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Giuseppe Gioachino Belli e Giacomo Ferretti, amici da sempre, e poi, dal 1849,
consuoceri, si scambiarono 199 lettere, fra il 2 settembre 1819 e il 19 marzo 1850 (la
stragrande maggioranza delle quali fra il maggio e l’agosto 1838): finalmente questo carteggio viene qui pubblicato per intero da Marta Ferri, che vi ha dedicato, seguendo scrupolosi criteri di trascrizione conservativi, gli anni del proprio
apprendistato accademico, guidata da quel maestro di rigore che è Luca Serianni. Si
tratta di un lavoro davvero ottimo per qualità e apparato critico, che segna un momento importante per la ricostruzione di queste due personalità, e di quell’età – la
prima metà dell’Ottocento – così ricca di aspetti, di personalità e di contraddizioni
che grazie a lavori come questo siamo in grado di ricostruire e valutare con maggiore consapevolezza.
Da una parte c’è Giacomo Ferretti (“Giacopo per i Classicisti, Jacopo per i Romantici, e Giacomo per i creditori”, come amava presentarsi), un protagonista della
cultura romana e italiana degli anni Venti/Cinquanta dell’Ottocento, nel cui salotto
(prima a via dei Lucchesi 24, poi a via Monte della Farina 36, e infine a via delle Stimmate 24) si incontravano artisti e protagonisti assoluti della cultura e dell’arte, come
Gioacchino Rossini (per il quale aveva scritto il libretto della Cenerentola), Vincenzo
Bellini, Gaetano Donizetti, Francesco Maria Piave, Giuseppe Verdi, e Nicola Zingarelli, Francesco Saverio Mercadante, Giovanni Pacini, Massimo D’Azeglio e Angelo
Brofferio; Ferretti, il “moderno Ovidio”, come veniva chiamato, in maniera un po’
esagerata, dai contemporanei, forse per contrapporlo alla plumbea freddezza e al
pesante accademismo di altri salotti romani dell’epoca, dove imperavano quel «coglione» di Francesco Cancellieri, o quell’altra «vecchiaccia» di Marianna Dionigi (e i
due epiteti sono di Giacomo Leopardi, mica niente); Ferretti, uomo amabile e affettuoso, che, come testimonia Brofferio, scriveva libretti, epitalami per nozze, ottave
per giorni onomastici, sonetti per messe, lettere per innamorati, suppliche per postulanti, prediche per parroci, canzoni per ballerine, pastorali per vescovi, allocuzioni per cardinali, dispute per curiali…, e che, sempre secondo Brofferio, era uomo
talmente brillante, vivace, schietto e cordiale che «dopo esser stato con lui cinque minuti vi pareva che da cinquant’anni lo aveste amato e conosciuto»; Ferretti, circondato e sostenuto dalle sue donne, Teresa (Teta), la dolce moglie, e le tre deliziose
figlie, Cristina (l’amatissima Cristina che diventerà la moglie di Ciro Belli), Chiara
(che ebbe perfino una specie di filarino, si direbbe oggi, con Giuseppe Verdi…), e Bar3
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bara. Dall’altra parte c’è Giuseppe Gioachino Belli, vedovo dal 1837, con il figlio lontano, in collegio, uomo schivo e taciturno («ordinariamente piuttosto serio che ilare;
piuttosto taciturno che discorsivo; piuttosto noncurante che officioso», a leggere la
testimonianza del suo migliore amico Francesco Spada) e restio agli incontri e all’esibizione dei salotti nei quali, come scrive ad Amalia Bettini il 24 aprile 1841, si
sgomentava fino al silenzio:
Un navigatore espose sul molo di Napoli un perrocchetto di straordinaria eloquenza
e lo vendette per cento ducati. Trovatosi presente al mercato un certo furbo di lazzarone che avea seco un pollo-d’india, fecesi tosto a gridare: Neh! Cristiani! accattateve
chiss’auciello raro. – Quanto ne pretendi?, gli dimandò il compratore del perrocchetto.–
Ciento ducati, rispose il lazzarone. – Pazzo! Per un gallinaccio?! – E ggnossì. N’avite
pavato ciento pursì pe cchill’àuto? – Ma quello parla. – E chisso pienza. – E che pensa?–
Pienza i ccose che chill’àuto dice. […] La Marchionni1 è partita, ed io non l’ho neppur
conosciuta. Da Ferretti ci vo capitando di giorno: la sera sto a casa. Eppoi, se fossi
anche intervenuto a qualcuna delle soirées date dal Ferretti in di lei onore, non avrei
forse fatto che vederla ed udirla, perché in simili circostanze io mi rintano in un cantuccio e non parlo mai. La gioia di una conversazione non mi dà invidia, ma mi rattrista, mi sbigottisce, e mi riduce fino alla incapacità di aprire la bocca. Per non rap
presentare dunque la parte de’ chillo che ppienza, mi astengo dall’associarmi a chillo che
parla.2
Una decina d’anni prima, l’8 giugno 1830, a Vincenza Roberti, dopo aver riflettuto sull’impossibilità di sottrarsi alla realtà e sulla necessità di non sfuggire alla propria natura, aveva affermato:
Per dirvi ora due parole di me, vi assicuro che al punto di vita in cui sono, cominciano
già assai a potere su di me i pensieri di riposo, di semplicità e di futura consolazione.
