la necessità di proteggersi da un ambiente che non sempre ci capiva, e non sempre potevamo
capire. Nasceva il senso di solitudine… La paura di non essere capiti o di essere feriti ci faceva
sentire impotenti e vulnerabili.
Eravamo sempre all’erta e, per paura di essere feriti, ferivamo.
Non sapevamo che le persone a noi vicine vivevano il nostro stesso disagio, poiché anche loro
avevano attraversato lo stesso cammino e, proprio per questo motivo, avevano perso la capacità di
ascoltare se stessi e gli altri.
Se all’inizio della nostra storia il rapporto con l’ambiente si è improntato su un buon dialogo
tonoco-affettivo, siamo rimasti in contatto con i nostri bisogni e riusciamo ad esprimerli. Se, invece,
la relazione con le persone a noi vicine è stata filtrata dalle loro distorsioni, piuttosto che
dall’ascolto reciproco, rischiamo di perdere il contatto con ciò che sentiamo dentro, negando o
distorcendo le nostre sensazioni. Se ciò accade il contatto fisico pieno d’attenzione dell’altro ci fa
sentire ‘nudi’: nasce la paura che l’altro entri in contatto con i nostri ‘lati oscuri’. Questi sono
fondamentalmente gli aspetti negati, deboli e vulnerabili. Nasce il timore che l’altro possa
171
Racconto liberamente tratto da: N. Senzaki – P. Reps, 101 storie zen, cit., p.71.
102
usarli per ferirci nuovamente così come è accaduto nel passato. Per questo motivo disimpariamo
a stare attenti ai messaggi che mandiamo (poiché sono stati ignorati) oppure li nascondiamo, e
diventiamo estremamente sensibili ai messaggi dell’altro per capire quando è disponibile o pronto a
farci del male (cm PM esasperata). Quest’attitudine, spesso inconscia, rimane da adulti.
Per reimparare ad ascoltarci dobbiamo accettare il nostro ‘sentire’ e le tensioni che ad esso
si sono legate. Possiamo e dobbiamo capire i nostri comportamenti e le nostre ‘distorsioni’.
Dobbiamo accettare la nostra vulnerabilità e riconoscerla negli altri.
Allora capiremo con quanto rispetto e dolcezza si deve guardare al nostro passato e alle nostre
tensioni. Capiremo che questi comportamenti e tensioni, che oggi ci ‘disturbano’, sono nati in
momenti delicati della nostra storia personale e ci hanno protetto dalla ‘catastrofe’. 172
Ancora oggi, quando si ripresentano, essi ci ricordano che una parte di noi sta soffrendo.
Comprendere questi processi ci permette di accettare la nostra vulnerabilità. Non ignoreremo le
nostre tensioni, comportamenti o sintomi, ma avremo il coraggio di dire a noi stessi cosa abbiamo
bisogno.173
Potremo chiederci se ancora oggi occorre che la tensione o il sintomo ci difenda, oppure se
possiamo assumere un atteggiamento di maggiore sicurezza (minore dipendenza dall’ambiente).
Finalmente potremo imparare ad ascoltare i nostri sentimenti e trovare nuovi modi per esprimerli.
Se il terapista impara a capire ed a gestire questi suoi sentimenti può insegnare al paziente la stessa
strada ed accompagnarlo in un cammino che destruttura un’immagine di sé troppo spesso carica di
ferite emozionali e tensioni negative raccolte inconsapevolmente o coscientemente per trovare un
modo nuovo di vivere se stesso in armonia con le proprie possibilità e scopi.
La religione del ‘cretino’
Ho accennato al fenomeno della risonanza, all’apprendimento emozionale ed al fatto che essi sono
in gran parte inconsapevoli. E’ attraverso questi che l’ambiente condiziona l’individuo
imprimendo credenze sociali su se stesso e la realtà. Ciò impedisce spesso all’individuo di
accedere alla capacità innata di ascoltare se stesso e di attingere alle proprie risorse. Questa
distorsione coinvolge un po’ tutti noi ed avviene anche in età adulta attraverso le reazioni che si
vivono nell’incontro con gli altri.
Parto dal presupposto che nessuno possa consapevolmente fare del male, poiché se fossimo
realmente consapevoli delle conseguenze delle nostre azioni e di ciò che causano in noi e negli
altri, non le faremmo. Ognuno, in ogni momento, crede di fare la scelta migliore possibile, in
caso contrario avrebbe deciso altrimenti.
Qualunque scelta nasce da un angolo d’approccio alla situazione (punto di vista). L’angolo da cui
approcciamo le cose è spesso il solo che conosciamo o che ci hanno fatto conoscere. Le nostre
scelte, infatti, indicano spesso il limite con cui abbiamo imparato a gestire le situazioni della nostra
172
“Quando decidi di ascoltare anziché fuggire, di ascoltare, anziché capire, tu cominci a ricevere informazioni dal tuo
corpo….Può succedere che cominci a sentire i muscoli delle spalle che si tendono, la pancia che si contrae, la
mandibola che si serra, la testa scoppiare, il respiro farsi affannoso, le tue mani che divengono irrequiete e allora tu sai
che hai voglia di colpire….quando sai cosa vuoi sei libero di decidere e questo ti fa paura….Quando senti amore e sai
che sei libero di esprimere amore oppure no entri nel panico. Starai male se il tuo amore verrà rifiutato, starai bene se
verrà ricambiato. Sembra quindi che tu abbia paura dell’amore e sembra che questo voglia dire che tu hai paura di
essere l’artefice del tuo star bene o star male.” P. Lattuada, Massaggio d’amore, Gruppo Editoriale Muzzio, Padova
1989, pp. 41-43.
173
In PNL c’è una ‘tecnica di cambiamento’ (che utilizza la ristrutturazione) chiamata: ‘cambiamento della storia
personale’, essa aiuta ad elaborare vissuti dolorosi della nostra vita. Utilizzando il prolungamento il terapista può
guidare il paziente consapevolmente in quest’esperienza (con presenza e prudenza).
103
vita. Non è, quindi, un problema di male o bene ma di limiti, d’ignoranza. Limiti che abbiamo
appreso inconsapevolmente da altri e che a loro volta hanno appreso inconsapevolmente. 174
Purtroppo, però, le conseguenze di quest’ignoranza sono molto dolorose per sé e per gli altri, esse
molto spesso prevaricano e distorcono le intenzioni di chi li compie. La sofferenza emotiva che
nasce diviene spesso l’unico modo che si ha a disposizione per ritrovare se stessi, se non si è
aiutati.175
Io assimilo questa situazione ad una ‘religione’, la più diffusa nel nostro mondo. Con una
metafora, che è la stessa che utilizzo nei seminari di formazione, la chiamo la ‘religione del
cretino’.
Immagino me stesso al lavoro con un collega. Sono molto teso e chiuso nei miei problemi. Con
questa attitudine interiore non tollero che l’altra persona commetta errori, anche banali. Ferisco il
collega dicendo che è un cretino e non è capace di fare niente per come si deve, che il suo
comportamento mi irrita, e che per me è proprio un deficiente.
In questo modo trasferisco la mia tensione sul collega. Cerco di aprire nell’altro una ferita, la
stessa che sento in me e che in questo momento fa male…. È come se questo meccanismo di
trasferimento mi desse la sensazione, per il fatto stesso che posso fare ciò, di essere sopravvissuto e
di sfuggire al mio dolore.
Io posso aprire in un’altra persona la stessa ferita che sento dentro…e vedere se anche l’altro
sopravvive.
Tutto questo, contrariamente a quanto si pensa, è inconscio.
Io posso essere consapevole del mio sentimento (star male), ma le ragioni profonde del mio
malessere, della mia ferita nascono dalla paura, dall’insicurezza, da qualcosa d’indicibile che è
sepolto in me.
Razionalmente mi dico che l’altro con il suo comportamento mi irrita, e che fa questo
appositamente, approfittando del fatto che sono nervoso. La distorsione percettiva che avviene per
fattori emotivi impedisce la serenità di giudizio.
Il collega, di fronte all’attacco, reagisce difendendosi (per risonanza). Così egli rende reale
l’offesa, ed anche lui apre la sua ferita. In questo modo la tensione, la mia sofferenza è
confermata: si risveglia un antico ricordo nascosto in me….io ero indifeso e qualcuno mi ha
investito con tutta la sua carica emotiva di tensione. Quella persona in quel momento mi ha fatto
sentire debole ed impaurito, anche se ciò che avevo commesso era stata piccola cosa e, forse, non
l’avevo neanche fatto apposta.
Tutta la carica emotiva dell’altro si concentrò in una parola:‘cretino’. Fu allora che questo suono
con il suo ‘carico’ di tensione aprì la ferita che ancora sanguina.
E’ una strana sensazione quella che si prova quando si ferisce un’altra persona così come siamo
stati feriti noi. In parte proviamo la sensazione di ‘potere’. Sentiamo di poter esercitare lo stesso
‘potere’ che un tempo ci ha ‘schiacciato’, ma nello stesso tempo riproviamo dolore, la nostra antica
ferita sanguina perché è confermata.
E’ un rito che si ripete e si trasferisce da una persona all’altra espandendosi come una ‘religione’.
Se tutti credono che la parola ‘cretino’ possa ferire essa acquista…. ‘potere’.
…..Può accadere, però, che il collega conosca i problemi che vivo in questo periodo, oppure che sia
sereno e non si faccia coinvolgere. Egli vuole aiutarmi e chiede semplicemente in cosa ha sbagliato,
e si dice disposto a correggere ciò che ha fatto, se necessario. Questo comportamento disarmante fa
nascere in me irritazione, ma interiormente sento che la mia antica ferita può sanarsi un po’
(inconsciamente, per risonanza).
174
“Predomina nella gente, ed è raramente messa in discussione, la curiosa idea che esista una cosa chiamata esperienze
‘belle’ ed esperienze ‘brutte’[…] queste esperienze e comportamenti non sono chiaramente né belle, né brutte, né
migliori né peggiori né giuste in senso intrinseco: sono neutre. Sono solo esperienze. Ciò che differenzia ciascuna di
esse come una cosa da ricercare e ambire (oppure da temere ed evitare) è il punto di vista individuale dal quale essa
viene considerata.” D.Gordon - M. Anderson Meyers, Phoenix. I modelli terapeutici di Milton H. Erickson, cit., pp. 57.
175
“Una parte del vostro dolore è scelta da voi stessi. E’ la pozione amara con la quale il medico, che è chiuso in voi,
guarisce il vostro male.” Gibran Kalil Gibran, Il profeta, Ugo Guanda Editore, Parma 1980, pp. 93.
104
Come mai il collega non si offende? Perché non si sente ferito? Forse anch’io avrei potuto non
ferirmi quella volta… non sentirmi schiacciato……. E la tensione diminuisce.
In questo caso la religione del cretino ferma la sua diffusione.
Il problema nasce quando ci sentiamo vulnerabili, indifesi o minacciati, quando siamo stati
tolti dal nostro centro (simbolicamente il nostro Asse) attraverso i condizionamenti. In quei
momenti delicati della nostra vita, le nostre reazioni di difesa più antiche e viscerali (emotività
profonda, paura istintiva) si sono legate ai vissuti trasmessi a noi, spesso inconsapevolmente,
da chi in quel momento viveva uno stato emozionale negativo (stava male).
Se siamo consapevoli di questi processi possiamo scegliere intenzionalmente di rimanere calmi e
capire l’altro e noi stessi. Perdoniamo, perchè tante volte anche noi abbiamo ferito
inconsapevolmente e ricordiamo a noi stessi che non intendiamo vivere secondo i condizionamenti
del passato. Essi ci hanno fatto soffrire troppo, ci hanno ferito, hanno bloccato la nostra crescita.
Comprendiamo che dietro i nostri comportamenti problematici e sentimenti negativi c’è un
urlo doloroso e silenzioso, una richiesta d’aiuto e d’amore che chiedono solo di essere accolti.
“Ognuno di noi ha alle spalle un percorso in cui è stato danneggiato, offeso e ferito da altri e si è
comportato allo stesso modo verso altri ancora. Nessuno ne è esente. Inoltre, anche verso noi stessi
abbiamo spesso comportamenti che ci danneggiano. Quello che facciamo solitamente è trascinarci
per tutta la vita il peso di ognuno di questi atti e le catene con cui teniamo questi macigni legati a
noi si chiamano: avversione, rabbia, risentimento, odio, desiderio di vendetta e altre amenità del
genere. La vita scorre e noi continuiamo ad accumulare senza sosta questa pattumiera che, come per
magia, nel momento stesso in cui viene donata, si trasforma in qualcosa di prezioso e, tanto era
pesante e oscura prima, tanto diviene leggera e luminosa.[…]. Ma di tutte le cose, la più difficile è
riuscire a chiedere perdono a se stesso per non essersi trattato con abbastanza amore e cura, e
accettare quindi di amarti e volerti sinceramente bene per quello che sei, anche se quello che sei può
non piacerti.[…]. Ricordati di pensarlo così: per-dono, un regalo bellissimo che fai a te stesso e agli
altri.” 176
Questa attitudine interiore può permettere di aiutare noi stessi e l’altro a superare il ‘blocco’
emotivo che soffoca poiché lo ‘ri-conosciamo’. Riconosciamo che la tensione, la paura e l’odio
non sono altro che la ricerca del nostro equilibrio, tranquillità e amore rivolta nella direzione
errata e, forse, conosciamo la strada per recuperarli.
Vissuti emotivi d’angoscia spesso impediscono al genitore di un bambino con problemi d’essere
sereno e di avere un approccio completo con il figlio, bloccando se stesso ed il piccolo. Vissuti
emotivi personali possono impedire al terapista di uscire dal proprio guscio per incontrare l’altro.
Nessun genitore consapevolmente vorrebbe vivere e trasferire sul figlio la preoccupazione che vive.
Un terapista vorrebbe donare tutto se stesso, la sua capacità professionale ed umana. Cosa lo
blocca?
I vissuti dei piccoli e grandi pazienti contaminati da pregiudizi sociali spesso rendono pesante la
loro e l’altrui vita impedendo di esprimere le loro potenzialità e, qualche volta, riversando attorno a
sé risentimento, irritazione e amarezza.
“Non dobbiamo avere paura di acquisire consapevolezza di come siamo perché questa
consapevolezza c’induce al cambiamento e il cambiamento non può, in questo caso, non avere
effetti positivi sulla personalità.[…].Tutti noi nutriamo timore nei confronti di chi non conosciamo,
questo timore ha una ragione d’essere nel fatto che noi abbiamo bisogno degli altri, abbiamo
bisogno di instaurare relazioni autentiche per migliorare la qualità della nostra vita. Si verifica,
quindi, il paradosso che quanto più noi abbiamo bisogno degli altri tanto più li affrontiamo con
timore […] specialmente quando non riusciamo ad esprimere verbalmente ciò che proviamo.[…].
Indubbiamente scoprire una parte di noi stessi all’altro o agli altri può comportare dei rischi: non
essere compresi, essere fraintesi o ridicolizzati ma, in linea di massima, ha sempre un effetto
176
F. Bottalo, Il volo del cuore, Xenia Edizioni, Milano 1997, pp.153-155.
105
benefico. Il rischio di essere più trasparenti deve essere affrontato non solo per la soddisfazione e
gioia degli altri ma anche per la propria realizzazione personale.”177
(metafora)
Il cieco
In un piccolo villaggio nasce un bimbo cieco. Giorno dopo giorno il piccolo diviene consapevole
del fatto che le persone che lo accudiscono sono spesso distratte e lo mettono in difficoltà. Alcune
volte il piccolo urta contro un oggetto e nessuno sembra aiutarlo. Lo toccano molto, gli parlano e
sono affettuosi con lui, ma quando piange in silenzio nessuno si accorge del suo dolore. Alcune
volte chi lo circonda non sa dove sono i suoi giocattoli preferiti.
Il bambino cresce sentendosi trascurato. Egli vuole bene a tutti, ma si sente spesso solo e non
capito.
Il bambino cresce e diventa un uomo. Un giorno gli nasce un bimbo, anche lui cieco. Il padre
vuole fare del suo meglio, vuole evitare gli errori che hanno fatto con lui, ma ha difficoltà a causa
della cecità. Capisce di essere maldestro nel guidare il figlio e non riesce sempre a fargli evitare i
pericoli.
Un giorno gli arriva la notizia di un possibile intervento agli occhi e decide di farsi operare.
Quando ritorna al suo villaggio e finalmente può togliere la benda dagli occhi…Può vedere… Si
accorge che tutte le persone che lo circondano sono…… cieche… e gli si stringe il cuore.
Ora capisce…non era trascuratezza, o perché non gli volessero bene, erano solamente…ciechi.
In quel momento egli rivede nel suo cuore ciò che ha vissuto da piccolo ed ha interpretato senza
conoscere….e cancella gli antichi rancori. Adesso vuole aiutare tutti ad evitare i pericoli, ad
apprezzare le cose che non possono vedere. Poi…lentamente impara a perdonare se stesso per i
sentimenti che ha provato nei confronti di coloro che l’avevano cresciuto…. Loro avevano fatto del
loro meglio, ma erano semplicemente…ciechi.
L’empatia e le CM
Un cammino simbolico
La capacità di entrare in ascolto dell’altro è un’esperienza che viviamo sin dai primi giorni della
nostra vita. Quando una madre sente il figlio piangere “intuisce” se questi ha fame, se ha dolori alla
pancia, è messo male, è bagnato, ecc. La madre è subito allertata dai segni che il bambino le manda
(vocalizzi, pianto, movimenti del corpo, ecc.), attivando quella che Winnicot chiama “la
preoccupazione materna primaria”.178
I cervelli arcaici hanno la capacità di cogliere tutte le sfumature dei segni e di inserirli
nell’esperienza precedente (risposte istintive ed apprese). Con la maturazione del cervello umano si
ha la possibilità di portare questa conoscenza a livello cosciente (consapevolezza), ciò permette alla
madre di dare subito le risposte adeguate.
177
I. Acerbo – F. Arena, L’evoluzione dell’individuo e l’interazione con l’ambiente. Linee di psicologia sociale
applicata, cit., pp. 53 – 54.
178
“ L’amore che la madre porta al suo bambino, e la sua stretta identificazione con lui, gli fanno percepire i suoi
bisogni al punto che essa può offrirgli qualche cosa al momento e al luogo giusti.” C. Geets, Winnicott, Armando
Armando Editore, Roma 1983, pp. 58.
106
L’attitudine AM nella sua espressione positiva permette alla madre di essere in ascolto del proprio
figlio.
Se la madre è ansiosa, l’AM si distorce ed ella, invece di ascoltare i segni che il figlio le manda,
cercherà di essere all’altezza della sua immagine di madre (ansia di non essere adeguata). Molti dei
suoi comportamenti rispecchieranno i modelli (immagine) di madre perfetta, copiando sua madre,
quello che ha letto in una rivista scientifica, quello che le dice la sua migliore amica o il contrario di
quello che dice la suocera.
L’informazione è veramente importante e fa parte dell’aspetto umano della trasmissione della
conoscenza, ma essa può essere destabilizzante se la madre ha un’immagine di sé non adeguata. In
questi casi il bambino può attivare dei meccanismi di difesa per essere lui a “prendersi cura” della
madre, oppure mette a tacere le sue esigenze (fame, posizioni scomode, ecc.) rifugiandosi nel sonno
o nell’apatia per non attivare l’ansia materna.
L’empatia è la capacità di entrare in relazione con l’altro senza perdersi. Se essa non è stata
distorta nella nostra infanzia, ci permette di attingere informazioni preziose in noi stessi e nell’altro.
I cervelli più antichi, quello razionale e il cervello consapevole lavorano in collaborazione, non vi è
censura.
Possiamo osservare simbolicamente questo processo attraverso le CM. L’attitudine AM aiuta a
centrarci contemporaneamente in noi stessi e ad accogliere l’altro. Mentre l’attitudine PM permette
successivamente di affrontare la situazione distaccandosi da essa per meglio analizzarla. Quando
incontriamo un paziente non dobbiamo identificarci troppo col suo problema (risonanza passiva)
perché rischieremmo di confermarlo ulteriormente (se anche noi siamo bloccati dallo stesso
problema non c’è soluzione). In questo caso il terapista è allo stesso livello del paziente. Occorre
entrare in lui (AM), poi analizzarle (PM). Ciò è possibile se utilizziamo AP-PA (l’asse, lo spazio,
prendere le distanze, il ritmo, il respiro) e AL-PL (la capacità di manipolare le immagini interne che
il “problema” suscita e di riordinarle in modo nuovo ed originale).
Al contrario un eccessivo PM (distacco) senza AM (affettivo), non permette al terapista, e quindi
al paziente, di accedere al materiale interno.
