IL NEOREALISMO
E’ il movimento emerso in Italia tra il 1945 e il 1955; coincide con la letteratura dell'antifascismo,
cronaca e testimonianza della seconda guerra mondiale, della Resistenza, della sorte postbellica, in
quanto revisione e riscatto dei valori morali e civili che la politica fascista e la sua avventura
internazionale avevano adulterato. Nasce come celebrazione di quei valori di massa da assumere
come guida morale per l'età della ricostruzione.
Non pare quindi possibile limitare il Neorealismo ad una semplice questione di poetiche, in quanto
esso ha elaborato un diagramma di richieste che travalicano la frontiera strettamente letteraria, per
investire la situazione dell'uomo, dell'intellettuale e, insieme, l'avvenire sociale e politico del
cittadino.
In questo senso il Neorealismo nasceva da una consapevolezza e una responsabilità che
imponevano all'arte e in generale alla cultura, un impegno preciso, intendendo farle partecipi di una
radicale promozione etica dell'individuo e della comunità.
Questo però imponeva di affrontare il problema del rapporto tra cultura e politica. Uno degli autori
più coraggiosi, in questo senso, fu Elio Vittorini che, attraverso la rivista da lui diretta “Il
Politecnico”, inizia la lotta per una nuova cultura che si impegni a liberare l’uomo dalla miseria e
dallo sfruttamento. Egli rivendica la libertà e l’indipendenza dell’artista che deve essere al servizio
esclusivo delle esigenze dell’uomo, non degli interessi dei partiti. Più tardi un altro grande autore
contemporaneo - Leonardo Sciascia - sarà ancora più esplicito: <<uno scrittore al servizio di
un’ideologia o di un partito, è un dimissionario dell’intelligenza e un burocrate della peggior
burocrazia>>.
Intanto registi, narratori e pittori si impegnano in una rappresentazione della realtà in presa diretta.
Ne derivano pagine talvolta anche grezze, urlate, ma straripanti di realtà.
E’ l’esplosione del Neorealismo con i suoi tanti aspetti positivi: la scoperta di una Italia minore e
umile, il contatto tra letteratura e realtà nazionale, la responsabilizzazione civile e politica del
letterato, le fiduciose speranze di rinnovamento; ma anche i suoi aspetti negativi: il bozzettismo,
l’abuso del dialetto e del gergo che diventa una sorta di calligrafismo a rovescio.
Il Neorealismo comprende autori, opere e progetti che non si lasciano accomunare in una sola
direzione. La loro provenienza e la loro formazione sono assai diverse e spesso appartengono a
culture ed esperienze antitetiche. Gli anni di fioritura del Neorealismo iniziano già nel 1929/30, con
la pubblicazione de "Gli Indifferenti" di Alberto Moravia, ”Fontamara” di Ignazio Silone,
“Gente in Aspromonte” di Corrado Alvaro.
La distanza e il contrasto fra l'ottimistica Italia ufficiale e la realtà del Paese, sconvolto da
drammatici squilibri sociali, economici e culturali, inducevano sempre più gli scrittori ad
abbandonare le evasive esercitazioni di stile e a ritrarre il mondo con la maggior dose possibile di
verità. Grandi autori quali Pavese, Fenoglio, Calvino, Vittorini, Levi, contribuirono con le loro
opere a diffondere l'influenza e l'importanza del Neorealismo.
Molto valida ed artisticamente efficace si rivelò il Neorealismo nel cinema: un’arte giovane che
non aveva problemi di dipendenza con la tradizione. Alcuni geniali registi italiani balzarono subito
alla notorietà internazionale, come Roberto Rossellini (Roma città aperta; Paisà), Vittorio De Sica
(Sciuscià; Ladri di bicicletta), Luchino Visconti (La terra trema), ecc.
La parabola del Neorealismo però, già a metà degli anni ‘50, è in fase decisamente calante per varie
ragioni: la scarsa coscienza stilistica, la generica prospettiva ideologico-politica che non andò mai al
di là della vaga proposta di un radicale cambiamento sociale e, priva però, di precisi connotati
scientifici e storici. Con gli anni della restaurazione centrista poi, svaniscono rapidamente le
speranze di rinnovamento sociale e politico; la “destalinizzazione” genera un processo di crisi nello
schieramento di sinistra nel cui interno si sviluppa un intenso dibattito, che mira a superare certi
schematismi ideologici.
