Liceo Classico Orazio Roma Umanesimo e Scienza Tema di approfondimento culturale per l’a.s. 2008/2009 a cura della Prof.ssa Licia Fierro con la collaborazione di (in ordine alfabetico) Prof.ssa Anna Paola Bottoni Prof. Mario Carini Prof.ssa Elisabetta De Dato e con la collaborazione tecnica di Fabiana Laggetto 1 Ringraziamento di Tullio De Mauro Cara Licia Fierro, La ringrazio del bel volume Umanesimo e Scienza. Ma più ancora vorrei ringraziare Lei e quanti con Lei hanno lavorato perché il fatto stesso della costruzione di un volume simile accende una luce di speranza nell'orizzonte altrimenti buio in cui è costretta a muoversi al momento la nostra scuola -e non solo la scuola. Un saluto grato e cordiale, Tullio De Mauro Tutto il materiale pubblicato è consultabile sul sito del Liceo Orazio: www.liceo-orazio.it 2 Sommario Introduzione Parteprima Le riflessioni degli studiosi Il linguaggio e le scienze T. DE MAURO – conferenza del 14 gennaio 2009 Il linguaggio della realtà C. BERNARDINI – conferenza del 17 febbraio 2009 Il linguaggio nella formazione della pubblica opinione A. RAMPINO – conferenza del 19 marzo 2009 Il linguaggio della scienza e quello della poesia C. AUGIAS - conferenza del 21 aprile 2009 Parteseconda Le relazioni degli studenti Relazioni sulla conferenza del prof. T. De Mauro Alessia COLETTA Giacomo FRANCHI Adriano MASCI Francesca MUSCI Maria PALERMO Flavia PARISI Relazioni sulla conferenza del prof. C. Bernardini Rosa CALABRESE Maristella CECINATO Ilaria GRAVINA Arianna MASSIMI Andrea MINIAGIO Marta SANTANIELLO Aurora VOLPINI Relazioni sulla conferenza della dott.ssa A. Rampino Laura ARISTA Valentina BOMBARDIERI Giulia GIANNINI e Francesca VERNILE Silvia STAFFA Relazioni sulla conferenza del dott. C. Augias 3 Marina AMADORI Rosa CALABRESE Alessia COLETTA Giulia COSSU e Ilaria FERRARA Elisabetta ORLANDO SENATORE Arianna SORRENTINO Mario Carini Gli usi moderni del latino 4 INTRODUZIONE La cultura, la formazione completa dell’individuo che i Greci chiamavano paidéia e i latini con Cicerone e Varrone humanitas, si è nel tempo arricchita e nutrita di sempre nuovi elementi non più semplicemente racchiudibili nel possesso delle arti liberali proprie della tradizione classica. Si può dire, con buon margine di certezza, che a partire dall’illuminismo entrarono a far parte integrante della formazione umana oltre alle discipline storiche e filosofiche, anche la matematica, la fisica, le scienze naturali. Si affermò di seguito l’ideale enciclopedistico, ovvero la fiducia che gli uomini ben guidati potessero raggiungere una conoscenza generale, per quanto sommaria di tutte le branche del sapere. Di contro allo scientismo positivista e al permanere della moltiplicazione dei campi di ricerca, Benedetto Croce lanciò la sua aspra critica considerando quel tipo d’uomo “che ha conoscenze non poche” come uno che in realtà non possiede la conoscenza, anzi dissipa, per così dire, se stesso , si preclude un orientamento o, come si dice, una fede. Croce si rivolgeva in particolare contro il primato riconosciuto dal positivismo alle scienze naturali e alla matematica. E per ovviare a tali principi trasformatisi in vera e propria moda intellettuale, egli proponeva come rimedio una cultura che fosse “armonica cooperazione della filosofia e della storia, intese l’una e l’altra nel loro vero e larghissimo significato”. Sicuramente l’influenza dell’idealismo sul piano filosofico e la Riforma Gentiliana della scuola superiore sul piano politico (peraltro anch’essa improntata ad una rilettura pragmatica e pedagogica della dialettica hegeliana), hanno contribuito a mantenere quella distinzione che ancora oggi alcuni leggono in termini di opposizione tra classico e scientifico, tra “umanesimo e scienza”. Nella società postindustriale avanzata in cui ci troviamo a vivere si richiedono saperi specialistici, competenze tecniche, rendimento massiccio nei compiti e nelle funzioni affidate a ciascuno. Dunque se per un verso la formazione disinteressata della persona secondo l’ideale aristocratico classico sembra orientare alla scelta di una improbabile e solitaria vita contemplativa, per l’altro aspetto la chiusura nella dimensione specialistica dei saperi crea problemi che non possono essere affrontati e risolti da ciascuna disciplina in modo autonomo. Paradossalmente quanto più si radicalizza la specializzazione, tanto più risulta necessario l’incontro, lo scambio, la collaborazione fra i diversi saperi . Ci siamo chiesti, nell’affrontare la vexata questio del rapporto tra umanesimo e scienza, quale fosse una chiave di lettura didatticamente produttiva e metodologicamente corretta. L’ispirazione l’abbiamo trovata in un libro scritto da Tullio De Mauro e Carlo Bernardini: “Contare e raccontare”. E’ nella parola che il pensiero si esprime, esce da sé, perciò è necessario recuperare la virtù di “un linguaggio fatto bene”, adatto a rappresentare, per dirla con i fisici, anche ciò che va al di là dei nostri limiti sensoriali, ma capace al tempo stesso “di mettere in contatto le generazioni e i loro saperi”, come sostengono i letterati. 5 Einstein era convinto che “senza la lingua, la nostra capacità di pensare sarebbe assai meschina e paragonabile a quella di altri animali superiori”. In tal senso Tullio De Mauro riconosce la valenza cognitiva e operativa di ogni lingua e Karl Popper individua come caratteristica della specie umana la descrittività e flessibilità del liguaggio. La lingua è , secondo lui il prodotto dell’inventività della mente umana, e la mente è, a sua volta, il prodotto dei suoi stessi prodotti: un effetto di retroazione.” E con lo sviluppo della nostra lingua e della nostra mente siamo in grado di vedere una parte sempre maggiore del nostro mondo. La lingua funziona come un riflettore che pone nel centro del cono di luce i fatti che descrive”. Pertanto la lingua non solo interagisce con la mente, ma ci rende possibile la visione di cose che senza di essa ci resterebbero oscure o del tutto sconosciute. Nelle nostre lezioni, qualunque ne sia l’oggetto, noi cerchiamo di accendere spiragli di luce, esercitiamo la nostra analisi traducendo la complessità in modo adatto ai giovani interlocutori e spesso avvertiamo insicurezza, abbiamo necessità di confrontare le esperienze, di fare un lavoro interdisciplinare per collegare pensieri, logiche, invenzioni, accadimenti che altrimenti resterebbero confinati e chiusi in singole ore di lezione. Oggi, più che mai, non si tratta di far valere come patrimonio del liceo classico una sorta di cultura generale in cui un gruppo di discipline specifiche o di “indirizzo” siano proposte e studiate in modo separato o peggio antitetico rispetto alle altre. Un confronto tra umanesimo e scienza nella chiave del linguaggio vuole essere un piccolo contributo per favorire,nel percorso formativo degli studenti, l’incontro fra la considerazione storico-umanistica del passato e lo spirito critico e sperimentale della ricerca scientifica. Il ciclo di conferenze-dibattito in cui si è articolata l’esecuzione del progetto ha visto impegnati quattro relatori da gennaio ad aprile. La prima lezione dal titolo “il linguaggio e la scienza” è stata tenuta dal professore Tullio De Mauro, il quale partendo dal linguaggio verbale ha spaziato nell’analisi delle elaborazioni complesse. Egli ha spiegato la genesi e le modalità con cui si costruiscono i linguaggi tecnici e scientifici sulla base della determinazione semantica delle parole correnti, addentrandosi, poi, nei temi complessi dell’espansibilità del significato e della formalizzazione fino a sostenere che in linea di principio non esiste discontinuità fra studi umanistici e studi scientifici. Il professore Carlo Bernardini nella seconda conferenza dal titolo “il linguaggio della realtà” ha sostenuto la necessità, nell’anno di Galilei, di porsi il problema dell’integrazione delle scienze nel linguaggio comune. Partendo dalla fisica ingenua egli ne ha spiegato il superamento proprio con la scoperta del grande Pisano dei concetti di forza e di accelerazione. Il professore ha espresso il convincimento che bisogna rendere attuale l’auspicio di Galilei, ovvero il dovere di costruire un linguaggio sui fatti, su ciò che è più semplice e misurabile; egli ha ribadito che il linguaggio della filosofia induttiva ha permesso alla filosofia naturale di diventare fisica teorica. La terza conferenza dal titolo “il linguaggio nella formazione della pubblica opinione” è stata tenuta dalla dottoressa Antonella Rampino che ha saputo individuare con particolare incisività i nodi problematici della comunicazione anche attraverso esempi concreti dei modi e delle forme con cui le notizie vengono presentate e diffuse attraverso i giornali, internet e gli altri mezzi di informazione. Il suo discorso ha investito i temi scottanti dell’attualità, compreso quello della democrazia. In ultimo Corrado Augias si è impegnato in una relazione dal titolo”il linguaggio della scienza e quello della poesia”.Attraverso una serie di riferimenti, da Lucrezio, a Dante, a Goethe, il relatore ha voluto dimostrare come la scienza sia stata fonte di ispirazione poetica e al tempo stesso matematici e poeti siano comunque e sempre partiti da intuizioni che hanno poi consolidato in una forma. Agli enunciati teorici il dottor Augias ha fatto seguire esempi con letture e commenti di testi soffermandosi con particolare attenzione sull’uso delle metafore. 6 La partecipazione degli studenti al dibattito è stata molto vivace in tutti gli incontri con domande e riflessioni in un contraddittorio che ha spesso impegnato i relatori in risposte articolate e complesse. Questo Saggio è frutto di un lavoro comune e contiene la rielaborazione di tutto il materiale delle conferenze comprese le migliori relazioni degli studenti che ne costituiscono la seconda parte. L’auspicio è che esso si trasformi in utile quaderno di lavoro per chiunque voglia accostarsi alla tematica affrontata favorendone la ricaduta positiva nella didattica. La Coordinatrice Prof.ssa Licia Fierro 7 Parte prima Le riflessioni degli studiosi 8 Il linguaggio e le Scienze Tullio De Mauro Conferenza del 14 gennaio 2009 Dirigente Scolastico Prof. Franza: Questo è il terzo incontro, durante la mia dirigenza, per il tema di approfondimento culturale del Liceo. Gli altri temi sono stati, quello di due anni fa, Religioni e convivenza civile e quello dello scorso anno, Quale Europa?; quest’anno abbiamo Umanesimo e Scienza. È destinato a tutti, ma in particolar modo agli studenti della penultima e dell’ultima classe. Ho il piacere di avere con noi il Prof. Tullio De Mauro. È stato Ministro della Pubblica Istruzione, è un linguista di fama internazionale, un intellettuale che fa onore al nostro Paese. Per noi è un privilegio averlo qui, al nostro Liceo, in questa serie di conferenze che ha organizzato la Prof.ssa Fierro. È un lavoro durissimo, impegnativo. È stata aiutata dal Prof. Carini e dalla Prof.ssa Dedato. E poi chiaramente le nostre pubblicazioni raccolgono tutti gli interventi degli studenti, interventi bellissimi, devo dire, che vi fanno onore e ci fanno onore. Per quanto mi riguarda, adesso vorrei che ci fosse la massima concentrazione, perché il tema è impegnativo e i nostri ospiti sono veramente così come ve li ho presentati. Allora, se non riuscite a sentire bene, ci organizzeremo meglio un’altra volta. Per adesso lasciamo il campo a quelli che si sono piazzati nelle prime file o comunque sono comodi e sono disponibili all’ascolto. Adesso lascio la parola di presentazione alla Prof.ssa Fierro (applausi). Prof.ssa Fierro: Grazie ragazzi, grazie tante, innanzitutto benvenuti. Siete voi i soggetti più importanti per noi, quello che facciamo è veramente solo per voi, con tantissima dedizione, con molti limiti e però con tanta buona volontà. Quindi, benvenuti a questo primo incontro sul tema di approfondimento culturale di quest’anno, che, come il Preside vi ha ricordato, riguarda il rapporto tra Umanesimo e Scienza. Per prepararci, abbiamo acquistato e messo a vostra disposizione in biblioteca due libri importanti, Contare e raccontare, dialogo sulle due culture, scritto a due mani dal fisico Carlo Bernardini e dal Prof. Tullio De Mauro, e Prima lezione di fisica, un libro un po’ difficile, un po’ ostico, scritto dal Prof. Bernardini. Spero che molti di voi ne abbiano usufruito, proprio per prepararsi a questo incontro. Certo, l’argomento è complesso, è un argomento affascinante, era già da molto tempo che desideravamo affrontarlo in una chiave che fosse anche coerente con le ragioni della didattica. Abbiamo scelto la strada del linguaggio, anche sulla base dell’ispirazione tratta dai libri che ho testé citato. E dunque è con particolare gratitudine, ragazzi, che accogliamo oggi come primo relatore il Prof. Tullio De Mauro, che è uno dei più insigni studiosi italiani di linguistica, materia che egli ha insegnato a lungo nell’Università “La Sapienza” di Roma, dove ha 9 diretto, tra l’altro, il Dipartimento di Scienze del Linguaggio. Il Professore ha presieduto inoltre la Società di Linguistica Italiana e la Società di Filosofia del Linguaggio, ha preparato le voci semiotiche dell’Enciclopedia Treccani, ha curato e diretto il Grande Dizionario Italiano dell’Uso. A partire dalla monumentale Storia linguistica dell’Italia unita, nella sua attività di studioso ha toccato i temi della semantica, le questioni di semiologia e i problemi dell’educazione linguistica, in una molteplicità di scritti di cui chiaramente è impossibile esaurire l’elenco e che, a diverso titolo, però, costituiscono punti di riferimento ineludibili nell’attuale dibattito sulla lingua e sui nuovi linguaggi. Il Prof. De Mauro è, poi, un intellettuale militante – e questa, è anche la bellezza della sua personalità –, non è stato e non è solo uno studioso a tavolino ma è anche un intellettuale militante, capace di accettare le sfide che vengono dalla società civile, dai suoi bisogni, perché, come egli stesso scrive in Contare e raccontare, “non si danno linguaggi senza soggetto, senza radice nella prassi e nei bisogni degli utenti, nelle scelte e determinazioni degli utenti”. Anche per questo lui è qui, oggi, per rispondere a un nostro bisogno, per essere coerente con quello che scrive. Di qui anche l’impegno attivo come direttore della rivista “Riforma della Scuola” e come Ministro della Pubblica Istruzione, come ricordava il nostro Preside, nel Governo Amato, nel 2001. Lasciatemelo dire, in questo tempo di grande mortificazione della scuola pubblica italiana – bisogna ancora chiamarla scuola pubblica italiana –, travolta da provvedimenti improvvidi, che ne snaturano la funzione, discutere seriamente di studia humanitatis e di scienza, vuole anche essere testimonianza di vitalità e di resistenza ad ogni forma di oscurantismo. Perciò Le siamo doppiamente grati, caro Professore, e ascoltiamo con gioia, siamo veramente contenti di ascoltare la Sua lezione cui Ella ha dato il titolo “Il linguaggio e le Scienze”. Grazie, grazie tante. Prof. De Mauro: Vi ringrazio moltissimo, non abbiamo molto tempo, non ringrazio perciò nei dettagli il Preside, la Professoressa e voi. “Il linguaggio e le scienze” è il titolo che abbiamo concordato qualche mese fa con la vostra Professoressa e al centro delle considerazioni che cerchiamo di fare stamattina c’è quello che chiamiamo linguaggio verbale. L’aggettivo “verbale” ormai è utile tirarlo fuori, perché negli ultimi trenta, quarant’anni abbiamo imparato a conoscere molti linguaggi non verbali. Linguaggi gestuali, per esempio, linguaggi che gli esseri umani adoperano, linguaggi gestuali, linguaggi simbolici, linguaggi delle segnaletiche, e poi l’orizzonte si è allargato a partire dal ’45-’50 in poi. Si è allargato alla conoscenza del mondo degli altri animali, diversi dagli umani, e abbiamo imparato a conoscere molti linguaggi di altre specie animali. Addirittura, sembra quasi di potere e di dovere dire, ormai, che non c’è specie vivente che non abbia un suo sistema di comunicazione e un suo linguaggio. Di qui l’opportunità di chiarire dall’inizio che vogliamo parlare del linguaggio verbale, cioè del linguaggio fatto di verba, come si diceva in latino – voi lo sapete bene –, cioè fatto di parole, il linguaggio che consiste nell’adoperare una lingua storico-naturale, una delle tante lingue del mondo. Sapete che sono tantissime le lingue del mondo. Avete un’idea? Posso provare a chiacchierare con gli studenti? (Si rivolge alla platea) Lei ha un’idea di quante saranno le lingue del mondo? Dieci, cento, mille, un miliardo? Quante? Trecento? No, molto di più. Un po’ di più di duemila, parecchio di più. Chi ha detto settemila? Bravo, ha vinto! Bene, all’incirca oggi ne contiamo circa settemila – qualcuno glielo ha detto, a lui, e quindi ha indovinato. 10 Adoperare una delle settemila lingue del mondo, questo significa adoperare il linguaggio verbale. La tesi che volevo esporvi – e sentirete invece poi il Prof. Bernardini che ha qualche dubbio su questa tesi –, lo dico subito, la tesi che volevo esporvi è che il linguaggio verbale è un complemento necessario delle elaborazioni umane complesse, delle elaborazioni di cui il nostro cervello, la nostra mente è capace quando queste siano di una qualche complessità. Parlo di elaborazioni sia cognitive, che riguardano la conoscenza, la sistemazione della conoscenza, la ricerca di nuove conoscenze, sia operative, come quelle che facciamo quando progettiamo la realizzazione di qualche cosa, operativamente. Allora, quando siamo impegnati in queste elaborazioni, il linguaggio verbale è qualcosa a cui ci è difficile rinunciare. Dietro le parole che sto adoperando forse scorgete anche l’idea che il linguaggio verbale non è, a mio avviso, una totalità che abbracci tutto. Ci sono delle cose importanti che noi esseri umani facciamo e realizziamo al di qua del possesso e dell’uso attivo del linguaggio verbale. C’è un famoso esempio, fatto da un filosofo italiano di cinquant’anni fa, cent’anni fa, che si chiamava Guido Calogero, il quale osservava che, se in automobile vedo un ostacolo e decido di frenare, faccio una serie di operazioni molto complesse. Non è semplice percepire, vedere, decidere di frenare in un certo modo, deviare. Bene, tutto questo avviene nello spazio di poche frazioni di secondo, se siamo dei bravi guidatori. E avviene senza che noi verbalizziamo, senza che traduciamo in parole tutto ciò che decidiamo di fare e facciamo. E si potrebbero moltiplicare, questi esempi. In tanti ambiti ci muoviamo, almeno nell’immediatezza, senza un intervento specifico e necessario delle parole. Però quando l’elaborazione e la progettazione si fa complessa, alle parole è difficile rinunciare. La tesi, le due idee che volevo sottoporvi sono appunto che la presenza del nostro linguaggio verbale nelle nostre attività complesse è qualcosa che non dobbiamo sottovalutare o ignorare ma non dobbiamo neanche, come ho già accennato, sopravvalutare. Diciamoci di nuovo bene perché, almeno a mio avviso, non va sopravvalutata la presenza del linguaggio verbale. Sia per quei casi che ho evocato con il vecchio esempio di Calogero, e altri se ne potrebbero evocare, quei casi in cui noi facciamo qualche cosa al di qua del verbalizzare ciò che stiamo facendo. E questo è un aspetto. Ma poi non va sopravvalutata la presenza del linguaggio verbale perché esso stesso, il linguaggio verbale o, diciamo più concretamente, le parole che noi adoperiamo, non è che vivano da sole. Vivono, significano, ci servono e servono per capire, per capirci tra di noi e per capire le cose, ci servono in quanto si incastrano in una serie di attività, di pratiche. Impariamo le parole in parte attraverso altre parole, ma soprattutto le impariamo nell’uso che facciamo noi, che ne viene fatto da altri, l’uso in situazioni concrete. Pensate a parole come dentro e fuori. Dove, quando le abbiamo imparate? Beh, non è che le abbiamo imparate guardando il vocabolario e le definizioni che ne vengono date con altre parole in un vocabolario. Le abbiamo imparate, anche se da adulti non ce ne ricordiamo più, le abbiamo imparate da piccolissimi. Quando abbiamo vissuto esperienze come lo stare nella gabbietta a rete o fuori della gabbietta a rete, chissà come, chissà quando, oppure in una stanza o fuori della stanza, quando ci è stato detto “Vai fuori”, quando ci è stato detto “Stai dentro”, in un contesto di pratiche, di sollecitazioni perfino fisiche che ci hanno costretto a uscire o entrare in uno spazio circoscritto. . 