Il terapista non deve preoccuparsi se non riesce ad andare in AM, probabilmente questa per lui
rappresenta un’esperienza dolorosa nella sua storia personale ed è diventato eccessivamente
sensibile ai messaggi dell’altro (PM esasperata, attitudine di difesa). Adesso è in una situazione
privilegiata. Egli può permettersi di dare a se stesso e all’altro le attenzioni che avrebbe voluto in
modo più sereno (non sarà distrutto), e può finalmente sperimentare (se lo vuole) i suoi sentimenti e
non sentirsi minacciato da essi.
Quindi l’incontro con ‘l’altro’ può diventare un modo per capire: “gli altri soffrono e sono feriti da
cose che noi non conosciamo neppure. Noi ipotizziamo che un viso calmo denoti una calma nei
sentimenti ma…non è affatto detto che sia così!
…noi possiamo aver ferito qualcuno senza mai accorgercene. E questo tipo di scoperta…può
causare qualche tristezza, perché se non sappiamo e non possiamo dirlo, non c’è nulla che
possiamo fare per alleviare la pena causata all’altro.
Il processo di conoscenza di queste cose si è spinto ancora più lontano: in primo luogo è apparso a
qualcuno di noi che i sentimenti di turbamento nelle nostre relazioni con gli altri possono avere
qualche fondamento.
…esplorare questi sentimenti di pena può anche provocare alla fine la loro scomparsa!
Che cosa meravigliosa imparare! La paura di ciò che può essere, si può distruggere imparando ciò
che è.”179
179
Descrizione del vissuto di un partecipante ad un corso sulla dinamica di gruppo riferito da J. Luft, Psicologia e
comunicazione, ISEDI, 1975, p. 82. riportato in : I. Acerbo – F. Arena, L’evoluzione dell’individuo e l’interazione con
l’ambiente. Linee di psicologia sociale e di psicologia applicata, cit., pp. 55 – 56.
107
CAPITOLO QUINTO
Approccio alla diagnosi ed alla terapia
108
Riflessioni sulla diagnosi
Quando arriva un paziente si mette in atto una serie di osservazioni cliniche che si apprendono
attraverso la formazione professionale e la personale esperienza professionale. In conformità a
questi dati clinici si effettua la diagnosi che permette al terapista di individuare l’approccio idoneo.
Questo processo è efficace poiché permette di sfruttare le passate esperienze e di agire secondo
modelli appresi, ma suscita un sottile problema: quando noi facciamo la diagnosi secondo questo
processo spesso sovrapponiamo un’immagine proveniente dal nostro passato professionale e
personale alla persona che è di fronte a noi. In questo modo corriamo il rischio di non operare sulla
persona che è unica nella sua ricchezza, ma attiviamo schemi prefissati, spesso riduttivi, cui la
persona si deve adattare.180
“Le richieste non verranno formulate in termini di linguaggio semantico, ma in termini di proposte
visive (vista del giocattolo) o acustiche (suono del mazzo di chiavi) caricato però di significati
cognitivi da tutto l’atteggiamento dell’esaminatore che con la tonalità della voce, la manipolazione
del bambino, l’atteggiamento globale della persona comunica la propria proposta percettiva. E’
chiaro che in questa prospettiva l’attenzione, il rispetto, lo stesso coinvolgimento emotivo/affettivo
dell’esaminatore non sono elementi superflui ed insignificanti o nel migliore dei casi poetici, ma
sono ‘condizio sine qua non’ per l’esecuzione di una corretta semeiotica neuro-evolutiva. Il
concetto della ‘best performance’ di Brazelton (1979) è in questo senso chiarificante. La ricerca
attiva da parte dell’esaminatore della migliore prestazione nella capacità di controllare i movimenti
geneticamente programmati per uno scopo funzionale. Per tale motivo la valutazione imperterrita di
bambini disperati ed urlanti, come spesso si osserva nel corso dell’esecuzione di esami cosiddetti
‘neurologici riflessologici’ è assolutamente priva di significato, oltre che poco rispettosa della
persona bambino e della persona genitore.” 181
Questo problema è importante nell’approccio biomedico in generale e nelle metodiche riabilitative
in particolare, infatti, come sostiene Ferrari: “Nella PCI non è accettabile l’equazione diagnosi
dunque terapia, ma è necessario valutare la capacità di apprendere del paziente che assieme ad altre
condizioni (percezione, intenzionalità, sviluppo cognitivo, sviluppo affettivo, ecc.) definisce la
prognosi funzionale. Mentre la diagnosi definisce il diritto ad un’assistenza qualificata alla quale
non possono restare estranee le competenze di medici e terapisti della riabilitazione, solo la
prognosi permette, infatti, di decidere la necessità, il significato ed il limite di un trattamento
fisioterapico.” 182 E’ importante, quindi, allargare gli orizzonti della diagnostica per favorire un
numero maggiore di parametri di osservazione, ciò permette quella variabilità e ricchezza che
meglio possono specificare patologie complesse come le PCI e le patologie neuro-psicomotorie in
generale.
Oltre al problema diagnostico, che è definito sulla base delle ‘conoscenze scientifiche contingenti’,
raramente si comprende l’importanza e l’incidenza del vissuto personale dell’operatore nel setting
terapeutico. È ragionevole pensare che una persona guida o aiuta il paziente filtrando tutto
attraverso i propri vissuti personali. Ciò malgrado sì da per scontato che un’adeguata preparazione
professionale corrisponda ad un’adeguata capacità di porgere la propria disponibilità umana. In
molti settori, purtroppo, non è sempre così.
Ho già descritto, infatti, i pericoli di una risonanza passiva del terapista, ma non dobbiamo
dimenticare che lo stesso fenomeno può accadere al paziente. In alcuni casi il paziente potrebbe
essere condizionato inconsapevolmente dai ‘blocchi’ personali e professionali dell’operatore.
In passato, in nome di un’oggettività professionale esasperata, si è trascurata l’opportunità di
comprendere l’importanza della relazione terapeutica: la capacità di gestire il complesso rapporto
emotivo che s’instaura inevitabilmente tra terapeuta e se stesso e terapeuta e paziente. È sufficiente
180
“Definire un comportamento o un’interazione funzionale o disfunzionale è un’operazione che ha a che fare con le
categorie descrittive e con i pre-giudizi dell’osservatore.” G. Burbatti - I. Castoldi, Psicoterapia individuale sistemica,
cit., pp. 83.
181
M. Bottos, Paralisi cerebrale infantile. Diagnosi precoce e trattamento tempestivo, cit., p. 29-30.
182
A. Ferrari, Proposte riabilitative nelle paralisi cerebrali infantili, cit., p. 52.
109
ricordare che “E’ impossibile evitare quel continuo coinvolgimento psicologico caratterizzato da
ambivalenze – sicurezza–insicurezza, certezza–incertezza, forza–debolezza – e della rimessa in
causa della propria persona, della percezione di sé e della propria esistenza. L’azione pedagogica (e
terapeutica) è un feed-back che agisce di ritorno provocando un’incessante trasformazione intima
che non lascia mai indifferenti. Ma quale e quanta coscienza si ha di tale processo?
Anche coloro che sembrano impassibili, che sostengono l’impersonalità e la neutralità della
relazione pedagogica (e terapeutica), sono coinvolti dagli atteggiamenti assunti; nascosti dentro la
loro armatura-di-ruolo, essi, oltre a trasmettere contenuti, offrono modelli comportamentali che
definiscono il contesto e che vengono appresi anche inconsapevolmente.” 183
Ciò accade perché l’operatore sente dentro di sé la necessità di rispondere (che ne sia consapevole
o no) alle attese proprie e del paziente, alle paure difficili da rivelare, alle problematiche che si
vivono nell’ambiente, al desiderio o alla paura di migliorare che il paziente manifesta consciamente
o, ancora di più, inconsciamente attraverso il linguaggio tonico emotivo del corpo.
Anche l’aspetto strettamente professionale c’invita ad alcune riflessioni. I metodi neuroriabilitativi
per essere scientifici e riproducibili hanno dovuto strutturare rigide premesse neurologiche e metodi
d’osservazione che a loro volta condizionano l’approccio terapeutico. L’evoluzione degli studi nelle
neuroscienze, attraverso il perfezionarsi delle indagini strumentali e cliniche, ha portato delle svolte
decisive nel modo di osservare ed interpretare i segni e quindi l’evento patologico del bambino e
dell’adulto.184
Tutte le Scuole mirano a raggiungere lo stesso obiettivo: aiutare la persona, ma partono spesso da
punti di vista neurologici e metodologici differenti, spesso in antitesi tra loro, condizionando
l’approccio e la metodologia terapeutica.185
La dialettica tra le varie metodiche, arricchisce e cerca di superare i limiti e i problemi che si
rilevano nei vari approcci, ma tende anche ad irrigidire i singoli punti di vista (diagnostici e
terapeutici), al fine di garantire una coerenza interna alla metodica stessa.
Il terapista si trova di fronte ad una difficile situazione. Ogni metodo ha premesse ed approcci
differenti, ognuno si pone come efficace e statisticamente valido.
Come risolvere questo dilemma? Iperspecializzarsi in una metodica dà sicurezza ma anche la
sensazione di ‘restrizione’. Possiamo decidere di apprendere diversi metodi ed utilizzarli quando si
ritiene opportuno. Quest’ultima soluzione è definita ‘qualunquismo terapeutico’ da alcuni autori,
che vorrebbero un’adesione illimitata al loro approccio. Essa causa la sensazione di inadeguatezza
perché c’è mancanza di ‘dialogo’ e di ‘coerenza’ tra le metodiche.
Forse, però c’è una via d’uscita.
Un giorno il prof. Lerminiaux ci pose un quesito: “Siamo in un cantiere edile dove lavorano un
ingegnere ed un capomastro e viene costruito un muro. Chi deve dire se il muro è fatto bene?”. Le
nostre risposte spaziavano tra l’ingegnere e l’abilità del capomastro. Infine il professore sorridendo
ci disse: “Il muro”. La nostra sorpresa fu grande, ma liberatoria.
Penso sia facile riconoscere i personaggi della metafora che possiamo definire terapeutica:
l’ingegnere è l’autore ed ideatore di un metodo, il capomastro è il fisioterapista, ed infine il muro è
il paziente.
183
C. Romano, Corpo itinerario possibile. Una metodologia di formazione per gli insegnanti. Cit. p. 19. Il riferimento
alla terapia tra parentesi ed in corsivo è mio per sottolineare l’affinità di pensiero.
184
“La sperimentazione neurofisiologica iniziata nel secolo scorso e sviluppatasi anche recentemente, (da cui alcune
scuole riabilitative hanno mutuato per lungo tempo le proprie premesse teoriche, Bobath. 1964-1971), ha spesso usato
come metodologia di lavoro la sperimentazione su animali in cui venivano sezionati (isolati) i vari livelli del S.N.C. per
stabilire a quale livello venisse integrato un determinato ‘riflesso’ pretendendo poi di applicare i risultati di quelle
sperimentazioni non solo alla clinica di quell’animale ma addirittura a quella dell’uomo e del bambino dimenticando
non solo l’enorme diversità tra animali da esperimento e uomini e bambini, ma anche che il S.N.C. agisce in modo
unitario e pure un S.N.C. leso non ha nulla a che vedere con i preparati di laboratorio separati da tutto il resto.” M.
Bottos, Paralisi cerebrale infantile. Diagnosi precoce e trattamento tempestivo, cit., pp. 34.
185
“Le descrizioni sullo sviluppo del bambino manifestano delle incoerenze a causa della non neutralità dell’osservatore
per diversi interessi d’impostazione (griglie d’osservazione) in conformità a ciò che per loro è rilevante.” M. Pierro,
Osservazione clinica e riabilitazione precoce, cit., pp. 27.
110
Il paziente, piccolo o grande che sia, è quello che deve dimostrare se ciò che si sta facendo va
bene o no. “E’ nei progressi che il bambino dimostra di saper essere protagonista attivo della
propria riabilitazione e non contenitore passivo di azioni che altri considerano terapeutiche. È nei
progressi compiuti dal bambino che gli altri misurano l’efficacia del nostro intervento terapeutico. Il
progresso, come capacità di trasferire ciò che il soggetto impara dal setting terapeutico al proprio
ambito di vita, rappresenta il fine ultimo della terapia e costituisce la differenza fra creare o ripetere,
fra inventare o copiare.[…] Anche nelle migliori condizioni, il cambiamento consentito dalla terapia
non potrà sovvertire la natura del difetto motorio ovvero la diagnosi, ma le capacità del paziente in
termini di abilità, competenza, autonomia, indipendenza, benessere.” 186 Quanto detto è coerente con
uno dei presupposti della PNL: “Il significato della comunicazione è nella risposta ottenuta”.
Possiamo comprendere, però, che c’è ancora molto lavoro da fare in campo medico per soddisfare
queste premesse.
“La scelta degli aspetti e dei criteri che consideriamo importanti per classificare in una forma
clinica la situazione del paziente resta comunque un atto arbitrario dell’esaminatore. Meglio sarebbe
poter giudicare dell’importanza di un segno o di un sintomo basandoci sull’errore computazionale
compiuto dal soggetto nell’organizzare la postura ed il gesto od altre funzioni (coerenza della
paralisi), cioè sul problema visto dalla sua parte piuttosto che dalla nostra. Per il sistema nervoso
(SN) del bambino la paralisi non è un difetto di organi apparati o strutture, ma il diverso assetto di
funzionamento (errore computazionale), la diversa modalità di azione ed organizzazione (coerenza)
di un sistema che continua a cercare nuove soluzioni all’esigenza interna di divenire adatto ed al bisogno esterno di adattare a se il mondo che lo circonda.”187
Ritornando all’introduzione del nostro discorso, la diagnosi non deve essere un limite, in altre
parole non deve limitarsi a sovrapporre un’immagine al paziente. In questo caso rischiamo di
lavorare su un’immagine astratta, che raramente corrisponde alla realtà del paziente. Perdiamo la
possibilità di agire sulle cause spesso molto complesse che hanno determinato l’evento patologico o
che contribuiscono al ‘blocco’.188
Per fare una diagnosi, quindi, non si deve osservare un solo organo, un movimento o un riflesso,
per es. l’arto superiore, il linguaggio o la vista, ma tutta la persona, il contesto cui reagisce ed il
modo di reagire. Allora capiremo che anche gli altri organi ed il comportamento globale ci danno
informazioni coerenti sul modo di essere della persona e sul modo di funzionare del suo SNC
(CM).189
Osserviamo, per esempio, il comportamento di un bambino autistico che simula la sordità e/o la
cecità, in realtà indica un modo specifico di utilizzare il suo SNC.
Spesso ho avuto in trattamento bambini cui è stato diagnosticato in modo riduttivo la sordità, in
effetti, essi avevano problemi relazionali. Questi stessi bambini, attraverso un adeguato approccio
terapeutico, hanno dimostrato di rispondere agli stimoli uditivi, ma in condizioni normali
manifestano indifferenza agli stessi richiami sonori. La stessa cosa accade nell’osservazione del
bambino con problemi neurologici. “L’accentuazione o riduzione dell’influenza di un movimento
geneticamente programmato (riflesso) mi darà indicazioni relative alla presenza di un danno, ma
186
A. Ferrari, Proposte riabilitative nelle paralisi cerebrali infantili, cit., pp. 53 – 54.
Ibidem, p.46.
188
Vedi capitolo precedente in “I sintomi e la ristrutturazione”.
189
“La società contemporanea si caratterizza storicamente per aver portato all’estrema conseguenza la parcellizzazione
operata nell’ambito del sapere umano. La necessità, dettata dalla stessa metodologia scientifica di stampo galileiano, di
separare e ridurre le variabili di un fenomeno, per una loro migliore e più completa osservazione, ha avuto effetti
stravolgenti. Qualunque disciplina ha subito, al suo interno, sezionamenti e spezzettamenti che hanno permesso la
descrizione dettagliata e puntuale di aspetti prima sconosciuti.[…]. È così che, ad esempio, la professione-medico è
parcellizzata in decine di settori ognuno corrispondente ad una parte anatomica, ad un organo o sott’organo, del corpo.
Un processo di approfondimento che ha condotto allo studio del dettaglio, del particolare, finendo però con il rendere
irreversibile l’itinerario inverso; si è persa la capacità di ritornare all’insieme da cui si era partiti per comprenderlo.”
C. Romano, Corpo itinerario possibile. Una metodologia di formazione per gli insegnanti. cit., p. 33.
187
111
solo la ‘capacità di uscire dalla dominanza’ cioè le ‘competenze emergenti’ mi daranno la reale
dimensione prognostica.” 190
Questi esempi fanno comprendere l’importanza dell’approccio e, quindi, dell’ambiente quale
elemento che può incidere notevolmente sulla valutazione, esasperazione o possibilità di vivere e
gestire serenamente il ‘sintomo’.191
Ma vi sono altre considerazioni, di tipo neurologico ed ontogenetico, che fanno comprendere
l’interrelazione dei fenomeni fisici e fisiologici dell’organismo e quindi dell’unitarietà delle sue
manifestazioni.
Ogni organo quando arriva alla maturità permette un comportamento meno rigido, variabile, e
questo è un momento delicato nella storia personale poiché tale organo è più sensibile agli stimoli
esterni. Ogni organo ha un proprio programma, si costituisce, probabilmente, un superprogramma (il Sistema Nervoso Centrale) che contiene i programmi dei singoli organi per
farli lavorare in cooperazione (Lerminiaux). Su questi presupposti si costruisce la Teoria degli
Organizzatori e la scaletta delle Emergenze.
La diagnosi corretta fatta da operatori diversi (fisioterapista, psicomotricista, psicologo,
medico) deve portare alla focalizzazione del comportamento e al riconoscimento del
programma cerebrale, vale a dire all’immagine interna che condiziona il funzionamento di
quella persona specifica. Immagine che il paziente si è costruita attraverso l’esperienza motoria
nell’incontro tra le sue possibilità e l’ambiente. “Mentalmente il terapista deve, innanzi tutto,
avere chiaro in mente tutto ciò che riguarda il problema del paziente, cioè avere osservato ed
essere pronto ad osservare il modo particolare di essere al mondo del paziente. Si tratta di
riconoscere il suo modo di vivere, di funzionare, il programma mentale o cerebrale di cui
dispone, lo strumento neuro-corporale costruito attraverso l’esperienza passata e
l’educazione.”192
La vera diagnosi ed approccio terapeutico si ottengono quando tutti gli operatori riescono a
comprendere il problema fondamentale del paziente pur partendo da punti di vista differenti, poiché
egli è uno, ed uno è il suo modo di funzionare (di essere).
La visione frammentata del paziente o la diagnosi classica (etichetta) dice ben poco su ciò che
determina il vissuto del paziente, che spesso è la vera fonte del comportamento patologico o se non
altro della sua fissazione.
La diagnosi è precisare il modo individuale di comportamento.
Quando i vari operatori hanno una ‘diagnosi’ corretta è più semplice raggiungere l’obiettivo
terapeutico: per mezzo degli strumenti terapeutici acquisiti ed operando una sottile opera di
‘ristrutturazione’ gli operatori lavoreranno sul programma cerebrale del paziente, quindi in
modo coerente con il suo vissuto. Il terapista saprà scegliere la manovra, tecnica o metodo più
adatto al livello che presenta il paziente o saprà adeguarlo ad esso.
Quanto detto non deve lo stesso fare dimenticare che: “La ‘certezza’ della condizione di
partenza (la natura e la misura della lesione) non basta a definire con precisione i risultati che
potranno essere raggiunti, anche includendo tutte le possibilità offerte dalla terapia e tutti i
percorsi facilitanti che potrebbero essere opportunamente attivati. Non si possono infatti
desumere dalla sola analisi delle strutture le possibilità raggiungibili dalle funzioni (tutta la
patologia psichiatrica fornisce in questo senso suggestivi esempi). La prognosi conserva
190
.” M. Bottos, Paralisi cerebrale infantile. Diagnosi precoce e trattamento tempestivo, cit., p. 34.
“La nostra proposta semeiologica non separa mai gli elementi neuromotori da quelli cognitivi o affettivo-relazionali
dell’atto motorio intesi in una prospettiva unitaria e finalizzata alle realizzazioni funzionali del bambino”. M. Bottos,
Paralisi cerebrale infantile. Diagnosi precoce e trattamento tempestivo, cit., pp. 29.
“Noi quindi osserviamo e valutiamo non solo un’alterazione primaria, ma anche un tentativo di adattarsi, stante questa
patologia primaria, alle richieste dell’ambiente. Da qui deriva la necessità di utilizzare diversi tipi di gestalt; andrà
infatti valutato lo sviluppo in relazione ai tentativi di organizzazione funzionale che il bambino mette in atto in diverse
fasi di maturazione in diversi contesti. Questo è il concetto di ‘sviluppo della paralisi’ proposto da Ferrari.” A. Ferrari –
G. Cioni, Paralisi cerebrali infantili. Storia naturale e orientamenti riabilitativi,cit., p. 220 - 221.
192
J.Lerminiaux, Guida al dialogo non verbale nella seduta terapeutica, in “Solidarietà”, (1996), n. 25, pp. 65.