Di fronte ai nuovi scenari internazionali, ad una realtà sempre più complessa, i moduli di
rappresentazione neorealistici appaiono sempre più semplicistici. Sono queste le tesi della neoavanguardia, il nuovo movimento letterario che prenderà il posto del Neorealismo.
Uno degli autori che mi ha particolarmente impressionato, poiché ha tracciato un quadro tanto reale
quanto crudele della verità dei Lager, dell'annientamento morale e fisico subìto dai prigionieri ad
opera dei nazisti e della loro diabolica idea della “razza pura”, della “razza ariana”, è stato Primo
Levi.
PRIMO LEVI
Primo Levi nasce a Torino nel 1919, da una famiglia ebrea piemontese di solide tradizioni
intellettuali.
Un bambino timido che cresce sotto il fascismo e le leggi razziali. Nel 1941 si laurea in chimica
all'università di Torino, dove tornerà dopo la tremenda prigionia in
Polonia e lavorerà come chimico prima alla Montecatini e poi in una
fabbrica di vernici, la Siva, che dirigerà fino al 1975.
Diventa scrittore in seguito alla traumatica esperienza della
deportazione ad Auschwitz.
E' questo l'evento centrale della sua vita, che fa scattare in lui la molla
della scrittura, sentita come un'impellente necessità di confessione, di
analisi e come un dovere morale e civile dal quale non può esimersi.
Il ricordo mai estinto di Auschwitz ha lasciato in lui indelebile, oltre
al numero tatuato sulla pelle (174517), la volontà di ricordare, di
serbare testimonianze di quell’estrema degradazione dell’individuo,
dell’orrore di assistere impotente alla demolizione di un uomo. Ma è anche, probabilmente, alla
base dell'inatteso ed enigmatico suicidio con il quale pone termine alla sua esistenza, nel 1987.
Fino al 1938 Primo Levi è un normale studente di agiata famiglia con la passione della chimica; le
leggi razziali rappresentano per lui una svolta che gli apre gli occhi sulla natura del fascismo e lo
orienta verso l'azione politica. Aveva ventiquattro anni ed era ancora un giovane del tutto inesperto
quando si unisce alla Resistenza sotto la bandiera del Partito d'Azione clandestino e, dopo
l'armistizio dell'8 settembre 1943, si unisce a un gruppo partigiano di "Giustizia e libertà" operante
nella Valle d'Aosta. Il 13 dicembre 1943, Primo è uno degli undici partigiani - "i più disarmati del
Piemonte e probabilmente i più malmessi" - arrestati dalla milizia fascista; viene internato nel
campo di concentramento di Fossoli, presso Modena, e successivamente deportato ad AuschwitzBirkenau (febbraio 1944).
Nel Lager, dove rimane circa un anno, Primo Levi riesce a sopravvivere grazie a circostanze
fortunate, sulle quali torna per tutta la vita a mettere l'accento: "Sono stato fortunato: per essere
stato chimico, per avere incontrato un muratore che mi dava da mangiare, per avere superato le
difficoltà del linguaggio...; mi sono ammalato una volta sola, alla fine, e anche questa è stata una
fortuna, perché ho evitato l'evacuazione dal lager: gli altri, i sani, sono morti tutti, perché sono
stati deportati verso Buchenwald e Mauthausen, in pieno inverno". Il Lager incide profondamente
sulle sue convinzioni: gli dà la coscienza di essere diverso in quanto ebreo e lo spinge verso lo
scetticismo religioso. "Sono diventato ebreo in Auschwitz. La coscienza di sentirmi diverso mi è
stata imposta."… "L'esperienza di Auschwitz è stata per me tale da spazzare qualsiasi resto di
educazione religiosa....C'è Auschwitz, quindi non può esserci Dio".
A testimonianza di questa tragica esperienza, Primo Levi scrive di getto nel 1946 e pubblica nel
1947 “Se questo è un uomo”, il libro che solo dieci anni più tardi sarà riconosciuto come il
capolavoro della letteratura concentrazionaria.
Nel 1945, il 27 gennaio, viene liberato, con l'arrivo dell'Armata Rossa al campo di Auschwitz, dove
i tedeschi avevano abbandonato solo gli Häftlinge (prigionieri) malati nella Ka-Be (la baracca
dell’infermeria) e dove egli era ricoverato per la scarlattina. Ma dovrà vagare ancora a lungo: il suo
rimpatrio avverrà soltanto in Ottobre.