11 E così sopra, sotto, e così anche le parole andare, restare, stare fermi, sono tutte parole che costituiscono il nucleo da cui partiamo per imparare altre parole che impariamo in situazione. Che vuol dire questo? Che lo stesso linguaggio verbale non è autosufficiente, ha bisogno delle pratiche, degli usi, ha bisogno di un addestramento. Ricordo, chi fa le terze lo ha già trovato, questo grande filosofo molto bizzarro, austriaco di origine, poi vissuto in Inghilterra, si chiamava Ludwig Wittgenstein. Non lo avete ancora incontrato? Era una persona un po’ bizzarra. Ha fatto il maestro nelle scuole elementari, era di una famiglia molto ricca, ha scritto la sua prima opera giovanissimo in un campo di concentramento qui in Italia. Lui era un soldato austriaco, era stato mandato nel campo di concentramento a Monte Cassino e lì ha scritto la sua prima opera, che si chiamava, con un titolo latino, ma era scritta in tedesco, Tractatus logico-philosophicus, un tentativo di dedurre da premesse, da principi primi, l’architettura fondamentale dei saperi. Poi è tornato a Vienna, e nella sua stravaganza ha rinunciato ai beni della sua ricca famiglia e si è messo a fare il maestro di scuola in un paesino delle montagne austriache. Poi si è stufato anche di questo, ma intanto era diventato molto celebre, è andato in Inghilterra e lì Bertrand Russell, che era un grande logico, un grande accademico inglese, lo ha fatto entrare all’università dove ha insegnato, e poi ha scritto delle cose, raccolte in un’opera che si chiama Ricerche filosofiche, in cui smentisce, critica la sua prima opera. Insomma, questo è un personaggio abbastanza bizzarro e dobbiamo a lui una grande insistenza su quello che sto cercando di dirvi, che le parole le impariamo e funzionano in quanto sono immerse e immesse in una serie di pratiche, di training, di Dressung, dice in tedesco, se voi sapete il tedesco, Wittgenstein, training è stato tradotto in inglese, “addestramento”. A patto che noi le adoperiamo appropriatamente, in vista di fini particolari, in vista di parlare a persone determinate in situazioni particolari, le parole funzionano bene, ma, quindi, funzionano in quanto sono correlate a qualcosa che è al di là delle parole stesse: cose, situazioni, interlocutori. Ecco perché a me parrebbe che non dobbiamo sopravvalutare il linguaggio. Ma questo non deve portarci a un estremo opposto, cioè a una sottovalutazione del ruolo del linguaggio nelle costruzioni di cui la mente umana è capace, quando operiamo, quando facciamo qualcosa, progettiamo qualche cosa e la realizziamo, e quando elaboriamo conoscenze in forma complessa. Perché non dobbiamo sottovalutarlo? Che cosa ci dà il linguaggio, in che cosa ci aiuta nelle nostre costruzioni più complesse? Ci sono due caratteristiche, tra le molte che caratterizzano il linguaggio verbale rispetto ai linguaggi di altre specie, o rispetto ai linguaggi simbolici di cui parleremo anche, tra un pochino, di cui la specie umana è capace, ci sono due caratteristiche su cui vi chiederei di fermare un attimo la vostra attenzione. La prima è una caratteristica che ha a che fare col significato delle parole e delle frasi, è una caratteristica che ha a che fare col significato e che quindi diciamo semantica. Semantica oggi è il nome di una scienza, è una parola di origine greca, σημαντικός́ voleva dire in greco “indicativo” e così è adoperato questo aggettivo da Aristotele. E da quell’aggettivo abbiamo tratto il sostantivo semantica per indicare lo studio scientifico del significato. È una parola relativamente giovane rispetto a tutto il vocabolario intellettuale perché è stata adoperata per la prima volta in questo senso nel 1884 da uno studioso francese che si chiamava Michel Bréal. Bréal adopera sémantique , in italiano semantica, abbiamo detto, alla fine dell’Ottocento. La semantica è lo studio scientifico del significato e semantico vuole dire “relativo al significato”. Allora, c’è una caratteristica semantica del linguaggio verbale su cui dobbiamo fermare l’attenzione, una caratteristica che ha attratto a più riprese l’attenzione dei 12 grandi filosofi e dei grandi studiosi che nei secoli si sono occupati di linguaggio ed è la flessibilità, la dilatabilità o restringibilità del significato delle parole. Se volete, anche la equivocità che le parole hanno. Se voi ricordate quel che avete incontrato in prima liceale, presumo, studiando Socrate, studiando Platone, ecco, avete incontrato un momento in cui nelle città greche, nella città greca più colta dell’epoca, nel V secolo a.C., si comincia a percepire il fatto che le parole hanno dei significati slabbrati, che vanno in tante direzioni diverse, e quindi bisogna – era la grande idea di Socrate, del Socrate storico, sembrerebbe, quello più autentico – bisogna dialogare, discutere per cercare di determinare in che senso tu stai adoperando una parola. Parole alte, come virtù, o parole della vita quotidiana, come camminare o scarpa, calzare. E quest’idea, poi, è ripresa dai grandi continuatori di Socrate, da Platone e, soprattutto, è ripresa sistematicamente da Aristotele. Aristotele è il primo che non solo riconosce che è fisiologico, che è naturale che ciascuna parola possa avere tanti significati diversi, lo dice ripetutamente con una formula greca, ciascuna parola πολλαχω̃ς λέγεται, ciascuna parola “si dice πολλαχω̃ς”, che vuol dire “in tanti modi diversi”. Questo è naturale agli occhi di Aristotele, che cerca anche di lavorare su questa nozione di vaghezza del significato, dei confini di significato di una parola, in due direzioni: nella prima, elaborando una teoria dei trasferimenti di senso. Trasferimento di senso, in greco antico, ma anche in neogreco, trasferimento, trasporto, se si siete stati ad Atene – qualcuno è stato ad Atene? Eh, tutti! – avete visto i tram – ci sono ancora, per fortuna, alcuni tram ad Atene – avete visto cosa c’è scritto sopra, μεταφοραί ηλεκτρικαί, “metafore elettriche” alla lettera. I trasporti pubblici si chiamano tuttora in neogreco “metafore”, e metafora vuole dire questo, voleva dire questo per Aristotele, “trasporto”, trasporto di una parola da un senso ad altri sensi. Aristotele è il primo, per quello che ne sappiamo, a delineare una teoria complessiva dei modi in cui una parola cambia di senso e passa ad altro significato. E questa è una delle direzioni della sua riflessione su questo punto della flessibilità dei significati di una parola. L’altra direzione, per lui molto importante, è una direzione politica, politica nel senso più proprio, più alto del termine, forse dobbiamo dire civile. Nella vita civile, nell’amministrazione della πόλις, là soprattutto, prima ancora che nelle scienze, è importante che tu, se adoperi una parola, la adoperi in un modo determinato, e cioè in un contesto determinato, e questo è possibile. Ad Aristotele la cosa interessa per battere lo scetticismo dei sofisti, che vuole battere perché in una città bene ordinata se tu dici una cosa, devi riferirti a un senso dei tanti sensi possibili della parola, altrimenti non ci si capisce più. Ma anche tu, scettico, questo è l’argomento che Aristotele adopera nella Metafisica, anche tu scettico, se vuoi sostenere la tua tesi secondo la quale è possibile dire tutto e il contrario di tutto, giocare con le parole, anche tu puoi sostenere che il bianco può essere nero e il nero può essere bianco, a patto che nel momento in cui tu usi “bianco” ti riferisci a una cosa effettivamente bianca, altrimenti cade la possibilità stessa della tua argomentazione. In tanto tu puoi dire che due vuole dire trentatré o sessantaquattro oppure due, in quanto in questo momento per te “due” è quella determinata parola. Se non c’è questa condizione di determinatezza semantica almeno in un dato contesto, cade il senso, cade la possibilità della dimostrazione scettica. Bene, quindi Aristotele era molto interessato al tema, all’aspetto che qui ci interessa. E così tante volte nei secoli è riaffiorato questo interesse accanto a un interesse in chiave negativa, perché questo fatto che le parole siano così, di significato sfuggente e flessibile, ad alcuni, nei secoli, non è piaciuto. Non sarebbe meglio avere delle parole tutte con un significato determinato e sempre e solo determinato? Lascio 13 per il momento senza risposta questa domanda e però comincio a chiedervi di osservare che è proprio grazie a questa pluralità di determinazioni, proprio al fatto che i sensi della parola che noi abbiamo conosciuto e adoperiamo possono allargarsi o restringersi, noi possiamo dare continuamente alle parole i, beh, i sensi nuovi con cui costruiamo i rapporti tra di noi prima ancora che con i saperi nuovi. Se restassimo chiusi nei confini di significato che già conosciamo di una parola, non riusciremmo a costruire con quella parola nuovi saperi. Mille esempi dalla storia della scienza, ma mille esempi anche dalla nostra vita quotidiana. Dalla storia della scienza: se noi non avessimo potuto prendere la parola atomo, per venire a un ovvio esempio dei colleghi fisici, se noi non avessimo potuto prendere questa parola, atomo, che è nata per indicare qualcosa di indivisibile – questa, come voi sapete, è l’etimologia di atomo, era il limite estremo della divisibilità nella visione della fisica antica – ebbene, lavorando su ciò che questa parola indicava, abbiamo scoperto, voi sapete, che è possibile spezzare questo indivisibile, in realtà dividerlo. E atomo nel linguaggio della fisica, ma ormai anche nell’uso corrente oggi indica qualcosa di diverso, indica non un elemento ultimo, ma indica un elemento in cui riconosciamo la presenza di particelle elementari di varia natura, dagli elettroni ai protoni in giù. L’espansibilità del significato ha garantito la possibilità di lavorare sulla nozione di atomo e cambiarla radicalmente. E questo avviene anche nella nostra vita quotidiana: è nel rapporto con altre persone che noi scopriamo la possibilità di ampliare il significato delle parole a cui eravamo abituati. Senza la possibilità di far variare il significato delle parole e delle frasi non andremmo probabilmente lontani nella nostra vita sia quotidiana sia intellettuale. L’altra caratteristica su cui dobbiamo fermare l’attenzione è quella che ha un nome un po’ astruso, la chiamiamo metalinguisticità riflessiva. Che cos’è un metalinguaggio riflessivo? Prima ancora, chiediamoci che cos’è un metalinguaggio. Un metalinguaggio è un linguaggio A che è in grado di descrivere un altro linguaggio più semplice, un linguaggio B, che chiamiamo linguaggio oggetto. Un’algebra, le formule dell’algebra, le formule apparentemente denumerate, senza numeri, dell’algebra, ci danno conto del funzionamento delle operazioni aritmetiche. L’algebra è un primo esempio di un linguaggio più potente, di un metalinguaggio che descrive e dà conto del funzionamento del linguaggio aritmetico, che è il linguaggio oggetto. Nozione anche questa che ha tutta una sua storia, in parte divertente, perché quello che mi accingo a dire, cioè che le lingue sono fatte in modo da poter funzionare da metalinguaggio di se stesse, questo fatto è stato colto anzitutto in chiave negativa, come fonte di paradossi, dai logici antichi, dai grandi logici e matematici che il mondo greco ospitava accanto ai grandi poeti, ai grandi filosofi, a cui siamo abituati a prestare reverenza. I logici stoici, della scuola stoica, si erano accorti che gli usi metalinguistici riflessivi delle parole, cioè usare le parole per significare le parole stesse, usare gli enunciati per descrivere lo stesso enunciato, questo può creare dei paradossi. E uno dei più celebri paradossi su cui riflettevano, era il paradosso detto “del mentitore”. 1 Chi dice “io mento” dice il vero o mente? Come stanno le cose? Se io dico “io mento”, ancora meglio, in italiano “io sto mentendo”, descrivo me stesso, adopero le parole della lingua italiana per descrivere le parole che sto dicendo nella lingua italiana, adopero “io sto mentendo” 1 È il celebre “paradosso del mentitore”, formulato da Eubulide di Mileto (IV sec. a Cr.), della scuola di Euclide. Diogene Laerzio riporta i sette paradossi, quali affermazioni contraddittorie e indimostrabili, di Eubulide (Diog. II 108), tra cui altrettanto celebre è quello del “sorite” (il mucchio). Sulla storia del paradosso di Eubulide e sulle soluzioni date dai filosofi vd. il breve testo di Piergiorgio Odifreddi, Storia apocrifa di un mentitore, accessibile sul sito vialattea.net. all’indirizzo www.vialattea.net/odifreddi/paradossi/paradossi2.htm 14 metalinguisticamente in modo riflessivo, per descrivere ciò che sto facendo. Bene, domanda (si rivolge alla platea): se io dico “io sto mentendo”, dico il vero o dico il falso? Che dici? Perché è irrisolvibile? Qualcuno dice che è irrisolvibile. Perché? Proviamo a ragionare un momentino. Io dico “io sto mentendo” per descrivere quello che sto facendo. Se dico il vero, cioè se è vero che sto mentendo mentre dico “sto mentendo”, allora non sto mentendo, sto dicendo il vero. Ma se sto dicendo il vero, dicendo che sto mentendo, allora è vero che sto mentendo. Ma se è vero che sto mentendo, allora sto mentendo, cioè non sto dicendo il vero. Cioè, entro in un circolo vizioso irresolubile, da qualunque parte abbordi la cosa. Lo vedete? Non tanto? Fidatevi, sappiate che un signore di cui in questo momento non mi ricordo il nome, un grande logico alessandrino dell’età di Alessandro Magno, cominciò, come la vostra collega e come ho fatto io, ma con più scrupolo e più tenacia, a cercare di risolvere questo paradosso. E fu tanto preso da questo lavoro, che smise di mangiare, smise di bere, smise di dormire e, poveretto, morì di inedia, senza risolvere peraltro il paradosso. 2 Questo fu un modo, vedendone i difetti possibili, di percepire questo fenomeno caratteristico delle lingue, per cui possiamo adoperare le parole di una lingua per parlare delle parole di una lingua. La cosa è andata avanti, anche nel Medioevo c’erano grandi studiosi di logica, di filosofia, i quali avevano riflettuto sul fatto che gli usi metalinguistici non segnalati in modo appropriato creano paradossi, e avevano inventato, come esempio, l’esempio del topo, il famoso sillogismo, famoso per loro e anche per noi linguisti, che diceva, in un latino abbastanza semplice, Mus est syllaba, “mus è una sillaba della lingua latina”, syllaba non rodit caseum, “la sillaba non mangia il formaggio”, ergo, “dunque”, mus non rodit caseum, “il topo non mangia il formaggio”. Chiaro: mus in latino voleva dire anche “topo”. Quindi, tradotto in italiano, potremmo dire: “topo è un bisillabo, i bisillabi non mangiano formaggio, dunque topo non mangia formaggio”, giocando sul fatto che adopero in due modi diversi “topo”, una volta per indicare metalinguisticamente e riflessivamente il significante della parola “topo” e una volta per indicare i topolini. Da qui la conclusione fallace. C’è voluto molto tempo per capire che questa fallacia, come dicono i logici, questo punto debole della metalinguisticità riflessiva è anche la sua forza. E per capire che, lasciamo perdere i paradossi dei logici, dei matematici, dei filosofi scolastici, che non sapremmo come vivere tra di noi, senza ricorrere continuamente a questa cosa dal nome astruso ma dalla realtà quanto mai quotidiana e banale, senza ricorrere all’uso metalinguistica riflessivo. Come quando continuamente diciamo: “Che stai dicendo? Che vuoi dire? Ma che hai detto? Ma che significa per te questa parola?” Oppure ci spieghiamo. Come vedete, cerco di parlare in italiano corretto, ma spesso lo diciamo in dialetto: “Ma che vuoi dire?” Traducetelo in romanesco: “Ma che stai a di’?”, per essere gentili, è vero, perché è possibile andare avanti su questa strada. La prossima volta che sentite un’espressione un po’ forte per dire “Che cosa stai dicendo?”, potete dire alla persona che adopera l’espressione forte: “Non mi piace il tuo metalinguaggio riflessivo” (risate della platea), così, tanto per stabilire un rapporto. È una cosa assolutamente umana, è una cosa continua che noi facciamo per cercare di interrogare gli altri o per spiegare quello che noi stiamo cercando di dire. Questa proprietà è molto importante. Io ho cercato di parlarne con amici scienziati e non sono sicuro di essermi spiegato bene, per l’appunto, di aver avuto un buon metalinguaggio riflessivo per spiegarmi. Per spiegare che questa proprietà è quella che ci garantisce, insieme alla flessibilità dei significati, la costruzione dei linguaggi tecnici e dei linguaggi scientifici. Che cosa è, 2 È il logico Filita di Coo (340-285 a.C.). 15 come nasce, come si forma un linguaggio scientifico? Ma prima di arrivare al linguaggio scientifico partiamo terra terra, come piaceva fare a Socrate, partiamo terra terra, dai calzolai, dai muratori, dagli scalpellini, dai pescatori, partiamo dai linguaggi che negli ambiti tecnici si creano per capire le operazioni che in un ambito tecnico – vedete, di nuovo il training, l’addestramento a una pratica – per capire le operazioni che in un training, in una pratica determinata si fanno. Pensate a una parola come “punta”, quante cose può voler dire. Per chi fabbrica scarpe, per chi ripara scarpe, per quello che un tempo – oramai quasi non ne esistono più – per quello che un tempo si chiamava il ciabattino, lo scarparo a Roma – oramai sono pochissimi, bisogna andarli a cercare e pregarli in ginocchio che riparino, chi di noi ha scarpe di cuoio, insomma, che meritano di essere salvate attraverso le stagioni, quindi è un’esperienza ormai rara per la generazione più giovane – bene, per uno scarparo “punta” è una parola che nel suo ambito indica un rinforzo. Quanti significati ha! Queste parole si determinano nel loro ambito tecnico in modo molto preciso, che consente di capirsi tra ciabattini, ma anche tra cliente e ciabattino, in ordine a determinate operazioni tecniche. E pensate agli altri sensi che “punta” può avere in uno spolettificio, in una squadra di calcio, per chi studia un iceberg eccetera. Nell’ambito delle tecniche anche più elementari comincia ad affiorare questo aspetto che non contraddice la equivocità, la pluralità di sensi che una parola può avere, ma è proprio correlato a quello. In un ambito tecnico una parola acquista un significato specifico e determinato. E questo è prezioso per il funzionamento della tecnica e di quella parola in quella tecnica. Questo primo passo è quello che possiamo chiamare il primo passo di un processo di determinazione semantica delle parole correnti di una lingua ed è il primo passo di ciò che chiamiamo formalizzazione. Se fate un simposio con il vostro insegnante di filosofia e con l’insegnante di matematica, cercate un po’ di mettere insieme ciò che essi ci insegnano e vi insegnano sulla formalizzazione, il cui primo passo è proprio questo: mettersi d’accordo sul fatto che una parola, che nella lingua, nell’uso generale di una lingua, ha tanti significati, in un ambito particolare vorrà dire questo e soltanto questo. Una parola? Non basta una parola. Il secondo passo della formalizzazione è determinare quali sono le parole necessarie a costruire i discorsi in un campo specifico delle tecniche o dei saperi. Questo lavoro di determinazione delle parole, non solo del significato di una, ma di più parole coordinate tra di loro in vista della costruzione dei discorsi corretti in un campo del sapere, porta come passo successivo alla chiusura delle parole di base di un campo del sapere. Questa chiusura è un momento decisivo. Da quel momento in poi non è che una scienza non può più adoperare altre parole oltre quelle, ma può adoperare parole nuove solo a patto che ne costruisca il significato a partire dalle parole di base. Bene, andiamo avanti, all’ombra, come diceva… Chi diceva “Combatteremo all’ombra”? Leonida, benissimo, alle Termopili! Continueremo un attimo, se avete pazienza, all’ombra. Io mi avvio quasi a concludere, il discorso può andare avanti ore. Ma come ho cercato di dirvi un po’ alla buona, si può dire anche più nobilmente, eventualmente nel testo scritto nobiliteremo questo parlar disadorno a cui sto ricorrendo, come vedete c’è una cosa, che chiamiamo oramai in latino, un continuum o, in italiano, c’è una continuità tra la determinazione del senso di una parola occasionale per incastrare il sofista a cui pensa Aristotele nella Metafisica, alla determinazione dei sensi di una parola in un ambito tecnico, al dire “Beh, adesso metto insieme tutte le parole che mi servono in quest’ambito” e al dire “Ora chiudo le parole che fanno da 16 primitivo” – ricordatevi questa parola –, fanno da parola primitiva, in base a cui io introdurrò nuove parole se mi servono, definite con i primitivi, con la lista chiusa dei termini primitivi. Su questa strada, che è quindi un continuum, si procede sulla via della formalizzazione fino ai livelli più alti, che sono quelli in cui si decide in base ai primitivi, che sono, attenzione!, parole di una lingua storico-naturale di cui determiniamo il significato grazie a una convenzione metalinguistica riflessiva. La parola “punto” o la parola “retta” o la parola “piano” da ora in poi significheranno solo questo: un’entità indivisibile geometrica, senza dimensioni, un’entità con una sola dimensione, un’entità con due dimensioni. Va bene? Con le parole del greco, o di un’altra lingua, introduco i primitivi della geometria euclidea e a partire da questi primitivi introduco, poi, un numero sterminato di altre parole: tutti i nomi di tutti i poligoni oppure proprietà dei poligoni, etc., ma sempre partendo dai primitivi. Che quindi hanno la funzione in una formalizzazione spinta, di assiomi, di principi fondamentali. Le parole di una lingua storico-naturale, il cui significato è definito, grazie all’uso metalinguistico riflessivo, funzionano da postulati, da assiomi, su cui si costruisce un campo del sapere. Come Euclide ha fatto con la geometria. Ma il livello più alto di formalizzazione è quello in cui, grazie ai primitivi e all’uso metalinguistico riflessivo, decido di abbandonare le parole di una lingua e di servirmi di simboli che scavalcano le singole lingue e valgono per qualsiasi lingua. Questa strada, che tante volte è piaciuta nel corso dei secoli, a chi si è occupato della cosa, ha un precedente assolutamente ovvio, come la nozione di metalinguaggio riflesivo, è un po’ la stessa cosa. Noi lavoriamo a estrarre il significato, la valenza intellettuale e scientifica da cose che abbiamo sperimentato terra terra, senza sapere prima che avevano questa straordinaria valenza. Cosa voglio dire? Che l’idea di arrivare a delle simbologie che superano la diversità delle settemila lingue del mondo e che valgono per tutte le lingue – simbologia, insieme di simboli con un significato determinato – quest’idea ha una radice antichissima, assolutamente banale, intellettualmente non consapevole all’inizio, che è quella dei numeri. I numeri, con buona pace di tutti quelli che considerano scissi i campi del sapere, prima di essere e per essere numeri sono parole. Uno, due, tre, cento, mille, sono parole. Il nucleo di queste parole è un nucleo certamente molto antico nella storia delle popolazioni che parlano e hanno parlato anche altre lingue, ma che hanno parlato le lingue indoeuropee, a cui appartengono l’italiano, il latino, il greco, il tedesco, l’inglese. Ce ne accorgiamo perché le parole da uno a dodici, e poi i nomi delle decine, i nomi delle centinaia, hanno una radice comune in tutte le lingue indoeuropee. Dunque, già intorno al 4000-5000 a.C. dovevano esistere queste parole-numero, per dire uno, due, tre, quattro, cinque, sei, dieci, cento. Questo è stato un passo importante. Chi ha cominciato a dire, non avrà detto “cinque”, avrà detto quinque, avrà detto πέντε, non lo sappiamo bene cosa avrà pronunciato. Chi ha detto una parola per indicare un insieme di cinque elementi, ha compiuto il primo passo sulla via della formalizzazione. Cioè ha detto: “Questa parola da ora in poi vorrà indicare solo un insieme di cinque elementi, e quest’altra solo un insieme di sei elementi, e la parola che vuol dire sei elementi non può essere adoperata per dire cinque elementi, e la parola che vuol dire cinque non può essere adoperata per dire sei”. Questo è quello che abbiamo descritto, come primo passo della formalizzazione, che comincia con la scoperta della possibilità di determinare delle parole in funzione di significati molto precisi e determinati. 