191
112
dunque un ineliminabile contenuto di individualità e di incertezza. Soltanto una prognosi
dichiarata consente tuttavia di valutare l’utilità e la pertinenza dell’intervento riabilitativo
(Papini, 92).”193
Ciò è importante per comprendere l’unicità di un percorso terapeutico e per evitare
accanimenti terapeutici suscitati da modelli rigidi quanto immaginari.
Approccio alla patologia
La patologia conseguente a lesione o disfunzione neurologica, determina fondamentalmente
l’instaurarsi di pochi e primitivi movimenti che impediscono al bambino la ricchezza di nuove
esperienze.
Il terapista, attraverso un appropriato uso delle tecniche neuromotorie, mette in opera un lavoro di
educazione nel corpo del bambino. Questo “impara” ad usare e a controllare le reazioni toniche
esagerate e i movimenti patologici. Sono questi che si attivano spontaneamente quando il bambino
si muove per raggiungere i suoi obiettivi. Molto spesso, infatti, nell’ansia di fare, egli perde ancora
di più il controllo del movimento. Il bambino apprende da sé la spasticità e il movimento
patologico. Egli si muove all’interno della costrizione del movimento alterato dalla lesione
neurologica e lo fissa con l’esercizio spontaneo (apprendimento cognitivo). “Per poter compiere
un movimento corretto bisogna, infatti, poter disporre di una corretta informazione percettiva e
viceversa per poter raccogliere una corretta informazione percettiva bisogna saper realizzare un
movimento corretto. Nella paralisi cerebrale infantile entrambe questi postulati risultano impossibili
ed a livello prognostico condizionano le possibilità di recupero del paziente.”194
Il bambino apprende a muoversi con la patologia e attraverso essa. Egli conosce solamente
quelle sensazioni e movimenti. Ogni tentativo di superare le sue difficoltà esaspera il
movimento ed il tono muscolare alterato a causa della lesione cerebrale. Tutto ciò impedisce
un adeguato controllo e armonia nei movimenti.
Ricordiamo, infatti, che mentre per il bambino normale la forza gravitazionale e gli stimoli
sensoriali agiscono in senso epigenetico, cioè attivano le potenzialità insite geneticamente nel
bambino (specie specifiche), nel bambino con paralisi cerebrale infantile la forza gravitazionale e
l’incapacità nel gestire gli stimoli proprio ed esterocettivi costituiscono molto spesso gli ‘scogli
insormontabili’ che non può affrontare in quanto il programma ‘originario’ è profondamente
modificato dall’evento lesionale o disfunzionale. Il bambino si trova quindi a combattere ciò che in
altre condizioni avrebbe dovuto aiutarlo. È sufficiente questa considerazione per comprendere la
difficile dimensione quotidiana che il piccolo è costretto a vivere (e la facilità di ‘aggancio’
psicologico di tecniche e metodi che promettono ciò che non è possibile: la normalità). Il bambino
quindi può, se non è messo nelle condizioni adatte, “imparare anche il non uso o il maluso,
l’inattenzione o la negligenza, la sostituzione funzionale o il compenso, la delega o la rinuncia. Si
impara a diventare ma anche a non fare, a non dare, a non essere, poiché non si può imparare ad
avere coraggio o a dimenticare la propria paura.”195
Il terapista che sa modulare facilitazioni e mezzi permette al bambino con difficoltà di ampliare la
dimensione ludica, sociale e in senso generale esperienziale realizzando così ‘la riabilitazione’. In
pratica rende capace il bambino di gestire e gestirsi in una dimensione a lui più appropriata.
Il bambino deve essere aiutato ad attivare la ricerca del movimento quale espressione di sé, dei
bisogni, del piacere e degli scopi, in questo modo egli è sostenuto nel vivere e gestire dimensioni
193
A. Ferrari, Proposte riabilitative nelle paralisi cerebrali infantili, cit., p.137.
Ibidem,p.55.
195
Ibidem,p.52.
194
113
che sarebbero rimaste oltre i suoi ‘accessibili confini’ in una situazione comprensiva delle sue
difficoltà ma anche delle sue potenzialità.
Quando ciò non accade il vissuto fisico e i fattori emozionali che s’innestano, determinano la
patologia secondaria che aiuta e fissa quella primaria (neurologica) impedendo al bambino di
vivere nel suo corpo dimensioni diverse.
Vi sono altri fattori che contribuiscono al blocco nella patologia. Spesso il bambino spastico vive
paradossalmente il suo movimento e tono muscolare ‘alto’ assimilandolo ad un sostegno, esso gli da
sensazione di stabilità (si sostituisce all’Asse). Il bambino ha paura di abbandonare la spasticità per
timore che il suo corpo crolli.
Il bambino discinetico invece, s’allerta per rispondere agli stimoli ambientali attraverso i
movimenti incontrollati. Egli sembra misurarli come un barometro (entra in risonanza con essi). Gli
stimoli sensoriali improvvisi sono vissuti come potenzialmente pericolosi perché il bambino sa di
non poterli gestire: l’attivazione di movimenti incontrollati ha l’aspetto di una manovra emotiva di
difesa per allontanare il pericolo, quindi lo protegge.
Il bambino atassico fissa e riduce il movimento per non affrontare il problema dello spazio e
dell’equilibrio. Questo diviene il suo modo predominante di vivere tutte le situazioni e le
esperienze. Ecc.
In ogni patologia il bambino è costretto a sviluppare strategie che si basano sulla patologia
stessa, ricalcandola oppure opponendosi ad essa. In questo modo egli vive nel suo corpo solo
sensazioni in funzione della patologia e su di questa costruisce la sua immagine. Ciò accade
soprattutto nelle nostre società civilizzate, dove siamo allevati a credere nello sforzo, nel sacrificio e
nella competizione (anche verso se stessi). È difficile sradicare la mentalità secondo cui è
necessario fare il massimo quando ci si trova di fronte ad una difficoltà. In genere si è convinti che
più sforzo e più forza si applicano meglio si riesce ad eseguire un compito. Purtroppo nel bambino e
nell’adulto con problemi neurologici quest’atteggiamento origina l’esasperazione degli schemi
patologici, a causa della lesione del SNC o della disfunzione che impedisce un adeguato ed
armonico controllo del movimento. Questa situazione determina frustrazione e un’immagine
negativa di sé. Il bambino di fatto è sempre più convinto di non poter uscire dalla sua
incapacità e dal blocco.
La difficoltà di avere un quadro esauriente dei bambini con PCI nasce, quindi, dal sommarsi
di più fattori che si rafforzano e confermano a vicenda. Contrariamente ad un’ottica
semplicistica che riferisce il problema motorio alla paralisi in quanto tale, il quadro risulta
decisamente più complesso: l’impedimento motorio presente nel bambino con PCI è da attribuire al
fattore neurologico, alle mancate o distorte esperienze sensomotorie, a problemi percettivi, cognitivi
o motivazionali? Probabilmente, come sostengono le più recenti ricerche, tutti questi elementi
contribuiscono al suo determinarsi e fissarsi nel tempo.
Per personale esperienza, confermata da molti colleghi, se il bambino non modifica l’immagine di
sé la terapia riabilitativa o chirurgica è fortemente ostacolata in modo non consapevole dal bambino
stesso (e dall’ansia dell’ambiente). Ho visto spesso bambini, sui quali sono stati eseguiti interventi
brillanti di chirurgia ortopedica, ritrovarsi dopo alcuni mesi esattamente come prima, e lunghi ed
estenuanti trattamenti riabilitativi sono inconcludenti per lo stesso motivo.196
196
“Alcuni cambiamenti imposti dalla chirurgia ortopedica possono risultare troppo impegnativi per il paziente per cui
anziché ridurre le deformità finiscono per ridurre la funzione. Basta pensare alla spasticità di certi diplegici con
componenti dispercettive, adottata dal paziente per costruirsi una seconda pelle, che se aggredita eccessivamente o
troppo precocemente finisce per privare il paziente delle soluzioni adattive che era riuscito a creare e per riproporgli
irrisolto il problema iniziale. Analogamente la spasticità di certi pazienti con reazione di sostegno esauribile
(ipoposturali) rappresenta la miglior soluzione adattiva che quel sistema nervoso può mettere in atto di fronte al
problema della forza di gravità. Se aggrediti eccessivamente o troppo precocemente con i farmaci o con la chirurgia,
questi soggetti finiscono per perdere la competenza al carico. Solo un trattamento combinato chirurgico fisioterapico
ortesico ed una opportuna pianificazione degli interventi (prima l’anca, dopo il ginocchio, il più tardi possibile il piede,
che rappresenta la chiave di volta dell’intera reazione di sostegno, contrariamente a quanto sostenuto dalla chirurgia
multipla simultanea) rappresenta in questi casi l’unica strategia possibile, comunque non priva di rischi poiché si tratta
114
Il bambino crede che nel suo corpo possano esistere solo le sensazioni che conosce dalla
nascita, esse gli danno sicurezza (reale o apparente) perché non sa viverne o richiamarne
altre. Tutti i tentativi di modificare se stesso, senza un aiuto adeguato, hanno solo esasperato
la sua difficoltà (apprendimento emozionale). Per questo motivo egli fissa e ricostruisce
l’immagine di sé.
Studi di neurofisiologia riportati dal prof. Perfetti, manovre di facilitazione del metodo Bobath ed
approcci al corpo qual è il metodo Feldenkrais permettono di richiamare nel corpo movimenti e uno
stato tonico muscolare che non attivi la patologia. C’è però una fondamentale differenza tra
l’utilizzo delle metodiche riabilitative in modo tecnico, anche se perfetto dal punto di vista
professionale, e l’approccio guidato attraverso l’aptonomia e il prolungamento. Nel primo caso il
terapista applica la tecnica per contrastare la patologia, egli entra in conflitto con l’immagine che il
paziente ha di sé, con ciò che egli difende (inconsciamente). Nel secondo caso il terapista ‘sente’ le
variazioni toniche profonde del paziente (aptonomia) e si fa guidare da queste per indurre i
cambiamenti tonici possibili, ma soprattutto, egli aiuta il paziente ad entrare in ascolto del suo corpo
senza l’ansia di dover fare.197
Le metodiche lavorano sul versante motorio o così detto neuromotorio del paziente, ognuna di esse
ha uno specifico approccio fisiologico e saltuariamente sull’analisi percettiva (spesso sottesa nel
bambino con paralisi cerebrale infantile),198 ma raramente si tengono in considerazione
l’immagine, le credenze, il modello di mondo del paziente e quanto questi possano influire sulla sua
possibilità di gestire se stesso e l’ambiente creando facilitazione o blocco (paralisi intenzionale – A.
Ferrari).
Perché il cambiamento nel paziente neurologico sia efficace e reale si devono considerare tutti
questi aspetti ed il terapista può imparare a gestirli.199
Il terapista, attraverso la calibrazione e la risonanza consapevole (aptonomia), rileva le variazioni
che sta vivendo il paziente e può permettergli di prenderne coscienza. I movimenti devono essere
eseguiti dal paziente lentamente e, quando è necessario, il terapista li facilita attraverso l’uso dei
metodi riabilitativi per evitare fenomeni d’irradiazione e, soprattutto, per aiutarlo ad entrare in
ascolto del suo corpo. Con un’attitudine d’attenzione è possibile che il paziente arrivi a vivere e
‘sentire’ stati tonici diversi nel suo corpo. Questo è l’inizio di un’immagine più ricca di sé.
Solo quando il paziente ha vissuto nuovi modi di ‘sentire e d’essere’ nel suo corpo e li desidera
vivere può iniziare la vera attività terapeutica, solo allora egli chiederà implicitamente o
esplicitamente l’aiuto del terapista, e questo deve essere pronto a cogliere questi cambiamenti e
sostenerli.
di passare da una deformità meno favorevole ad una più favorevole.
La chirurgia ortopedica funzionale costituisce un’evoluzione concettuale rispetto alla chirurgia multipla simultanea (che
a sua volta rappresentava un progresso rispetto alla chirurgia segmentaria) perché tiene conto per ciascuna stazione di
movimento non solo del tipo di deformità ma anche del tipo di organizzazione messa in atto da ciascun paziente per
quella definita attività o funzione.[…]. Si tratta in sostanza di ripensare alla chirurgia ortopedica in relazione a ciascuna
forma clinica, alla sua evoluzione probabile (storia naturale) ed ai cambiamenti possibili (modificabilità e libertà di
scelta), alla competenza organizzativa raggiunta dal bambino (cosa potrebbe imparare in alternativa alla soluzione
realizzata) ed alla stabilità dell’errore commesso, come del resto già avviene per il setting e per l’esercizio terapeutico.”
A. Ferrari,Proposte riabilitative nelle paralisi cerebrali infantili,cit, pp.158 - 159.
197
“Questa filosofia diverrà il punto centrale in tutta l’opera di Feldenkrais che riguarda l’educazione somatica: ‘Non
andare mai contro i meccanismi di resistenza di un altro essere umano, ma piuttosto lavora positivamente con essi per
aiutare la persona a migliorarsi.’” A. Degehet, Il metodo Feldenkrais, cit., pp. 11.
198
“Se la paralisi è la perdita di un certo numero di pezzi che non consente di costruire determinate prestazioni, la
disprassia è la perdita di un certo numero di istruzioni (pianificazione) che non permette di combinare in un certo modo
(sequenze e strategie) i movimenti comunque disponibili, a fronte di un risultato idealmente previsto:” A. Ferrari,
Proposte riabilitative nelle paralisi cerebrali infantili,cit, p. 51.
199
Cambiare qualcosa a livello inferiore (movimento, posizionamento) può, ma non necessariamente, cambiare ciò che
è ad un livello superiore, tuttavia, cambiare qualcosa a livello superiore (credenze, identità), cambierà necessariamente
le cose ad un livello più basso (comportamento, movimento) allo scopo di sostenere il cambiamento del livello più alto.
Vedi scaletta delle emergenze nel capitolo terzo.
Il concetto sopra esposto si basa su : “I livelli logici di G. Bateson” studiati in PNL.
115
Il paziente chiede aiuto se si sente sostenuto in modo adeguato: il terapista lo mette in condizione
di sperimentare soluzioni realizzabili e rispettose dei suoi bisogni. Questi presupposti sono
importanti perché il paziente possa avventurarsi fiducioso nel difficile cammino che è stato distorto
involontariamente all’origine.
********************
Può accadere di dover prendere in trattamento un bambino particolarmente grave. In questi casi la
fisioterapia tradizionale prevede dolorosi e ripetuti stiramenti muscolari per evitare deformità. La
semplice riflessione sui meccanismi di difesa del muscolo a livello periferico e del sistema nervoso
centrale, dovrebbe far desistere da tentativi troppo cruenti in tal senso. Per personale esperienza, in
molti casi si può aiutare il bambino ad eseguire i movimenti molto lentamente adattandosi
all’allungamento del muscolo in modo tale da non sollecitare la spasticità e le reazioni di difesa
dello stesso. Questi movimenti, guidati dal terapista attraverso la calibrazione (attenta osservazione
alle variazioni toniche), favoriscono nel bambino una nuova percezione del tono muscolare durante
il movimento e a riposo. Il bambino può vivere una nuova “sensazione” nel proprio corpo arrivando
a scoprire nuove potenzialità.200 Alcune volte queste sensazioni durano solo frazioni di secondo, ma
permettono al bambino di liberarsi dalla costrizione della spasticità o della patologia (che è la sola
percezione che ha di se stesso). “Più grave è la lesione più il terapista deve saper cercare nella
propria natura oltre che nella propria cultura la chiave per potersi sintonizzare e quindi dialogare
con il bambino.
Non è forse il repertorio delle nozioni specifiche, ma la capacità di agire su se stessi fino a rendersi
adatti ad incontrare il bambino, a distinguere la riabilitazione dei terapisti da qualunque altra
proposta (vedi ippoterapia) ed a meritare il titolo di terapisti della riabilitazione. Possiamo capire
perché A. Milani Comparetti volesse prescrivere il terapista come terapia e non la terapia del
terapista.”201
Se il bambino è piccolo il terapista può guidarlo attraverso il proprio corpo (attraverso la risonanza
consapevole): egli crea un’immagine coerente con il livello di sviluppo del bambino, ed il suo
corpo, spontaneamente, invia per risonanza i cambiamenti nel corpo del piccolo. Il terapista che ha
un’immagine ben precisa del vissuto e delle difficoltà del bambino (livello-CM) adatterà in modo
automatico la tecnica al bisogno del bambino (lavoro armonico tra i tre cervelli). “Nel trattamento
dei bambini piccoli o molto gravi il primo luogo di incontro tra terapista e bambino non può che
essere il corpo stesso del bambino, che viene contenuto, toccato, accarezzato, mosso dolcemente e
ricomposto, dondolato ed aiutato a riallinearsi, che il bambino, scopre, esplora, attiva, modifica,
adatta, facendone secondo Polletta il primo vero oggetto transizionale, cioè l’oggetto investito di
piacere che egli tiene con se, la struttura portante della sua autostima. Il corpo del terapista deve
allora saper essere altalena, dondolo, scivolo, giostra, cuscino, ostacolo e protezione, barriera e
supporto, elemento di perturbazione e bastione di difesa, spazio di adattamenti posturali e
trampolino per spostamenti anche modesti. Col tono della voce il terapista potrà annunciare e
guidare, rinforzare e consolare, ammonire e ringraziare il bambino per le sue prestazioni motorie,
catturandone l’attenzione al movimento ed al piacere che ne può ricavare. Al ritmo del movimento
prodotto e restituito resta affidata la continuità del dialogo tonico fra terapista e bambino.” 202
200
“ Quando un allievo è bloccato o resiste inconsciamente all’effettuare certi movimenti, Feldenkrais non lo forza mai
a superare coscientemente la sua resistenza inconscia, accompagna invece l’allievo nel suo schema persistente,
muovendo il corpo seguendo lo stesso schema di resistenza abituale. Arrivato al punto programmato di resistenza
acquisita, l’allievo scopre di essere libero di controllare lo schema di contrazione muscolare programmato in
precedenza. Feldenkrais sa molto bene che questo rilassamento muscolare non è un avvenimento localizzato nelle fibre
muscolari, ma a un livello superiore, nel sistema nervoso centrale. Il programma di resistenza muscolare è una risposta
acquisita che potrebbe essere rapidamente dimenticata. Feldenkrais utilizza la sua forza muscolare piuttosto che quella
dell’allievo per eseguire il movimento. L’allievo diventa cosciente e spettatore del suo movimento.” A. Degehet, Il
metodo Feldenkrais, cit., pp. 25 – 26.
201
A. Ferrari, Proposte riabilitative nelle paralisi cerebrali infantili,cit., pp. 89 – 90.
202
Ibidem, p. 123.
116
Il terapista diventa un feed back vivente che aiuta il paziente a modulare i suoi stati tonici e, se
possibile, avvicinarli a quelli normali o comunque alle sue reali potenzialità. Il bambino che riesce a
vivere queste esperienze può arrivare a verbalizzare la spasticità, egli la paragona spesso alla
sensazione di sentirsi “legato” e “prigioniero in un tubo elastico”.
Quando il corpo del bambino può vivere stati tonici differenti nel suo corpo non li dimentica, e
destruttura il programma patologico bloccante. Egli può acquistare più fiducia in se stesso e nasce
una nuova immagine del suo corpo più ampia e ricca di possibilità motorie e relazionali.203
E’ importante iniziare precocemente il trattamento per evitare che la patologia si fissi nel corpo
e nell’immagine del bambino e della sua famiglia in modo bloccante. Occorre spiegare a
quest’ultima l’importanza di non sollecitare troppo il bambino, ed insegnare l’approccio
corporeo che permetta di facilitare il movimento ed evita il tono muscolare esasperato.
L’intervento precoce, infatti, può prevenire il tono patologico secondario conseguente all’ansia
dell’ambiente (se il terapista sa contenere la situazione terapeutica). Infatti come sostiene
giustamente M. Pierro: “L’addestramento così concepito dovrà iniziare prima possibile per
orientare l’evoluzione dell’ecosistema prima che si configurino dei percorsi evolutivi nefasti
verso la negazione della realtà dei limiti imposti dalla patologia, e, conseguentemente, il mancato
utilizzo delle possibilità residue in soluzioni alternative.”204
Terapia
Il modo di rapportarsi con il paziente incide sul suo vissuto. Esso, quindi, è terapia così come
l’attività fisica proposta.
“Nella capacità di interagire sta la differenza fra essere terapisti e fare terap ia.