Da questa nuova “odissea” della sua vita nasce “La tregua”, il secondo libro di memoria di Levi,
pubblicato nel 1963. La tregua narra il tormentato viaggio di ritorno in patria dell'autore con un
gruppo di compagni attraverso un'Europa ancora sconvolta dalla guerra. Questa opera rivela
l'acquisita consapevolezza di una vocazione letteraria: scrivere non è più per Levi un fatto
occasionale o episodico e, al dolente testimone del Lager, si affianca uno scrittore dall'ispirazione
varia, che sperimenta forme letterarie diverse dalla memorialistica. Pubblica infatti
successivamente, racconti di genere fantascientifico come quelli raccolti nelle Storie naturali (1967)
o in Vizio di forma (1971), accanto ai quali vanno ricordati i brevi testi di Sistema periodico (1975),
intitolati ciascuno a un elemento chimico e ispirati alla professione dell'autore, e La chiave a stella
(1978). Ma il filone memoriale-saggistico nella produzione letteraria di Levi non si interrompe: nel
1982, pubblica Se non ora, quando?, in cui descrive il viaggio di un gruppo di partigiani ebrei russi
che vanno dalla Bielorussia all'Italia passando per la Palestina; con il libretto memoriale-ragionativo
I sommersi e i salvati (1986) torna sulla tragedia di Auschwitz con l'intento non più di raccontare
ma di riflettere, riallacciandosi a Se questo è un uomo.
Su una linea di sostanziale continuità rispetto alle opere in prosa si collocano le raccolte poetiche
(L'osteria di Brema, 1975; Ad ora incerta, 1984; Altre poesie, riunite postume).
Il punto di contatto fra le "due nature" di Primo Levi, quella del letterato e quella dello scienziato,
risiede in una fiducia nella ragione, in una filosofia concepita come sapienza della vita che si
traduce in una scrittura limpida, chiara, essenziale, dove ogni parola viene soppesata attentamente.
Per la sua genesi questo tipo d’intellettuale non può incarnarne il modello classico, ma ha un profilo
inedito che non può essere ricondotto agli schemi consolidati. Levi, infatti, a contatto con il lager ha
imparato molte cose "sugli uomini e sul mondo".
Lo stile sobrio, scarno, il tono colloquiale, la narrazione impersonale, la scrittura chiara,
comunicativa, rigorosamente aderente ai fatti e attenta alle sfumature, esprimono l’intento di offrire
una testimonianza che solleciti la riflessione sulla civiltà edificata dall’Occidente.
Pertanto, non siamo di fronte ad uno dei tanti letterati che, pur riferendosi a vicende vissute
personalmente, finiscono sempre per trasfigurarle, ma ad uno scrittore che, almeno nella sua prima
produzione, intende solo lasciar parlare "gli orrori", senza nulla concedere alle esigenze estetiche.
Capire e testimoniare: Primo Levi risponderà a questa doppia necessità per il resto dei suoi giorni.
Infatti tutte le sue opere sono riconducibili
a questa esigenza.
Il suo primo lavoro, "Se questo è un uomo",
esprime l'intento testimoniale dell'autore
che analizza l'animo umano in condizioni di
estremo disagio. Seppure umiliato e
distrutto nel fisico, egli cerca di non
perdere quella capacità di pensare e di
riflettere che è tipica dell'uomo, e mette in
evidenza come, in condizione di continua e
forzata sollecitazione, quali sono i ritmi di
lavoro imposti dal campo, l'uomo diventa
vile, perde ogni dignità e lotta per obiettivi
puerili, ma ciò è indispensabile alla sopravvivenza. In tali condizioni non c'è spazio per l'affettività,
per positive relazioni sociali. L'autore, analizzando la condizione e l’organizzazione del campo,
individua i sistemi di relazione e di gerarchia che, spesso, generano nell'individuo grettezze, astuzie,
crudeltà e ogni genere di mezzo cui ciascun deportato ricorre per sopravvivere. La “scala dei
valori”, che scaturisce dalla vita degli internati, pone al di sopra di ogni sentimento l’egoismo, che
si manifesta con l'abilità nel truffare e nel trovare gli stratagemmi per non morire; “La legge del
Lager diceva: mangia il tuo pane e, se puoi, quello del tuo vicino"; coloro che non riescono a
entrare in questa dinamica sono condannati a soccombere.