17 Il secondo passo, più faticoso del primo, lo vediamo compiersi nella storia dei popoli, nel Tibet, nell’Asia Centrale, in Mesopotamia, in Grecia, quando si comincia a cercare di trovare un equivalente scritto alle parole della lingua o delle lingue che si parlavano, e cammina cammina – la storia è affascinante ma non abbiamo tempo di raccontarla –, cammina cammina si arriva a delle popolazioni tra Tibet e India che si inventano un certo sistema, che poi arriva in Egitto e viene popolarizzato dai grandi studiosi arabi, si inventano un sistema per indicare con delle cifre, eguali per tutte le lingue, e al di là delle lingue, le parole-numero e i significati delle parole numero. A un certo punto si inventa una cifra per indicare il valore d’insieme di un solo elemento, per indicare l’insieme di due elementi, l’insieme di tre elementi ecc. Queste cifre, che noi chiamiamo arabe, e che in realtà sono sino-indiane, sono il primo esempio mirabile, bisogna dire, di un linguaggio nato sul terreno dell’uso metalinguistico e semanticamente determinato delle lingue storico-naturali, che scavalca la pluralità e l’indeterminatezza delle lingue storico-naturali. Ed è il linguaggio di cui poi si serve l’aritmetica e di cui si servono tutte le scienze. Prima di capirne la straordinaria valenza lo abbiamo inventato e lo abbiamo usato. E anche da bambinetti adoperiamo i numeri, prima ancora di capire quale straordinaria cosa stiamo facendo e quali orizzonti stiamo aprendo. Io, per non tediarvi troppo, aduggiarvi troppo, annoiarvi troppo, tenderei a fermarmi qui, perché credo di avervi dato abbastanza spunti, se non altro, su quel che mi pare di dover pensare: 1) che senza l’aiuto delle parole nella loro indeterminatezza non le determineremmo neppure e non riusciremmo a costruire né i numeri né i sistemi assiomatici delle altre scienze e di tutte le scienze; 2) implicito in questo, è che vi è una unitarietà radicale, in radice, di tutti i campi tecnici – con buona pace dell’amico Bernardini che considera le tecniche una cosa vile – e di tutti i campi scientifici. Cioè, io credo che vi sia una sostanziale continuità tra i diversi campi di studio. Mi fa piacere ricordare in conclusione che non sono il solo a pensare questo, siamo in tanti. Volevo ricordare alcuni casi illustri, perché sono gli scienziati delle scienze dure i più restii a dire: “Ma sì, tra gli studi storici o letterari e gli studi della fisica teorica c’è – è chiaro che sono diversi –, c’è un continuum”, che è costituito dal fatto che ugualmente ricorriamo a processi di determinazione dei significati delle parole, e di assiomatizzazione del loro uso. Dunque, sono loro e quindi permettetemi di scegliere due esempi tra i molti che credono nella continuità, nella non divaricabilità tra i campi del sapere, due nomi: uno è quello di Albert Einstein, a voi ben noto, il quale ha insistito molto nella sua autobiografia scientifica, nella sua autobiografia intellettuale, nel dire: “Attenzione, gran parte di tutto quello che noi sappiamo, in sintesi noi lo dobbiamo alle lingue che abbiamo imparato a parlare da bambinetti, e questo ci consente di costruire nuovi saperi determinati”. L’altro, molto esplicito sul punto della contiguità e continuità dei campi di sapere umanistici e scientifici, è un grande ingegnere e fisico degli anni Trenta e Quaranta, che si chiamava Richard von Mises, che ha scritto un bel libretto, piccolo, Manuale di scienze positive, in cui sostiene proprio questa tesi, che in linea di principio, non c’è nessuna discontinuità radicale tra gli studi umanistici – purché non siano fatti a chiacchiere, ovviamente, questo va da sé – e gli studi delle scienze dure, matematiche, fisiche e naturali. Questa continuità è garantita dal fatto che tutte devono ricorrere alla determinazione delle parole delle lingue storico-naturali in sé, nel loro intrinseco, indeterminate, tutte devono ricorrere al linguaggio riflessivo per costruire i loro linguaggi più determinati, tutte infine, dal più al meno, anche le più astratte, devono fare riferimento alle pratiche che ordinano, per verificare, o anche come alcuni dicono meglio, per falsificare le loro affermazioni. E quindi c’è una intelaiatura comune ai diversi campi di sapere, intelaiatura in cui il linguaggio ha una 18 funzione fondamentale, intelaiatura che noi possiamo costruire solo col e grazie al linguaggio. Vi ringrazio dell’attenzione (applausi). Prof.ssa Fierro: Ragazzi, come siamo abituati voi sapete che l’intervallo lo facciamo alla fine di questo nostro momento di riflessione comune. Scusate per i nostri mezzi tecnici sempre poco adeguati alle circostanze, questo microfono ogni tanto fa i capricci. Dunque, dopo questa prima parte frontale, così ricca anche su alcuni piani – dovete convenire con me –, anche difficile, no?, perché entriamo anche all’interno di una pratica del linguaggio che ci è solo in parte conosciuta – poi, il professore per quanto possa aver costruito un discorso accessibile a noialtri, a me per prima otre che a voi, è chiaro che gli aspetti più tecnici ci incutono da una parte soggezione, dall’altra però ci spingono a riflettere per capire, credo che questo avvenga in me che sono un’adulta come in voi, forse a maggior ragione in voi e con strumenti maggiori. Allora come sapete la seconda parte della mattinata, proprio voi come soggetti interagite con il relatore. Quindi io adesso aspetto le vostre domande, le vostre curiosità. Ci comportiamo così, facciamo prima quattro o cinque domande alle quali il professore risponde, e poi un secondo turno di domande. Se ce ne sono già, noi cominciamo subito. Non faccio la mia, poi la farò, prima voi. Naturalmente tutti sono invitati a fare domande, anche gli adulti presenti, non i vogliamo escludere a priori. Anche se naturalmente voi siete i primi in senso assoluto. Silvia: Salve, buongiorno, sono Silvia. Lei attribuisce giustamente grande importanza al linguaggio, che è fondamentale, lo penso anch’io, nella storia dello sviluppo umano. Le volevo domandare: il linguaggio, a meno che non si parli da soli, è prevalentemente dialogo, quindi interrelazione con gli altri. Guardandomi intorno, in particolare nel panorama politico attuale, diciamo, non per essere qualunquista, però vedo tutto fuorché dialogo fra le parti. Quindi, le volevo domandare se, secondo lei, la mancanza di dialogo, quindi l’impossibilità di arrivare a un compromesso è strutturale della politica oppure è un vizio italiano oppure è una qualità, comunque, della politica che si va abbassando. Grazie. Flaminia: Salve, sono Flaminia. Le volevo chiedere innanzitutto una puntualizzazione, perché non avendolo studiato non vorrei fare un errore. Allora, per significante s’intende il termine con cui si dà il significato, giusto? Prof. De Mauro: È l’involucro, la parte esterna. Silvia: Perfetto. E quindi, inerente a questo, volevo chiederLe: secondo Lei, quanto c’è nel dialogo di significante e quanto di significato, ovvero paradossalmente si potrebbe ridurre il significante al massimo e conservare comunque il significato? Ad esempio, se io voglio spiegare a una mia amica, raccontarle che ho fatto un incidente con la macchina, posso definirlo paradossalmente con un’onomatopea, ad esempio crash!, cioè riducendo totalmente il significante se posso conservare il significato? 19 Maya: Sono Maya. Volevo chiedere se poteva essere considerato parte della formalizzazione del linguaggio, per esempio, il trasformare la parola “stop” in un simbolo come il cartello stradale, e poi se il fatto di utilizzare parole straniere in tutte le lingue, come per esempio “computer”, è una specie di formalizzazione o rientra in qualche definizione. Adriano: Lei nel libro Contare e raccontare afferma che anche l’italiano è adatto alla divulgazione a livello internazionale. Allora come si può spiegare il predominio dell’inglese o la recente ascesa dello spagnolo. Questo è dovuto a una maggiore semplicità o ad altri motivi? Prof. De Mauro: Cerco di rispondere il più telegraficamente possibile per potere parlare anche di altro. Silvia, dialogo necessario al funzionamento del linguaggio, ma poi guardiamo intorno, apparentemente poco dialogo, specie nella vita politica. È un vizio italiano? È un vizio della vita politica? Comincerei col dire che non è necessariamente un vizio della vita politica, perché in qualche modo l’attività politica deve costruirsi il consenso, e quindi deve tenere conto, comunque sia orientata – anche se è un po’ sgradevole ammetterlo –, di quello che pensano e di come parlano gli altri. Cioè c’è una eticità, una moralità radicale, dialogica, del linguaggio politico, anche nelle dittature. Il dittatore, più ancora di un uomo politico nel contesto democratico, liberale, civile, ha bisogno di sedurre, costringere, minacciare, farsi capire, farsi obbedire. Deve tenere conto per forza di quello che c’è nella testa delle persone, magari per violentarlo. Scelgo questo come caso limite, naturalmente. Quindi non vorrei avere l’aria di uno che cita sempre Aristotele, oppure sì, insomma, non è colpa mia, è colpa di Aristotele, caso mai. Proprio Aristotele insegnava che per le necessità della πο λις, per la necessità della convivenza civile, per la necessità di poter stabilire insieme che cos’è utile e che cos’è dannoso, che cos’è giusto e che cosa non è giusto, e che cosa fare in futuro, proprio per questo nasce il linguaggio verbale e gi esseri umani sono dotati di ́ . Quando noi vediamo delle lacerazioni nel tessuto della comunicazione tra le parti politiche, anzitutto dobbiamo stare attenti a non scambiare l’esagerazione polemica della lacerazione per lacerazione effettiva. Non è detto che chi risponde malamente a una profferta di dialogo, in realtà non stia capendo e non stia cercando di farsi capire, non stia cercando a modo suo l’arte del dialogo. E poi questi fenomeni, io credo che, anche se sono fastidiosi, sono limitati rispetto alla massa di cose che ci uniscono. Insomma, più di quanto non ci piacerebbe in certi momenti ammettere, siamo fatti abbastanza allo stesso modo tutti quanti, dentro una comunità nazionale. Forse, tanto per non fare nomi, all’on. Bossi può non piacere l’idea di essere fatto in modo molto simile a me, napoletano romanizzato, o a un siciliano. Però di fatto è così, e non per caso parliamo la stessa lingua, più o meno bene. Quindi, direi che dobbiamo puntare sempre sul dialogo esplicito, ordinato, e non rassegnarci a chi si atteggia a volerne fare a meno, perché non ne può fare a meno. E non ne fa in realtà a meno. È possibile dire “crash” invece di incidente automobilistico? Certo, perché no? Naturalmente anche questo non sfugge, anche la sostituzione di un’abbreviazione, splash, pluff, non sfugge alla esigenza di essere inserita in un contesto pratico, di 20 pratiche e di esplicitazioni metalinguistico-riflessive che chiariscano che cosa vuole dire quel termine. Non so se Flaminia è soddisfatta di questo tentativo di risposta. Maya: sì, è vero che una parte importante dei processi di formalizzazione è quella della sostituzione. Ho cercato di ricordare che si sostituiscono simboli convenzionali alle parole d’uso corrente. E questo processo, è giusto ciò che Maya osserva, non ha a che fare solo con le grandi e nobili scienze dell’accademia, ma anche con la vita di tutti noi, in qualsiasi contesto anche quotidiano. Le segnaletiche stradali sono proprio una forma di adozione di simboli, che hanno, come corrispondente, parole delle lingue storiconaturali, diverse da una lingua all’altra, ma che nella loro diversità sono messe da parte e sostituite, per esempio nel contesto del traffico autostradale, da simboli abbastanza comuni per tutti. C’è un segnale di stop che gira da un capo all’altro dell’Europa, ci sono segnali semaforici che girano da un capo all’altro d’Europa: sono forme di linguaggio simbolico molto semplice, rispetto all’algebra o alle formalizzazioni più spinte, ma sono già questo. Il bisogno di avere dei riferimenti comuni è certamente una delle ragioni per cui termini legati a una tecnica particolare, in un ambito molto particolare, navigano al di là della lingua d’origine. Il fenomeno è generale. Pensate a quanti grecismi adottarono i latini per potere abbandonare la loro rozzezza di contadini e diventare popolazioni civilizzate capaci di cultura, un po’ lentamente ma ce la fecero. Oppure, pensate a quanta terminologia della pasta dall’italiano si è diffusa nel mondo. Spaghetti, maccheroni, tortellini, sono parole che voi trovate dal giapponese all’inglese d’America, perché la tecnologia della fabbricazione della pasta si è raffinata in Italia e dall’Italia si diffonde. Vengo naturalmente al computer e a tutto ciò che noi dobbiamo alla capacità della cultura anglosassone di assorbire il meglio delle culture scientifiche e tecniche europee, anche con l’aiuto di Hitler, e poi di ridiffonderle in giro per il mondo. Questo vale specialmente per l’informatica, ma per tanti altri settori. E certamente, questo è indizio di un bisogno di formalità maggiore, che porta alla diffusione di molti anglismi o parole ricalcate sull’inglese. Adriano: sì, come voi sapete, e se non lo sapete ve lo ridico io, voi sapete che duecento anni fa, all’inizio dell’Ottocento, ma ancora a metà dell’Ottocento, fuori della Toscana l’italiano era una lingua praticamente sconosciuta. La gente parlava dialetto e anche chi avrebbe potuto parlare italiano e sapeva teoricamente parlare italiano perché lo sapeva scrivere, poi nel comune parlare parlava dialetto oppure, se era una persona colta, parlava francese. Insomma, Manzoni o Cavour, i padri della patria, parlavano il loro dialetto, cioè milanese o piemontese, poi se incontravano italiani di altre regioni parlavano in francese e, se dovevano scrivere, potevano scrivere e sapevano scrivere in italiano. Ma Manzoni molto spiritosamente racconta con quante difficoltà scriveva in italiano rispetto allo scrivere in francese. Raccontava che quando lui doveva scrivere qualcosa in francese prendeva carta, penna e calamaio e scriveva. Le cose venivano pubblicate e poi venivano discusse per il loro contenuto, più o meno accettato, mentre se scriveva una pagina in italiano doveva prendere dieci vocabolari, due grammatiche e consultarli, decidere come dire, perché era una lingua estranea all’uso comune, anche suo. Allora, questa era la condizione dell’italiano, e questo si rifletteva nel fatto che era una lingua di un mondo contadino, nobilmente chiuso in se stesso, com’era il mondo toscano. Il bisogno di cominciare ad aprire questa lingua alle terminologie tecniche si è avvertito precocemente. Nella seconda metà dell’Ottocento Tommaseo cerca di realizzare il primo, grande dizionario in lingua italiana, aperto a raccogliere i tecnicismi 21 che fino ad allora erano rimasti ai margini dell’uso linguistico scritto e codificato. Questa tendenza è andata avanti, per nostra fortuna, anche perché è cambiata la base sociale italiana. Paese contadino ancora negli anni Cinquanta del Novecento, ha conosciuto una espansione industriale molto importante, ha conosciuto le tecniche della vita urbana. E questo per voi è tutto alle vostre spalle. Voi siete nati parlando italiano. Ma siete la prima generazione, credo quasi tutti, che parla italiano. A casa vostra che parlavate, da piccoli? A casa sua lei da bambino che parlava? (Si rivolge alla platea) Italiano? Ecco, naturalmente questo è vero al Liceo Orazio o in qualsiasi liceo italiano, non è vero in qualsiasi scuola italiana, ma il 40, il 45% dei bambini nati dal 1960-1970 in poi è nato, per così dire, in italiano. Questo si è riflesso nel fatto che abbiamo bisogno e abbiamo la possibilità di avere una lingua buona a tutt’uso. E quindi abbiamo un vocabolario oramai ricchissimo anche nei settori tecnici e scientifici. Perché, se ho capito bene la domanda, perché l’inglese è più diffuso dell’italiano? Beh, per tanti fattori. Esterni, anzitutto: di concentrazione delle conoscenze e delle capacità di innovazione tecnica e scientifica negli Stati Uniti, grazie all’ospitalità che gli Stati Uniti sanno offrire a studiosi e tecnici di ogni parte del mondo. Qui è la grande svolta, l’ho detto prima e forse non era chiaro. Dobbiamo essere molto grati ad Adolf Hitler e alla persecuzione antiebraica, perché grazie alla persecuzione antiebraica – devo dire che sto scherzando, però vorrei farvi riflettere su questo curioso fatto –, grazie alla persecuzione antiebraica e antidemocratica fior fiore di studiosi, scienziati tedeschi, austriaci, cecoslovacchi, polacchi, hanno dovuto abbandonare le loro università e i loro Paesi e rifugiarsi, trovando ospitalità e rifugio, dopo passaggi dalla Svezia o dalla Turchia, negli Stati Uniti. E negli Stati Uniti si crea una grande comunità di studiosi di tutto il mondo, soprattutto nelle università della costa atlantica, dove nasce proprio un progetto di cui avrei voluto parlarvi, ne approfitto ora per ricordarvi che esiste, il progetto di una enciclopedia della scienza unificata, così la chiamarono questi studiosi, che doveva cercare un linguaggio unitario per trattare tutte le possibili conoscenze scientifiche, dagli studi umanistici agli studi fisici, matematici, etc. E i lavori preparatori di questa enciclopedia furono scritti naturalmente in inglese, perché era la lingua del paese ospite, piuttosto che in tedesco. E di là è nato un grande impulso, di cui due episodi sono significativi. Il primo è la realizzazione della scissione dell’atomo, che viene progettata e realizzata da questo gruppo di studiosi tedeschi, francesi e italiani, a cominciare da Fermi che ha, come ricordate, un ruolo di leader negli studi per arrivare alla scissione dell’atomo e quindi all’utilizzazione dell’energia atomica a scopi pacifici o a scopi militari. L’altro episodio saliente è la costruzione, che dobbiamo a degli studiosi tedeschi e americani, del progetto di computer, di calcolatori automatici capaci di eseguire automaticamente operazioni di calcolo complesse, che nasce proprio in questo stesso contesto. Da quel momento in poi il mondo anglofono ha avuto la funzione di leadership, lo dico in inglese, di guida dell’espansione scientifica e tecnologica di tutto il mondo. È vero un aspetto più interno a cui giustamente Adriano ha accennato, e cioè il fatto che, rispetto a italiano, tedesco, francese, russo, l’inglese è una lingua di struttura sintattica – sintattica, non altro – relativamente semplice. Cioè una frase inglese, anche per come tradizionalmente l’inglese è stato usato dal ’600-’700 in poi, è una frase molto lineare e molto elementare, mentre certamente una frase nelle altre grandi lingue moderne che ho citato è molto più complessa, come struttura. Naturalmente, questo non significa che l’inglese è una specie di neutro esperanto, perché certamente il vocabolario inglese è ricco e sfuggente quanto quello di qualsiasi altra lingua del mondo. Però, certamente, la struttura lineare della frase, la morfologia, la grammatica abbastanza semplice 22 favoriscono la circolazione internazionale dell’inglese, una circolazione a cui non potrebbero ugualmente, facilmente aspirare altre lingue. Vedremo. Se è vero che ormai la potenza principale dei Paesi anglofoni, gli Stati Uniti, hanno imboccato la via di un lento declino, come qualcuno sostiene – probabilmente è falso –, e tra cent’anni dominerà il mondo la Cina, vedremo il cinese come se la caverà come lingua egemone. Prof.ssa Fierro: Grazie. Allora, ci sono altre domande da parte vostra? Venite, venite, uno alla volta. Ragazzi, scusate, io vi chiedo pazienza, perché capisco la difficoltà di ascoltare quando la voce arriva poco, in fondo. Un po’ è colpa proprio della nostra Aula Magna che non ha, diciamo, un audio proprio meraviglioso, e poi abbiamo questo microfono che funziona a intermittenza, oggi, Quindi vi chiedo veramente pazienza, perché se voi state zitti potete anche sentire. Se questo non accade, è chiaro che diventa molto difficile. Sfruttiamo questo momento nella maniera migliore, mettiamoci un po’ di buona volontà. Do la parola, a chi? Ad Agnese. Agnese: Salve, volevo fare due domande. Una, se nasce prima l’enciclopedia o il dizionario. Perché prima aveva parlato di termini primitivi e quindi mi chiedevo se, appunto, questo comunque è legato all’enciclopedia che potrebbe essere definita più una scienza. E un’altra domanda è, per quanto riguarda la grammatica, se nasce prima la grammatica o nasce prima la lingua, e comunque come la grammatica si viene a creare. Alessia: Buongiorno. Data la lettura consigliataci dalla Prof.ssa Fierro del libro Contare e raccontare, vista la critica compiuta da Bernardini nei confronti di una pretesa superiorità delle cosiddette due culture, è possibile, secondo Lei, un rapporto non conflittuale tra materie scientifiche e umanistiche? E tale rapporto può portare a conoscenze più complete? Grazie. Luca 1: Mi chiamo Luca e volevo porgerLe questa domanda. In un mondo in cui esistono settemila lingue cosa significa, a livello intellettuale e divulgativo, un esperimento come l’esperanto, cioè il tentativo di creare una sorta di koiné moderna? E soprattutto, un’altra mia curiosità. Siamo pronti a rinunciare, alla fine, a un nostro dialetto regionale,in favore di una lingua universale? Luca 2: Allora, sono Luca anch’io. La mia domanda fa riferimento al famoso libro 1984 (di George Orwell), in cui tra le tante cose emerge l’importanza della lingua in uno stato civile. Non si potrebbe sfruttare un metodo simile a quello esposto nel libro, per creare una lingua alternativa, aggiuntiva però, più semplice, che non porti alla distruzione della lingua stessa ma che abbia come scopo l’unione linguistica di diversi popoli? 