Interazione è la capacità di cercare e trovare affinità e sintonia, alleanza e sostegno, comprensione
ed empatia, apertura e conforto, dialogo e propositività; è la capacità di coinvolgere il bambino
nella propria proposta terapeutica per indurlo a modificarsi. L’interazione è uno spazio interiore in
cui accogliere, contenere, sostenere e restituire i reciproci sentimenti positivi. Essa è resa possibile
dalla capacità di ascolto e dalla disponibilità del terapista a modificare se stesso per potersi
comprendere con il bambino (sia nel senso di capirsi che in quello di prendersi insieme). Gli
esercizi (fare la terapia) si possono copiare e riprodurre, l’interazione è invece unica ed irripetibile,
perché non può prescindere dall’identità delle parti coinvolte. Senza interazione non si può parlare
di riabilitazione; possiamo accogliere un’interazione senza esercizi (come in campo
psicoterapeutico) quando si gioca con il corpo, ma non esercizi senza interazione, (come in terapia
fisica) che potrebbero essere in grado di modificare un organo od un apparato, mai un individuo.
L’esercizio disgiunto dalla relazione terapeutica rischia di rimanere fine a se stesso, in quanto non
serve ad interpretare i reali bisogni del bambino, le sue paure, le sue profonde mortificazioni e
delusioni.[…]. Poter unire l’interazione con l’esercizio è l’ideale obiettivo dell’atto terapeutico
(Scavo).”205
“Ritengo che qualsiasi forma di intervento rieducativo sia fondamentalmente indiretta, in quanto di
fatto agisce nel tempo sulle interazioni esistenti entro un ecosistema (al quale il bambino
appartiene) entrandone a far parte (nel bene e nel male).
L’intervento rieducativo può risultare (a posteriori) «riabilitante» solo nella misura in cui riesce a
203
“In questo modo l’attenzione viene spostata dal danno attuale alle potenzialità residue[…] al di là della presenza di
un danno e della sua diffusione, il bambino ha (o meno) un potenziale residuo sufficiente per superarlo in termini di
funzione?” M. Bottos, Paralisi cerebrale infantile. Diagnosi precoce e trattamento tempestivo, cit., pp. 31.
204
Marcello M. Pierro in A. Ferrari – G. Cioni, Paralisi cerebrali infantili. Storia naturale e orientamenti riabilitativi,
cit., p. 237.
205
A. Ferrari, Proposte riabilitative nelle paralisi cerebrali infantili,cit., pp. 88 – 89.
117
vincolare l’evoluzione storica delle abitudini interattive quotidiane, orientandole su un percorso più
favorevole all’incremento di autonomia, di autoorganizzazione e di evoluzione delle funzioni del
bambino.
In tal senso è opportuno non confondere la definizione di rieducazione con quella di
riabilitazione: non è più possibile oggi ridurre la complessità dell’intervento all’efficacia della
tecnica rieducativa utilizzata e del suo repertorio, più o meno ampio, di manovre ed esercizi.
Il «modo di» interagire del riabilitatore con il «modo di» interagire del bambino cerebroleso (con
il riabilitatore stesso, con i suoi caregivers) e dei suoi caregivers, costituisce ancor oggi una
variabile scarsamente esplorata e comunque non valutata nella definizione del successo/insuccesso
dell’intervento.”206
Proporre l’esercizio seguendo il modello di mondo del paziente rende un movimento rilevante e
importante per la persona. Possiamo proporre ad un bambino diplegico (spasticità agli arti inferiori)
un gioco in cui impara a sentire degli oggetti di diversa consistenza e materiale sotto i piedi, per
vedere chi ne indovina di più. Per fare questo il bambino deve poggiare bene i piedi a terra cercando
di superare la tendenza a stare sulle punte dei piedi. Un altro gioco che faccio con i bambini
emiplegici (spasticità in un lato del corpo), è quello di realizzare un disegno nel palmo delle mani,
ed il bambino per guardarli deve supinarle (portare i palmi in su). Sono esempi di rispetto del
modello di mondo di un bambino e delle sue attese.207
Qualche volta il bambino rifiuta anche questi approcci se l’ansia di ‘sbagliare’ o di manifestare la
‘difficoltà’ lo blocca. In questi casi il vissuto emotivo ha già aperto una grossa ferita nell’immagine
che il piccolo ha di sé. E’ necessaria molta pazienza con questi piccoli. Il terapista deve
gradualmente ristrutturare l’immagine fisica ed emotiva del bambino.
“Si può concludere che l’approccio relazionale rispetto al bambino consiste prima di tutto nel
garantirgli la possibilità di entrare in relazione con il proprio mondo interiore, e quindi anche con la
sofferenza e i vissuti depressivi legati alla condizione di malattia. Inoltre liberare le parti malate
dalla funzione di equivalente simbolico di oggetti danneggiati, può restituire dinamicità ai processi
mentali e consentire l’accesso a livelli di simbolizzazione sempre più evoluti.” 208 Per questi motivi
può occorrere un certo periodo prima di iniziare il trattamento vero e proprio. In caso contrario, se
non si rispettano queste dinamiche del mondo interiore del bambino, il terapista rischia di entrare in
risonanza con il bambino ed esercita le stesse pressioni che l’ambiente esercita sul piccolo (rischio
d’accanimento terapeutico).
In genere i bambini accettano di essere aiutati nell’esecuzione dei movimenti attraverso il gioco. In
questo modo si crea una deconnessione: il bambino per il piacere di giocare diminuisce le sue
resistenze ed accetta le facilitazioni di movimento. Egli lavora senza accorgersene e si evitano, per
quanto possibile, le imposizioni: “Metti bene i piedi.” “Cammina in posizione corretta e diritta.”
“Usa bene la mano. Ecc.”
Queste affermazioni che sembrano così ovvie e normali, tra l’altro, nascondono un grave tranello:
un bambino con problemi neurologici dalla nascita conosce solamente il movimento possibile
all’interno della patologia, il suo schema corporeo è condizionato da questa. Affermazioni come
quelle descritte sopra non possono richiamare in lui la nostra immagine, ma quella che ha vissuto e
206
Marcello M. Pierro in A. Ferrari – G. Cioni, Paralisi cerebrali infantili. Storia naturale e orientamenti riabilitativi,
cit., p. 230.
207
“Non ci concentreremo su alcune manovre tendenti ad evocare dei riflessi o sulla palpazione dei muscoli per valutare
il tono muscolare, ma neppure ci limiteremo ad osservare l’influenza di un ‘pattern motorio’ sulla motricità del bambino
ma vedremo i singoli movimenti geneticamente programmati come organizzatori di funzione motoria cognitiva e
affettivo-relazionale e d’altra parte proporremo al bambino compiti percettivi (seguire con lo sguardo, ecc.) in un
contesto per lui significativo e mediante un codice per lui intelligibile al fine di valutare la capacità del bambino di
superare i ‘patterns motori’ (m.g.p.) per scopi funzionali e di conoscenza.” M. Bottos, Paralisi cerebrale infantile.
Diagnosi precoce e trattamento tempestivo, cit., p. 29.
208
S. Maestro, Aspetti relazionali in famiglia e nel trattamento, in A. Ferrari – G. Cioni, Paralisi cerebrali infantili.
Storia naturale e orientamenti riabilitativi, cit., p. 205.
118
che conosce nel suo corpo, vale a dire l’atteggiamento patologico. È importante che terapisti e
genitori si ricordino di ciò per evitare richieste frustranti.209
E’ necessario aiutare il bambino nel ‘sentire’ nuovi atteggiamenti corporei, affinché diventino
patrimonio di uno schema corporeo (immagine del suo corpo) più ricco di possibilità, affinché egli
possa richiamarli dopo averli vissuti.
È un lavoro che richiede molta pazienza e delicatezza. Spesso i ragazzi più grandi verbalizzano la
loro difficoltà in queste esperienze. Essi affermano che in realtà hanno paura ad abbandonare la
spasticità, anche se essa causa tanti blocchi. In fondo la spasticità li accompagna da sempre e
quando essa ‘cede’ sembra loro di essere sull’orlo di un precipizio e la ‘richiamano’
immediatamente nel loro corpo. In alcune forme di PCI, infatti: “Il soggetto impara ad
autogenerare un certo tipo di informazioni percettive per ridurre l’intensità di altre informazioni che
vorrebbe non ricevere, sfruttando appunto la competizione fra le diverse informazioni […]
l’adozione della spasticità può essere un meccanismo in grado di rendere più tollerabile la
percezione del vuoto e per questo motivo può essere definita adattiva e distinta dalla spasticità di
natura antigravitaria, legata alla organizzazione della reazione di sostegno. Le variazioni del tono
generate in relazione ad una competizione percettiva si riducono non appena il paziente sia meglio
organizzato sul piano emotivo, indipendentemente dalla reazione di sostegno.” 210
Riuscire a far sperimentare nuove esperienze ed un corpo più ‘libero’ richiede, quindi, attenzione e
calma. Il terapista deve tranquillizzare il ragazzo, complimentarsi per la conquista ottenuta. Egli
deve far capire che è tutto sotto controllo e non deve dare carattere d’urgenza a ciò che è accaduto
per evitare l’ansia di non riuscire. Una volta aperta una nuova possibilità nel corpo, questa crescerà
e si manifesterà pienamente se sapremo calibrare con delicatezza le difficoltà e le potenzialità del
ragazzo.
Spesso accade che il paziente sperimenti spontaneamente questi momenti di ‘libertà’ durante la
vita quotidiana, e li riferisce con stupore. Qualche volta accade che in seguito a questi episodi, il
terapista ‘senta’ nel corpo del paziente un tono lieve ma costante di ‘difesa’: è la paura del ‘nuovo’
che egli sta sperimentando. In questi casi è importante rassicurarlo dicendo che in qualunque
momento egli può riprendere su di sé la spasticità, o la distonia, ecc. e che in tanti momenti della
sua quotidianità egli la può abbandonare volontariamente quando sente di voler vivere il suo corpo
in modo diverso. Quando, invece, egli sarà in uno stato emozionale (paura o gioia intensa) essa
ritornerà in tutta la sua forza, ma ciò non lo deve scoraggiare. Sappiamo che vi è un problema
neurologico di base e questo non può svanire. L’accettazione consapevole di ciò e il poter vivere
stati tonici diversi nel proprio corpo è segno di maggiore ‘libertà’ (Pentax).
Il cammino terapeutico non è lineare per sua natura perché spesso occorre rompere degli equilibri
per rendere fluido e possibile il cambiamento verso nuovi equilibri, lo scopo che deve guidarci è
l’attivazione delle potenzialità del paziente. “La cosa per noi più importante, è l’essere disponibile,
il sapere attendere, il non volere affrettare, in una preoccupazione di efficienza apparente che non è
altro che la proiezione dell’ansia, […] un’evoluzione che richiede tempi d’integrazione
209
“Il riabilitatore influisce infatti attraverso le opportune facilitazioni, situazioni e linguaggi, sulla scelta da parte del
bambino.[...]. In conclusione, il riabilitatore del bambino deve trattare quadri di complesse interazioni evolutive tra
‘aspetti motori’ e ‘aspetti motivazionali’, ‘aspetti intellettuali’ e ‘aspetti comunicativi’; spesso questi quadri appaiono
mascherati dalla formale acquisizione da parte del bambino di un linguaggio che copre nel superficiale e immediato
scambio sociale, profonde distorsioni e incoerenze percettive e cognitive.
Ad esempio è frequente il riscontro di bambini cosiddetti ‘spastici’ che, pur frequentando con relativo profitto la scuola
ed essendo in grado di conoscere ‘concettualmente’ le diverse parti del corpo, non sappiano, su richiesta verbale di
movimento da parte del terapista, ‘dove si trovi’ e ‘quale sia’ la propria gamba o il proprio piede, o da che parte iniziare
il movimento richiesto; oppure, davanti al loro ripetuto insuccesso nel copiare il disegno di un rombo, altri bambini
bene verbalizzano il proprio problema: ‘perché la mia mano non fa ciò che i miei occhi vedono?’.Questi due esempi
illustrano bene alcuni differenti e peculiari usi del linguaggio in bambini cerebrolesi e possono fare intuire quali
‘trappole’ possono nascondersi dietro un uso non controllato del linguaggio da parte del riabilitatore”. M. Pierro - P.
Giannarelli - P. Rampoldi, Osservazione clinica e riabilitazione precoce, cit., pp. 58-59.
210
A. Ferrari, Proposte riabilitative nelle paralisi cerebrali infantili, cit., p. 59.
119
sufficientemente lunghi, per permettere l’investimento e il progressivo superamento del piacere
legato a ciascuna tappa.”211
Utilizzando il prolungamento durante le facilitazioni motorie noi possiamo seguire, ‘sentire’ e,
quindi, rispettare il paziente nel suo cammino in questi delicati ed a volte drammatici cambiamenti.
Presenza-trasparenza-prudenza
Per insegnare o fare terapia occorre coerenza tra ciò che s’insegna e quello che si vive e crede
realmente.212 Quello che s’insegna deve far parte della propria esperienza interiore: in questo
modo l’immagine interna di chi guida ‘modella’ il linguaggio verbale (digitale) e quello corporeo
(analogico) e chi ascolta entra in risonanza con l’immagine interna (prolungamento mentale).213
Questo fenomeno accade, consapevolmente o no, nella situazione terapeutica e nella vita
quotidiana.214
È sufficiente ricordare che il nostro modo di osservare gli eventi (punto di vista) e di
conseguenza di agire, li condiziona. Quest’argomento rimette in causa il concetto d’obiettività
nell’approccio diagnostico e terapeutico. Quando visitiamo un bambino, applichiamo un protocollo
appreso nel nostro cammino professionale, ma quanto siamo consapevoli dell’impatto della
situazione nei confronti del bambino?
Egli giunge alla nostra osservazione calmo, spaventato, ansioso, affamato, desideroso di fare
mostra di sé, noncurante dell’ambiente, assente o irritato?
Queste sono solo alcune variabili che possono influire sulla risposta ai nostri stimoli.
L’ambiente fisico dove lo accogliamo può essere dispersivo, troppo luminoso o freddo, ed il
bambino può sentirsi insicuro perché nelle mani di un estraneo oppure pronto a sfidare la situazione.
L’ansia, l’atteggiamento e le attese dei genitori, possono favorire o bloccare l’approccio.
La nostra capacità di avvicinare il bambino può dipendere dal tempo a nostra disposizione, dalla
stanchezza, dal desiderio di mettere il piccolo a proprio agio, dalla paura di un coinvolgimento
eccessivo, dal desiderio di finire la giornata lavorativa, dal piacere di scoprire cosa il bambino sa
fare, ecc.
Questi ed altri fattori incidono in modo decisivo sull’andamento del nostro approccio, molti sono
non coscienti o non sono tenuti in debita considerazione, soprattutto quelli che riguardano
l’osservatore.
Imparare a gestire una situazione terapeutica, come si può capire, è molto complesso e questo
richiede un’attenzione particolare verso quei problemi che il terapista si ritrova a dover risolvere
211
A. Lapierre – B. Aucouturier, La simbologia del movimento,cit., p. 32.
“La coerenza del comportamento dell’adulto offre al bambino patterns ‘coerenti’ di risposte alle sue proposte. Questi
patterns di risposte indirizzano l’azione conoscitiva del bambino favorendo lo stabilirsi di connessioni significative tra
il mondo esterno ed il suo agire o il suo essere.” M. Pierro - P. Giannarelli - P. Rampoldi, Osservazione clinica e
riabilitazione precoce, cit., pp. 121.
213
Anche il terapista deve sperimentare il piacere e la consapevolezza del proprio corpo per arricchire la propria
esperienza e favorire i cambiamenti desiderati in se stesso e nell’altro. Solo così egli potrà aiutare il paziente a divenire
consapevole delle sue potenzialità, potrà guidarlo a provare piacere nell’imparare modi nuovi e strategie in accordo con
le sue risorse. Conoscendo noi stessi la strada si può insegnare al paziente come imparare ad imparare in ascolto del
suo corpo per sperimentarlo in modo nuovo senza ansia e nel rispetto del suo ‘stato neurologico’.
214
Ciò è importante anche nel campo affine della rieducazione psicomotoria: “Come è possibile che l’insegnante situi la
sua attività educativa a livello cognitivo utilizzando il vissuto senso-motorio senza prima aver educato se stesso alla
dimensione psicomotoria, alla corporeità? Come può un operatore proporre un’educazione integrale, intervenire cioè su
tutti gli aspetti che compongono la personalità del bambino se non ha mai vissuto e ricevuto un simile modello?
Riuscirà a farlo dal momento che la sua formazione professionale è stata ed è improntata a criteri cognitivo-mentali e
sull’identificazione del suo se con il suo ruolo-sapere? Gli insuccessi e gli abbandoni registrati nell’attuazione del
progetto di un’educazione psicomotoria, oltre che alla mancanza di una competenza polivalente, non sono forse da
ascrivere anche alla completa assenza di una formazione della corporeità dell’educatore?” C. Romano, Corpo itinerario
possibile. Una metodologia di formazione per gli insegnanti, Giunti & Lisciani Editore, Teramo 1988, p. 27.
212
120
spesso da solo. Essi riguardano l’approccio terapeutico oltre che la competenza tecnica e
specialistica.215
In questa sede posso accennare ad alcune delle qualità, che il terapeuta in generale può e deve
tenere in considerazione se vuole favorire un approccio consapevole.
Occorre che egli sia presente al trattamento e trasparente con se stesso e con l’altro: il
terapista deve sapere cosa egli stesso vive e sente di fronte al paziente, consapevole che i
meccanismi della meta comunicazione corporea possono facilitare o bloccare l’intervento
terapeutico.216 Egli deve saper calibrare il cammino che sta vivendo l’altro attraverso gli indicatori
fisiologici dello psichismo, per essere prudente quando il bambino o il paziente ha difficoltà
fisiche o emotive e saper intervenire al momento opportuno.
Presenza vuol dire anche essere lì, nella stanza con il paziente e non altrove (fisicamente o
mentalmente). Trasparenza significa saper accogliere la propria e l’altrui difficoltà, cercare
l’occasione per crescere e non per nascondersi. “Molti terapeuti credono che uno fra gli eventi più
importanti in psicoterapia sia una certa risonanza fra l’inconscio del cliente e quello del terapeuta.
Tale risonanza sarà particolarmente efficace se tanto il terapeuta quanto il cliente saranno disposti a
rinunciare ai loro ruoli, maschere, difese, e a qualsiasi altra cosa li divida, cosicché l’incontro
terapeutico diventi, come lo descrive Laing, ‘ un autentico incontro di esseri umani’.” 217 Prudenza
se s’incontrano situazioni difficili che hanno lasciato il segno nel nostro passato e si ripresentano.
Per il terapista è importante prendere coscienza degli stati d’animo che vive (presenza) per
impedire che interferiscano nell’incontro con il paziente causando incomprensioni, tensioni,
accanimento terapeutico o fuga dalla relazione.
Può umanamente accadere di non essere disponibili perché stanchi o per problemi personali. La
consapevolezza di ciò non deve creare ansia, ma comprensione verso se stessi e verso l’altro. 218 È
importante essere disponibili anche verso se stessi in caso contrario rischiamo l’annullamento
(perdere il proprio Asse, la propria centratura).
Il terapista può apprendere a calibrare se stesso e l’altro, ed essere guidato attraverso la
supervisione a separare i suoi vissuti da quelli del paziente. In questo modo egli non trasferisce sul
paziente i suoi modelli, affetti e credenze, deformando la realtà del paziente stesso. Il terapista
dovrebbe essere in grado di riconoscere quale tipo di risonanza avviene in determinati momenti
della terapia tra la propria esperienza e quella del paziente: che cosa richiamano nel terapista da un
punto di vista emotivo-affettivo, il vissuto del paziente, la sua patologia, il suo modo d’essere e di
rapportarsi.
Il fenomeno di risonanza, se non è consapevole, può amplificare le difficoltà e il disagio del
paziente nel caso in cui richiama nel terapista vissuti emotivi e problematiche personali non risolte.
Per questi motivi oltre alla preparazione professionale tecnica si dovrebbe dedicare molto tempo
anche alla formazione personale del terapista, e successivamente alla supervisione per garantire la
serenità e l’efficacia dell’intervento terapeutico.
215
Terapisti diversi trasmettono al paziente sensazioni e vissuti differenti pur utilizzando le stesse manovre o lo stesso
metodo. Durante i seminari sull’approccio tonico-emozionale si fanno vivere diverse esperienze su questo fenomeno di
risonanza inconsapevole.
216
“Il terapeuta deve continuamente controllarsi, e rendersi conto di come reagisce a confronto col malato. Poiché non
reagiamo solo con la coscienza, dobbiamo chiederci sempre: questa situazione come è vissuta dal mio inconscio?” C. G.
Jung, Ricordi, sogni, riflessioni di C. G. Jung, Rizzoli, Milano 1979, p. 172.