L’eliminazione pianificata della dignità dell’uomo, le violenze fisiche, ma soprattutto quelle
psicologiche che tendono ad annientare ogni forma comunicativa, le inutili denudazioni pubbliche, i
rituali macabri, non sono che "l’espressione sensibile della follia geometrica" del Lager, di quella
"risoluzione altrui di annullarci prima come uomini per ucciderci poi lentamente". Egli cerca di
resistere per portare: "al mondo, insieme con il segno impresso nella carne, la mala novella di
quanto, ad Auschwitz, è bastato all’uomo di fare all’uomo";
Raccontando della deportazione, descrive i 4 giorni passati in treno senza bere e senza mangiare:
“Vagoni merci, chiusi dall’esterno, e
dentro uomini donne e bambini,
compressi senza pietà, come merce di
dozzina, in viaggio verso il nulla, in
viaggio all’ingiù, verso il fondo.” Una
grande scritta illuminata li accoglie
sulla grande porta d’ingresso al campo:
"ARBEIT MACHT FREI", il lavoro
rende liberi. Atroce ironia, estrema
beffa per chi avrebbe trovato l'ultima
libertà nei camini dei forni crematori. I
nuovi arrivati vengono denudati e fatti
entrare in un’enorme stanza con un
rubinetto gocciolante; ma su di esso,
una scritta in tedesco, avvisa che
l’acqua non è potabile: “Questo è
l’inferno…. Noi stanchi stare in piedi, e c’è un rubinetto che gocciola e l’acqua non si può bere, e
noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile…. Come pensare? Non si può più pensare, è come
essere già morti….. Il tempo passa goccia a goccia”.
L'autore fa capire che la sua salvezza dipese non tanto dalle proprie forze, quanto dalle circostanze
casuali in cui si era venuto a trovare: era l'ultimo anno di guerra, i tedeschi avevano bisogno di
manodopera (quindi prolungavano la vita ai prigionieri), e, in particolare, egli aveva un titolo di
studio, delle competenze che i tedeschi reputarono importanti per l’avvio del laboratorio di chimica
all’interno della fabbrica di gomma sintetica di Buna- Monowitz, che, tra l’altro, non andò mai in
funzione perché fu bombardata ripetutamente dall’aviazione russa.
Già nella celebre poesia che introduce il romanzo, si intuisce il motivo fondamentale dell'opera: la
schiacciante e disperata perdita di identità di un'umanità violata e vessata. L'uomo, privato del
libero arbitrio, del proprio ruolo, del proprio lavoro, diventa il tema dominante della composizione
poetica. In contrapposizione a questo senso di perdita si pongono gli imperativi che richiamano il
lettore a soffermarsi sul privilegio della propria esistenza, fatta di sicurezze, di normalità, ma anche
di consapevolezza, quella consapevolezza che deve impedire all'uomo di ripetere l'inferno di
Auschwitz.
“Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando a casa, andando per via,
Coricandovi, alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi”.
A milioni di persone innocenti, fu sottratto non soltanto ogni bene materiale, ma anche la dignità.
Nei lager, uomini, donne e bambini furono declassati a livello sub-umano e spinti, per una
possibilità in più di sopravvivenza, a cose ignobili, fino ad essere aguzzini, sorveglianti e necrofori
della propria stessa gente, con un sadismo e una crudeltà che ha del disumano.
Primo Levi si è fatto testimone e portabandiera della necessità di ricordare, al di là del ricambio
generazionale. Il suo Se questo è un uomo, andrebbe letto e riletto da ciascuno di noi. Perché, come
ammonisce una targa che oggi campeggia sulla porta di Auschwitz: "Chi la storia dimentica e'
condannato a riviverla".
Il campo di Auschwitz fu liberato dalle truppe dell’Unione Sovietica che, insieme a quelle dei Paesi
Alleati dell’Occidente, decretarono la disfatta della Germania nazista. Tutti i Paesi usciti dalla
guerra, vincitori e vinti, si ritrovarono a fare i conti con catastrofiche distruzioni materiali ed
economiche. Ma l’impegno e la voglia di riscatto di tutti i popoli, permise una rapida ricostruzione
che, in alcuni casi, generò un vero e proprio boom economico trainato dalla diffusione su scala
mondiale delle imprese multinazionali.
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