23 Valentina: A me è capitato più volte di sentirmi dire, magari, “Tu sai i concetti, ma non riesci a esprimerli”. C’è invece chi, anche non sapendo, riesce a dire qualcosa. Questo, per quale ragione? C’è qualche tecnica, per chi ha delle difficoltà, per avere maggior fluidità? Sofia: Io sono Sofia e volevo fare una domanda sulla filosofia. A partire dallo studio di questa, ritiene di inserirla nell’ambito scientifico o nell’ambito umanistico? Maya: Una domanda che volevo fare era uguale a quella che ha fatto Luca, quindi non la ripeto. Un’altra domanda era più che altro un’opinione. Volevo chiederLe, rispetto a quello che aveva detto Flaminia, sul “crash” dell’incidente. Secondo me, la bellezza di una lingua è anche quella di poter avere diversi termini per esprimere la stessa cosa, e quindi di avere delle sfumature diverse e se c’è un rischio reale, come già sta succedendo, quanto possa essere veloce questo processo di minimalizzazione di una lingua, di riduzione dei termini, quindi di perdita del significato, nell’utilizzare una stessa parola per esprimere cento concetti. Prof. Carini: Da ultimo, vorrei permettermi una domanda che nasce da una esperienza personale. Quest’estate ero ad Arsago Seprio e ho visto il cartello con la doppia indicazione toponomastica, Arsago e, mi sembra, Arsag, in dialetto. Ho visto che nella provincia di Varese ormai c’è la doppia toponomastica, quella in italiano e quella nel dialetto locale, per tutti i luoghi, praticamente. E allora mi chiedevo questo: come giudicare questo provvedimento, diciamo, linguistico? Si tratta di puro folklore oppure di valorizzazione di una cultura regionale oppure ancora di qualcos’altro? Cioè di un provvedimento che potrebbe preludere ad altri provvedimenti di tipo politicoamministrativo, tesi forse a mettere in posizione subalterna o in secondo piano o emarginare o allontanare chi non è residente o chi non si riconosce in quei valori portati da quella cultura? Ecco, mi sembra che avremmo il caso dell’uso di un dialetto come fattore disgregante rispetto all’uso della lingua come potente fattore di unificazione culturale e nazionale. Le chiedo, se possibile, una riflessione su questo e un confronto anche con il bilinguismo altoatesino, sudtirolese, che non mi sembra ponga in gioco i valori dell’identità nazionale. Si tratta di due comunità alloglotte completamente distinte che convivono, mi sembra, bene. È una mia preoccupazione anche perché, non voglio fare polemiche politiche, ma mi sembra che questo governo, in materie molto delicate, proceda con decreti legge e con il voto di fiducia, saltando il lavoro delle commissioni parlamentari, laddove dovrebbe avvenire il dialogo e la mediazione tra le parti. Prof.ssa Fierro: In ultimo, se posso permettermi almeno un intervento brevissimo, questa curiosità vorrei che Lei me la togliesse, Professore, perché ha detto durante la relazione che il fatto che le parole abbiano, un significato certe volte vago, certe volte sfuggente, certe volte anche equivoco, non è piaciuto in alcuni secoli, in cui qualcuno ha detto: “Non sarebbe meglio costruire un significato definitivo, un significato determinato, per uscire dalla babele?” Ma quali sono questi secoli e quali sono stati i tentativi fatti in questo senso? Grazie. Dopodiché adesso ha una miriade di domande alle 24 quali rispondere, forse sono anche tante, Lei sarà bravo a fare una sintesi. Intanto io Le tengo il microfono e voi cercate di stare proprio zitti, senza nemmeno respirare, perché altrimenti non sentirete nulla e questo vi porterà alla distrazione. È un dato. Okay? Facciamo la prova. Prof. De Mauro: Sono nate prima le enciclopedie o prima i dizionari? Beh, per quello che sappiamo, sono nati anzitutto i dizionari. Dizionari bilingui. Nel 3000-2500 a.C. in un’area molto civile del mondo, com’era all’epoca il Medio Oriente, coesistevano molte lingue e culture diverse, e c’era l’esigenza di scambi commerciali o anche di scambi di trattati, e quindi furono costruite queste liste di corrispondenza tra parole sumeriche, babilonesi, cioè semitiche, egiziane, hittite, cioè indoeuropee. Queste liste avevano un nome, si chiamavano in accadico, cioè in semitico, mit-hurtu, che voleva dire corrispondenza, ed erano liste di corrispondenza di vocaboli di queste lingue, messi uno accanto all’altro. Questi scribi ritenevano molto difficile il loro lavoro, loro traducevano continuamente da una lingua all’altra, avevano bisogno di questo sostegno, quindi. Poi invocavano all’inizio del loro lavoro un dio, che si chiamava Nabu – che dovrebbe essere il dio dei linguisti, se i linguisti lo sapessero – e che era il sorvegliante delle corrispondenze. Le enciclopedie nascono molto più tardi, per quel che ne sappiamo, nel mondo greco avanzato. In qualche modo si può considerare l’opera di Aristotele, per quel che ci rimane, una prima colossale enciclopedia che abbraccia tutti i campi del sapere che il Liceo – e anche l’Accademia platonica, ma soprattutto il Liceo – aveva sviluppato. E poi si fanno enciclopedie sistematiche, etc. Grammatica o lingua. Grammatica vuole dire due cose: vuole dire struttura grammaticale implicita, intrinseca, di una lingua, e vuole dire descrizione esplicita della lingua. Allora, a seconda del senso, la domanda “viene prima l’uovo o la gallina?” ha risposte diverse. La grammatica come struttura implicita è una necessità dell’uso linguistico, dell’uso di una qualunque lingua. Anche quella frase che chiamiamo “sgrammaticata”, ha in realtà una sua grammaticalità intrinseca, e quindi la grammatica nasce, in questo senso, in un parto solo con la lingua. La grammatica come studio riflesso della lingua, complesso di norme, specie di norme regolative, beh, questo viene molto dopo. La grammatica come descrizione esplicita nasce soltanto in alcuni ambiti, nelle scuole di tradizione greca e latina nel mondo antico, nelle scuole medievali e poi si continua anche nelle scuole moderne. È qualcosa che viene dopo la lingua e delle volte ha perfino poco a che fare con la realtà dell’uso delle lingue. Alessia. È possibile un rapporto non conflittuale tra le due culture? Sì, tutto sommato credo di sì, se era questa la domanda. Io credo che siano molto utili gli scambi reciproci. Quel signore, Richard von Mises, che citavo prima, autore di questo piccolo Manuale di scienze positive, ha mostrato in modo molto convincente che le grandi innovazioni del sapere, nei settori umanistici come nei settori delle scienze naturali ed esatte, nascono spesso all’intersezione, lui diceva al confine, tra campi di sapere diversi, che si fecondano, per così dire, nella loro diversità. Quindi credo che il rapporto non conflittuale sia possibile. Del resto, ho accennato prima a qualche elemento di dissenso con un fisico illustre come Carlo Bernardini, però insomma, abbiamo scritto insieme un libro e ne abbiamo fatte di cotte e di crude insieme, attraverso i decenni. Lo sentirete tra poco. Rispetto alle settemila lingue, che funzione può avere una lingua universale, un esperanto? Siamo pronti a questo? Due diverse persone all’inizio del Novecento, due 25 grandi studiosi, un logico, Rudolf Carnap, e un grande linguista, che si chiamava Ferdinand de Saussure, senza conoscersi tra di loro, formularono la stessa profezia. L’esperanto attrae come lingua immobile a cui possiamo tutti riferirci ma, tutti e due hanno detto, se mai l’esperanto dovesse avere successo e essere adoperato nella vita quotidiana reale, conoscerebbe una differenziazione come qualsiasi altra lingua, e quindi oscillazioni, etc. Oggi siamo in grado di dire che avevano proprio ragione, perché alcuni esperantisti più acharnés, più fanatici, si dice a Roma, hanno educato i loro bambini in esperanto. Cioè ci sono piccoli nuclei in cui l’esperanto è anche una lingua familiare, nativa, si è nativizzata, come si dice, e secondo qualche bravo esperantista, come il Prof. Pennacchietti, che insegna Filologia semitica ma anche esperanto a Torino, si vedono i principi della differenziazione degli esperanti locali, come effetto di questa nativizzazione, qua e là nel pianeta, dell’esperanto. Quindi può essere utile, proprio se lo si protegge per così dire, dall’uso vivo, parlato, quotidiano, può essere utile l’esperanto, per esempio, se si vogliono trovare dei testi neutri linguisticamente per la normativa e la legislazione. La proposta è stata fatta nell’Unione Europea, non è andata avanti, potrebbe forse andare avanti. Ma se i sei miliardi di esseri umani di oggi abbandonassero di colpo le settemila lingue e si mettessero a parlare esperanto, l’esperanto si differenzierebbe come è successo al latino quando si è sparso in tutta Europa, come sta succedendo all’inglese. Noi continuiamo a dire l’inglese, ma un conto è l’inglese britannico, un conto è l’inglese d’America, un conto è di nuovo l’inglese indiano, che è qualcosa di notevolmente diverso, dalla pronuncia alla grammatica al lessico, etc. Quindi abbiamo gli inglesi. 1984, una lingua alternativa? Sì, bisogna dire che Orwell aveva molto riflettuto su alcune delle questioni che Maya, Flaminia, Silvia e voialtri avete posto stamattina. Aveva scritto nel 1946 un bel saggio, che si chiama, se vi capita leggetevelo, La politica e la lingua inglese. Sosteneva, Orwell, in questo saggio, che molto uso linguistico dell’inglese, nella vita politica, era viziato dall’eccesso di formule, di parole di poca chiarezza e poca comprensibilità, e che bisognava, ai fini della vita democratica, adoperare un linguaggio più pulito, più sobrio, più preciso per il possibile. Queste riflessioni si traducono poi, in 1984, nella direzione in cui un altro scrittore inglese, in questo caso Aldous Huxley, era andato nello scrivere un bellissimo romanzo, alla fine degli anni Venti, che si chiamava Il mondo nuovo. “O mirabile mondo nuovo…”, vi ricordate? Nella Tempesta di Shakespeare ci sono questi versi, e Huxley immagina, prima di Orwell, questo mondo in cui c’è un unico governo mondiale, dittatoriale sostanzialmente, che impone una sua unica lingua a tutto il mondo, con i suoi significati fissi a cui bisogna adeguarsi. Quindi è una lingua alternativa, ma in negativo, lo dico a Luca 2. Non è il frutto di un convergere verso un’unica lingua, ma di un’imposizione di una lingua tagliata in modo tale da lasciare fuori tutti i significati emotivi più spontanei e più diversificati tra le aree culturali. Valentina, “tu sai i concetti, ma non riesci a esprimerli”. È una frase tipica, diciamo, delle tradizioni scolastiche, non solo italiana, bisogna dire, ma un po’ tutte le scuole sono costruite in modo – io faccio di mestiere l’insegnante, non è che me ne chiami fuori – da privilegiare malamente, dopo aver parlato dell’importanza delle parole, quelle che si chiamano pratiche verbalistiche. E cioè, per capire, anche nei test che ora cominciamo finalmente ad adoperare anche noi, ma anche nei test, come nelle interrogazioni, nei temi più tradizionali, a che cosa l’insegnante trova facile guardare? Perché questo poi è il punto. Alla capacità di “parlare di” una cosa come prova della conoscenza e dell’abilità in quel campo. Fino alle cose ridicole, fino all’educazione artistica fatta su libri senza mai guardare un quadro, una chiesa. Anche se magari 26 facendo cento metri fuori di scuola si trovano. O all’educazione tecnica o alle scienze naturali – io mi auguro che voi abbiate straordinari laboratori scientifici, benissimo, mi fa molto piacere, ai miei tempi non c’erano, io non ne ho trovati. La capacità in materia di scienze naturali consisteva nel ripetere tassonomie, classificazioni intollerabili, inutili, che ottundevano il cervello, senza servire a niente. Cioè, saper “parlare di” come prova di abilità. Cerchiamo, ogni tanto di correggere questa abitudine. Naturalmente il verbalismo mette in difficoltà, può mettere in difficoltà chi le cose le sa davvero, perché le sa fare, ma non sa “parlare di” o ha difficoltà a “parlare di”. Va bene, spesso è anche una scusa, però è così. Bisogna quindi spostare un po’ alla volta, è faticoso, l’attenzione di noi che insegniamo verso l’apprendimento fattivo, operativo delle cose, diretto, cacciare via i manuali di letteratura, per esempio, e leggere i testi, greci, latini, italiani, inglesi, riducendo i manuali al Bignami, al massimo, per avere un repertorio di date e di nomi. Prof.ssa Fierro: Pure a me piacerebbe leggere la Metafisica di Aristotele e tradurla. Prof. De Mauro: Beh, c’è chi sostiene, da Francesco De Sanctis a Guido Calogero che vale più, per imparare tutto il resto, partire da un testo circoscritto. Prof.ssa Fierro: Non lo possiamo fare con i programmi, poi li interrogano su tutto il resto agli esami. Prof. De Mauro: È quello che dobbiamo fare. Va bene, insomma, la discussione sarebbe lunga. Prof.ssa Fierro: Sareste felici se, per esempio, in filosofia fosse letta solo la Metafisica di Aristotele per tutto il primo liceo? A me piacerebbe da morire, però poi, quando andate agli esami, tutto il resto del programma… Prof. De Mauro: È una grande questione, ne parliamo un’altra volta. La domanda di Sofia. Io sono d’accordo con quei filosofi che pensano che la filosofia sia al di qua, per così dire, delle partizioni del sapere accademico, diciamo al di qua o al di sopra, comunque, che la riflessione filosofica attraversi tutti i campi del sapere sia delle scienze naturali ed esatte sia del sapere umanistico. Credo che abbiano ragione. Poi, la collocazione universitaria degli insegnamenti di filosofia in Italia è stata prevaentemente una collocazione nei settori e nelle facoltà umanistiche, ma questo è un fatto di puro comodo. Sentirete parlare, o forse già avete sentito parlare, in modo deprecativo della tradizione filosofica dell’idealismo italiano. Voglio ricordare che un tipico rappresentante significativo di questa, che si chiama Giovanni Gentile, è anche la persona che ha organizzato un’impresa grandiosa, che è quella dell’Enciclopedia Italiana, di fusione e di convergenza di tutti i campi del sapere umanistico e scientifico in una compagine unitaria. 27 Allora, Prof. Carini. No, c’è prima Maya bis. Sono d’accordo, certo, è una ricchezza poter disporre di una pluralità di registri e quindi di elementi, di parole per dire approssimativamente la stessa cosa, ma con sfumature che possono essere profondamente diverse e opportunamente diverse. Credo che, per quanto riguarda le scritte bilingui in aree leghiste – perché di questo poi si tratta – o a prevalenza leghiste, come nel Varesotto o in alcune aree venete, ci sia un po’, appunto, questa ingenua convinzione, che, se invece di scrivere solo Pordenone, io scrivo Pordenòn, con la pronuncia locale, questo abbia una grande valenza politica. Il che è un po’ una caricatura di un fatto reale, che è quello del ritrovarsi nella capacità di convergere intorno a una lingua, come fattore importante di coesione nazionale e anche di indipendenza. Ma in questo caso non si va molto in là, mi pare, perché poi parlano italiano, male, più o meno, e non sono neanche in grado di parlare i loro dialetti. Non mi chieda valutazioni politiche, le mie non sono positive. 28 Il linguaggio della realtà Carlo Bernardini Conferenza del 17 febbraio 2009 Preside: Si svolgerà oggi il secondo incontro del nostro ciclo di conferenze. Due anni fa abbiamo trattato il tema “Religioni e Convivenza civile”, l’anno scorso “Quale Europa?” e quest’anno “Umanesimo e Scienza”. Per il primo incontro di quest’anno abbiamo avuto gradito ospite il professor Tullio De Mauro, che ha tenuto un’interessantissima conferenza . Oggi abbiamo uno scienziato, il professor Carlo Bernardini. Il professore insegna “Metodi matematici della fisica” all’Università La Sapienza ed è autore di diverse pubblicazioni. Lascio alla professoressa Fierro il compito di presentarlo adeguatamente. Sono fiero e orgoglioso di avere il professor Bernardini qui con noi e vi posso assicurare che sarà per tutti un’esperienza molto interessante e formativa. Mi raccomando di seguire con attenzione, perché è difficile concentrarsi quando si è così in tanti. Vi ringrazio. Prof.ssa Fierro: Innanzitutto mi compiaccio di vedervi tutti seduti e vi do il benvenuto giacché questo ciclo di conferenze è rivolto soprattutto a voi. Siete i soggetti più importanti e dovete essere messi nelle condizioni di poterne godere. Naturalmente aspetto le vostre relazioni, sia quelle sulla conferenza del professor De Mauro, sia quelle che spero voi possiate stendere dopo avere ascoltato la lezione di oggi. Perché di questo si tratta: di lezioni-dibattito. Io ho il compito di fare una breve presentazione e farvi conoscere la persona che oggi ci onora della sua presenza, come già vi ha detto il Preside. In questo ideale confronto tra Umanesimo e Scienza, sono sicuramente coinvolti molti intellettuali. Noi, seguendo il percorso delineato nel libro “Contare e Raccontare”, ma anche in “Prima lezione di fisica”, testi che, come sapete, sono stati comprati e messi a vostra disposizione, incontriamo oggi il professor Carlo Bernardini, a cui rinnoviamo ancora una volta il ringraziamento per avere aderito al nostro invito. Egli, da fisico, tratterà le tematiche già affrontate da Tullio De Mauro secondo le ragioni del linguista. Non si tratta, ragazzi, di un dialogo a distanza, né di uno scontro tra maestri di diverse discipline, è piuttosto il resoconto di un cammino che di continuo si arricchisce e che pure oggi noi, nel nostro piccolo, continuiamo ad alimentare. Il professore Bernardini è ordinario di “Modelli e metodi matematici della fisica” presso l’Università “La Sapienza” di Roma. 29 Nella sua vita accademica ha ricoperto incarichi di grande prestigio, compreso quello di Preside della Facoltà. Ha lavorato presso il laboratorio dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare di Frascati, nel famoso gruppo del sincrotrone, cui si deve la realizzazione dell’anello di accumulazione ed in seguito l’acceleratore di particelle ADONE. Oltre alle opere specialistiche, che evidentemente non è qui il caso di enumerare, il professore ha, per così dire, integrato la sua attività di studioso con quella di opinionista e anche di uomo politico. E’ stato infatti senatore della Repubblica, e continua a partecipare con passione al dibattito culturale sui temi più scottanti in ambito sociale e scientifico. In questo contesto, ha appoggiato la battaglia per il disarmo atomico. Si spende, oserei dire, come un giovane ribelle per la laicità della cultura, incorrendo spesso in vivaci polemiche ed accesi confronti. E’ stato convinto sostenitore della produzione di energia nucleare fino alla sconfitta poi delle sue tesi, con il referendum del 1988, che portò, come alcuni di voi già sanno, all’abbandono dell’energia nucleare da parte del nostro paese. Il professore dirige Sapere, un’importante rivista scientifica e di divulgazione. Sicuramente, considerato quello che vi sto dicendo, la vastità delle sue conoscenze incute soggezione, ma egli saprà andare al di là delle nostre paure, saprà adattare alle vostre giovani menti e anche alle nostre ignoranze, alla mia in modo particolare, un discorso su quelle forme razionali di pensiero che consentono, come egli afferma in molti testi, di risolvere problemi sempre più generali della conoscenza del mondo, il grande sogno dei fisici, quello appunto di trovare finalmente i principi generali di spiegazione della realtà. Poesia delle formule, inadeguatezza dei linguaggi, formalizzazione, complessità: questi, credo, saranno i temi della lezione di oggi, cui il professore ha dato il titolo: “Il linguaggio della realtà”. Ci apprestiamo ad ascoltare con attenzione, siamo sicuri che cresceremo un po’ di più. La ringrazio, professore, e le do la parola. Professor Bernardini: Grazie al Preside, grazie alla professoressa Fierro, che è una “militante tosta” e fa benissimo ad essere così, perché nel mondo di oggi i buchi culturali sono diventate voragini. Vi dico molto apertamente che mi farebbe piacere convincere alcuni di voi a cacciare il naso nelle attività scientifiche, di ricerca in particolare, e che la mia battaglia in questo momento è quella di far capire, a chi ha responsabilità di governo, che la ricerca scientifica non è una spesa ma un investimento, dunque è una cosa completamente diversa. Essa inoltre deve essere pubblica, perché è un’ attività di interesse pubblico, non soltanto di piccoli gruppi privati. Mi rendo conto però che esiste un problema di integrazione del pensiero scientifico nel pensiero comune, che è resa particolarmente difficile dal linguaggio, in quanto il linguaggio scientifico non è mai stato efficacemente integrato nel linguaggio comune. Il problema “teorico” più importante è presto detto: che ci fosse un principio di causalità, lo pensavano anche gli antichi filosofi, Aristotele compreso. Se un “agente” fa 30 qualcosa ad un corpo pesante, ne consegue un “effetto”. L’agente sarà una “forza”, ma l’effetto visibile è, per gli “ingenui”, la velocità del corpo: forza = causa, velocità = effetto. Questa è la base persistente (ahimé, ancora oggi) della cosiddetta “fisica ingenua”. La nozione di accelerazione, nella fisica ingenua, non c’è: i livelli della percezione sono troppo primitivi perché un umano distratto si accorga della variazione della velocità piuttosto che della velocità. Per maneggiare nozioni come la “dipendenza della velocità dal tempo” – e non solo la posizione del corpo, ben visibile – occorre un’idea almeno intuitiva di funzione di una variabile e della sua possibile variazione (e non parliamo di una notazione simbolica adeguata). Ma la notazione f(x) per indicare una “funzione della variabile x” fu introdotta da Leonard Euler solo negli anni 1734-35, sui Commentarii Accademiae scientiarum imperialis Petropoli; e, per giunta, la nozione attuale di funzione di una o più variabili risale al 1837 ed è di J. Lejeune-Dirichlet (Repert. Phys. Berlin, 1, pg 152). E’ difficile immaginare come facessero i matematici e i fisici del ‘600 ad avere rappresentazioni mentali formalizzate in un linguaggio operativo efficiente; del resto, dell’importanza delle notazioni anche al livello più elementare dell’analisi testimonia la diatriba Newton-Leibniz: è innegabile che le notazioni di Leibniz, simili a quelle ancora in uso, fossero assai più accettabili delle “flussioni” di Newton. Ma Galilei fa, a modo suo, dell’eccellente fisica teorica, almeno cento anni prima di queste acquisizioni: evidentemente, con altri mezzi. Ma allora, su che cosa si basano le rappresentazioni mentali di Galilei? Egli stesso dice, nei Discorsi e dimostrazioni matematiche attorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica e i movimenti locali: “ [ il libro della natura] è scritto in lingua matematica e i caratteri sono triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente in un oscuro laberinto”. Dunque, Galilei conosce quella parte della matematica che oggi chiamiamo “Geometria Euclidea”, indubbiamente già molto sviluppata. Ma conosce anche la parola accelerazione e perfino la composizione vettoriale di moti ortogonali, come dice nella quarta giornata dei Discorsi: “…il mobile, che immagino dotato di gravità, giunto all’estremo del piano [inclinato] aggiungerà al primo moto uniforme ed indelebile, l’inclinazione verso il basso acquistata dalla propria gravità e ne sorgerà un moto composto di un moto orizzontale uniforme e di un moto verticale naturalmente accelerato”. Questo modo di vedere le cose, i fatti naturali, già nella propria mente, scomposti e ricomposti secondo regole che danno un significato alla rappresentazione è già un elemento di teoria nel senso più moderno del termine. Ma Galilei mostra tutta la sua straordinaria grandezza in un’altra capacità che condivide solo con i massimi fisici contemporanei: Einstein, primo fra tutti, Bohr, Schroedinger e pochissimi altri. E’ capace di argomentare con “esperimenti pensati”, Gedankenexperimenten nella letteratura che usiamo che usiamo oggi. Il suo celebre passo che annulla il significato “assoluto” della parola “velocità” e ne fa un concetto relativo da cui nasceranno gli sviluppi più stupefacenti della fisica del ‘900, è un esempio che tutti conoscono ma non è mai abbastanza ripetuto. Si trova nel Dialogo sopra i due Massimi Sistemi del Mondo ed è sobriamente intitolato: In mare, sotto coverta. Ecco cosa dice Salviati, nelle sue parti essenziali: “Riserratevi con qualche amico nella maggior stanza che sia sotto coverta di alcun gran naviglio e quivi fate di aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; siavi