217
F. Capra, Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente, cit., p. 317.
218
“Bisogna che l’operatore viva egli stesso, nelle comunicazioni infraverbali, la sua relazione al proprio corpo,
all’oggetto, allo spazio, all’altro, al gruppo, che sia confrontato a queste situazioni non solamente per comprendere ciò
che vive il bambino, ma pure per ritrovarvi la propria autenticità, prendervi coscienza delle proprie pulsioni, dei divieti
e delle difese, svilupparvi la propria disponibilità.” C. Romano, Corpo itinerario possibile. Una metodologia di
formazione per gli insegnanti,cit., p. 29.
Essere consapevoli dei propri moti in se stesso e nella relazione è fondamentale per ri-conoscere la propria difficoltà e
quella dell’altro e per essere coscienti del fatto che la propria immagine agisce sul paziente.
121
Rispettando questi requisiti il terapista può guidare efficacemente il paziente con il suo linguaggio
verbale e corporeo indirizzando le sensazioni alterate da fattori fisici, emotivi e educativi
(ambientali) del paziente verso la ‘normalizzazione’.
Torsione (il blocco)
Quando un bambino ha dei problemi motori o d’altra natura, i genitori possono perdere la capacità
di guidarlo e di educarlo. Nasce la paura di non essere “adeguati” verso i problemi che presenta il
bambino: non sanno quando possono o devono richiedere qualcosa ed, alcune volte, le richieste
sono troppo elevate per le possibilità del bambino.
In questi casi i genitori subiscono un ‘blocco’. Essi non riescono a gestire la situazione a livello
fisico ed emozionale impedendo lo sviluppo delle proprie potenzialità e quelle del bambino. Per
questo motivo spesso i piccoli pazienti hanno delle possibilità ‘bloccate’ oltre il problema
neurologico. E qualche volta può accadere che l’ambiente manipoli (inconsapevolmente) la terapia,
per non rompere il fragile equilibrio interno che spesso si struttura attorno alla patologia.
“La nostra esperienza clinica conferma che il lavoro con la famiglia è essenziale e deve
rappresentare uno dei poli dell’intervento riabilitativo. L’obiettivo centrale dell’alleanza terapeutica
è quello di spostare la polarizzazione dei genitori dall’esclusivo recupero della funzione motoria e
riconquistarli alla globalità dei bisogni del bambino. In una nostra recente ricerca sulle interazioni
tra un gruppo di madri e i loro piccoli neurolesi al momento della prima consultazione, notavamo le
difficoltà delle madri a mettersi in relazione con un’immagine integrata del figlio. Nella maggior
parte dei casi dominava l’immagine di un bambino danneggiato, indifeso, da manipolare con
delicatezza: nelle sequenze interattive era possibile osservare la stimolazione tattile continua, quasi
automatizzata delle parti lese. La «manina» o il «braccino» plegico diventavano il canale di
scambio più investito nella relazione. L’oggetto, scarsamente utilizzato nel gioco col bambino,
sembrava svolgere una funzione di prolungamento della presenza materna, piuttosto che quella di
sostituto. L’evento morboso e la patologia organizzavano la relazione reale e quella fantasmatica.
Nella nostra esperienza questo tipo di vissuti crea attorno al bambino una rete di identificazioni
proiettive, difficile da «sbrogliare» senza un lavoro parallelo con la madre e sulla relazione.” 219
I genitori, quindi, sono spesso allo stesso livello del bambino anche se, ovviamente, manifestano
la loro difficoltà in modo differente.
Lo stesso accade nell’ambiente del paziente adulto; iperprotezione o abbandono può aggravare il
quadro clinico.
I familiari, quindi, sono allo stesso livello del paziente poiché l’immagine di questo è il
riflesso o risonanza dell’immagine dell’ambiente in cui vive (valori, credenze).
La comprensione di questi meccanismi permette di capire che il disagio (o la patogenesi del
disagio) è da connettere con la struttura sociale. Il bambino non nasce con l’immagine di
“bambino con problemi”. Questa si definisce nel confronto con una realtà strutturata secondo
il modello sociale tipico della cultura in cui il bambino cresce e si relaziona.
Il terapista stesso, se entra in risonanza passiva con l’ansia dell’ambiente o della prestazione,
rischia di perdere la sua centratura e quindi le capacità d’approccio e professionali, ritrovandosi
bloccato come il bambino ed i suoi genitori al loro stesso livello.
Il bambino sviluppa relazioni cognitive ed affettive per rispondere al suo ambiente. E’
quest’ultimo, infatti, a dare significato alla qualità di queste relazioni.
219
A. Ferrari – G. Cioni, Paralisi cerebrali infantili. Storia naturale e orientamenti riabilitativi, cit., p. 206.
122
Il bambino (quale essere vivente) è alla ricerca di un suo equilibrio dinamico interno (omeostasi) e
della possibilità di esprimerlo in modo creativo. L’organismo umano è dotato, infatti, di un istinto
naturale che guida le sue scelte al fine di preservare quest’equilibrio. Condizioni ambientali e
soprattutto sociali possono inibire questa capacità per seguire modelli culturali precostituiti, essi
non sempre coincidono nei tempi e nei modi alle necessità biologiche e psicologiche del bambino.
Attraverso l’educazione egli può essere aiutato a raggiungere quest’equilibrio oppure no.
L’intervento del terapista dovrebbe permettere al bambino di esprimere le sue potenzialità nel
pieno rispetto della situazione neurologica e funzionale del piccolo: egli deve favorire la
costruzione o la ricostruzione di un’immagine equilibrata del paziente attraverso un’adeguata
valutazione funzionale e comprendere le reali potenzialità che si possono sviluppare. Il terapista può
dimostrare che il paziente gradualmente può migliorare i suoi movimenti utilizzando le metodiche
più opportune. L’approccio al movimento deve permettere al paziente di entrare in un’attitudine
d’ascolto del corpo. Il terapista lo invita ad utilizzare il minore sforzo possibile per non sollecitare
la patologia e per esplorare nuovi movimenti e sensazioni. Ciò è importante soprattutto per i
bambini con problemi primariamente dispercettivi, per i quali la semplificazione del compito
motorio e la modulazione delle informazioni proprio ed esterocettive è importante quanto rispettare
i loro tempi.
Come ho già detto, spesso il bambino o il paziente adulto tenta di superare la sua difficoltà
mettendo più forza. In questo modo i movimenti patologici si accentuano a causa della lesione del
sistema nervoso centrale che impedisce un adeguato controllo. La ripetizione di questi sforzi fissa
nel tempo la patologia e l’immagine deficitaria del paziente (rafforzata dall’ansia dell’ambiente). Il
paziente, in modo particolare il bambino, perde la possibilità di vivere e ascoltare il proprio corpo in
modo nuovo e spontaneo perché subito è imprigionato dall’immagine che l’ambiente gli rimanda
non appena ci si accorge che qualcosa non va in lui. Non appena si manifesta un movimento
‘strano’ il bambino sente la carica di tensione nel corpo, nella voce e nello sguardo dei suoi genitori
ed impara a trasferirla su di sé (risonanza fisica ed emozionale). In questo modo il bambino perde la
possibilità di sperimentare serenamente i movimenti del suo corpo. “Nel bambino con PCI la
paralisi non è solo una carenza da riempire somministrando progressivamente quanto è stato
perduto, non è solo una distorsione del movimento da correggere con il perfezionamento dei gesti e
delle posture, non è solo un ritardo da recuperare spingendo lo sviluppo attraverso tappe obbligate,
non è solo una incompetenza gestazionale da colmare giustificando simbiosi e fusione: è un’altra
strada percorsa dal bambino nella costruzione delle proprie funzioni adattive che siamo comunque
chiamati a considerare sviluppo.
Il sostegno, intervento tecnico ma non terapeutico in quanto non mirato a modificare la paralisi ma
a promuovere la qualità della vita ed il benessere del paziente, è un compito complesso erogato
senza soluzioni di continuità dalla equipe riabilitativa che può anche avvalersi in definiti momenti e
per precisi obiettivi di figure e strumenti tecnici (l’igiene motoria, l’educazione posturale,
l’assistenza respiratoria, la messa a punto degli ausili, ecc.), ma indirizzati verso un differente
scopo. La parte più importante dell'intervento di sostegno è però rappresentata dalla abilitazione dei
familiari alla care del proprio bambino, mansione che non sono stati geneticamente e culturalmente
preparati ad assolvere e senza la quale il bambino non può vivere e crescere in condizioni di
benessere. Essa è fondata sulla capacità di comprenderne i bisogni, di decifrarne i codici di
comportamento, di accoglierne le proposte, di interpretarne i messaggi per quanto confusi e distorti
questi possano essere, di rispettarne l’impegno a costruirsi una competenza adattiva, concedendogli
tempo ed accettandone con pazienza i limiti.”220
Il terapista deve permettere al bambino di sperimentare il suo corpo senza l’ansia di entrare in
competizione con esso e quindi con se stesso. Quest’attitudine d’ascolto del corpo è molto simile a
quello che si sperimenta con il metodo Feldenkrais.
Poiché il paziente presenta problemi neurologici, il terapista può aiutarlo ad entrare in questa
attitudine attraverso le facilitazioni di movimento, cioè utilizzando i metodi riabilitativi. Egli deve
220
A. Ferrari,Proposte riabilitative nelle paralisi cerebrali infantili,cit., pp145 - 146.
123
restare in ascolto del tono muscolare del bambino per ‘sentire’ quando egli usa irradiazioni
muscolari (tensioni diffuse in distretti lontani del corpo) o compensazioni non necessarie (posizioni
alterate del corpo). L’aptonomia ed il prolungamento sono preziosi per guidare senza invadere e per
cogliere quei minimi cambiamenti corporei che ci dicono cosa vive il bambino e se ha veramente
ottenuto un cambiamento.
Quando il bambino o l’adulto riesce ad essere in ascolto del proprio corpo si ha un’immediata
trasformazione: una diminuzione del tono muscolare patologico, una migliore coordinazione dei
movimenti ed uno stato emotivo di serenità (può accadere che il paziente si addormenti per alcuni
istanti oppure manifesti reazione di meraviglia). Questi vissuti durano per qualche tempo, ma il
paziente non ritorna come prima, egli ha sperimentato qualcosa di nuovo nel suo corpo, ed il corpo
non dimentica.221
Quale approccio
Alcune volte ho visto arrivare pazienti grandi e piccoli che rifiutavano l’intervento terapeutico
perché reduci da terapie vissute in modo coercitivo. Essi si difendevano irrigidendo i muscoli e
bloccando il loro corpo inconsciamente perché nel loro vissuto avevano collegato il momento
terapeutico ai movimenti cruenti da loro subiti nel passato.
Riuscire a giocare con le immagini del mondo di un paziente può essere persino piacevole in
terapia: M.E. è una bambina vivace e simpatica di cinque anni, con spasticità agli arti inferiori. Ella
ama molto giocare all’alberello, e per fare ciò deve piantare bene a terra le radici (i suoi piedini
spastici) per succhiare l’acqua e il cibo dalla terra, per sentire le formiche e stare ben ferma se il
vento soffia. Le piace fare le sfilate di moda, e ad ogni seduta di terapia indossa vestiti diversi. Ha
imparato a muoversi “in un certo modo” su un’immaginaria passerella se vuole essere una modella
di successo, vendere i vestiti ed essere fotografata, ed io la guido affinché lei possa realizzare il suo
desiderio.
L’approccio terapeutico verso la patologia non deve fare dimenticare che dietro un quadro clinico
vi è una persona. Il rischio di questa dimenticanza è l’accanimento terapeutico. L’ansia che la
patologia non risponda alle nostre manovre può minare l’immagine di terapisti e porta ad esasperare
la tecnica. Accanirsi contro la patologia può accentuare paradossalmente lo stato di tensione
tonico-emozionale del bambino esasperando la patologia stessa.
Dagli studi delle neuroscienze conosciamo lo stretto legame tra stato emotivo di paura e difesa e le
reazioni toniche muscolari, viscerali e ormonali che sono attivate dal cervello emotivo. 222 Sappiamo
che un bambino con danno neurologico ha inevitabilmente un controllo alterato del comportamento
motorio, ma quando egli vive situazioni di difficoltà motoria ed emotiva è quasi impossibile per lui
qualunque controllo anche minimo del suo corpo e delle sue reazioni.
Si deduce facilmente che una terapia che suscita stati tonici emozionali negativi o cruenta
accentui in modo esasperato il suo quadro.
In alcuni pazienti con patologie severe può essere impossibile raggiungere obiettivi d’autonomia.
In questi casi il terapista deve stare attento a non cadere nell’ansia di dover fare terapia solo per
colmare le richieste dell’ambiente. Con delicatezza egli può far comprendere alle persone che sono
vicine al paziente i limiti neuro-fisio-psicologici che lo condizionano e la necessità di rispettarli.
221
Nella terapia della Gestalt l’approccio al paziente è simile: “ Per sbloccare le esperienze bloccate del cliente, il
terapeuta della Gestalt dirigerà l’attenzione su vari modelli di comunicazione, sia interpersonali sia interni, nell’intento
di intensificare la consapevolezza del cliente nei confronti dei processi fisici ed emotivi implicati. Questo acuirsi della
coscienza è inteso a determinare lo stato speciale in cui i modelli esperienziali diventano fluidi e l’organismo comincia
il processo d’auto-guarigione e d’integrazione.” F. Capra, Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente, cit.,
pp. 318.
222
Cfr. J. LeDoux, Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni,cit. – Cfr. D.Goleman, Intelligenza emotiva, cit.
124
La finalità del nostro lavoro non è di torturare un bambino o una persona adulta solo per colmare
le nostre ansie o quelle dell’ambiente, ma di farlo vivere bene nel suo corpo, rispettare il suo mondo
e, se possibile, arricchirlo di nuove esperienze.
Il terapista con una buona conoscenza dei metodi riabilitativi e della lettura del corpo, può favorire
in modo efficace un processo terapeutico che definisco naturale. Egli attraverso la PNL, lo studio
delle CM, l’Aptonomia, può comprendere (prendere su di sé) il cammino che il bambino sta
facendo e può intervenire nel momento più opportuno. Non appena il terapista coglie un punto di
tensione nel corpo del paziente, lo aiuta a portare lì la sua attenzione per favorire il rilasciamento
attraverso una “calibrata facilitazione”.
Questi sono piccoli passi che cambiano l’immagine interna del bambino; gli permettono di
scegliere tra la spasticità e la possibilità di imparare a richiamare nel proprio corpo sensazioni di
maggiore libertà. Piccoli passi rispettosi del bambino, e soprattutto efficaci.
Non si vuole sostenere che la patologia possa sparire, ciò è impossibile, ma in alcune situazioni e
poi sempre più in autonomia il bambino può gestire meglio il suo corpo, se stesso e la realtà. Così
come la patologia interferisce sulla ricchezza di esperienze è anche vero che nuove possibilità
motorie, di comportamento e relazionali creano nuovi circuiti cerebrali che le possano esprimere.
Alcuni metodi definiscono, secondo il loro punto di vista, l’approccio tonico al paziente attraverso
adeguate manovre; ad esempio il metodo Kabat parla di trazione e di stabilizzazioni dove è
importante la calibrazione della forza tra terapista e paziente. Il metodo Bobath utilizza le
facilitazioni attraverso i “punti chiave” per ridurre, controllare il tono muscolare del paziente e
favorire il movimento “funzionale”. Il Perfetti aggira l’ostacolo del movimento patologico
richiedendo al paziente, prima guidato e poi in autonomia, il controllo volontario sulle irradiazioni
patologiche. In questo modo avviene un apprendimento cognitivo del movimento libero dai fattori
che lo alterano. In sintesi questi approcci permettono un cambiamento nel tono muscolare e quindi
nel movimento utilizzando l’esperienza di nuove sensazioni possibili (un nuovo posizionamento
vissuto dal paziente durante la terapia). Quest’approccio è corretto, esso permette di introdurre una
perturbazione nello schema patologico che il bambino ha appreso muovendosi spontaneamente a
causa della lesione neurologica, ma gli interventi tecnici seguono dei protocolli d’applicazione che a
volte non tengono in considerazione i ritmi, i tempi, l’ambiente, ecc., in cui si svolge l’approccio
con il bambino o con il paziente adulto. Essi sono applicati in modo ‘asettico’ come se questo fosse
garanzia d’oggettività. In realtà l’operatore incontra una dimensione umana, quella del paziente e la
sua che d’oggettivo non hanno proprio nulla.223
Nell’approccio medicale classico non si da sufficiente importanza, o si ignora del tutto, il
fatto che spesso gli schemi di movimento patologici d’origine lesionale, si fissano a causa
dell’atteggiamento emotivo che si lega al vissuto motorio e si demanda tutto alla causa
neurologica. Come ricorda giustamente il Boscaini vi è un ipertono o ipotono primario dato
dall’evento lesione ed un ipertono ed ipotono secondario dovuto ad una situazione emotiva o
affettiva alterata. “La distinzione tra il parametro neurologico e quello relazionale è di fondamentale
importanza per la diagnosi e la riabilitazione. Il primo richiede interventi fisici, prevenzione e cura
per ridurre la disabilità. Il secondo è definito in rapporto alla società che pone il disabile in
situazioni di emarginazione fisica e psicologica determinando l’handicap nella persona direttamente
interessata e nel suo ambiente.”224
In questi casi il terapista può intervenire, ma deve avere la consapevolezza d’essere ‘ambiente’ per
il bambino.225 Egli deve capire l’influenza che esercita sul piccolo consciamente o meno. 226 Se oltre
223
Di fatto come sostiene Jung: “ Nessun artificio può evitare che il trattamento sia il prodotto di un reciproco
influenzamento, al quale partecipa l’intera personalità sia del paziente sia del medico.” C. G. Jung, Il problema
dell’inconscio nella psicologia moderna, Einaudi, Torino 1959, pp.23 –24.
224
F. Boscaini, La triade handicappata: il ‘diverso’, la famiglia, la società. Analisi e problematiche psicopedagogiche-riabilitative, cit., p. 18.
225
“Una coerente posizione ‘neurologica’ del riabilitatore esamina fase per fase l’evoluzione adattiva del rapporto
scopi/strumenti del bambino all’interno del suo ambiente sociale, di cui anche il riabilitatore entra a far parte
attivamente.
125
al danno primario, dovuto al danno neurologico, l’ambiente ha determinato inconsapevolmente un
danno secondario, aiutando la patologia neurologica a fissarsi o ad esasperarsi, il terapista può
intervenire consapevolmente creando un ambiente fisico (facilitazioni di movimento) e mentale
(un’immagine interna) che permetta al bambino di liberarsi dei suoi blocchi. Non appena il terapista
ha un’immagine ben precisa delle potenzialità del piccolo, tutto il suo corpo si adatterà
all’immagine interna e spontaneamente guiderà il bambino in modo coerente. In questo modo egli
può utilizzare l’esperienza professionale, acquisita attraverso le metodiche, e tutto il suo corpo per
trasformarsi in strumento terapeutico.227
Il terapista può determinare cambiamenti ancora più profondi e duraturi, se riesce a capire e
arricchire le credenze che guidano il bambino ed il suo mondo. Mi viene in mente l’esperienza
vissuta con il piccolo M. Questo bimbo giunge alla mia osservazione a diciotto mesi. M. è in
trattamento fisioterapico dall’età di nove mesi con scarsi risultati. Il bambino presenta una buona
motilità nella parte superiore del corpo, ma gli arti inferiori sembrano completamente abbandonati,
flaccidi con i piedi in torsione interna. Quando il piccolo si muove o è messo in posizione seduta,
gli arti inferiori non seguono il movimento. Egli non è in grado di rotolare o di strisciare. Gli arti
inferiori sembrano ‘tagliati’ dal resto del corpo come nelle patologie da lesione flaccida del
midollo, ma l’anamnesi riferita in cartella non giustifica questo quadro clinico.
Chiedo alla mamma altre informazioni sulla storia del bimbo. La madre racconta che il figlio alla
nascita presenta problemi congeniti gravi, per questo motivo ha subito un intervento al cuore a
pochi giorni di vita ed un primo intervento per piede torto congenito bilaterale a tre mesi. In seguito
ad un secondo intervento ai piedi, all’età di sette mesi, la madre riferisce uno strano comportamento
del bimbo: non appena il piccolo si sveglia dall’anestesia da pugni alle sue gambe ingessate e poi
alla madre. Da quel momento il bambino sembra ignorare le sue gambe.
Queste ultime parole della madre mi colpiscono e mi aiutano a comprendere il dramma che vive il
bambino. Capisco anche il suo rifiuto quando è toccato e stimolato agli arti inferiori e mi chiedo
interiormente come io vorrei essere aiutato se vivessi un trauma del genere. Mi rendo conto che
l’approccio fisioterapico tradizionale è vissuto dal bambino come un atto di violenza verso quella
parte del corpo che il bambino rifiuta e verso la quale ha eretto un muro d’indifferenza per evitare
che lo faccia soffrire ancora.