[…] Per risparmiarvi pertanto al possibile la umiliazione di que’ generosi sentimenti,
io penso di fabbricarmi una felicità domestica, una felicità tutta indipendente dalle vicende del mondo; e ringrazio la provvidenza che m’abbia concesso un piccolo amico,
il quale ricordevole forse un giorno dei dritti acquistati dalle mie cure alla sua riconoscenza, mi amerà spero senza le viste interessate della personalità. Ancor io, se potessi, sceglierei dunque asilo in un piccolo angolo di terra, dove mi abituassi per gradi
a far di meno di agi, di strepito, di varietà, di gloria, di tutto ciò insomma che aggirandoci nel continuo vortice delle cose peribili, ci vieta di pensare a noi stessi.3
Ed ecco i due a confronto: un intellettuale noto e apprezzato, un punto di riferimento della cultura romana dell’epoca, Giacomo Ferretti; e Giuseppe Gioachino
Belli, un modesto impiegato pontificio, a sua volta poeta noto nella cerchia delle accademie (era accademico tiberino, e arcade), ma sconosciuto ai più e da non anno1
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La grande attrice Carlotta Marchionni, allora a Roma in tournée.
ORIOLI 962: 351.
MAZZOCCHI ALEMANNI 1973, I, p. 17.
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verare fra i massimi protagonisti della cultura romana dell’epoca, dato anche, come
abbiamo visto, il suo naturale riserbo; il quale Belli però, nel silenzio del proprio studio (e talvolta anche “in legno”, durante uno dei suoi viaggi per l’Italia centrale), lavorava scrupolosamente a un progetto monumentale e clandestino di scrittura nel
dialetto di Roma, quel romanesco sostanzialmente sconosciuto e quasi per niente frequentato dai letterati dei secoli precedenti.
Destino singolare quello della letteratura romanesca: che prima di Belli era stata
comunque marginale, giacché confinata o nella dimensione della scrittura privata,
e perciò destinata a una stretta cerchia di fidati lettori, o nei registri innocenti della
letteratura epico/giocosa, che alla fine di quel secolo romano per eccellenza che fu
il Seicento vede i suoi due esiti più noti: Il maggio romanesco e Meo Patacca. Benedetto
Micheli alla metà del Settecento aveva tentato di innalzare la lingua romanesca ai registri della lirica d’amore e del poema epico, ma aveva subito il destino di dover rimanere inedito: quel medesimo destino della scrittura dialettale di Belli.
Ed ecco dunque il singolare destino di Ferretti e di Belli: il primo, appunto, osannato in vita, ma poi quasi completamente dimenticato negli studi; il secondo, marginale in vita nella sua produzione in lingua e del tutto sconosciuto in quella in dialetto,
ma oggi considerato, e a ragione, uno dei massimi poeti italiani di sempre.
Un libro come questo provvede dunque a una serie di opportunità: anzitutto restituisce la grande ricchezza di queste due personalità e la profondità della loro amicizia, l’affetto, la stima, il reciproco rispetto che legava questi due uomini tanto
diversi; al tempo stesso si offre come una piacevolissima continua scoperta: ci si trova
cioè dinanzi a documenti che ci aiutano a capire i due caratteri (l’attenzione alla salute, ai figli, al lavoro; le debolezze, le manie, lo scrupolo; l’eccezionale apertura
degli interessi…), a entrare nella società dell’Ottocento (oggetti, spazi, incontri, protagonisti, mode, canarini e bacherozzi, poeti e prezzi del mercato…), e al tempo
stesso ci si trova dinanzi a scritture di strepitoso valore letterario, con digressioni,
esercizi di stile (neologismi, latino e “latinorum”, parole dialettali), acrobazie verbali
irresistibili. Il tutto senza mai tradire il fine primo di queste scritture, che erano appunto, e tali rimanevano, private, “di servizio”: solo che i due autori si chiamavano
Giacomo Ferretti e Giuseppe Gioachino Belli.
Così, grazie a questo libro, ecco ritrovata anzitutto la testimonianza di una
grande solida formidabile amicizia; e al tempo stesso ecco Ferretti restituito in tutta
la sua energia e umanità, ed ecco un’altra testimonianza della complessa personalità
di Belli, nonché della forza della sua scrittura in prosa, quella forza che la prima a cogliere fu Teta, la moglie di Giacomo: «bisognerebbe stamparle». Oggi questo vaticinio, finalmente, qui si realizza grazie all’ottimo e paziente lavoro di Marta Ferri.
Marcello Teodonio
Presidente del Centro Studi Giuseppe Gioachino Belli
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