anco un gran vaso d’acqua e dentrovi de’ pascetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vadia versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca, che 31 sia posto a basso: e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza; i pesci si vedranno andar notando indifferentemente per tutti i versi; le stille cadenti entreranno tutte nel vaso sottoposto; e voi, gettando all’amico alcuna cosa, non più gagliardamente la dovrete gettare verso quella parte che verso questa, quando le lontananze siano eguali […]. Osservate che avrete tutte queste cose, benché niun dubbio vi sia che mentre il vassello sta fermo non debbano succeder così, fate muovere la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti, né da alcuno di quelli potrete comprendere se la nave cammina o sta ferma […]. E di tutta questa corrispondenza d’effetti ne è cagione ‘essere il moto della nave comune a tutte le cose contenute in essa ed all’aria ancora, che perciò dissi io che si stesse sotto coverta […]. Interviene a questo punto Sagredo, con una perspicua osservazione che fa ben capire la genialità dell’argomento che trasforma osservazioni comunissime in una conclusione sbalorditiva: Queste osservazioni, ancorché navigando non mi sia caduto in mente di farle a posta, tuttavia son più che sicuro che succederanno nella maniera raccontata: in confermazione di che mi ricordo essermi cento volte trovato, essendo nella mia camera, a domandar se la nave camminava o stava ferma e talvolta, essendo sopra fantasia, ho creduto che ella andasse per un verso, mentre il moto era al contrario[…]. Uno dei motivi per i quali penso che Galilei debba ancor oggi essere studiato nelle scuole con estrema attenzione e soprattutto nei corsi di filosofia e letteratura è che non è difficile constatare che molta gente fa ancora fatica a capire questa nozione di relatività e il suo stretto legame con il principio di inerzia, con la nozione di forza, con l’importanza dell’accelerazione. La “fisica ingenua” non è mai salita sul naviglio di Galilei. Ma, sia per la chiarezza del discorso (all’epoca, una vera e propria rivalsa del “volgare” sull’oscurità del latino) sia per la forza del ragionamento induttivo che prelude a tutte le fenomenologie moderne (dopo gli innumerevoli sterili tentativi di assiomatizzazione delle meccaniche razionali e delle fisiche matematiche, particolare vanto dell’accademia italiana dell’800, dominata da ossessioni deduttive), io credo che Galilei sia ancora oggi ricco di insegnamenti illuminanti. E però, proprio prendendo lo spunto dai rapporti tra matematica e fisica, spesso deformati dalle estremizzazioni delle pregiudiziali ideologiche di cui queste scienze non si liberano facilmente (e mi basterà citare fenomeni come il bourbakismo per la matematica e come il realismo classico positivista per la fisica) vorrei tentare di spiegare che proprio Galilei ci ha mostrato che la fisica teorica è un modo di pensare la realtà non guidato da tecnicismi formali quanto da immaginazione e intuizione che riescono a superare in modo del tutto nuovo lo stadio delle congetture derivanti da “ciò che appare a prima vista”. Ciò che appare a prima vista è oberato da ridondanze e da informazioni estranee derivanti da altri elementi culturali ( è un aggirarsi vanamente in un oscuro laberinto; così aveva detto nei Discorsi). Galilei parla con gente che vede il Sole che gira nel cielo e deve discutere con religiosi che leggono sacre scritture in cui a quel Sole è ingiunto di fermarsi. Come potrebbe il popolino del suo tempo accettare un sistema copernicano in cui, per giunta, l’uomo non è più il centro di rotazione dell’universo? E che dire della constatazione che corpi pesanti e corpi leggeri cadono, nel vuoto, in tempi uguali partendo fermi dalla stessa altezza? Ancora oggi, molta gente pensa che la caduta sia più celere per oggetti pesanti che per oggetti leggeri; e comunque non saprebbe arrivare con mezzi propri alla conclusione che questo è vero 32 “nel vuoto”, in assenza di quell’aria in cui siamo nati e che rallenta le piume rispetto ai sassi. Insomma, tutto ciò che accade in natura è come una “macchina” semplice che nasconde l’essenziale sotto incrostazioni di elementi irrilevanti al fine di comprenderne il funzionamento; e l’operazione di liberarsi da ciò che è di troppo e, addirittura, intralcia la comprensione dell’essenziale è uno dei più importanti atti della rappresentazione teorica in fisica. In qualche modo, ciò che a sua volta si scopre è perfino una “inessenzialità imprevista”, da cui scaturiranno leggi di significato superiore alla banalità delle evidenze immediate: pensate, Galilei scopre che il peso di un grave non ha rilevanza nell’accelerazione della sua caduta nel vuoto. Egli non lo sa, ma questa sua scoperta frutterà molti decenni dopo, rivisitata come “Principio di equivalenza”, la relatività generale di Albert Einstein. Ma anche l’isocronismo delle piccole oscillazioni dei pendoli, cioè l’indipendenza del periodo dall’ampiezza delle oscillazioni stesse, che fa del pendolo il primo oscillatore armonico e quindi il primo orologio, è una grande scoperta teorica. Forse non tutte le intuizioni di Galilei sono corrette: la sua immaginazione corre molto, soprattutto nel superare i filtri retorici attraverso i quali fanno passare le osservazioni persone anche colte, pensatori accreditati. La cultura umana è soverchiata da una abilità, considerata con molte buone ragioni la più importante: la parola, il linguaggio proposizionale. Ciò che si può dire a parole acquista un carico di “verità” che persino i fatti sembrano non avere. E’ Galilei a interrompere questa gerarchia di valori avanzando l’idea che la comprensione dei fatti richieda un linguaggio che su quei fatti è costruito-concepito, ma piuttosto su ciò che di più semplice c’è e sia pur misurabile: i triangoli, i circoli, e tutto l’apparato euclideo. Sicché si può ben dire che la grandezza del Nostro includa anche la previsione di un linguaggio da sviluppare per poter fare la fisica teorica. E come, e con che tempi rapidi, di lì a poco si svilupperà! Sopravvivendo alle controversie, alle esagerazioni rigoriste, alle pretese di assiomatizzazione: sarà il linguaggio della maltrattata filosofia induttiva, sarà il linguaggio che permetterà alla filosofia naturale di diventare fisica teorica, al di là sia delle colonne d’Ercole della retorica che dei gorghi involutivi delle matematiche astratte. Oggi ancora, questa straordinaria premonizione di Galilei appare ostica persino alle persone istruite: che ci possa essere un “linguaggio dei fatti” che produce rappresentazioni mentali ripulite dalle incrostazioni di ogni tipo (ridondanze e pregiudizi) e su cui è possibile lavorare per scoprire che cosa regola l’evoluzione del mondo. Il problema, a mio parere, è forse rintracciabile nella triplice storia evolutiva di questo linguaggio, che ha dovuto occuparsi del “dimostrare” (come “fabbrica di teoremi”, matematica pura) asserzioni astratte relative al significato di strutture simboliche; del “calcolare” (come “procedura affidabile”) risultati a partire da una proposizione formalizzata; del “formalizzare” (come linguaggio sintetico ed efficiente oltre che calcolabile), cioè produrre modelli equivalenti, simulacri simbolici attendibili dei sistemi fisici. Quest’ultima specialità è la più tipicamente ribattezzabile “fisica teorica” e avrà la sua apoteosi molto dopo Galilei, con Hamilton e Lagrange, le loro funzioni speciali e l’adozione di principi variazionali; Galilei non poteva averne idea, ma ne sarebbe stato entusiasta. Ma non è facile spiegare che un fisico teorico di oggi – giusto per fare un esempio – alla parola “cristallo”, reagisce “pensando” non certo ad uno scintillante zaffiro o un trasparente bicchiere per champagne, bensì a una rete estesa tridimensionale di oscillatori incolori, inodori, insapori ma accoppiati tra loro, attraversati dai loro “modi normali”, i fononi- con elegante neologismo coltamene grecizzante – che esprimono l’equivalenza di quel cristallo a un “gas di eccitazioni che si propagano”, eccetera eccetera… Questo linguaggio della fisica teorica ha un che di prodigioso: è un vero dispiacere che sia solo 33 un dialetto internazionale di una comunità così piccola di epigoni galileiani, ancora sopraffatti da lingue morte. A mio parere, il pensiero galileiano non è stato ancora studiato con sufficiente profondità per estrarne la radice tutta particolare che lo distingue dalle costruzioni mentali non scientifiche. Purtroppo, chiunque viva e assorba il modo di pensare della fisica teorica contemporanea, specie nella sua versione detta “fenomenologia”, non sembra più rendersi conto della eccezionalità e della differenza dagli altri modi, della filosofia, della politica, delle arti: trova quel modo naturale e spontaneo, non bisognoso di valutazioni epistemologiche su base linguistica. Si insiste, a buon diritto, sull’unità della cultura, ma confondendola con una pretesa e velleitaria identità delle culture: ciascuna delle quali non è “buona per tutti gli usi”. In nome di Galilei, sarà bene riconoscere a ciascuna specialità culturale la sua specificità. Forse, ci risparmieremmo inutili diatribe e prevaricazioni, incomprensioni o contrapposizioni dottrinali. Professoressa Fierro: Dopo la prima parte, sicuramente anche un po’ difficile, avremo tutti bisogno di chiarimenti e sicuramente moltissime curiosità. Nel ringraziare il professore per queste grandi sollecitazioni a riflettere, vi invito a partecipare alla seconda parte, che è poi quella più vivace perché voi siete i protagonisti, con le vostre domande e i vostri interrogativi. Tutti possono fare domande, non solo gli studenti ma anche gli adulti in sala. I ragazzi di solito all’inizio sono un po’ presi, e non hanno immediate reazioni. Poi, professore, come succede di solito, non la faranno andar via. Allora, io sono qui, pronta. Facciamo, come sempre, tre o quattro domande alle quali il professore risponderà, e poi il seguito. Chi rompe il ghiaccio? Giulio: Salve, sono Giulio Lobello del terzo C. Vorrei rivolgerle una domanda che riguarda la sua sfera personale. Perché ha fatto questa scelta professionale? Ha mai avuto dubbi a riguardo? Grazie. Professoressa Fierro: Ragazzi, su. Anch’io ho una curiosità, che deriva dalla lettura di alcuni suoi scritti, professore, e anche dall’ascolto dell’ultima parte della sua relazione, ossia il discorso sulla storia della fisica. Chi deve scrivere la storia della fisica? Lei ha scritto tante volte che molto spesso coloro che divulgano non sono in grado di farlo: nella maggior parte dei casi addirittura travisano. Allora, i fisici devono diventare bravi anche nello scrivere la storia di quello che fanno e di come lo fanno? Questo riguarda il discorso sul rigore. E poi, sul processo di formalizzazione, lei ha scritto che quello che non riusciamo a cogliere e che va al di là dei limiti dei nostri sensi è reale tanto quanto quello che riusciamo a vedere con l’occhio fisico. Allora, come si fa a proporre, a entrare nel vivo di un linguaggio formalizzato con maggiore agilità? Io penso che questo sia il problema non solo di noi che insegniamo la filosofia, ma anche, e a maggior ragione, di coloro che insegnano la fisica. Eleonora: Io sono Eleonora e lei è Marianna. Vorremmo porle tre domande. La prima è questa: cosa può offrire questo paese a coloro che scelgono di studiare materie scientifiche? 34 Marianna: Rivolgo io la seconda domanda: l’universalità del linguaggio matematico rende i popoli tutti uguali, ma il linguaggio umanistico, che si differenzia da luogo a luogo e da popolo a popolo, che caratterizza quindi ogni cultura in modo diverso, pensa che possa costituire una barriera fra i vari popoli o anche fra gli scienziati stessi? Eleonora: Ecco la terza domanda: la ricerca scientifica ha bisogno di un’etica che la regoli o l’etica e la scienza sono due ambiti completamente differenti? Sofia: Vorrei fare una domanda semplice ma difficile allo stesso tempo. E’ possibile rendere le formule matematiche piacevoli attraverso il dialogo? Daniele: Salve, sono Daniele Costanzo. Non c’è il rischio che la rigidità e il rigore del linguaggio matematico e della fisica, di cui lei parlava, allontanino le giovani menti dallo studio di queste materie, cosa che probabilmente avviene in Italia? Grazie. Professor Bernardini: Bene. Partirò dalla prima domanda, ossia da come ho cominciato. Io vengo da Lecce, una delle più belle città del sud, che è una città di giuristi. Se una persona va in piazza Sant’Oronzo e grida: “Avvocato!” si voltano tutti. Quando dissi a mio padre che avevo intenzione di studiare matematica, all’inizio quasi svenne, perché faceva il notaio e avrebbe voluto lasciarmi lo studio. Io, però, avevo già cominciato a studiare matematica per conto mio. Questo è un punto importante: essere curiosi e studiare da autodidatta. Mio padre fu molto generoso, perché mi portò in casa un libro, che oggi non si trova più se non in qualche vecchia biblioteca, che si intitolava “La fisica di Carlson”, un fisico tedesco che aveva svolto dei bei lavori con Oppenheimer. Quello fu il primo testo di divulgazione che mi fosse capitato per le mani. Era stupendo! Letto il libro e confrontatolo con quanto avevo imparato dal manuale scolastico, mi dissi : “Questa è la vera fisica, non quella che sto studiando a scuola!” E mi buttai. Da allora presi a studiare come un pazzo, tanto che una mia zia, sorella di mia madre, cercando di distogliermi, mi diceva: “Non ti stancare, vai a ballare!” Non mi sono fatto convincere e così ho incominciato, con una sfrenata curiosità per questo mondo di cui nel mio paese non c’era traccia. Passando alla seconda domanda, la professoressa Fierro ha insistito sull’importanza del problema della formalizzazione. La formalizzazione della fenomenologia naturale è una questione alquanto difficile dato che la matematica della formalizzazione è più semplice di quella che studiano i matematici. E’ una matematica, per così dire, di servizio. 35 La matematica in generale è una grande governante delle scienze, però quella che rende il vero grosso servizio a una scienza naturale come la fisica è la matematica della formalizzazione. Io sono stato il primo fisico a Roma a tenere un corso di metodi matematici della fisica. Prima questi corsi erano tenuti dai matematici che facevano fisica matematica, cosa completamente diversa dalla fisica teorica, la cui applicazione pratica era quasi completamente sconosciuta. Vi suggerirei pertanto di non giudicare, e ciò forse vale pure per l’ultima domanda che mi è stata posta riguardo al fatto che il rigore può essere repellente: è vero, il rigore dei matematici molto spesso dà fastidio anche a me, lo dico onestamente, perché, per così dire, si preoccupano della macchiolina sull’abito scuro; invece di preoccuparsi dell’abito, si preoccupano di un dettaglio. Nei metodi matematici della fisica, ci si interroga invece sulle ragioni d’uso di quella matematica. Pensate che molta di questa matematica è nata da persone straordinarie, di cui vale la pena di studiare la storia. Per esempio, la persona che amo di più è George Green, un mugnaio inglese; quest’uomo di giorno faceva la farina e di notte si alzava e studiava. Ha inventato quello che ancora oggi chiamiamo “la funzione di Green”, che è una delle chiavi di volta della rappresentazione di tutti i problemi in cui compaiono onde. Era un mugnaio, eppure ha inventato una cosa straordinaria, in cui non contano i teoremi, ma i motivi d’uso. Un’altra domanda riguardava la possibilità di conciliare la matematica con il linguaggio umanistico: è un problema molto difficile. Io racconto sempre lo stesso aneddoto, che mi sembra fortemente magistrale. Una matematica francese molto nota, Stella Baruk, che ha pubblicato anche un bellissimo dizionario di matematica elementare con Zanichelli in italiano, molti anni fa pubblicò un libro che si intitolava “L’Age du Capitain”, l’età del Capitano. Si trattava di una sorta di esperimento sadico che lei aveva fatto nelle scuole elementari per dimostrare come la matematica, nell’insegnamento impartito ai bambini, fosse decontestualizzata. Ai bambini veniva presentato il seguente problema: “Una nave trasporta 32 pecore e18 montoni. Qual è l’età del capitano?” Su un campione di mille e ottocento bambini francesi nella zona parigina, l’80 % rispose:“50”. I bambini dunque non leggevano il testo, ma solo i numeri. Interrogati, risposero: “Ci avete insegnato a fare la somma, ci avete dato due numeri, 32 più 18 fa 50.” Il 20% che non aveva risposto era terribilmente frustrato, perché non aveva saputo rispondere: in realtà erano i soli che avevano letto il testo. Questo esperimento mi entusiasmò, presi il problema della Baruk e lo portai in una scuola elementare italiana, in una seconda classe, avendo io un amico direttore didattico che mi diede il permesso di somministrare il problema ai bambini. Da questo episodio vedrete come viene fuori il genio italiano e quanto sia potente la parola. Tutti e cento i bambini risposero “Cinquanta”. Allora ne ho chiamato uno e gli ho chiesto il motivo della sua risposta. La cosa assurda sta nel fatto che il bambino ha pure inventato un motivo. Ha detto: “Ho immaginato che quel capitano venisse da una 36 famiglia di pastori in cui per ogni compleanno usassero regalargli una pecora o un montone”. Vi rendete conto? Una stupidaggine con giustificazione ad hoc! Del resto molto di quello che si sente in giro, in particolare in questo periodo, è un insieme di giustificazioni a posteriori di “cavolate” a priori. Devo aggiungere un piccolo commento che vi interesserà, anche se non è basato su una statistica molto precisa: io nella mia vita attiva di professore ho “processato” attraverso gli esami del corso di metodi matematici qualcosa come cinquemila studenti, maschi e femmine, e ho notato, specialmente durante gli esami orali, che le studentesse sono di una onestà esemplare, sono capaci di rispondere “non lo so”. E’ fantastico, lo trovo incantevole. Sono convinto che “non lo so” è una risposta che automaticamente implica “ma provvederò a riparare a questa mancanza” . A quel punto di solito cambiavo domanda e non tenevo conto di quel “non lo so”. Che cosa succede invece con uno studente maschio che non sa una cosa? Finisce che mi racconta l’età del capitano, inventa una giustificazione del perché non lo sa, magari dicendo sciocchezze, pur di non ammettere la sua lacuna. Questo è grave, è di una disonestà profonda che bisogna vincere. Le persone più oneste sono quelle capaci di ammettere i loro limiti. L’ultima domanda di questa tornata riguardava il problema dei rapporti tra la scienza e l’etica. In parole semplici, il problema per me è questo: se tutti capiamo qual è il significato di un risultato scientifico importante, ad esempio la clonazione, gli ogm, i pericoli dell’energia nucleare, e così via, se ne può ragionare alla pari e l’etica di uno scienziato vale esattamente quanto quella di chiunque altro. Lo scienziato ha ovviamente un vantaggio, capisce di che cosa si sta parlando. La disgrazia è il numero sconfinato di persone che non capiscono ciò di cui parlano, cosa che io trovo immorale: la gente spesso ama mettere becco su cose di cui non sa e non capisce nulla. La professoressa Fierro ha fatto riferimento al famoso referendum che abolì il nucleare in Italia. Mi dispiace smentirla, però quel referendum non prevedeva affatto la cancellazione dell’uso dell’energia nucleare, ma piuttosto la possibilità di concludere certi accordi con la Francia; riguardava anche il problema dei rimborsi per i paesi in cui si sarebbero costruite le centrali nucleari e soprattutto prevedeva una moratoria di cinque anni prima di poter mettere in cantiere nuove centrali. Questo è successo anche in altri paesi, ad esempio in Svezia, dove hanno costruito dieci centrali, le hanno fatte funzionare, sono andate come orologi, e hanno messo una moratoria. Adesso hanno emanato una legge che abolisce la moratoria e ne stanno costruendo altre due. I francesi ne hanno cinquantanove e ogni anno l’ “Electricité de France” manda in giro per tutta la Francia un comunicato in cui dice: “Quest’anno non abbiamo immesso nell’atmosfera sei milioni di tonnellate di sulfuri, cinquantamila milioni di tonnellate di anidride carbonica , ecc.”. In effetti le emissioni da una centrale nucleare, a parte il vapor d’acqua, sono zero. Naturalmente c’è l’annoso problema delle scorie. Comunque, è ben curioso che gli 37 svedesi, gli spagnoli, i finlandesi e gli inglesi l’abbiano risolto e noi no. Come se non esistessero soluzioni. Sapete perché in Italia è difficile risolverlo? Perché se uno va in un qualsiasi paesino italiano, trova subito uno di quegli assurdi cartelli che dicono: “Questo paese è denuclearizzato e opera per la pace”. La gente poi, nel momento in cui tende a dire che la centrale è necessaria, aggiunge anche che, però, la devono fare venti chilometri più in là. Capito? Questo è lo straordinario altruismo dei nostri connazionali. Professoressa Fierro: Allora, seconda tornata di domande. Effettivamente adesso ho imparato un po’ di più: avevo citato in maniera imprecisa, ma noi ci manteniamo tutti socraticamente ignoranti, con la consapevolezza di aver bisogno anche più di una vita per imparare. Allora, seconda tornata di domande, chi comincia? Professor Castellan: Parlo come insegnante di matematica e fisica, e già in questa denominazione viene fuori il problema: come lei ben sa, nell’ordinamento scolastico italiano la cattedra di matematica e fisica è tenuta da un insegnante che è laureato o in matematica o in fisica. Questo, a mio parere, continua ad essere una cosa inopportuna. Vorrei sapere la sua opinione in merito, anche perché il discorso era già venuto fuori prima. La forma mentis di un matematico e di un fisico non sono esattamente la stessa cosa. Lei ha già espresso questo concetto in maniera molto chiara. Ho l’impressione che, alla fine, facciamo più danni alla fisica noi matematici che i nostri colleghi di fisica che sono molto bravi invece a insegnare matematica. I docenti universitari che formano laureati in matematica e laureati in fisica, sono sicuramente consapevoli di questo problema. Che cosa si può fare? La ringrazio molto. Tra l’altro, adesso, come conseguenza delle sue affermazioni, immagino che avremo un tasso altissimo di risposte “Non lo so” nelle nostre interrogazioni, ma noi insegnanti siamo contenti di questo. La ringrazio ancora. Professoressa Fierro: Grazie. Maurizio. Prego, ragazzi. Luca: Mi chiamo Luca e avrei una serie di curiosità che vorrei che lei mi soddisfacesse. La prima: in questo momento di grande crisi economica, che sta affliggendo l’intero globo terrestre, è indispensabile investire ancora di più sulla ricerca oppure si tratta di una velleità che non ci si può permettere? E, la seconda domanda: perché è così difficoltoso fare ricerca qua in Italia mentre in altri paesi, se non è più facile, è comunque incentivata? 