Mi fermo un attimo a riflettere ed inizio a fare delle carezze alla parte superiore del corpo del
piccolo. Parto dal torace e risalgo verso le spalle e le braccia lentamente come un’onda, cercando di
fargli sentire la mia presenza e comprensione, senza chiedergli nulla. Vado avanti così per alcune
sedute alternando giochi sul tappeto alle carezze. Poi le mie mani scendono verso l’addome per poi
risalire. Sento che il bambino accetta questo modo di essere toccato, ed è sorpreso che io non avanzi
alcuna richiesta. Lentamente le mie mani cominciano ad alternare movimenti scendendo dal torace
verso le sue cosce, ed infine arrivo ad accarezzare le sue gambe e i suoi piedi. Il bambino rimane
In altre parole: il riabilitatore non può esimersi dal fornire adeguate risposte e spiegazioni anche alla ‘passività’ del
bambino, e/o al suo desiderio e piacere di tentare, alla individualità delle sue reazioni, al successo e alla frustrazione. In
ciò egli è costretto a imparare ad usare individualmente in modo corretto i premi, le punizioni, gli incitamenti e i rifiuti,
assumendosi la responsabilità di modulare le emozioni del bambino rispetto alle differenti situazioni, per condurlo ad
apprendere e a ricordare (con tutta la significatività motivazionale che questo suo ruolo comporta nella storia del
bambino stesso).” M. Pierro - P. Giannarelli - P. Rampoldi, Osservazione clinica e riabilitazione precoce, cit., p. 60.
226
Il bambino messo in condizioni adeguate può manifestare capacità insospettate di organizzarsi. Altri, che
apparentemente non presentano problemi particolari, possono avere difficoltà ad eseguire compiti semplici. Molto è
dovuto alla situazione-ambiente-terapista che in tal senso può essere facilitante o inibente.
227
Lo studio dell’anatomia, della fisiologia e della fisiopatologia dell’apparato locomotore o del SNC umano non
implica necessariamente avere coscienza del vissuto del movimento. La sensazione e la consapevolezza del movimento
è qualcosa di diverso della conoscenza intellettiva di certi meccanismi e processi. Per capire cosa vive e sente il
paziente il terapista deve sperimentare e sentire il proprio movimento e come poterlo modificare, deve riscoprire la
meraviglia di viverlo anche sbagliando così come apprende il bambino piccolo (apprendimento organico descritto da
Feldenkrais). Non esiste il movimento astratto come è definito nei libri di anatomia o di chinesiologia. Ognuno di noi
ha sensazioni, emozioni e scopi propri nel vivere il movimento che esegue con uno stile proprio e personale ed esprime
attraverso di esso l’immagine personale e la sua relazione con l’ambiente.
126
sempre in ascolto, godendo per questo modo di essere toccato. Dopo alcune settimane il bambino
diventa sempre più vivace ed inizia a muovere le gambe. Poi inizia a rotolare e a strisciare per il
piacere di giocare. Verso i tre anni, con gran meraviglia dei medici che lo seguono, il bambino
raggiunge la posizione eretta ed il cammino nonostante le deformità ai piedi. A quattro anni M.
dove subire un intervento ai reni, ma vive quest’esperienza serenamente perché lo ‘abbiamo
preparato’ assieme alla mamma.
Il bambino o il paziente adulto cambia se può liberarsi della patologia secondaria, legata al
vissuto emozionale (immagine di sé) distorto, cambia anche il modo di vivere la sua difficoltà.
Egli si sentirà libero da costrizioni imposte dall’esterno e da se stesso. Potrà vivere il suo
corpo senza essere sempre in tensione, questo inevitabilmente lo porterà a gestirlo
liberamente.
Riflessioni sulla terapia
Nell’approccio con i bambini o con gli adulti il terapista deve tenere in considerazione alcuni
parametri.
Secondo un’ottica sistemica i movimenti che il paziente sperimenta devono essere significativi ed
efficaci nel suo ambiente.228 Per questo motivo il terapista deve saper cogliere ‘l’intenzione
positiva’ dell’ambiente e fare in modo di attivare nel paziente dei comportamenti motori efficaci atti
a soddisfarla. Può essere gratificante facilitare nel bambino un movimento funzionale e nel paziente
adulto le attività finalizzate all’autonomia motoria.
In alcuni casi, però é la ristrutturazione dell’immagine dell’ambiente familiare a creare le
condizioni adatte a motivare lo sviluppo di nuove potenzialità, poiché alcuni atteggiamenti e
credenze possono bloccarle.
Occorre che il bambino abbia anche la possibilità di esprimere e sperimentare se stesso secondo il
“suo” modo d’essere, al di fuori di rigidi schemi imposti. Questo può diventare un modo
d’approccio creativo nel quale siamo noi ‘normali’ a cercare nuove strategie d’intervento e modi di
essere. Un atteggiamento simile permette al bambino di poter esprimere il “suo” movimento senza
l’ansia di sbagliare, di essere giudicato e corretto. Quando ciò accade, anche se il bambino si muove
all’interno della patologia, il movimento che viene fuori è libero da tensioni emotive superflue che
lo esasperano. In modo naturale, il bambino lasciato libero di muoversi, canalizza spontaneamente il
“suo” movimento verso modi più funzionali e si fa guidare volentieri dal terapista per raggiungere i
suoi obiettivi (gioco). “Poiché il bambino con PCI non può appropriarsi delle carte della normalità,
dobbiamo essere noi ad imparare a giocare con le carte della patologia, cercando di capire come
lavora il suo cervello poiché questa è in realtà l’unica possibilità concessa.”229
Per le stesse motivazioni non si può e non si deve trasformare tutto il tempo e lo spazio di un
bambino in terapia come pretendono alcune metodiche (non accetteremmo per noi stessi una
soluzione simile). Occorre che egli possa essere libero e non vivere la sua condizione come una
colpa. In questo modo il bambino sarà sereno ed accetterà di buon grado di poter utilizzare gli
schemi di movimento appresi durante le sedute di terapia sia per imitazione, sia per sentirsi
partecipe in situazioni in cui vuole dimostrare a se stesso ciò di cui è capace. “Il concetto di
228
“ Il biochimico Lawrence Henderson fu il primo a usare il termine ‘sistema’ per indicarte tanto gli organismi viventi
quanto i sistemi sociali. Da allora in poi, ‘sistema’ ha assunto il significato di un tutto integrato le cui proprietà
essenziali derivano dalle relazioni fra le sue parti, e ‘pensiero sistemico’ definisce la comprensione di un fenomeno nel
contesto di un unsieme più ampio. Questo è, infatti, il significato originario della parola ‘ sistema’, che deriva dal verbo
greco synestanai (porre insieme). Capire le cose in maniera sistemica significa letteralmente porle in un contesto,
stabilire la natura delle loro relazioni.” F. Capra, La rete della vita. Una nuova visione della natura e della scienza, RCS
Libri, Milano 2001, p.38. Ed è’ in un’ottica ‘sitemica’ che ho osservato l’interazione paziente-terapista-ambiente,
cercando, comunque, di dare una spiegazione secondo alcuni studi e ricerche in neuroscienze, in scienze pedagogiche e
della comunicazione.
229
A. Ferrari, Proposte riabilitative nelle paralisi cerebrali infantili,cit, p.96.
127
intenzionalità raccoglie anche l’emozione ed il piacere che il paziente prova nel compiere una certa
azione o al contrario il disagio che ne ricava, ossia ciò che prova oltre a ciò che realizza (successo e
soddisfazione, fallimento e frustrazione, gioia ed amarezza, desiderio e delusione, gratificazione e
castigo). Soltanto chi prova piacere nell’agire continua a modificare in senso adattivo le proprie
funzioni per raggiungere un risultato che sia sempre più adeguato ai compiti indotti dallo sviluppo.
Apprendere non significa solo selezionare e conservare, ma anche sopprimere e rimuovere. Si
conservano i successi o le cose che ci hanno fatto provare piacere, si rimuovono gli insuccessi o le
esperienze che ci hanno creato disagio. In questo il percettivo ed il cognitivo rivestono un’indubbia
responsabilità e finiscono per rappresentare il prerequisito per lo sviluppo di qualunque altra
funzione. […]. L’equazione ‘se vuole, ci riesce’ che tante volte i genitori ci propongono non
consente sviluppi o soluzioni se si continua a considerare la paralisi un problema soltanto motorio,
un aspetto soltanto oggettivo. Il bambino ‘se vuole, ci riesce’, a dispetto del proprio repertorio e di
una conservata capacità di utilizzo, rivela una scarsa disponibilità a modificarsi per divenire più
adatto alle richieste ambientali ed una scarsa volontà a modificare il mondo circostante per renderlo
più adatto ai propri bisogni ed ai propri desideri. Il fatto che un bambino con PCI riesca ad eseguire
un certo compito non significa affatto che desideri farlo, anzi il più delle volte i bambini ‘se vuole,
ci riesce’ non lo vogliono per niente (paralisi nascosta) e per accettare il compito negoziano
preliminarmante un premio esterno, che li ripaghi per una soddisfazione che internamente non
possono provare a causa del disagio percettivo, della fatica del volere, della perdita del piacere,
della depressione, della paura, delle fantasie divenute fantasmi. Prima o poi arriva però il giorno in
cui non c'è un premio che possa ripagarli per il disagio che devono provare, ed essi si fermano.
È certamente più facile prevedere che un certo paziente imparerà a camminare a 8 anni, che essere
sicuri che saprà ancora farlo a 18. Se si sarà fermato, sarà solo per la recidiva delle deformità, o
piuttosto per un problema d’interesse e di determinazione, se non ancora di identità (sentirsi
adeguato da seduto ed essere a disagio da eretto)? Con la fisioterapia, gli ausili, i modelli, un
ambiente adeguato, una comunità educata, possiamo migliorare il ‘ci riesce’, ma che cosa sappiamo
fare perché il bambino lo ‘voglia’? Dobbiamo cominciare a pensare alla soddisfazione sentita ed al
successo raggiunto, misurare l’autostima e l’investimento ricevuto, ricercare il piacere provato nel
saper essere, nel saper fare, nel saper diventare. E dentro il ‘se vuole’ che si nasconde la vera natura
della PCI che non è solo movimento e non è solo percezione, ma riguarda l’intenzionalità del
bambino nel suo rapporto con il mondo e la sua disponibilità al cambiamento.” 230 Ho voluto
riportare le parole di un Riabilitatore che dimostra di saper andare oltre la preparazione tecnica. Egli
penetra nel vissuto del paziente ed è attraverso questa ‘tecnica’ che il sapere diventa vivo e
coerente.
Il terapista può aiutare il bambino a vivere sensazioni nuove nel suo corpo attraverso un delicato
lavoro d’ascolto e di ristrutturazione. Egli si può inserire nel movimento del bambino utilizzando
facilitazioni di movimento e controllo del tono muscolare servendosi della guida verbale ed
utilizzando il suo corpo per indurre e guidare queste nuove situazioni toniche (un nuovo modo di
sentire i propri muscoli). Per raggiungere questi obiettivi alcune metodiche si prestano meglio di
altre, sia nell’approccio fisico sia come premesse neurologiche.
Certe metodiche, sebbene valide nel contesto dello sviluppo del pensiero riabilitativo, hanno
fatto la loro storia. Alcune di esse per la loro “cruenza” nell’approccio sono da evitare
comunque, poiché generano nel bambino un vissuto negativo legato al corpo (dove vi è già una
grossa difficoltà). Spesso queste metodiche utilizzano approcci all’osservazione del bambino che
ricalcano la difficoltà motoria. Di conseguenza il trattamento fisioterapico è finalizzato alla
correzione della patologia più che a favorire le potenzialità motorie del bambino o del paziente.
“La dimensione percettiva (attenzione e tolleranza) e la dimensione intenzionale (soddisfazione e
pulsione) si rivelano determinanti. Se l’esperienza vissuta dal bambino è stata gratificante, le
operazioni compiute possono essere fissate nella memoria stabile, se al contrario ha comportato
troppa fatica, disagio, paura o forte delusione, verrà rimossa. La riabilitazione deve far vivere al
230
A. Ferrari, Proposte riabilitative nelle paralisi cerebrali infantili,cit., pp. 61 – 63.
128
bambino esperienze non solo utili, ma soprattutto gratificanti per lui, poiché è nella misura della
gratificazione e del successo conseguito che queste verranno conservate. Non basta insegnare il
come si fa (riabilitazione come repertorio dei pezzi di ricambio disponibili), bisogna trasmettere il
piacere di farlo, e questa è la parte più difficile della fisioterapia. L’acquisizione è infatti
testimoniata dall’utilizzo funzionale spontaneo di quanto è stato appreso dal soggetto. Il passaggio
dall’apprendimento all’acquisizione permette di ridurre il controllo cosciente del movimento per
trasferirlo al significato dell’azione, cioè dallo strumento allo scopo.” 231
Ricordiamo che l’evento neurologico o disfunzionale ha profondamente alterato un programma
cerebrale, e la ‘normalità’ per un bambino o un adulto neurologico è impossibile nella stragrande
maggioranza dei casi.232
Il trattamento neurologico riabilitativo classico parte dal presupposto di normalizzare i movimenti
alterati ponendo come metro di paragone la persona normale, di fatto, ciò non è possibile. 233 Inoltre
“Non è inutile sottolineare come i cosiddetti metodi di trattamento della PCI, prima ancora che per
la natura degli esercizi proposti, differiscano per l’idea di normalità che propongono.”234 Spesso,
infatti, si nasconde un inganno nell’uso delle metodiche riabilitative: esse, implicitamente o no,
fanno sperare di portare il paziente da un meno (situazione patologica) ad un più (normalità), in
realtà, nel migliore dei casi, possono solamente attivare le potenzialità neurologiche e psicologiche
residue insite nel paziente. “Trattamento della PCI non significa dunque possibilità di introdurre
schemi di normalità, ma capacità di modificare in senso adattivo le abilità del paziente, in relazione
agli scopi che egli intende perseguire. Una delle grandi difficoltà della riabilitazione della PCI è
rappresentata dal fatto che il paziente sbaglia spesso, anzi quasi sempre, ma quasi mai sbaglia nello
stesso modo (stabilità dell’errore). Un trattamento che si proponesse di sostituire condotte motorie
normali alle condotte patologiche del paziente risulterebbe perciò impossibile nei suoi stessi
presupposti.”235
Tolte le facili illusioni nasce un nuovo e più rispettoso modello di pensiero riabilitativo: “A fronte
di una visione che condanna la riabilitazione per la sua incapacità di far produrre normalità ad un
SNC leso, si contrappone la visione di una riabilitazione tesa a facilitare nel bambino la
realizzazione di funzioni adattive, privilegiando come discriminante lo scopo piuttosto che il mezzo,
il contenuto dell’azione piuttosto che la selezione dei patterns posturali e gestuali, l’efficacia della
prestazione raggiunta piuttosto che la forma della soluzione utilizzata. Mentre i problemi dello
sviluppo sono gli stessi, cambiano da bambino a bambino le risposte, ovvero le prestazioni adattive
messe in atto per risolverli, con una variabilità che nel normale sconfina nella ridondanza e nel
patologico si contrae nella ridotta libertà di scelta. Se c’è qualcosa di identico nello sviluppo di due
bambini non è infatti il repertorio delle prestazioni, cioè delle soluzioni adottate per ciascuna
funzione, ma il susseguirsi dei problemi affrontati e l’epoca in cui il soggetto, divenuto consapevole
delle proprie esigenze, è stato in grado di organizzare una idonea soluzione, dimostrando di aver
acquisito le regole dei meccanismi e dei processi che sottendono al proprio modo di essere e di
agire. Lo sviluppo deve essere visto allora come storia dei problemi affrontati piuttosto che come
storia delle soluzioni adottate.”236 Riflessione importante per ridimensionare i mezzi pur
comprendendo il loro valore. “In generale, rispetto alla fase di ottimismo che ha caratterizzato i
decenni precedenti, basato in alcuni casi su un delirio di onnipotenza riabilitativa, si è giunti ad un
231
Ibidem , p. 53.
“Non possediamo una teoria convincente dello sviluppo normale. Non dovremmo avere difficoltà ad affermare che
siamo tutti piagetiani, nel senso che nella pratica quotidiana la teoria ordinale di Piaget orienta i nostri ragionamenti e
le nostre operazioni diagnostiche, prognostiche e terapeutiche. Tuttavia, la teoria ordinale non riesce a soddisfare molte
delle nostre esigenze interpretative. Ma non possediamo altre teorie dello sviluppo normale che a tutt’oggi sembrino più
convincenti.” A. Ferrari – G. Cioni, Paralisi cerebrali infantili. Storia naturale e orientamenti riabilitativi,Edizioni del
Cerro, Tirrenia (Pisa) 1993, p. 226.
233
Cfr. M. Pierro – P. Giannarelli – P. Rampolli, Osservazione clinica e riabilitazione precoce, cit. p. 60.
234
A. Ferrari – G. Cioni, Paralisi cerebrali infantili. Storia naturale e orientamenti riabilitativi, cit., p. 32.
235
A. Ferrari, Proposte riabilitative nelle paralisi cerebrali infantili, cit., p.54.
236
Ibidem , p.96.
232
129
indirizzo più realistico e più aderente alla natura e alle dinamiche del disordine motorio nelle PCI.
In particolare, la consapevolezza che le PCI sono malattie invalidanti croniche con un dinamismo
evolutivo nei diversi settori coinvolti dal disordine funzionale, ha portato a connotare il trattamento
delle PCI come strategia terapeutica a diversi livelli per tutto l’arco dell’età evolutiva.”237
Questa nuova visione sposta l’attenzione dalla tecnica (pure importante come strumento e non fine)
alla persona, valorizzando la relazione e le risorse. “ Il trattamento non può infatti risolvere i
sintomi o i segni, neppure nasconderli o confonderli (inibire i riflessi patologici, rendere simmetrico
un emiplegico, ecc.), né può colmare il cosiddetto ‘ritardo dello sviluppo’, ma deve saper realizzare
la persona con i suoi deficit e le sue abilità, nel suo contesto ambientale e sociale.” 238
“La terapia non insegna, ma è la somma delle condizioni che consentono al bambino di scoprire le
proprie capacità e di farle diventare accessibili, in una circostanza positiva per soddisfazione, per
piacere, per successo da rendere meritevole il ricordarla, il trattenerla, il conservarla. Per questo J.
Corominas (1991) sostiene che ogni tentativo di riabilitazione va integrato all’interno
dell’interscambio emozionale. Infatti, come afferma Stern (1987), l’apprendimento stesso è
motivato ed investito di affettività.”239
La formazione del terapista
Vorrei riflettere su alcuni aspetti che riguardano l’apprendimento e la formazione del terapista.
Quando s’insegna una metodica in seminari di formazione i partecipanti assimilano la medesima
esperienza, ma essa è filtrata da molti fattori: attese del terapista, comprensione dei meccanismi
sottostanti la metodica, paura di sbagliare, problematiche personali contingenti che sequestrano la
nostra attenzione, formazione precedente che entra in conflitto con il nuovo apprendimento, ecc.
Questi ed altri fattori fanno sì che l’apprendimento sia un’esperienza unica e soggettiva.
Nel riprodurre, poi, ciò che abbiamo appreso troviamo altri filtri: il paziente più o meno
collaborante, la nostra insicurezza personale o l’eccessiva aspettativa, ecc. L’insieme di questi
fattori fanno si che tra il paziente ed il terapista s’instauri una relazione terapeutica unica nella sua
ricchezza e quest’aspetto è spesso trascurato nella riabilitazione classica ed è inconsapevole per il
terapista.
Ampliare il modello concettuale con il quale interagiamo con il mondo, o per meglio dire
modificare il punto di vista, è un processo che presenta difficoltà, le stesse che vive il paziente
quando deve modificare l’immagine di sé. Questo processo implica riuscire ad osservare credenze e
modelli che credevamo oggettivi, abbandonare certezze anche se comode, rompere antichi equilibri
instaurati con l’ambiente che ha co-contribuito alla loro formazione. Per questo motivo ampliare il
quadro concettuale dell’approccio riabilitativo non è semplice e può causare momentanee
destabilizzazioni nonostante i limiti che esso presenta. La ‘formazione professionale’ ci ha dato,
infatti, ‘in-formazione’ (ha plasmato il punto di vista) e ‘certezze’ (quadro concettuale ben preciso),
ma preclude vie non ‘pre-viste’ (la relazione dinamica con il paziente).
Il tentativo di cogliere un ‘nuovo modo di sentire’ riabilitativo risente di questi freni e limitazioni.
Negli ultimi decenni nel settore riabilitativo si sono susseguite diverse interpretazioni delle paralisi
cerebrali infantili, in conformità ai modelli di pensiero che si sono evoluti ed alle scoperte di
neurofisiologia. Questi hanno evidenziato di volta in volta aspetti differenti su bambini che
presentavano lo stesso quadro clinico. Intorno agli anni 1960-70 prevale la semiologia di tipo
reflessologica secondo gli studi di André-Thomas, ed il proliferare delle metodiche riabilitative di
tipo facilitatorio finalizzate a contrastare gli schemi di movimento primitivi e abnormi (attività
riflessa che nel caso delle PCI sono spesso immutabili nel tempo): essi impediscono al bambino il
237
E. Fedrizzi in A. Ferrari – G. Cioni, Paralisi cerebrali infantili, storia naturale e orientamenti riabilitativi, cit, p.
216.
238
A Ferrari – G Cioni, Paralisi cerebrali infantili. Storia naturale e orientamenti riabilitativi, cit, p. 24.
239
A. Ferrari, Proposte riabilitative nelle paralisi cerebrali infantili, p. 85.
130
normale sviluppo e apprendimento motorio. Si diffondono il metodo Doman-Delacato, il metodo
Kabat, Rood, Bobath ed il metodo Vojta.240 Successivamente si sviluppa la semiotica motoscopica
proposta da Milani-Comparetti e Gidoni: essa rileva la dinamica tra gli schemi motori dominanti nel
bambino ed iniziano studi sulle competenze emergenti (M. Bottos). Recentemente si sta
sviluppando un’ottica funzionale: essa dà rilievo al ruolo attivo e dinamico svolto precocemente dal
bambino nella capacità di uscire dagli schemi motori riflessi attraverso l’interazione con l’ambiente:
“Gli strumenti finora trattati sono gli stessi di cui tradizionalmente il clinico si serve, al momento
della diagnosi, per dimostrare i segni e i sintomi della lesione a carico del SNC (semiotica
lesionale), e per questo sono inadatti per seguire il cambiamento nel tempo di un soggetto con PCI.
Quello che è utile per valutare l’evoluzione è qualcosa di connesso con le funzioni, intese come
comportamento motorio per uno scopo, che quindi non può prescindere dall’interazione fra
individuo e l’ambiente, che deve cioè tenere in considerazione i suoi modelli di riferimento, le
occasioni che gli sono state fornite, le modalità con cui è stato educato (semiotica funzionale).
La semiotica funzionale non può e non deve separare il soggetto dal contesto ambientale in cui
vive. Essa si differenzia essenzialmente perché parte dai bisogni del soggetto, considera cioè le
funzioni in rapporto con il bisogno che tendono ad assolvere.”241 Lo stesso autore attua un’attenta
analisi dei bambini con PCI che presentano problemi percettivi, che prima ed ancora più dei
problemi motori compromettono le potenzialità latenti del bambino: “Per poter compiere un
movimento corretto bisogna infatti poter disporre di una corretta informazione percettiva e
viceversa per poter raccogliere una corretta informazione percettiva bisogna saper realizzare un
movimento corretto. Nella paralisi cerebrale infantile entrambi questi postulati risultano impossibili
ed a livello prognostico condizionano le possibilità di recupero del paziente.
La rappresentazione di un segmento è certamente legata sia alle operazioni motorie che questo può
compiere, quanto alle informazioni percettive che può raccogliere attraverso di esse. Al di là del
repertorio conservato, in termini di utilizzo è certo più favorevole la situazione di un paziente con
grave compromissione motoria ma con buona sensibilità che non il contrario, per l’importanza del
flusso di informazioni necessario alla guida del movimento stesso.
È sorprendente che la definizione di paralisi cerebrale infantile taccia di questo problema.”242
Pierro sintetizza in poche righe la complessità del fenomeno: “Le PCI rappresentano il punto
d’incontro di problemi di movimento, di percezione e d’intenzionalità. Si tratta di una distorsione
del processo d’emergenza della coordinazione tra bambino e ambiente.” (M. Pierro).
Come si può osservare c’è un continuo arricchimento nella possibilità di inquadrare l’evento
patologico del bambino costituito dall’ampliamento dei parametri d’osservazione e dal mutamento
del punto di vista da cui lo stesso fenomeno è osservato.
“L’impatto della scienza del movimento sulla prassi terapeutica rappresenta un cambiamento non
nelle tecnica, ma nel pensiero su cui la prassi deve essere basata. Gli assunti teorici che sottendono
gli approcci terapeutici basati sulla scienza del movimento sono inconciliabili con quelli relativi alle
tradizionali terapie neuromotorie basate sui modelli di facilitazione. Nell’approccio terapeutico
derivato dalla scienza del movimento, il terapista deve diventare un attivo problems solver,
utilizzando vaste conoscenze di base per trovare modi di sostegno e aiuto del singolo paziente che
sta tentando di raggiungere uno specifico obiettivo funzionale (Gentile 1992).
Quindi l’indirizzo terapeutico degli anni futuri per le paralisi cerebrali infantili è l’approccio
riabilitativo basato sui contributi della scienza del movimento e in particolare sui modelli
d’apprendimento motorio. Si configura come una via difficile, perché poco sistematizzabile, ma
ricca di promesse perché integrabile negli aspetti cognitivi e relazionali dello sviluppo.” 243
Ampliare l’ottica visuale sull’approccio riabilitativo classico è, quindi, dare nuova vitalità e valore
240
Cfr E. Fedrizzi, La riabilitazione della paralisi cerebrale infantile: metodologie, strumenti e modelli teorici dello
sviluppo, in A. Ferrari – G. Cioni, Paralisi cerebrali infantili, Storia naturale e orientamenti riabilitativi cit., p.214.
241
A. Ferrari – G. Cioni, Paralisi cerebrali infantili. Storia naturale e orientamenti riabilitativi, cit.,pp. 43 – 44.
242
A. Ferrari, Proposte riabilitative nelle paralisi cerebrali infantili,cit., p.55.
243
A. Ferrari – G. Cioni, Paralisi cerebrali infantili. Storia naturale e orientamenti riabilitativi, cit., p.217.
131
ad anni di ricerca scientifica sul campo. In una cornice più ampia gli approcci esistenti possono
essere strumenti coerenti con i bisogni del terapista-paziente. In passato, però, la ricerca si è
focalizzata molto sulle tecniche assolutizzandole e troppo poco sull’importanza della relazione
terapeutica.
Nel campo affine della riabilitazione psicomotoria già da alcuni anni si studia un nuovo approccio:
“Queste constatazioni e queste riflessioni ci hanno indotto a rifiutare ogni rieducazione
‘strumentale’, che s’indirizza al sintomo e mira a sopprimerlo mediante un apprendimento più o
meno dissimulato. Noi vogliamo lavorare con ciò che c'è di positivo nel bambino: interessarci a ciò
che egli sa fare e non a ciò che egli non sa fare.[…]. Esistono nel bambino, qualunque egli sia,
molteplici qualità positive che si possono scoprire e sviluppare a patto che non si sia ottenebrati da
‘ciò che il bambino non sa fare’.[…]. Abbandoniamo qui il modello clinico: diagnosi, prescrizione,
trattamento; che è il modello secondo cui funzionano tutti gli istituti e i centri di rieducazione. Ciò
ha segnato una tappa decisiva nella nostra evoluzione. A questo punto di fatto non esiste più
‘rieducazione’. Tutto diventa educazione così come noi la concepiamo, ossia sviluppo delle
potenzialità proprie di ciascun bambino. Questo abbandono delle rieducazioni localizzate,
specifiche, strumentali, a vantaggio di un approccio educativo globale.” 244
Essere fisioterapisti, fisiatri o neuropsichiatri è una dimensione a volte riduttiva. Essere
riabilitatore, capace cioè di ‘rendere abile’ e di ‘tirare fuori’ le potenzialità del piccolo o grande
paziente, implica una persona che sa andare oltre le ‘conoscenze’ acquisite per scendere nel
‘campo’. Il setting terapeutico è il luogo dove si possono incontrare due fissità: la patologia e
schemi di trattamento pre-stabiliti e rigidi, oppure due creatività: potenzialità e capacità di
osservare, apertura e creatività.
Tante volte ho visto colleghi utilizzare alcuni metodi in modo corretto, essi si prolungavano nel
loro paziente dando un aiuto efficace, ma di solito ciò avviene in modo inconsapevole. Altre volte
ho colto me stesso chiuso nei miei problemi, o in risonanza passiva con il paziente, e sono stato
incapace di gestire una situazione terapeutica. Ciò è molto frustrante, poiché come terapeuta fallisco
nel mio obiettivo umano e professionale: aiutare l’altro.
C’è tutta una pedagogia dell’accoglienza, sia nel preparare lo spazio fisico (l’ambiente), sia quello
mentale (se il terapista ha un’immagine ben precisa del paziente e di cosa ha bisogno, il suo corpo si
pre-dispone in modo adeguato ad accogliere il paziente). Il professore Lerminiaux spesso ci dice
che è importante che il terapista non entri nella sala di terapia così come la mucca entra nella stalla.
Diviene importante in terapia “come” si lavora, la modalità di porgere l’aiuto è fondamentale per
l’aiuto stesso e per renderlo efficace. Ciò implica la conoscenza dei meccanismi che stanno alla
base dell’approccio corporeo e una particolare predisposizione all’ascolto di se stessi.
Da quanto detto si rileva la complessità dell’approccio terapeutico. Nasce l’esigenza di cercare le
basi di un nuovo modello per osservare ed agire.245
Ho utilizzato gli strumenti descritti e appresi durante il training professionale per verificare ciò che
‘sentivo’ e la teoria. In questo lavoro ho, quindi, utilizzato le mie verifiche sul campo.
Le nuove ottiche riabilitative pongono su piani completamente diversi, rispetto al passato, le figure
del terapista e del paziente modificando la relazione terapeutica quantitativamente e
qualitativamente.
Penso sia giunto il momento in cui il terapista rifletta sui limiti e difficoltà di una vecchia
impostazione terapeutica che lo vedeva spesso quale semplice esecutore di metodiche più o meno
sofisticate. Nuovi modi di pensare a tutti i livelli (scientifico, medico, sociale, antropologico, ecc.)
244
A. Lapierre – B. Aucouturier, La simbologia del movimento, Edipsicologiche, Cremona, pp. 16 –17.
Alcuni libri di F. Capra mi hanno aiutato a comprendere nuovi modelli di pensiero scientifico che si basano
sull’evoluzione del modello sistemico. Altri libri esplicativi del modello terapeutico di M. Erickson sono illuminanti
sull’importanza e la bellezza dell’approccio terapeutico. Molti autori in campo riabilitativo sono alla ricerca di nuovi
approcci neuro-psicomotori nel tentativo di uscire dalle vecchie concezioni bloccanti. A tutti loro ed a molti altri va il
mio grazie e l’esortazione a proseguire coraggiosamente in questo cammino, se non altro per ampliare il proprio punto
di vista. Tutto ciò può e deve essere, in ogni caso, verificato nel lavoro quotidiano per arricchirlo attraverso
l’esperienza.
245
132
impongono nuovi modi di osservare e di porsi nei confronti della realtà terapeutica. Il terapista ed il
paziente possono co-evolvere nella relazione terapeutica giungendo a nuovi livelli di comprensione
di sé-altro, in meta-posizione rispetto all’ambiente ed ai propri moti interiori. La situazione
terapeutica diventa un momento di crescita che utilizza la difficoltà quale catalizzatore di processi di
cambiamento. Ciò implica un coinvolgimento totale del paziente e del terapista guidati dalla
necessità di autoguarigione reciproca. Spesso, infatti, l’altro ci fa da specchio nelle nostre difficoltà
permettendoci di osservare i nostri moti interiori, problemi e risorse. D’altra parte se così non fosse
sarebbe impossibile la maturazione del terapista nel suo cammino professionale. Egli si limiterebbe
alla passiva applicazione di tecniche sempre uguali, ma una continua retroazione tonicoemozionale e la capacità di calibrare la difficoltà del paziente durante la seduta terapeutica
impone la modulazione dell’atto terapeutico rendendolo sempre diverso, anche con lo stesso
paziente, ed è importante essere consapevoli di ciò.
“Presentavo l’approccio relazionale come quello più idoneo a comprendere l’individuo nella sua
globalità. Ripensando all’insieme dei problemi sollevati (e non risolti) da quest’intervento, verrebbe
piuttosto da concludere che l’approccio relazionale rappresenta un fattore di complicazione di una
realtà clinica, già di per se stessa così complessa, per la natura cronica della patologia, per la
sofferenza fisica e mentale ad essa connessa. Ma, nella nostra esperienza, assumere questa
‘complessità’, attrezzandosi, ovviamente, di strumenti adeguati, è essenziale, se non direttamente
per la prognosi riabilitativa del bambino, certamente per la buona conduzione del trattamento.
In un nostro contributo sul fenomeno del burn-out nei terapisti notavamo con quanta facilità la
relazione col bambino può trasformarsi in un’esperienza altamente frustrante e alienante (per
entrambi i partner) al di fuori di un’attività in grado di comprendere le dinamiche soggiacenti. Non
solo, ma è solo attraverso il lavoro di supervisione e ripensamento sull’esperienza clinica che si
possono cogliere nelle scelte terapeutiche certi agiti e collusioni con le parti più patologiche dei
pazienti. Infine la possibilità di ricomporre attraverso la discussione d’equipe (mi permetto di
aggiungere, ben condotta) l’immagine del bambino per come si viene organizzando nella mente di
chi lavora con lui, rappresenta uno degli strumenti essenziali per restituire ai genitori un’immagine
integrata del figlio.”246
Nell’ottica delle riflessioni su descritte nasce questo lavoro: ampliare il punto di vista per avere più
strumenti di osservazione ed operativi e, sebbene questo aumenti la difficoltà operativa, si ha la
possibilità di capire ed i mezzi quando l’operatore incontra aspetti altrimenti non visibili.
Come è stato detto in precedenza, l’evoluzione del pensiero riabilitativo ha ‘rivelato’ che il
movimento non è solo un atto meccanico di leve e tiranti, ma la concretizzazione di fenomeni psicofisiologici estremamente complessi e, ovviamente, non ancora del tutto chiariti. I vari punti di vista
che sono subentrati nel tempo conservano la loro utilità in ambiti specifici: l’approccio neurologicoreflessologico, motoscopico, cognitivo, funzionale, sistemico ed emozionale (motivazionale).
Quest’ultimo aspetto è ‘sempre stato vissuto’ dal paziente (e dal terapista) ma raramente vi si è
focalizzata la dovuta attenzione.
Essere consapevoli di tutti questi meccanismi e come interagiscono tra loro permette di cogliere
l’unitarietà di messaggio (fisio-neuro-comportamentale) del paziente e da la possibilità di operare
armonicamente e coerentemente su più piani. Ciò è fondamentale in riabilitazione dove occorre un
quadro il più possibile completo e dinamico per poter agire sulla complessità dei problemi che
gestisce.
Desidero aggiungere un’ultima riflessione. Gli strumenti sono solo un pretesto, come d’altra parte
i metodi riabilitativi neuromotori, per aiutare a tirare fuori le risorse insite in noi e nell’altro, ma
nello stesso tempo essi sono importanti per aiutare a focalizzare la nostra attenzione ed essere
consapevoli di certi processi.247 Essi sono necessari sino a quando la persona non impara ad
246
S. Maestro, Aspetti relazionali in famiglia e nel trattamento, in A. Ferrari – G. Cioni, Paralisi cerebrali infantili.
Storia naturale e orientamenti riabilitativi, cit., p. 209.
247
Tutti gli strumenti rientrano in questa riflessione: l’educazione è un esempio sulla possibilità di aiutare un individuo
a tirare fuori le potenzialità insite in lui, oppure di circoscriverle, distorcerle o mortificarle in base alle ideologie
133
autogestirsi: quando in pratica la persona riacquista la capacità di essere in ascolto di sé e diviene
nuovamente capace d’apprendimento organico.248 In ogni caso gli strumenti non sono assoluti ma
suscettibili di ampliamento, selezione e revisione secondo le necessità che la relazione presenta.
Questo lavoro non è e non vuole essere la promozione di un altro ‘metodo’, ma il riconoscimento
del parametro emozionale e le perturbazioni che esso può determinare sul comportamento del
bambino con patologia neuro-psicomotoria. Esso vuole essere un aiuto alla comprensione di alcuni
meccanismi che possono favorire l’integrazione tra movimento, affettività ed emotività. Esso è e
vuole essere un dialogo, una proposta da vivere e verificare aperta a tutti i consigli ed esperienze.
culturali predominanti nell’ambiente. Tutto ciò avviene spesso con poca consapevolezza per la difficoltà, da parte degli
educatori, di mettersi in meta posizione rispetto all’ambiente che ha plasmato loro stessi. Questo fenomeno spiega la
fatica a progredire nei modelli di pensiero e deve aiutarci a riflettere nell’accettarne o proporne di nuovi.
248
“Via via che aumenta la consapevolezza e si presta ascolto alle sensazioni, aumenta anche la possibilità di osservare
le sottigliezze: in tal modo potrete rendervi conto di quei piccoli particolari che sono alla base di ogni differenza
qualitativa.
Il movimento non apporta il miglioramento, ma il fatto che vi siete sintonizzati con la vostra dinamica interiore.
Non è la figura che descriverete nello spazio a produrre il perfezionamento, al contrario, la scoperta avviene all’interno,
nel vostro intimo. Non è il risultato misurato numericamente che vi può procurare un sollievo, ma piuttosto la
percezione dell’atteggiamento richiesto per produrre tale risultato.
Probabilmente non siete ancora pronti per rinunciare all’occupazione che secondo voi è all’origine dei vostri malesseri.
Certo non potete mutare il fatto che vi reggete su due gambe. Anche se vorreste, non potete certo mutare la vostra
struttura, che è qualcosa di unico. Potete però operare un cambiamento nel vostro modo di agire. Avete il dono di
trasformare l’atmosfera in cui vi muovete, di alterare la tonalità con cui comunicate con l’organismo. Avete la
possibilità di migliorare il rapporto con le sue risposte. Un attento ascolto del vostro Io interiore è il punto in cui
l’intento della mente conscia incontra il lavorio profondo del sistema nervoso. Questa consapevolezza è un dono
esclusivo dell’essere umano ed è anche lo strumento con cui vi sarà possibile riportare alla vita la spontaneità organica
addormentata.” R. Alon, Guida pratica al metodo Feldenkrais, cit., pp. 40-41.
134
Momenti dell’approccio tonico-emozionale
I fase: il terapista è consapevole del proprio ruolo di terapeuta ed è centrato in se stesso (posizione
di eccellenza - Asse). In questa attitudine, il terapista attinge alle sue risorse professionali ed umane,
consapevole delle proprie capacità.
II fase: la preparazione dell’ambiente fisico e mentale in cui accogliere il paziente. L’attitudine
mentale del terapista ricostruisce l’immagine del paziente: essa favorisce l’attitudine fisica adeguata
prima dell’incontro.
III fase: accoglienza fisica ed emozionale. Il colpo d’occhio del primo impatto. La capacità del
terapista di cogliere la prima impressione visiva, uditiva e chinestesica del paziente (risonanza).
IV fase: calibrazione: lettura consapevole dello stato psico-fisico del paziente attraverso gli
indicatori fisiologici e l’osservazione fisioterapica.
Egli può intuire le potenzialità funzionali, l’intenzione positiva e la credenza che guida il paziente e
il suo ambiente.
V fase: il terapista si distacca per affrontare la situazione terapeutica, ma mantiene in sé l’immagine
del paziente e la rispetta per non creare dissonanza con il suo mondo.
VI fase: ricerca di tecniche e comportamenti adeguati alla patologia ed al modello di mondo del
paziente.
VII fase: la capacità del terapista di modificarsi per modificare il paziente. Egli deve saper danzare
tra le CM assieme al paziente per aiutarlo a trovare nuove soluzioni coerenti con i suoi bisogni e le
sue possibilità.
VIII fase: costituire un Asse per l’intenzione positiva del paziente. Avere la calma e la pazienza di
condurre l’altro nel “sentire” nuove soluzioni e ritmi nel corpo attraverso l’aptonomia ed il
prolungamento. Questo gradualmente porterà il paziente di fronte ad un modo nuovo d’essere ed
inizia a cambiare l’immagine interna: il paziente prende le distanze dall’immagine distorta di sé e
può agire sulla patologia.
XI fase: modulazione del trattamento in base alle sequenze riuscite.
X fase: il paziente impara a gestire il proprio corpo e le emozioni in autonomia attivando le sue
potenzialità residue.
Il terapista deve sempre ricordare il proprio ruolo, le possibilità e i limiti. Noi siamo dei
catalizzatori di certi processi, se dimentichiamo il nostro ruolo rischiamo di plagiare il paziente per
le nostre necessità (siamo senza Asse), non saremo in grado di aiutare il paziente, ma subiremo
frustrazioni. L’idea di fare la cosa giusta c’irrigidisce e perdiamo la nostra flessibilità. 249
Il terapista può diventare un compagno di viaggio per il paziente e aiutarlo ad affrontare
consapevolmente la sua difficoltà e il suo problema. Per fare ciò occorre grande rispetto.