38 Germana: Salve, sono Germana. Vorrei fare questa domanda: se il ragionamento induttivo è il presupposto per la filosofia come per la fisica, che ruolo svolge il ragionamento deduttivo nello studio della particolarità dei fenomeni? Maria: Salve, sono Maria. Vorrei porle una domanda facendo riferimento al libro “Contare e raccontare”, nel quale lei afferma che l’inglese è la lingua più adatta alla divulgazione scientifica. Ma per quale motivo l’italiano è meno adatto proprio alla divulgazione, nonostante il fatto che questa lingua derivi dal latino, che fin dall’antichità è stato utilizzato per la divulgazione scientifica? Jacopo: Buongiorno. Sono Jacopo del II D. Lei ha detto che la fisica moderna ha dato un taglio netto e quasi brutale a quella del passato. Quali elementi, sia riguardo alle idee che riguardo al metodo, possiamo conservare oggi della fisica del passato? Silvia: Salve, sono Silvia del III B. Lei prima ha parlato del nucleare e dell’ ostilità che spesso si incontra in loco per iniziative che lo riguardano. In questo paese è molto diffusa la tendenza ad appoggiare delle proposte ma poi, di fatto, quando riguardano la sfera privata, a voltare le spalle. E’ come la sindrome di Nimby (not in my back yard). Vorrei sapere come si può combattere questo localismo che da sempre caratterizza la storia italiana. Grazie. Laura: Buongiorno, sono Laura. Volevo chiederle per quale motivo sono sempre gli umanisti a promuovere un collegamento tra il linguaggio verbale e il linguaggio scientifico mentre gli scienziati si astengono sempre dal trovare un collegamento. Grazie. Professor Bernardini: Anzitutto vi dico che sentir fare delle domande è miele per le mie orecchie, che io poi sia capace di rispondere è un altro paio di maniche. Rispondo subito al collega, il professor Castellan, che insegna matematica e fisica. Negli ultimi tempi, la matematica ha avuto qualche problema nel settore didattico. Riguardo agli sviluppi della didattica della matematica, io mi appoggio molto a quel gruppo della Bocconi che pubblica la bellissima rivista “Lettera Pristem” in cui, per dire la verità, raccontano come stanno le cose con molta onestà. Al contrario, il nucleo classico dei matematici mi procura spesso qualche difficoltà, soprattutto per via del legame, che trovo insopportabile, con una disciplina che continuano a mantenere anche nell’insegnamento della fisica, pur essendo assolutamente obsoleta: la meccanica razionale. Francamente, che ancora si studi la meccanica razionale senza nessun cenno alla relatività è una cosa assurda. 39 Pertanto, credo che il problema dell’insegnamento della matematica in Italia abbia bisogno di un ammodernamento, bisogna rifiutare certi rigorismi alla Bourbaki che hanno già rovinato l’insegnamento in Francia. Mi trovavo proprio in Francia quando un collega, Andrè Lagarrigue, un fisico, mi propose di entrare a far parte di una commissione ministeriale per l’eliminazione della “nouvelle matematique”, ossia il bourbakismo di Gerard Dieudonnée: gli scontri con Dieudonnèe erano mostruosi, tra me e lui non c’era nessuna affinità. D’altra parte, però, penso che in Italia ci siano buone prospettive; il gruppo di Angelo Guerreggio e della “Lettera Pristem”, ad esempio, è molto razionale ed elegante. Si è tenuto, poco tempo fa, il convegno di Belgirate, del quale ho avuto notizie incoraggianti. Potrebbe scrivere ad Angelo Guerreggio, professore, certamente ne sarebbe contento. Passiamo al problema della crisi finanziaria e la ricerca. La crisi finanziaria ha un’ origine molto evidente: il sistema bancario non ha tenuto, ha mostrato difetti di impianto; addirittura un americano, il signor Madoff, considerato il più grande truffatore di tutti i tempi, ha fatto una truffa da cinquanta miliardi di dollari utilizzando maneggi di tipo bancario e mettendo a terra un numero enorme di persone. Ed è stato scoperto non perché i controlli fossero efficienti, ma perché è stato denunciato dal fratello, che si è vendicato perché Madoff si è rifiutato di renderlo partecipe della truffa. E’ questo un problema estremamente preoccupante, che tra l’altro immobilizza una grande quantità di denaro che potrebbe essere impiegato in vario modo, ma soprattutto per scelte importanti nel settore dell’innovazione produttiva. Il problema è che i soldi andrebbero messi in moto nel modo giusto, non solo per far guadagnare i supermanager, ma anche per finanziare le attività, specialmente quelle nascenti E per poter svolgere attività innovative ci vuole la ricerca, quella a fondo perduto, volta ad inventare delle tecnologie fortemente innovative. Ci sono i soldi in Italia? In Italia le fondazioni bancarie, che costituiscono il loro capitale con i fondi versati dai vostri genitori e forse pure da qualcuno di voi, se è un buon economista, in questo momento tengono chiusi nelle casseforti duecentottanta miliardi di euro: son lì, fermi. Potrebbero essere investiti nella ricerca, in cui finora non si è investito quasi nulla; certo, se i soldi vengono investiti con l’idea di produrre delle innovazioni che diano immediatamente dei profitti, è inutile. Bisogna che la ricerca frutti con i suoi tempi. Le ricerche importanti hanno avuto tempi tipici di quindici- venti anni prima di cominciare a rendere. Una figura che oggi manca in Italia, ma che esisteva in un passato non lontano, è quella del sistemista: dovrebbe costituire uno sbocco per la facoltà di ingegneria. Che cos’è un sistemista? E’ una persona che conosce bene la letteratura scientifica, la capisce, la sa leggere e mette insieme cose diverse per produrre una cosa unica di grande utilità. Un esempio straordinario di sistemista italiano nel passato è rappresentato da Guglielmo Marconi. Marconi era uno studioso autodidatta, sapeva leggere i libri di fisica, di matematica e di ingegneria. In realtà l’antenna è stata scoperta da un russo che si chiamava Popov, il quale aveva capito che era possibile rivelare, attraverso i segnali elettromagnetici 40 prodotti dai fulmini, l’avvicinarsi di un temporale e aveva venduto a tutti i contadini russi dei sistemi con un’antenna ricevente che ogni tanto rilasciavano delle scariche che preannunciavano un temporale in avvicinamento. Poi, un professore di fisica marchigiano, Temistocle Calzecchi Onesti, ha scoperto il coherer, la galena, un cristallo che aveva delle particolari proprietà dielettriche. Tanti anni fa, si producevano le radio a galena, ricevitori ideali in cui i segnali potevano passare da un’antenna ad un’altra. Augusto Righi aveva lavorato a Bologna, sulla scia del grande scienziato tedesco Hertz, per produrre i dipoli che emettevano onde elettromagnetiche. Quindi il trasmettitore di segnali elettromagnetici esisteva già. C’era però la seguente obiezione: se i segnali viaggiano in linea retta come la luce, come si fa a superare la curvatura terrestre? Marconi aveva letto i lavori di Heaviside, che aveva scoperto che l’ultravioletto solare ionizzava gli strati alti dell’atmosfera e produceva elettroni liberi i quali si comportavano come uno specchio di onde elettromagnetiche: le onde elettromagnetiche, cioè, vengono assorbite dagli elettroni che le riemettono verso il basso. Marconi mette insieme tutte queste cose e, pur senza inventare nulla, ha costruito la radio. Vi rendete conto, in un periodo in cui la maggior parte dei viaggi era per mare e le navi naufragavano, Marconi dimostra di poter trasmettere fino alla stazione di Poldhu, in Cornovaglia, un segnale di SOS. Questo tipo di figure oggi non ce l’abbiamo più, soprattutto per colpa del mercato; una persona che prende una laurea in ingegneria oggi difficilmente fa ricerca: impara a fare il progetto di una casa, di un impianto idraulico, fa la tesi su un’applicazione pratica, che non è un’invenzione. Noi invece abbiamo bisogno di invenzioni tecnologiche che nascano da questo paese. Non è impossibile, però per evitare che gli inventori nascano come le orchidee nel deserto, bisogna fare un programma e finanziare la ricerca. Spero che la risposta sia stata esauriente. Germana mi chiedeva riguardo al ruolo del ragionamento deduttivo contrapposto a quello induttivo. Se una persona chiede: “Perché piove?”, e un altro risponde: “Perché Dio ha voluto così”, la risposta è inconfutabile, non ci sono argomenti da poter contrapporre; se qualcuno invece tenta di dare una spiegazione, può sbagliare, ma il suo ragionamento sarà confutabile, ed è importante che sia così. Il linguaggio induttivo, quindi, si usa per cercare di superare dei dubbi, ma deve essere confutabile con argomenti presi dalla fenomenologia corrente. Il dubbio è l’anima di tutto quello che si può fare o non fare, ed esso si può affrontare solo con un linguaggio di tipo induttivo. Quando si dice che la posizione degli astri al momento della nascita influenzerà il mestiere di chi è nato in quel giorno particolare, si usa un linguaggio di tipo deduttivo 41 ed è quello che cercano di dare a bere, persino nella televisione di stato, i vari astrologi, ma è battaglia persa. Riguardo all’inglese, sappiamo che è una lingua molto facile e molto efficiente. L’italiano è traboccante di sinonimie, parole ambigue, l’inglese è molto più essenziale. Oltretutto, il grosso della letteratura mondiale nel settore scientifico è inglese; le parole inventate, come ad esempio “spin”, “angular momentum”, sono parole che gli inglesi hanno assorbito già nel loro linguaggio comune. E’ ovvio che si può fare fisica tranquillamente anche in italiano, però c’è qualche difficoltà linguistica in più. E’ stato poi sollevato il problema della fisica moderna. Vi cito un motto volgarissimo, ma che è il mio preferito: da Galileo in poi, della fisica, come per il maiale, non si butta niente. Il trionfo della fisica ottocentesca è stata la “meccanica analitica”, attenti a non confonderla con la meccanica razionale, che è una scappatoia tutta italiana. Il linguaggio usato nello sviluppo della fisica del ‘900 è stato totalmente preso in prestito dalla meccanica analitica, la conoscenza della quale ha semplificato enormemente lo studio della fisica stessa. Alcune teorie, come la nozione di stato fisico di un sistema, di spazio delle fasi, di trasformazione, di mapping, e così via, sono nate con la meccanica analitica. Nella fisica moderna, dunque, il linguaggio subisce un salto gigantesco, che però si potrà comprendere solo conoscendo ciò che è successo prima. L’americano McCormack, in un bellissimo libro che si intitola: “Gli incubi notturni di un fisico classico”, racconta la storia quasi puntuale di un fisico tedesco, Drude, che non si rassegnava ad abbandonare l’etere perché l’idea che qualcosa si potesse trasmettere nel vuoto, come all’epoca di Aristotele, gli appariva ripugnante e quindi lui e i suoi collaboratori avevano inventato questa sostanza incredibile, una quintessenza, che doveva essere talmente rigida da poter propagare dei segnali a trecentomila chilometri al secondo, ma, allo stesso tempo, doveva essere trasparente e si doveva poter attraversare. Nell’800 hanno speso una quantità di energia e soldi in esperimenti volti a scoprire il trascinamento dell’etere. Perché, se la terra viaggiava nello spazio, si portava dietro l’etere? Come funzionava? Tutto questo, alla fine, per scoprire che non c’era alcun segnale di trascinamento. La fisica moderna ha buttato via questo tipo di cose, ma ha salvato la meccanica analitica, in quanto essa, con la teoria di Maxwell del campo elettromagnetico, produce delle nozioni molto importanti. In più, nella fisica nasce un apparato di notazioni molto più accessibili di quelle che usano i matematici. Per esempio, un grande matematico tedesco, Minkowski, costruì tutte le notazioni utili sia per la teoria della relatività che per la teoria dei campi: la sua è una storia esemplare, che dovreste leggere nei libri di storia della fisica. E’ una figura veramente straordinaria, persino Einstein andava a lezione da lui. Affrontiamo ora il discorso del nucleare. Vorrei parlarne in termini piuttosto forti: tra tutti coloro che hanno capito che per ottenere il consenso basta sventolare una qualsiasi paura, ce n’è uno in particolare, un uomo che, tanti anni fa, faceva addirittura le esercitazioni per me, che ha scoperto che la gente aveva paura del nucleare perché non sapeva di cosa si trattasse. Pertanto, durante le sue varie campagne, andava dicendo: “Morirete tutti, la radioattività…” e così via. 42 Costui ha fatto una carriera politica folgorante: si tratta del professor Mattioli, che adesso per fortuna sta buono e zitto, ma ha eccitato i vari Pecoraro Scanio, Bordon, e altri, i quali, pur essendo del tutto incompetenti, ne hanno fatte di tutti i colori, hanno inventato la parola “elettrosmog” e non vi dico che cosa è stata la storia delle famose onde che producevano la leucemia emesse dalla radio Vaticana. Sono entrato a far parte, insieme con Giorgio Servini, di una commissione per l’analisi degli effetti epidemiologici delle radiazioni elettromagnetiche di bassa frequenza. Ci hanno mandato i dati da tutt’Italia, è stato un lavoraccio analizzarli, ma non si vedeva traccia di incremento di danni di alcun tipo, tranne il caso di un paesino delle Marche, che si chiama Potenza Picena, nel quale è presente un radar dell’aeronautica che ha una potenza di emissione di un megawatt. Quindi un radar molto robusto, di quelli che mandano segnali anche ai satelliti. Guarda caso, in questo paese la quantità delle malattie mentali era significativamente più alta che altrove. Ovviamente tutti incriminavano il radar, e anche noi ci dovemmo rassegnare al fatto che c’era una prova evidente. Sennonchè, mi venne una delle rare idee geniali della mia vita, ed ho telefonato al segretario comunale di Potenza Picena, chiedendogli se avessero mai discusso del motivo di quell’eccesso di malattie mentali. Mi rispose che il loro paese ospitava l’unico ospedale in tutta Italia di lunga degenza di malati mentali per poter accedere al quale, però, bisognava essere residenti a Potenza Picena. Questo aneddoto può darvi un’idea di come nascono le leggende urbane. Per rispondere all’ultima domanda, vorrei l’aiuto di un umanista. Non è vero che gli umanisti si interessano, più degli scienziati, al problema dei linguaggi scientifici. All’Università ho avuto, in particolare, due docenti indimenticabili, Enrico Persico, compagno di scuola di Fermi, che è il più straordinario docente che io abbia mai incontrato e con cui ho collaborato fino a quando non è morto, nel ’69, ed un austriaco, Bruno Touschek, un grande disegnatore, tra poco dovrebbe uscire un libro delle sue vignette, che si possono confrontare con quelle di Groz, o di Kokoschka. Conosceva a memoria tutti gli aforismi di Karl Kraus, aveva una cultura straordinaria, leggeva Omero in greco antico. Abbiamo scritto insieme degli articoli che hanno sempre un aforisma scritto in greco. Devo dire che nell’ambiente in cui son vissuto, nell’ambiente dei fisici in particolare, ma anche dei matematici, ho incontrato delle persone con una cultura molto vasta. Lucio Lombardo Radice era chiamato addirittura “l’onnigrafo” perché era in grado di scrivere su qualsiasi cosa, era un politico, un filosofo, si intendeva di teologia ed era un ottimo matematico. Edoardo Amaldi era una persona molto colta, Persico non ne parliamo neanche. Quello che è difficile è agganciare gli umanisti, perché sono assolutamente convinti che ognuno di noi, quando interviene, voglia dimostrare che gli scienziati sono migliori. Ora è vero che alcuni dei miei colleghi sono assolutamente convinti di essere migliori, però generalizzare mi sembra troppo banale. Non ho mai detto che noi siamo migliori. Forse lo penso, però. 43 Professoressa Fierro: Allora ragazzi, vogliamo ringraziare il professore per tutto questo tempo che ci ha regalato. La sua relazione, oltre che bella e interessante, è stata anche divertente, ed ha trasmesso la gioia di studiare, di capire che lo studio è veramente un’avventura, ed è qualcosa che può diventare divertente e veramente appagante. Adesso noi, per ringraziarlo di averci dedicato tutto questo tempo, gli regaliamo due libricini, sperando prima di tutto che non li abbia: il primo si intitola “Il tempo non suona mai due volte” e l’altro è l’ultimo romanzo di Simenon. A nome anche dei ragazzi. Professore, grazie, grazie ancora, cercheremo di far frutto di quello che abbiamo sentito oggi. 44 Il linguaggio nella formazione della pubblica opinione Antonella Rampino Conferenza del 19 marzo 2009 Preside: Buongiorno. Questo di oggi è il terzo incontro del ciclo di conferenze dal titolo “Umanesimo e Scienza”. Abbiamo già avuto ospite il professor Tullio De Mauro, che ci ha parlato delle lingue europee, del linguaggio, della comunicazione. Un po’ più complesso, forse, il secondo incontro, quello con il professor Carlo Bernardini; il tema era veramente difficile, o almeno io l’ho percepito come tale: “Il linguaggio scientifico può essere povero o deve invece essere rigoroso?” Per la fisica il discorso è relativamente semplice, ma per quanto riguarda la matematica è certamente diverso. Anche il tema di oggi è di grande interesse: abbiamo con noi la dottoressa Antonella Rampino, giornalista inviata del quotidiano La Stampa di Torino, che ci parlerà della comunicazione giornalistica e televisiva. E’ un tema interessante perché noi tutti ne siamo coinvolti ogni giorno leggendo i giornali, seguendo i telegiornali: abbiamo bisogno di un confronto, di capire in che modo passa la comunicazione. La dottoressa Rampino, come al solito, vi sarà presentata dalla organizzatrice dei nostri cicli di conferenze, la professoressa Fierro. Professoressa Fierro: Grazie, Preside. Dunque, cari ragazzi, siamo di nuovo insieme, ad ascoltare ed a confrontarci. Siamo qui per la terza conferenza, come vi ha appena detto il Preside, sul tema di quest’anno: “Umanesimo e Scienza”. E’ con noi, e la ringraziamo ancora, la dottoressa Rampino, un’ accreditata giornalista inviata del quotidiano La Stampa, per il quale si è impegnata in lunghi reportages, in giro per il mondo. Ha intervistato personaggi di spicco sulla scena politica internazionale come Valere Giscard d’Estaing e Tarek Aziz, che, come molti di voi sanno, è stato il primo ministro di Saddam Hussein; ha intervistato intellettuali come Balthus, Denis Mack Smith, Borges e Fellini,solo per citare qualche nome. E’ una donna combattiva, ricca di interessi che l’hanno portata ad occuparsi anche delle nuove espressività nel teatro, nelle arti visive, nella musica, nella letteratura. Ha condotto trasmissioni radiofoniche, e continua, a vario titolo e in molti ambiti, la sua collaborazione con la radio; partecipa spesso, inoltre, a trasmissioni televisive. Oltre che per il suo giornale, ha scritto anche per varie altre testate giornalistiche, da Repubblica al Corriere della Sera, all’Europeo. Ha progettato e diretto “Aspenia”, la rivista di politica internazionale dell’Aspen Insitute Italia, di cui è membro. La dottoressa Rampino parte dalla convinzione che l’informazione sia un modo di comunicare che comporta molte responsabilità. Giacché per il nostro tema di 45 approfondimento, come già vi diceva il Preside, abbiamo scelto come chiave di lettura privilegiata il linguaggio, la nostra ospite ne tratterà proprio riguardo all’uso di esso nella formazione della pubblica opinione. Pensate quanto sia difficile questo tema: “Il linguaggio come strumento rigoroso o non, scientifico o non, per la formazione della pubblica opinione?” Ci siamo interrogati, già attraverso le relazioni del professor De Mauro e del professor Bernardini, sul rigore e la complessità delle forme linguistiche e dunque, proprio nella continuità del discorso, rientra pienamente la riflessione di oggi, con implicazioni che sicuramente troveremo legate alla nostra esigenza concreta di capire come ci vengono proposte, e certe volte addirittura, secondo me, imposte, le informazioni. Alcuni di voi sono già arrivati alla fine del triennio, altri fanno il secondo liceo, perciò tutti sapete che nello studio della storia le prime questioni di metodo riguardano la soggettività e l’oggettività, il fatto e la sua collocazione, la scelta dei moduli interpretativi, le priorità nella selezione documentale. Questi sono i grandi problemi di metodo, che vi vengono proposti nel momento in cui, all’inizio del triennio, vi trovate di fronte ad un nuovo approccio allo studio della storia. Qualcuno di voi dirà: ma il rigore non appartiene al giornalista, perché il giornalista deve fare cronaca, non storia. E se anche così fosse, quando racconta un fatto, da dove parte il giornalista? Come ce lo racconta? Quando possiamo essere sicuri di aver ricevuto un’ informazione corretta? Questi sono alcuni dei grandi temi della nostra attualità. Dottoressa, da lei ci aspettiamo indicazioni e possibili vie d’uscita dall’oscuro labirinto, per citare nuovamente i fisici. Grazie. La ascoltiamo. Dottoressa Rampino: Buongiorno, grazie di questo invito e grazie soprattutto alla professoressa Fierro. Credo che il tema del rigore riguardi tutti, dal ciabattino al giornalista, dal benzinaio al Presidente della Repubblica. Il rigore è un valore sociale estremamente importante: nelle società anglosassoni c’è un principio cardine della democrazia che si chiama “accountability”, una parola che non ha un corrispettivo in italiano, e già questo la dice lunga. Si potrebbe tradurre con l’espressione “render conto”, dover dar conto agli altri di quello che si fa; e questo a qualsiasi livello, dal livello più basso della società sino a quello più alto. La professoressa ha sollevato subito un altro punto molto importante, quello del linguaggio. Quando ci siamo parlate, abbiamo pensato che un titolo per questo incontro avrebbe potuto essere “Il linguaggio nella formazione della pubblica opinione”. E’ un tema che può apparire astratto, ma come vedremo non è lo affatto. Nel definire il programma, la professoressa Fierro ha posto il linguaggio in contrapposizione alla scienza, ed anche il titolo di questa serie di incontri contiene un’antinomia: “Umanesimo e Scienza”. Si pensa sempre che la scienza sia esatta, mentre sappiamo che tutta la storia della scienza è segnata da evoluzioni e innovazioni che spesso contraddicono, superandoli, i risultati che sino a quel momento si erano raggiunti. A maggior ragione l’attività del giornalista, o piuttosto il suo linguaggio, non solo è fallibile ma è più vicino all’Umanesimo, ovviamente, che non alla Scienza. 