249
Il medico Gladis Taylor McGerey riferisce una sua conversazione con il figlio Carl che si stava specializzando in
chirurgia ortopedica. Carl le aveva confidato di provare sentimenti di paura all’idea di avere la vita degli altri nelle sue
mani, e lei gli disse: “ Carl, come chirurgo puoi rimarginare una ferita e suturarla come si deve, ma non potrai guarirla.
Se credi di essere tu a dover guarire, hai ragione di spaventarti. Ma se capirai di essere un canale attraverso il quale
passa la guarigione e che tu in realtà puoi richiamare la forza risanante all’interno dei tuoi pazienti, non hai nulla da
temere. Tu avrai risvegliato il medico dentro di loro e li avrai avviati a guarirsi da soli.” G. T. McGarey, The Physician
within Yourself, New York 1987, p.71.
135
CAPITOLO SESTO
136
Finalità del trattamento riabilitativo
La finalità di un trattamento riabilitativo non è guidare il paziente, ma aiutarlo a guidarsi da solo. È
importante aiutare il paziente ad uscire da un atteggiamento passivo, facendogli sentire che ha le
risorse per migliorare e portarlo gradualmente ad autogestire il proprio corpo e se stesso secondo le
sue potenzialità.250
Nessuno di noi è necessariamente un pianista o il più bravo nello scalare le montagne e si crea dei
problemi per questo. Tutti noi sappiamo godere delle abilità altrui ed essere sereni. Il paziente
dovrebbe arrivare a vivere il suo deficit senza dover fare un confronto di sé con gli altri o,
addirittura, entrare in competizione con se stesso. Nello stesso tempo è importante che egli possa
raggiungere obiettivi possibili all’interno della sua patologia, questi gli permettono di esprimere i
propri bisogni e lo realizzano.
Nel corso della mia storia professionale ho conosciuto una ragazza con tetraparesi spasticadistonica che lavora a maglia con le dita dei piedi; una mia amica con la stessa patologia dipinge
con la bocca e organizza mostre dei suoi quadri; un ragazzo con grave distonia e ballismo scrive al
computer utilizzando un casco speciale collegato al capo; una signora con poliartrite reumatoide
realizza dei bellissimi lavori con l’uncinetto e quadri a matita; un ragazzo con tetraparesi distonica
grave frequenta regolarmente la scuola superiore e conduce una vita familiare e sociale serena;
ecc.251
Il paziente non ha bisogno di combattere la ‘spasticità’, ma semplicemente di non attivarla più del
necessario nei tanti momenti della sua giornata in cui può stare bene con se stesso e con gli altri.
Egli, aiutato adeguatamente dal terapista, ‘cambia’ la sua immagine liberandola dai meccanismi
emotivi che lo logorano, arricchendola di nuovi vissuti corporei.252
È importante che il paziente possa sentire il suo corpo in modo nuovo e trovi il “coraggio” di
viverlo: una “grave demotivazione” nasce dal non saper gestire fisicamente ed emotivamente il
proprio corpo, essa può bloccare ogni progresso e sicuramente è all’origine del “problema”.
“Il bambino si deprime quando coglie che tutti intorno a lui sanno come egli dovrebbe fare e che
l’unico a non comprendere come poter fare è proprio lui, ed accresce il suo senso di incapacità e di
impotenza e con esso il suo rifiuto esterno e la sua rinuncia interna. Si aggrava così la paralisi
intenzionale e viene meno il prerequisito fondamentale alla terapia: la volontà di cambiare.” 253
250
“Non interessa solo risolvere i problemi presentati dal cliente, ma anche aiutarlo a divenire un individuo autonomo,
capace di avere a disposizione e utilizzare tutte le proprie risorse personali in modo da poter fare da solo terapia a se
stesso, quando necessario. Come terapeuti e formatori di terapeuti, abbiamo osservato che le moderne terapie danno
tuttora troppa importanza agli aspetti ‘curativi’ della terapia (cioè il miglioramento di un particolare problema o
sintomo), e dedicano troppa poca attenzione alla formazione di individui creativi, di persone in grado di generarsi esse
stesse le esperienze di cui hanno bisogno, o che desiderano.” D.Gordon - M. Meyers Anderson, Phoenix. I modelli
terapeutici di Milton H. Erickson, cit., pp. 27.
251
“Crediamo che terapia sia la capacità di guidare il bambino leso ad affrontare i problemi che la crescita man mano
gli propone, sviluppando soluzioni adattive in coerenza con le regole della sua autoorganizzazione (storia naturale),
realizzando la persona con le sue differenze senza imporle la copiatura di irraggiungibili modelli normali.” 251 A. Ferrari
– G. Cioni, Paralisi cerebrali infantili. Storia naturale e orientamenti riabilitativi,cit., p. 32.
252
“'Tra le persone più sane che ho conosciuto, alcune vivono sulla carrozzella o sono state diagnosticate affette da
gravi malattie, altre mancano di denaro e di comodità materiali. Eppure i loro occhi splendono di passio ne e di obiettivi.
Ridono a volte senza nessuna ragione se non per il semplice piacere di essere in vita. Riconosco quello spirito, almeno a
brevi lampi, in moltissime persone e sento una terribile tristezza per come spesso neghiamo o ignoriamo il nostro
potenziale. Ciascuno di noi può essere più vivo, più creativo, più spontaneo e più sano.
Comunque stiate in questo preciso momento, qualsiasi cosa stiate facendo, potete trovare il modo per realizzare i vostri
sogni, manifesti e segreti. La profonda saggezza del vostro spirito, che è unico e irripetibile, si può esprimere nella
vostra esperienza quotidiana. Qui e ora, potete cominciare a essere più consapevoli e più sani.” S. Shafarman,
Conoscersi è guarire. Le sei lezioni pratiche del Metodo Feldenkrais, cit., P. 194
253
A Ferrari, Proposte riabilitative nelle paralisi cerebrali infantili,cit., p. 91.
137
Il paziente che vive in tensione è stato tolto dalla sua centratura (Asse) e destabilizzato,
distorcendo l’attitudine naturale. Egli perde la capacità di spaziare tra le varie esperienze (le varie
CM) fissando il suo comportamento in una sola attitudine (patologia, irrigidimento in una catena
muscolare).
La tensione che egli vive si sviluppa in un contesto ed ha il suo significato all’interno di quel
contesto (per questo motivo non va giudicata, ma ristrutturata). Aiutarlo vuol dire riportarlo nel suo
centro, al suo Asse. È un lavoro graduale, delicato, ma deciso.
È possibile fare questo lavoro se anche noi (terapisti) abbiamo vissuto e sentito le difficoltà, le
resistenze, la sensazione di non vivere pienamente perché ci siamo allontanati dall’ascolto di noi
stessi e dalla possibilità di esprimere i nostri bisogni serenamente. 254
Il cammino descritto parte da molto vicino: riascoltare il corpo, le sue sensazioni, le paure, il
desiderio di sentirsi. Rimanere in quest’attitudine d’ascolto è come avere un amico intimo che ci
dice quando ha…..quando abbiamo difficoltà. E lo ringraziamo anche se ci fa soffrire, perché solo
quest’attitudine permette di entrare in contatto con quella parte di noi che dice se ci stiamo
tradendo.
Come dice T. Bertherat perché il corpo ci appartenga bisogna conoscerne desideri e possibilità e
osarli vivere. Solo quando siamo vivi non abbiamo paura di essere ‘conosciuti’, e cerchiamo di
conoscere l’altro, perché sentiamo e conosciamo ciò che l’altro vive e non ci sentiamo schiacciati
da lui.255
Arrivare al PENTAX, simbolicamente e realmente, vuol dire sapere danzare tra le varie CM,
essere flessibili. Avere più scelte nel comportamento può permetterci di adattarci con successo ai
capricci della vita quotidiana, pur mantenendo la propria individualità (il proprio Asse). Vuol dire
accettare tutti i lati oscuri e luminosi di noi stessi, comprenderli (prenderli con noi) e trovare uno
spazio adeguato per la loro espressione. Solo così possiamo incontrare il paziente come compagno
di viaggio, sapremo comprenderlo e creare uno spazio per la sua crescita.
Allora scopriremo che, paradossalmente, non appena il paziente smetterà di lottare per
migliorare, potrà accedere ad una dimensione più ampia del suo corpo. Cesserà la lotta con se
stesso e sarà più libero di vivere altri stati e sensazioni nel suo corpo.
Questo cammino deve essere vissuto prima dal terapista stesso e in questo deve essere guidato a
sua volta. Questo lavoro sulla nostra emotività (vulnerabilità) ci rende un po’ più consapevoli verso
le nostre ‘difficoltà’ e presenti alle ‘difficoltà del paziente’ per poterle gestire con più competenza,
in modo più piacevole e con un po’ d’umorismo. La comprensione di ciò che avviene in noi e
nell’altro toglie drammaticità al modo in cui avevamo imparato a gestire i nostri sentimenti emotivi.
Potremo aiutare il paziente ad accettare se stesso, se anche noi abbiamo imparato ad accettarci.
L’obiettivo di questo lavoro è di indicare una via che ci permetta di migliorare le nostre possibilità
d’approccio in terapia. Io ho descritto la via che ho appreso e sto cercando di applicarla.
Mi rendo conto su me stesso che non è un lavoro semplice. Esso richiede di mettere a nudo le
proprie difese e le proprie resistenze e nasce la sensazione d’essere vulnerabili, ma questi aspetti
agiscono comunque in noi e impediscono di raggiungere i nostri obiettivi (essere Terapista).
Consapevole di questo sto cercando di ‘guardarli in faccia’.
Significa accedere alla consapevolezza: essere presenti al corpo, ai suoi segni, alla sua sensibilità
quale fonte visibile e inscindibile del nostro ‘essere’ dove io-altro è lo specchio di un flusso
continuo della storia e della sua interpretazione. Significa ricostruire il cammino sino alle radici del
segno per abbandonarlo ed arrivare al movimento libero da sovrastrutture, al sentire finalmente se
stesso.
254
“Da qualunque punto si parta per riappropriarsi di sé occorre attraversare un pezzo di strada piena di pericoli. Questi
sono gli ostacoli che abbiamo incontrato e che ci siamo presi per impedirci di sentirci vivi negando certe esperienze, e
certe sensazioni.” T. Bertherat - C. Bernstein, Nuove vie dell’antiginnastica, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1981,
pp. 78.
255
Cfr. T. Bertherat - C. Bernstein, Guarire con l’antiginnastica, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1978.
138
Molto dipende da quanto siamo disposti a mettere in gioco. Posso comunque assicurare che ogni
piccolo passo rende un po’ più liberi. Tante situazioni e relazioni possono diventare ‘meno
drammatiche’, anche quelle vissute quotidianamente nel rapporto con i miei piccoli e grandi
pazienti.
La possibilità di sperimentare in pratica certe esperienze è fondamentale, poiché solo attraverso il
vissuto concreto si può veramente comprendere la bellezza di trasformare noi stessi. Desidero
rassicurare i terapisti e i pazienti: attraverso questo lavoro si cambia, non nel senso di non essere più
se stessi, ma ci si ristruttura, s’impara a vedere e sentire se stessi e gli altri in modo diverso, più
ampio, più ‘leggero’, ma soprattutto s’impara a vedere e sentire dove di solito non porgiamo
l’attenzione.
Mi rendo conto su me stesso che la semplice conoscenza dei meccanismi tonoco-emozionali non è
sufficiente a risolvere prontamente i problemi emotivi, poiché questi hanno origine nei meccanismi
programmati geneticamente e culturali. Essi sono ereditati dal nostro passato filogenetico e sono
plasmati dalle credenze sociali. Questo lavoro costituisce un primo passo verso una maggiore
consapevolezza. In questa prospettiva esso non è e non può essere completo, ma trova il suo
migliore interlocutore nella Vita stessa. Nel confronto con Lei potremo verificare i nostri intenti ed i
nostri passi.
So bene che questo lavoro è un approccio teorico parziale. Un lavoro che parte dal corpo e dai
suoi vissuti è difficile da esprimere attraverso il linguaggio scritto: i vissuti concreti hanno un altro
‘sapore’ e necessitano di poche parole, la risonanza sa fare brillantemente il resto. Inoltre molti
argomenti richiederebbero una trattazione più estesa, ma desideravo lo stesso condividere la mia
ricerca.
Per approfondire alcuni aspetti rimando ai lavori degli autori che ho citato verso i quali sono molto
grato. Chiedo Loro anticipatamente scusa se alcuni argomenti sono stati trattati in modo parziale o
modificati rispetto agli insegnamenti originari ricevuti. Ho cercato di prendere ciò che ritenevo più
attinente all’argomento.
Ricordo la prima lezione sulle CM fatta da Madlene Feyter. Ella affermò che noi tutti siamo
dei RICEVITORI, dei TRASFORMATORI e degli EMETTITORI. Consapevole di questo,
spero che ciò che ho scritto s’inserisca nella volontà comune di aiutare sempre meglio e
sempre più l’altro e se stessi. Si perdonino le inevitabili mancanze che posso aver fatto. “La
presunzione di avere qualche cosa da dire in questo difficile ambito è peccato di molti;
l’incoscienza di farlo, raccogliendo le proprie idee in un testo e proponendole agli altri, è
merito purtroppo di pochi. Il più delle volte infatti le osservazioni, le intuizioni, le vere e
proprie scoperte, di quanti, medici e terapisti, sono quotidianamente impegnati nel difficile
compito di riabilitare il bambino con PCI sono destinate a scomparire o a restare un
patrimonio riservato per la difficoltà e un pò per la fatica di raccoglierle, elaborarle e renderle
accessibili agli altri.
Peccato, perché è dal quotidiano pensare - provare - riflettere di chi lavora sul campo che sono
giunti fino ad oggi i più importanti contributi al progresso delle conoscenze in campo
riabilitativo.”256
Questo lavoro è rivolto ai terapisti e agli operatori che vivono quotidianamente in contatto con i
loro pazienti. Esso è rivolto anche e soprattutto a quest’ultimi poiché sono loro lo ‘scoglio’ e la
‘necessità’ di superarlo ed è questa tensione che ci fa crescere.
256
A Ferrari, Proposte riabilitative nelle paralisi cerebrali infantili,cit., p. 9.
139
FARE E NON FARE
Abbiamo imparato molte cose e verrà il tempo per assaggiarle, gustarle, digerirle e farle proprie
buttando via ciò che non serve.
Voglio ricordare che questo cammino può essere fatto in due modi: imparare le parole, le idee, le immagini e
iniziare ad usarle. Questo modo si chiama FARE. Siamo padroni della tecnica, abbiamo capito, e useremo C.M,
indicatori fisiologici, Aptonomia, prolungamento, ecc. in modo didattico cercando di guidare il paziente.
Poi lentamente questi concetti scenderanno in noi….si sposeranno con l’immagine del paziente…. saremo in crisi.
Non ci sentiremo più terapisti poiché anche le metodiche spariranno. Ci ritroveremo a creare uno
spazio e il bambino si muoverà da solo: il movimento sarà proposto in un altro modo e verrà
magicamente fuori.
Scopriremo di avere modificato il nostro linguaggio ed il corpo in relazione al paziente, pur
mantenendo la propria identità. Lo sentiremo vicino, lo capiremo e, se occorre, litigheremo con lui.
Capiremo che le difficoltà non ci bloccano, ma sono il segnale di una nuova lezione, di cose da
scoprire, di nuove possibilità d’apprendere.
Ci accorgeremo di gestire noi stessi e i nostri sintomi in modo diverso. Potremo dire a noi stessi
cosa abbiamo bisogno e parlare con noi stessi.
Questo si chiama NON FARE.
140
Post Scriptum
Padre V. Sorce mi ha chiesto di scrivere un libro utilizzando gli appunti personali del
seminario teorico pratico svolto in Brasile su: “Catene Muscolari e approccio terapeutico”. Il
compito è stato difficile perché la maggior parte del materiale era composto da appunti sparsi,
letture, lezioni del prof. Lerminiaux, riflessioni sul lavoro quotidiano con i miei piccoli e grandi
pazienti, ma anche intuizioni, sensazioni ed immagini ben precise ma difficili da descrivere.
Infine ho accettato perché questo lavoro mi aiuta a comprendere meglio le basi teorico-pratiche
sulle quali fondo il mio lavoro. In questo mi rispecchio nel pensiero e nel sentire di uno dei miei
compagni di viaggio: “Ma questo corpo-ricerca, questocorpoprotagonista può solamente essere
conosciuto attraverso l’azione ed il «vissuto diretto». E forse vale la pena di creare opportunità a
che altri possano ri-scoprirlo per se stessi.
Ma ogni tentativo di trasferire il linguaggio del corpo in altri linguaggi, ad esempio quello
scritto, è certamente una forzatura, spesso un arbitrio destinato a produrre fenomeni estranei
all’essenza del corpo, come il mito ed il feticcio. Questo è un rischio: dobbiamo esserne
consapevoli.
Ma capisco che la socializzazione delle mie riflessioni può essere un modo per arricchire,
ampliare, rimodificare, insomma per crescere con i contributi che posso ricavarne dai feed-back
positivi e negativi e dal confronto con gli altri.
E arrivo così alla serena decisione di continuare e concludere il lavoro iniziato.”257
Il quotidiano contatto con i pazienti ha sempre messo in crisi la mia immagine. Sono loro che
mi permettono di verificare concretamente le teorie, le aspettative, i desideri. Sono loro che mi
permettono di colmare il divario tra questi e la realtà ricordandomi sempre che la guida non è e
non deve essere la teoria o l’aspettativa ma la loro realtà, il loro modo di essere fisico-psichicoemozionale.
Nel contatto e nel dialogo ho scoperto, nel loro corpo e nel mio, memorie e vissuti più profondi
del semplice movimento. Dietro ogni gesto si nasconde amore e odio, gioia e dolore, tristezza e
felicità, piacere e sofferenza, giusto e sbagliato, speranze, coraggio, disperazione, generosità,
complicità e tutto ciò che rende la Vita degna di essere vissuta. Cercare di capire come tutto
questo da forza oppure la toglie ad un gesto è una sfida ed una ricerca continua. In questo
senso i miei piccoli e grandi pazienti sono i migliori maestri.
Voglio ringraziarli perché spesso con il loro esempio mi hanno aiutato a crescere. Tante
volte aiutandoli ho dimenticato i miei problemi, e questo è il più grande dono che posso
ricevere.
Sono consapevole che il lavoro non è sempre lineare. Alcune volte i concetti si ripetono ed in
alcuni momenti ho utilizzato un linguaggio emozionale, ma ciò che ho voluto trasmettere è una
ricerca personale, fatta di vissuti, studi, seminari ed intuizioni. Qualche volta comprendo di non
essere riuscito a descrivere pienamente quello che sento.
La mia vuole essere la semplice condivisione di un’esperienza avvincente. Essa mi aiuta a
comprendere molti aspetti di me stesso e degli altri, ed ha spostato il mio modo di vedere la
realtà in una dimensione più ricca e piena, ma soprattutto più efficace nel mio lavoro.
257
C. Romano, Corpo itinerario possibile. Una metodologia di formazione per gli insegnanti, cit., p. 12.
141
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146
INDICE
Ringraziamenti
Introduzione
Obiettivo
Capitolo primo…………………………………………………………………………. Pag.8
Un genitore…i genitori
Il bambino
Un terapista
Capitolo secondo………………………………………………………………………. Pag.18
Sintesi degli studi sull’emotività
Riflessioni sulla filogenesi ed ontogenesi
L’uomo e l’emotività
Capitolo terzo…………………………………………………………………………… Pag. 49
Storia delle catene muscolari
La scaletta delle emergenze
Programmazione Neurolinguistica
Ristrutturazione
Programma mentale e comportamento
Aptonomia
Prolungamento
Conoscersi attraverso il movimento
Capitolo quarto…………………………………………………………………………. Pag.78
Il muscolo parte di un tutto
Metafora-la Creazione
Processo interno-stato interno
Metafora-l’indio
Il punto di vista
Metafora-il monaco girovago
Tre livelli dell’essere
Il sintomo e la deconnessione
Risonanza
L’esperienza della notte dei mammiferi
Torsione-comportamento-risorsa
I sintomi e la ristrutturazione
Metafora-tempi di guerra
147
La vulnerabilità e la consapevolezza
La religione del “cretino”
Metafora-il cieco
Empatia e le catene muscolari
Capitolo quinto………………………………………………………………………… Pag. 108
Riflessioni sulla diagnosi
Approccio alla patologia
Terapia
Presenza-trasparenza-prudenza
Il blocco (torsione)
Quale approccio
Riflessioni sulla terapia
La formazione del terapista
Momenti dell’approccio tonico-emozionale
Capitolo sesto…………………………………………………………………………. Pag.136
Finalità del trattamento riabilitativo
Fare- non fare
Post-scriptum
Bibliografia…………………………………………………………………… ……………Pag.142
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L`approccio tonico-emozionale in terapia