46 La professoressa diceva anche che “la cronaca non è Storia”. E tuttavia la Storia è l’insieme delle cronache, è la concatenazione degli eventi, è la loro lettura, nel senso di “intelligere”. La Storia, si potrebbe dire, consiste nell’”intelligere” la sequenza degli avvenimenti ed è questo il motivo per cui è estremamente importante essere informati, conoscere quel che accade nel momento stesso in cui accade. La Storia è anche flusso del tempo, ossia l’insieme di giorni, possiamo dire così, oltre che di minuti, di secondi, di ore. Ed in un giorno accadono moltissime cose. Adesso comincerò la mia relazione, che sarà un po’ come se aveste inserito la funzione “random” dell’I-Pod, e vi sembrerà che il mio discorso salti da un tema all’altro, ma gli argomenti che tratterò sono invece tutti interconnessi. Partiamo proprio da cos’è un giornale. Hans Magnus Enzensberger, circa trent’anni fa, disse che ogni giorno i quotidiani “danno” la realtà, che disegnano la realtà come un universo compiuto e raccontato, che contiene l’insieme di tutte le notizie, dalle più importanti alle più futili, dalle cronache alle analisi, dalla prima pagina fino ai piccoli annunci. Disse di più: che la realtà di quel giorno è solo quello che c’era scritto nel giornale di quel giorno. E poiché ogni giornale ha una sua identità e una sua anima, quel che ne consegue è che abbiamo molte realtà conchiuse a disposizione. Alcune sono più semplici da percepire, perché l’identità –che erroneamente qualche volta si chiama “linea”- del giornale è meglio espressa, e risulta più nitida e compiuta, e altre sono meno percepibili, più sfumate. Di che cosa ci parla un giornale? Ci parla di quello che accade, e così viceversa ciò di cui non si parla non esiste, è un fatto che non è accaduto. Pensate alla parola “omertà”, quand’è che la usiamo? Quando vogliamo indicare che qualcosa ci viene nascosto, che c’è qualcosa di cui non si può parlare, e la usiamo in genere riferita a fatti legati alla criminalità, la parola omertà ci fa subito pensare alla mafia o alla camorra. Non parlare di un fatto non è positivo, e questo lo capiamo da soli. Un filosofo tedesco, che non so se avete fatto in tempo a studiare, Wittgenstein, chiude il suo libro più famoso con una frase molto semplice: “Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”. E’ evidente che questo filosofo non ci parla dell’omertà, ma piuttosto della necessità di una zona d’ombra dentro ognuno di noi, anche nella nostra psiche. Le interpretazioni più recenti di questa famosissima frase, e penso alla lettura che ne ha data Alberto Siani, arrivano alla conclusione che ciò che non si può dire può essere scritto. E questo riguarda anche il mestiere del giornalista: non tacere nulla, nulla di quello che vede, nulla di quello che apprende, nulla di quello che ha verificato essere realmente accaduto. E’ evidente che il giornalista lavora operando una selezione, e allineando gerarchicamente i fatti: un quotidiano non è un rullo di notizie, non è il loro flusso indistinto. Che cos’è, cosa fa un giornalista? Delle tante definizioni che sono state date, la mia preferita è quella data, in un bellissimo libro, da Honoré de Balzac, il quale, a sua volta, è stato anche uno “scrittore di giornali”, tant’è che i suoi romanzi nascono come “fogliettoni”, come “feuilletons”. Balzac, che pure ha fustigato i giornalisti 47 descrivendoli come una congrega di avidi e cinici manipolatori, diceva che “il giornalismo è pensiero che cammina”. Balzac aveva l’idea della funzione di attraversamento cognitivo del giornalismo. Il giornalista attraversa la realtà, e riflette su di essa, non dà semplicemente delle notizie, ma le filtra secondo il suo “intelligere”, e anche secondo il proprio modo di pensare. Anche per questo, quello del giornalista è un mestiere che prevede la responsabilità e il “render conto”, infatti chi scrive appone la propria firma sotto l’articolo, il giornalista è identificabile, chiunque può interloquire e anche protestare, a volte giustamente. Questo è uno dei rischi, e insieme uno dei privilegi del mestiere. Naturalmente, il giornalista si esprime attraverso un linguaggio, il proprio linguaggio e quello del giornale, che è composto da titoli, didascalie, fotografie: anche quello della fotografia è un linguaggio, e che linguaggio! Facciamo un esempio per capire quanto sia fondamentale il linguaggio nell’orientamento della pubblica opinione: sapete che in questi giorni il Papa si trova in Africa, e da quel continente ha condannato l’uso dei preservativi. Questa notizia è stamattina sulle prime pagine di tutti i quotidiani italiani. Guardiamone insieme tre, i più importanti. Il Corriere della Sera titola: “AIDS- dure critiche al Papa”; La Stampa apre con: “AIDS- l’Europa contro il Papa”; Repubblica fa una controapertura, cioè il titolo più importante ma posto quasi a metà pagina, in un corpo molto più grande del titolo vero e proprio d’apertura: “AIDS – l’Europa contro il Papa”, esattamente come La Stampa. Qual è la differenza fra queste scelte? E’ vero, il Papa è stato duramente criticato, come dice il Corriere della Sera, ma il riferimento all’uso dei preservativi nella titolazione di quel quotidiano non è chiaro, c’è solo nel sottotitolo. Scrivere che il Papa “ha avuto dure critiche” è molto meno forte che non sostenere che l’Europa sia contro il Papa. Ecco dunque quale e quanta possa essere la differenza nell’uso del linguaggio: sono vere entrambe le cose, ma sono espresse in modi completamente diversi. Ed è lampante quanto sia forte ed incisivo il titolo “L’Europa è contro il Papa”, proprio l’Europa che è la culla, il cuore del Cristianesimo e del Cattolicesimo, specie se paragonato a “Dure critiche al Papa”, un titolo generico, perfino vago, perché non si dice da che parte provengano quelle critiche, e potrebbero venire, cessò, anche dagli Anabattisti, essere insomma molto meno pesanti e rilevanti. Ed ecco allora quale e quanta importanza rivesta l’uso del linguaggio: è l’unico strumento che abbiamo per dire fino in fondo quello che vogliamo dire. E davvero le parole sono pietre, sono i mattoni di quella cattedrale dell’uomo moderno, secondo la definizione che Hegel dava dei giornali. L’informazione, perché è di questo che stiamo parlando, è un diritto costituzionale dei cittadini; la libertà di stampa esiste in tutte le democrazie, manca nelle dittature e nei paesi che qualcuno chiama “democrature”, ossia paesi in transizione tra la dittatura e la democrazia: un esempio è rappresentato dalla Russia di Putin, dove la libertà di stampa di fatto non esiste. 48 Partendo dal presupposto che la libera informazione è una vera e propria funzione della democrazia, quello che distingue un giornale stampato dagli altri mezzi di comunicazione di massa, che trovate spesso nominati come media, è che il giornale scritto, e vedremo poi perché, forma il cittadino consapevole: la democrazia è proprio l’insieme dei cittadini consapevoli di sé, delle proprie opinioni e della società in cui vivono. La democrazia è la pubblica opinione nella sua massima espressione. E’ ovvio che i diritti politici sono garantiti ai cittadini anche qualora non fossero informati, ma dato che il diritto è un esercizio, per esercitarlo è bene sapere, occorre bene conoscere. Nell’epoca in cui viviamo, ci si può informare in diversi modi: siamo nell’era dell’ “information technology”, abbiamo una quantità immensa di possibilità di accesso alle informazioni e una di queste, lo sapete meglio di me, è Internet. Su Internet, le informazioni sono un flusso indefinito senza tempo, scorrono indistinte senza soluzione di continuità: quando fate una ricerca a scuola su Internet, dovete stare attenti e controllare molto bene la fonte che vi fornisce quella informazione, quella ricostruzione storica se si tratta di ricerche storiche, quell’obiezione scientifica se si tratta di ricerche scientifiche. Quando vi informate attraverso Internet, dovete fare i giornalisti, dovete verificare le fonti. La verificabilità delle fonti è una delle cose più importanti per il giornalista, che deve informare, ma anche per il cittadino che si informa, ed è importantissimo tenerlo presente. Che la rete sia un mezzo aperto è una bellissima cosa, ma Internet si può paragonare al mare aperto: bisogna guardarsi dalle meduse, dagli squali, pur apprezzando l’acqua limpida, accessibile a tutti. Internet, dunque, ha reso tutto contemporaneo, globale, ubiquo; abbiamo detto che è un flusso indistinto di informazioni e un oceano nel quale bisogna avere delle bussole per muoversi. Un giornale non sta fuori da questo flusso informativo, anzi ci sta dentro molto di più di chi va su Internet per fare una ricerca. Però un giornale fa un’operazione che è insieme molto delicata e sofisticata, perché un giornale va alla ricerca del senso. All’inizio abbiamo definito il giornale come il racconto di una giornata nella vita del mondo. Ma il giornale, quando mette in pagina questa giornata, ne deve cercare il senso, raccontando, spiegando, prendendo ogni fatto e smontandolo, illustrandone i protagonisti, valutandone le componenti, prendendosi la responsabilità di analizzarli, di dire da dove derivino, e anche a che cosa preludano. Quindi si tratta di prendere la notizia di oggi , inserirla in un contesto all’indietro e proiettarla in avanti, prendendosi anche un’altra responsabilità: quella di dare un’opinione, di dire al lettore:”Stai attento, sta accadendo questo, potrebbe succedere quest’altro, io la penso così”. Naturalmente, il lettore, nel leggere quell’”Io la penso così”, si porrà il problema di come la pensi egli stesso, e dunque, leggendo quell’opinione, si misurerà con i suoi stessi giudizi, se ha già preso una posizione, se ha già fatto una valutazione, e li arricchirà, li confronterà con quello che legge sul giornale. Normalmente i giornali offrono più di un’opinione, sia nello stesso giorno su un fatto importante e poi, a distanza di uno o più giorni, possono riprendere un’idea precedente e approfondirla, o approfondirne un aspetto…Insomma, un giornale può essere usato come uno strumento di consapevolezza e di vero e proprio sapere 49 Lo strumento attraverso il quale tutto questo accade, come abbiamo detto, è il linguaggio. Qualche volta è possibile che quello dei giornali sembri troppo oscuro, e penso che uno dei motivi dei grandi successi dei siti on line dei quotidiani sia proprio la differenza di linguaggio. Ognuno di noi fa l’uso che vuole del proprio tempo, ma confrontarsi con un modo di esprimersi più complesso è comunque positivo. Ma un linguaggio non è mai veramente complesso se chi scrive, come dice Benedetto Croce, ha veramente capito fino in fondo l’argomento che ha per le mani. Pertanto misuratevi con la complessità, ma diffidate di chi scrive oscuro, di quello che è veramente ostico, di chi non si fa capire, di chi si rifugia nel linguaggio cosiddetto “specialistico”. Normalmente un buon giornalista, come forse anche un buon professore, per quanto complessa sia la materia che tratta si fa sempre capire, ma arriva alla semplicità del linguaggio dopo aver attraversato la complessità dei significati. Io mi fermerei qui, con soltanto due ultime, brevi considerazioni. Una riguarda l’uso delle parole; i giornali sono anche una grande fucina, un laboratorio in cui si inventano neologismi, cioè parole nuove, che diventano poi parole d’ordine, un po’ come gli slogan dei cortei, solo un po’ più creative, un po’ più dense di significati, perché un giornale è una cosa un po’ più complessa di una protesta, per quanto giusta possa essere. Sono tante le parole inventate dai giornalisti: la “lottizzazione”, coniata negli anni settanta da Alberto Ronchey per parlare della spartizione dei partiti politici fatta dentro la RAI, il “ribaltone”, che fu usata dai giornalisti nel caso di Lamberto Dini e dell’uscita di Silvio Berlusconi da Palazzo Chigi nel 1994 e, pensate, questa parola non fu rispolverata dai tempi in cui era stata inventata, nell’Ottocento, da Niccolò Tommaseo. Potrei fare altri esempi: pensate alla parola “casta”. La casta è stato un libro di grandissimo successo perchè parlava di quello che dell’Italia tutti, se non sapevamo, sospettavamo, quello che numerose inchieste hanno sempre raccontato, ma ha avuto questa grande fortuna anche perché ha cristallizzato una classe dirigente politica, e non solo, con una denominazione folgorante. Come la casta indiana, qualcosa di inamovibile, come quella che in Russia si chiama “la classe eterna”, la classe politica eterna. O pensate ancora al successo di una parola come “tangentopoli”, trasformazione di un termine tratto dai fumetti, Paperopoli, e applicato all’inchiesta “Mani pulite”, chiamata a sua volta così dal pool di investigatori e di magistrati inquirenti e giudicanti che avevano quell’indagine per le mani. Vedete dunque quale possa essere la forza del linguaggio. La seconda cosa riguarda ciò che abbiamo detto all’inizio sul rapporto tra la pubblica opinione e la democrazia, ossia l’insieme di tutti i cittadini consapevoli. Vorrei aggiungere che le notizie e la qualità dell’informazione non sono un bene in sé, non vivono fuori dalla società nella quale si trovano. L’informazione, che è una funzione della democrazia, dipende anche dalla qualità dell’organizzazione della società e della democrazia stessa. Quanto migliori sono le istituzioni, tanto più facilmente sono rappresentati gli interessi di tutti gli attori sociali che operano nella società, e tanto più sono trasparenti i criteri adottati tanto migliore sarà l’informazione. Nell’accezione migliore, infatti, la stampa è servitrice e guardiana delle istituzioni, non un loro sostituto. La stampa è come un fascio di luce che le illumina, e che illumina la vita di 50 una società, anche se la pubblica stampa, esattamente come la democrazia, ricordatelo sempre, è imperfetta. Ecco, io ho finito. Professoressa Fierro: Abbiamo ascoltato con interesse un discorso così incisivo e al tempo stesso così pieno di contenuti, sui quali adesso abbiamo il tempo di riflettere, perché la dottoressa, abituata al dibattito, vuole dare proprio più spazio alla discussione sul tema. Noi ne approfittiamo subito rivolgendole le domande che ci sono venute in mente durante la sua relazione e anche quelle che magari avevamo già pensato di fare prima ancora di sentirla. Io naturalmente do subito la parola ai ragazzi, o anche agli adulti, i colleghi possono naturalmente intervenire quando lo riterranno opportuno. Comincerei a sentire le domande degli studenti ma, per rompere il ghiaccio, ne faccio subito io una: in che senso un giornale contribuisce, come lei ha giustamente detto, a creare nuove parole? Da dove prende i neologismi? E’ il giornalista a inventarli oppure in realtà queste parole già circolano e acquistano uno “statuto” a livello linguistico attraverso il giornale? Il giornale si prende anche la responsabilità di usare nuove parole e di “imporne” l’uso al punto che poi esse vengono inserite nel nuovo vocabolario della lingua italiana? E questo è sempre positivo o a volte invece svilisce quella che è la “purezza”, per chi crede nel rigore e nella purezza della lingua? Adesso i ragazzi. Giovanni:Volevo chiedere un’informazione e fare una piccola critica, ovviamente generale. Non pensa che qui in Italia la qualità dell’informazione stia un po’ scemando e quello che si debba o non si debba dire provenga dall’alto? Giulia: Nel riportare una notizia, è inevitabile, anzi auspicabile, che il giornalista adotti un linguaggio che renda chiara la sua opinione sul fatto. Ma qual è il confine tra il dare la propria opinione e distorcere la realtà effettiva? Luca: Vorrei porgerle una domanda in riferimento anche a quella precedente. Che rapporto ci deve essere tra stampa e potere? E si può considerare giusta e tollerabile l’anomalia italiana in cui il nostro Presidente del Consiglio, di fatto, controlla un buon 70-80% dell’informazione nazionale? Sofia: Secondo lei quanti elettori rimangono influenzati dall’opinione data dal giornalista? 51 Dottoressa Rampino: Allora, provando ad andare in ordine, rispondo innanzitutto alla professoressa Fierro. Le parole nuove possono nascere in redazione, un caso felice, si inventa una parola magari semplicemente perché lo spazio per il titolo è ridotto. Possono esserci espressioni fortunate che vengono usate dai politici: penso al “tesoretto”, inventato da Tommaso Padoa Schioppa e che in Tremonti è già diventato “gruzzoletto”. Comprendo l’obiezione della professoressa, a volte alcune di queste parole sono brutte, sono assolutamente parolacce anche dal punto di vista del suono, ma questo è un rischio che corriamo tutti, anche quando parliamo. Le altre quattro domande pongono il problema del rapporto tra giornalismo e potere. Questo è un tema antico: fino a che punto, nel riportare le notizie, un giornalista puo’ dare la propria opinione? Un pezzo di cronaca non è un fondo di giornale, nel quale viene illustrata essenzialmente soltanto l’opinione: in un pezzo di cronaca viene, innanzitutto, riportato l’accaduto, e di lì si scappa poco. Ma anche nello scrivere un pezzo di cronaca, il giornalista esprime un punto di vista. Diffidate da chi vi dice che è perfettamente obiettivo, l’obiettività non esiste. Può esistere un criterio di equanimità, ma l’obiettività di per sé non è umana. Fino a che punto poi i lettori restino influenzati da quello che noi scriviamo, in generale mi viene da dire pochissimo, ma dipende in parte anche dal lettore. Più il lettore si fabbrica i suoi strumenti leggendo, naturalmente non solo giornali, ma anche libri, meno sarà influenzato dall’opinione del giornalista. Continuate a leggere molto anche quando uscirete dalla scuola, perché l’informazione, la conoscenza, la cultura sono le maniglie con le quali si afferra la realtà, e anche la vita di tutti i giorni, molto più di quanto non pensiate. Giulia, Luca e Giovanni hanno posto il problema dell’informazione che hanno definito “calata dall’alto”. Diciamo subito che l’anomalia italiana di cui parla Luca, ossia un Presidente del Consiglio che controlla buona parte dell’informazione, anche se non credo che si tratti del 70-80%, è, se chiedete la mia opinione, assolutamente inaccettabile, fuori da qualsiasi parametro di democrazia occidentale. Però Berlusconi è stato votato dagli italiani, e direi di più, non solo è stato votato dagli italiani, ma è stato anche precedentemente legittimato da quella che adesso in Parlamento è l’opposizione. La distribuzione delle concessioni governative per le reti Mediaset, la costituzionalizzazione di Berlusconi che ha fatto il presidente della Bicamerale Massimo D’Alema nel 1996, la legge sul conflitto d’interessi, tolta dall’agenda del Senato nell’ultima settimana di legislatura del primo governo Prodi per far posto alla riforma sul Titolo Quinto della Costituzione, ossia il federalismo, fatto dal centro-sinistra per strizzare l’occhio alla Lega, che passò con una maggioranza di soli quattro voti…. Quindi, se c’è stato e c’è un forte peso da una parte, sono mancati i contrappesi dall’altra. E del resto, l’elettorato italiano ha punito pesantemente il centro-sinistra. In che modo la stampa segue tutto questo? Ci sono giornali che lo raccontano molto dal di dentro, ossia con uno sguardo benevolo nei confronti del Presidente del Consiglio, magari perché sono giornali di sua proprietà. Questo punto è fondamentale. Abbiamo detto che l’obiettività non esiste, né nella nostra vita di tutti i giorni né nei giornali, ma è importante sapere, quando si legge un giornale, a chi esso appartenga, chi è l’editore, perché questo permette di comprendere meglio quanto vi è scritto, di cogliere anche le sfumature di quel punto di 52 vista, di capire qual è la legittima rappresentanza. Per esempio, il Sole 24ore, che è un ottimo grande giornale, non un giornale di nicchia economica, è il quotidiano della Confindustria. Possiamo aspettarci che gli articoli sulla politica industriale pubblicati dal Sole24ore siano contrari alla politica di Confindustria? Basta semplicemente sapere questo per leggere con consapevolezza quello che, secondo me, è uno dei migliori giornali italiani, e che eccelle soprattutto negli articoli di politica estera. Cosa che si spiega con il fatto che, essendo le imprese italiane sempre di più internazionalizzate, lavorando sempre di più in tutti i mercati del mondo, gli imprenditori, dai piccolissimi ai grandi, hanno bisogno di sapere che cosa accade in ogni parte del mondo. Si parla molto dei cosiddetti “editori puri”, che ormai esistono soltanto negli Stati Uniti, degli imprenditori che hanno come attività principale l’informazione. L’editore puro è certo una gran cosa, ma in Italia il più grande editore puro, Rizzoli, è stato infiltrato da quella cosa che chiamiamo P2 e che in realtà ancora non si sa bene che cosa fosse, ma certo non un’associazione benefica. Naturalmente i rapporti tra stampa e potere sono molto complessi, caro Luca: non esiste soltanto il caso di Berlusconi. I rapporti tra la stampa e il potere devono essere di estrema correttezza reciproca, come del resto è o sarebbe auspicabile per tutte le relazioni umane. Quello che mi sento di poter dire è che le cose marciano sulle gambe degli uomini e che in ogni giornale il perno delle garanzie poggia sul direttore: un giornalista deve riportare tutte le notizie che ha nel momento in cui le ha, se sono verificate e certe e da fonte attendibile; un direttore però deve pubblicarle. Naturalmente i direttori responsabili sono esseri umani e ognuno è fatto a proprio modo,ma per un giornalista è estremamente importante avere un direttore che sia a sua volta un giornalista serio, affidabile e che abbia operato sul campo, perché è molto diverso stare sul campo o stare in ufficio. Professoressa Fierro: Continuiamo con le domande. Vorrei intanto sottolineare la difficoltà, non solo dei ragazzi, ma anche degli adulti, nel leggere la pagina economica di un giornale, di qualunque giornale, non parlo solamente del Sole 24 Ore, che indubbiamente ha una maggiore specificità in quel campo. Bisognerebbe probabilmente possedere determinate competenze per poter capire certi meccanismi. Come affrontate il problema dell’informazione anche in materie difficili, in modo che tutti possano capire? Venite, venite, ragazzi. Francesca: Vorrei sapere qual è stato il ruolo del giornalista in questo periodo di grande crisi. Fino a che punto i giornali hanno influito sulla società, è stata forse in parte gonfiata questa situazione? Dottoressa Rampino: Capisco cosa vuol dire Francesca. Personalmente non penso che i giornali abbiano influito sull’umore della società, e neanche la televisione, anche se, essendo un mezzo ben più potente e invasivo della carta stampata, ci permette meno di riflettere su quello che accade. 53 Viceversa, penso, come dicevo stamattina a un collega molto più autorevole di me, che noi non abbiamo vissuto un duplicato della grande depressione del ’29, ma piuttosto stiamo vivendo un crack del modello capitalistico. Non è Bertinotti, ma Tremonti a sostenere che serve più etica nel mondo della finanza. Tremonti di formazione è un commercialista, un esperto dei bilanci di grandi imprese, ed è considerato uno dei massimi conoscitori del bilancio dello Stato italiano. Ma è anche un uomo di notevole acutezza, a suo modo un grande comunicatore e un intellettuale, e sa bene di che cosa parla. Il ministro dell’Economia ha accusato i giornali di aver descritto la crisi a tinte fosche, personalmente credo invece che i giornali non abbiano raccontato fino in fondo il punto di rottura nel modello capitalistico, che semplificando di molto potremmo definire la forma economica della democrazia. E credo che non lo abbiano fatto perché siamo in un momento di passaggio estremamente difficile, sono troppo scarsi e anche incerti, ancora, i dati di cui disponiamo, per potere interpretare e analizzare correttamente il quadro. Berlusconi, in conferenza stampa e dunque pubblicamente, pochi giorni fa ha sostenuto che il totale del crack nelle banche è pari al PIL di tutto il mondo, cioè al prodotto interno lordo di tutto il mondo….Naturalmente forse ha fatto un po’ di confusione, ha mescolato cose diverse, ma quello che probabilmente Berlusconi intendeva dire è che ancora non conosciamo l’entità della crisi, che può essere anche più drammatica del solo crack finanziario. Si tratta di elementi estremamente complessi e delicati, e quindi i giornali usano, al contrario di quanto sostengono il ministro dell’Ecpnomia e il Presidente del Consiglio, un’estremo senso di responsabilità. Di solito in casi come questi si trattano le notizie in modo “freddo”, non interpretandole fino in fondo, soprattutto perché come dicevo prima in questo caso mancano ancora dati certi. Tutto il mondo occidentale ha un sentiero stretto da percorrere, e deve cercare di muoversi in sintonia, in maniera più uniforme possibile; per esempio, l’Europa dovrebbe essere più unita e invece non ci riesce, ogni Paese sta prendendo delle misure per conto proprio, misure diverse e qualche volta contraddittorie con quelle degli altri. Non penso che i giornali influiscano sul cattivo umore dei cittadini; d’altra parte che la crisi esiste si vede facilmente: basta andare in una strada che si frequenta abitualmente e vedere quanti negozi hanno chiuso per fallimento. Professoressa Fierro: Venite, ragazzi. Il dibattito è molto dinamico questa mattina. Valentina: Lei ha detto che il giornale è una realtà raccontata, però spesso vi è un boom della notizia: perché alcuni temi sono trattati in modo continuo per un determinato periodo e poi vengono dimenticati? Dottoressa Rampino: Questa è una critica assolutamente condivisibile, è come se i giornali si innamorassero di certi fatti. Sulla cronaca nera, poi, a volte si arriva al delirio, alcuni giornalisti si invaghiscono di alcuni crimini: prendiamo in giro Bruno Vespa per il suo plastico di Cogne, però poi sui giornali tutti i giorni si vedono le stesse cose… 54 Io sono d’accordo con Valentina, e, se volete sapere la verità, non so assolutamente cosa rispondere. E’ come quando ci si invaghisce di qualcuno, e poi la cotta passa. Valentina forse sottintende che questo potrebbe nascondere una manipolazione: in effetti l’attenzione rivolta in modo eccessivo alla cronaca nera potrebbe servire a distogliere la pubblica opinione da altri accadimenti, politici ad esempio. E’ vero però anche che il delitto ci racconta la società in cui viviamo, rappresenta quella parte di follia che esiste dentro ognuno di noi. Arianna: Considerando l’enorme influenza che i giornalisti esercitano sull’opinione pubblica, nel senso proprio che a volte la plasmano, non potrebbero diventare quasi lo strumento per appagare il voyeurismo della gente comune, magari usando anche un linguaggio ambiguo nel trattare quegli aspetti della vita privata delle persone che dovrebbero interessare di meno? Dottoressa Rampino: Arianna, ma che tipo di giornali leggi? Arianna: Mi riferivo sia ai giornalisti sia a quelli che in televisione fanno gli opinionisti; comunque lo vedo spesso sui giornali, soprattutto quando si tratta di avvenimenti di cronaca nera, ad esempio ultimamente con il fatto delle ragazze stuprate. A volte mettono in piazza aspetti della vita privata delle persone che non dovrebbero interessare e non dovrebbero essere portati sulla scena pubblica, alla portata di tutti. Dottoressa Rampino: E’ così. Arianna ha voluto farci vedere come la notizia di uno stupro può diventare lo stupro di una notizia, con quella morbosità che spesso si nasconde dietro una facciata di moralismo. Sono assolutamente d’accordo, però quando incappate in ciò che ha così ben descritto Arianna, potete subito rendervi concretamente conto che vi trovate di fronte a un organo di informazione, a una trasmissione televisiva, a un giornalista senza qualità. In Italia non c’è mai stato quello che si chiama “il giornalismo popolare”, in Inghilterra invece esistono dei giornali chiamati “tabloid” per via del formato (anche se in realtà ormai i giornali son tutti in quel formato), che parlano soltanto di omicidi, di cronaca nera, di sesso e di pettegolezzi: sono un po’ come quei rotocalchi che in Italia si trovano dal parrucchiere. E da noi quel genere di informazione si trova solo in quel tipo di settimanali. I quotidiani normalmente non trattano quegli argomenti nel modo in cui diceva Arianna. Rosa: Partendo dalla considerazione che il linguaggio ha da sempre avuto un grande potere anche nella formazione dell’opinione pubblica, è un dato di fatto però che spesso è stato manipolato ed è stato anche uno strumento eversivo. Che tipo di rapporto sussiste tra il linguaggio e l’atteggiamento disilluso dei giovani nei confronti della vita politica ? Sempre che esista un rapporto tra i due elementi…. 55 Dottoressa Rampino: Non credo che il problema della disillusione nei confronti della politica sia responsabilità del linguaggio: il problema è che la politica non è più capace di trasmettere alcun messaggio. Pensate alla campagna elettorale di Obama e alla sua vittoria. Obama ha usato lo slogan “Yes, we can”, sì, noi possiamo, ce la possiamo fare. Fondamentalmente, è la richiesta di un impegno: ce la possiamo fare, noi, insieme, un’unità, quindi vi dovete impegnare, altrimenti noi, non io solo, non ce la faremo. La forza di questo messaggio ha portato Obama alla vittoria, ma il linguaggio da solo, naturalmente, non sarebbe bastato: c’era anche la reazione agli otto anni di Bush, a quello che è stato Bush in un paese come gli Stati Uniti, e a quello che ha fatto nel mondo, e inoltre c’è stata una straordinaria partecipazione di segmenti della società americana che in precedenza non avevano mai votato. La politica italiana non mi sembra che abbia un problema di linguaggio, mi sembra che abbia un problema di contenuti, che poi si esprimeranno anche attraverso un linguaggio. Lorenzo: Prima lei ha parlato di Internet: ci si può collegare alla campagna di Obama, che ha usato Internet come mezzo di diffusione. Internet potrebbe essere un sostituto per quel tipo di informazione che, mandando messaggi isolati sui quali non si può indagare, rende la popolazione passiva, come sostiene Beppe Grillo. La connessione pubblica potrebbe offrire una soluzione all’estremo potere che hanno i mezzi di informazione unitari, quindi privi di varie sfaccettature? Dottoressa Rampino: Lorenzo, grazie della domanda. Tu mi chiedi sostanzialmente se Internet può essere portatore di democrazia e ovviamente la risposta è sì, perché appunto è uno strumento di comunicazione. Internet tra l’altro ci riporta a scrivere. Voi scrivete tutti i giorni perché siete a scuola, ma ci sono persone che non scrivevano più da una vita. Riguardo a Beppe Grillo, il discorso è un po’ complicato: Beppe Grillo ha per primo denunciato lo scandalo di Parmalat e in questi giorni sta ancora facendo un’operazione di informazione sul colpo di stato attualmente in corso in Madagascar: egli ha rivelato che il Presidente del Madagascar ha venduto mezza isola a delle imprese coreane. E questo non è scritto su nessun giornale: è un torto dei giornali che tendono sempre di più, soprattutto quelli italiani, a guardare l’orto di casa e meno quello che succede nel mondo. Questo è un errore perché, soprattutto in epoca di globalizzazione, quello che succede nel mondo arriverà da noi rapidamente. Quindi, certo, Internet può essere portatore di democrazia e Beppe Grillo fa delle rivelazioni che sono importanti. Ma Beppe Grillo è un grande manipolatore, perché fa tutto questo minacciando di lanciarsi in politica, vendendo i suoi cd-rom, facendo i suoi spettacoli, insomma bisogna essere molto cauti, anche perché comunque Grillo ha la mentalità e usa gli strumenti di un comico, e, attenzione, per far passare i messaggi usa la sollecitazione del divertimento, fa leva sulla risata, il che non è tanto corretto, perché prevede che noi siamo spettatori, non cittadini consapevoli. Tornando ad Obama, è vero che lui, a differenza di Hillary Clinton, per le primarie e per la campagna elettorale ha usato Internet e i “social networks”, ma quando la settimana scorsa, in un’intervista in televisione, gli hanno chiesto cosa pensasse di Internet, ha risposto: “Non lo uso mai, non so come funziona, credo sia perfettamente inutile alla 56 società”. Quindi bisogna stare attenti: probabilmente Obama, come capisco da questa dichiarazione, adesso prende le distanze, ma il suo staff, i suoi collaboratori indubbiamente hanno usato Internet. Lorenzo: Questa cosa di Obama non la sapevo; per quanto riguarda Beppe Grillo, è vero che può avere un certo effetto, c’è chi addirittura lo ha paragonato a Mussolini, che prima ha conquistato la folla e poi l’ha utilizzata per i suoi comodi. In realtà lui ha avuto molte occasioni per entrare in politica ma ha detto che è contrario alla formazione di più partiti. E’ un comico che però ha un valore politico, esprime delle battute, anche forti, sicuramente c’è a chi può non piacere la sua modalità di linguaggio, però ha comunque delle basi di conoscenza e si informa proprio attraverso Internet. Quello che volevo dire è che non ha un secondo fine, se lo avesse avuto, lo avrebbe già raggiunto, o no? Dottoressa Rampino: Se Beppe Grillo si candidasse, farebbe un’operazione di chiarezza, e chi glielo impedirebbe? Siamo in democrazia. E’ proprio questo modo, però, di usare degli argomenti molto importanti in chiave comica e in chiave di destrutturazione della società, che non va bene. Perché Beppe Grillo non ha denunciato la Parmalat, invece che in piazza, da un magistrato? A me va benissimo che Grillo ne faccia uno spettacolo, è anche più accessibile alla gente; pure gli spettacoli di Dario Fo hanno un contenuto di denuncia politica, no? Beppe Grillo tratta argomenti estremamente più complessi e delicati, che toccano la gente da vicino, addirittura sin nel portafoglio. Ma sono argomenti, quelli degli scandali finanziari, in cui è troppo facile fare uno spettacolo in piazza e dire “io l’avevo detto”. A me va benissimo il suo spettacolo, mi va benissimo andare sul suo blog, mi va benissimo se si candida, ma diffiderei e non voterei chi si rivolge anzitutto alla piazza, e come se la piazza fosse il “suo” popolo. Flaminia: Mi vorrei riallacciare a quello che lei ha detto prima riguardo al fatto che le notizie su Internet vincono su quelle cartacee. Forse questo è dovuto anche all’impaginato, che risulta più immediato. Un ammodernamento del giornale, dato che la sua struttura è così da tantissimo tempo, potrebbe aiutare i giovani ad avvicinarsi? Ad esempio, il formato nuovo dell’Unità, che credo sia stato fatto da Concita De Gregorio, è così compatto, e magari potrebbe aiutare i giovani ad avvicinarsi all’uso del giornale. Dottoressa Rampino: Secondo me è un formato troppo piccolo, ed è usato ancora come se fosse un vecchio giornale: un formato di quel tipo richiederebbe tante piccole notizie, e articoli brevissimi, e però forse ci annoierebbe a morte. Naturalmente muoversi nell’habitat di un giornale di carta, per chi è abituato a frequentare un giornale on line, è più complesso, è completamente diverso, ma i giornali stanno cambiando, tendono tutti a rimpicciolirsi rispetto al formato tabloid, è così La Stampa, diventerà così Repubblica e in futuro probabilmente il Corriere della Sera. 57 Tutto questo, però, non ha niente a che vedere con il gradimento dei lettori: semplicemente il prezzo del petrolio ha fatto aumentare enormemente il prezzo della carta, poi è arrivata la crisi economica e quindi i formati tendono a ridursi con una motivazione essenziale, quella di ridurre i costi risparmiando sulla carta. In realtà è più facile lanciare sul mercato un prodotto completamente nuovo che non modificare una testata vecchia con un modello grafico nuovo. Perché se contenuti e grafica non marciano insieme, se la cornice non è adeguata ai contenuti difficilmente si azzecca la formula e infatti mi pare che per l’Unità non stanno esattamente funzionando. Alessandra: Secondo una recente stima americana, fra una decina d’anni è possibile che i giornali cartacei scompaiano del tutto e le informazioni vengano divulgate solo su Internet. Vorrei sapere se, secondo lei, è un evento possibile e in che modo cambieranno lo spirito e il linguaggio dell’informazione. Dottoressa Rampino: Dunque, Alessandra, anche se certamente alcuni giornali, anche in Italia, chiuderanno, di una cosa sono sicurissima: la carta stampata non morirà di fronte a Internet e uno dei motivi è che il lettore, il cittadino informato e consapevole, sentendo sempre di più il bisogno di sapere e di conoscere, si accorgerà che l’informazione da Internet da sola non basta. Naturalmente può accadere, ed è già successo per esempio ad un giornale molto bello di New York, il “New York Post”, che scompaia l’edizione cartacea e resti solo l’edizione on line. Questa trasformazione è stata annunciata come possibile in futuro anche dal “New York Times”, e vedremo se sarà realizzata o meno. Il problema è che la televisione drena gran parte degli introiti pubblicitari e quindi i costi di produzione di un giornale su carta sono troppo alti da sostenere, per gli editori. E’ chiaro che il New York Times on line è come se fosse di carta, non è un sito internet qualsiasi, ci lavora una delle migliori squadre di giornalisti del mondo, come è noto: l’unica differenza è che forse, in futuro, non sarà più su carta. Anche se la fruizione di un giornale su carta è molto diversa. Leggere un giornale è un piacere, è completamente un’altra cosa. Professoressa Fierro: La lezione di oggi sta diventando una discussione molto intrigante, credo che abbiamo battuto tutti i record degli interventi dei ragazzi, che oggi sono veramente protagonisti del dibattito. Vi invito a continuare per un po’, abbiamo poco tempo ancora e poi la dottoressa ci dovrà lasciare. Sofia: Vorrei fare una domanda un po’ aggressiva, non so se mi può dare la risposta. Secondo lei, dietro la volontà da parte del governo di ridimensionare in un certo qual modo la libertà di stampa, che lei ha detto essere funzione della democrazia, è nascosta anche la volontà di limitare l’informazione a ciò che fa comodo che il lettore sappia? Dottoressa Rampino: Capisco la preoccupazione, che naturalmente è presente anche nelle redazioni dei giornali, e immagino che questa idea di ridimensionare la libertà di stampa, alla quale tu, Sofia, fai riferimento, stia all’interno del provvedimento sulle 58 intercettazioni. Su questo provvedimento c’è una trattativa in corso perché gli “animal spirits”, direbbe qualcuno, le pulsioni “istintive”, chiamiamole così, di questo governo, sono molto forti. Avrete saputo che ieri c’è stata addirittura la ribellione di cento deputati del PDL a causa del fatto che, secondo la legge Maroni, i medici, anche quelli del Pronto Soccorso, sarebbero tenuti a denunciare gli immigrati clandestini che vanno a curarsi; ciò metterebbe a repentaglio la salute degli italiani, oltre a quella degli immigrati clandestini, ai quali evidentemente non si riconoscono i diritti fondamentali. Dobbiamo però dire che da una parte si sta cercando di far ragionare il governo su questo punto, e dall’altra a me sembra che possa trattarsi di un altro dei tanti provvedimenti dei quali piovono annunci per testare le reazioni, ma nulla è ancora definitivo. Se però quel provvedimento sulle intercettazioni passasse, la libertà di stampa sarebbe messa a rischio perché la responsabilità penale verrebbe spostata dal direttore responsabile all’editore, e quindi, a fronte di sanzioni pesantissime, anche se solo amministrative, sarebbero gli editori a decidere cosa si scrive e cosa non si scrive giornale: ciò limiterebbe moltissimo la libertà di informazione proprio perché è il direttore il volano, il cuscinetto, l’asse decisionale di un giornale e sta nella redazione da primus inter pares. Daniele: La mia è una curiosità: qual è il rapporto tra i giornalisti della carta stampata e i giornalisti della TV? Grazie. Dottoressa Rampino: Quelli della TV sono tutti più carini! Scherzo, naturalmente, ma certo in video anche il corpo è uno strumento di comunicazione. Per il resto sono colleghi normali, alcuni sono più bravi e altri meno, alcuni più simpatici, altri meno e così via. E’ molto diverso il modo di lavorare, questo sì, perché la comunicazione televisiva è rapida, molto sintetizzata. Dal punto di vista delle opinioni può essere più esposta, l’opinione può essere più netta perché due minuti e mezzo in televisione costituiscono un servizio lunghissimo, mentre in un giornale è un piccolo pezzo, appena una cartella di mille e ottocento battute. Alcuni colleghi sono dei bravissimi comunicatori , ma il loro è comunque un lavoro diverso da quello che si svolge nella redazione di un quotidiano. Edoardo: Ricollegandomi alla domanda fatta prima sul rapporto tra giornalisti della carta stampata e giornalisti televisivi, vorrei porre l’attenzione sull’informazione televisiva e quella stampata. Che cosa cambia tra questi due tipi di informazione, le notizie sono più incisive se vengono trasmesse attraverso il giornale o attraverso il telegiornale? Dottoressa Rampino: Normalmente, quando la mattina una persona va in edicola a comprare un giornale quotidiano, sa già che cosa è successo, perché magari ha visto il TG della sera prima, o ha sentito la radio, o ha ricevuto notizie sul telefonino. Quindi chi compra il giornale compie una scelta, chiede un giornale in particolare o ne chiede due, specie se quel giorno è successo un fatto importante e vuole coglierne le varie 59 sfumature. Il quotidiano vi riporta l’informazione che avete già appreso dal telegiornale, ma vi racconta i retroscena, vi offre delle analisi, vi spiega tutto sui protagonisti , vi dice qual è il vero scopo di quel tale provvedimento. L’informazione che un quotidiniano vi offre è perfettamente incastonata nella realtà. Un genere di impostazione dell’informazione che non si ritrova nemmeno nel telegiornale o il radiogiornale del giorno dopo, proprio perché i linguaggi di questi media sono completamente diversi rispetto a quello di un quotidiano. Professoressa Fierro: Se c’è qualcuno che vuole ancora fare domande può avvicinarsi. Io intanto volevo farne ancora un’altra alla dottoressa Rampino: quali studi universitari consiglia a chi tra i nostri ragazzi, che sono studenti del liceo classico, volesse intraprendere oggi la carriera del giornalista e quali possibilità effettive ci sono per i giovani di aspirare a fare questo lavoro che io trovo particolarmente bello? Dottoressa Rampino: Nell’editoria oggi c’è una crisi terribile, e voi siete fortunati perché siete molto giovani e potete aspettare. Ci sono molte scuole di giornalismo, ma è importante fare l’università, ad esempio scienze politiche o lettere o economia o giurisprudenza, dato che il giornalismo va sempre più verso la specializzazione. Naturalmente bisogna saper scrivere, occorre un’attitudine che una volta Eugenio Scalfari ha descritto in una maniera efficacissima: una connessione diretta tra il cervello e la penna. Che sia la penna o la tastiera, insomma, ci vuole una grande facilità di esprimersi. Inoltre, serve moltissimo leggere, solo leggendo molto e bene si apprende a saper scrivere.. Anche se esiste la tendenza alla specializzazione, non si può pensare che il proprio sapere riguardi solo l’argomento di cui ci si occupa. Un giornalista di economia non può sapere solo di economia, un giornalista di politica interna non può sapere solo di politica interna, un giornalista che fa le pagine di cultura non può sapere solo di cultura. Tutto è interconnesso, bisogna prepararsi, essere poliformi. Marco: Vorrei sapere cosa pensa dell’abbandono da parte di Enrico Mentana della conduzione della trasmissione Matrix. Dottoressa Rampino: Io penso che Mentana abbia fatto il giornalista, nel senso che non gli hanno permesso di fare una certa cosa e si è dimesso. Credo che abbia fatto bene, anche se non direi che ne sia contento. Non amo i programmi di approfondimento televisivo come Matrix perché, secondo me, sono delle rappresentazioni nelle quali ognuno, partecipanti e intervistati, hanno un ruolo, proprio come in una piéce teatrale. E quindi di approfondimento, in realtà, c’è pochissimo. Mi piacciono le inchieste giornalistiche, e in particolare Riccardo Iacona, perché ha un suo personale linguaggio, un suo personale stile di narrazione televisiva, perché è capace di portare lo spettatore dentro gli eventi, e poi è anche simpatico, ha un modo buffo di analizzare i fatti. Certo la sostituzione di Mentana, fatemelo dire, con un “eroe” del giornalismo americano, perché così ci è stato presentato, al suo debutto a Canale5 il collega della CNN, non mi è sembrata una buona scelta. Alessio Vinci era il corrispondente della CNN dall’Italia, e in Italia i corrispondenti americani e degli altri grandi paesi seguono essenzialmente il 60 Vaticano, la politica italiana è proprio una minuzia per loro. Mentana era molto meglio, anche se non amavo Matrix. Silvia: Le volevo chiedere due cose. La prima è un suo giudizio sulla progressiva inglesizzazione del linguaggio giornalistico, con l’ uso sempre più vasto e a volte anche esagerato dell’inglese. La seconda domanda è più impegnativa: perché, soprattutto tra i giovani, va diminuendo l’interesse per la realtà che hanno attorno mentre aumenta quello quasi morboso per realtà alternative, come possono essere i reality in televisione? E perché è lo stesso anche per la stampa e la società in generale? Grazie. Dottoressa Rampino: Sì, è vero, Silvia. Bisognerebbe sempre scrivere in italiano le parole che si possono scrivere in italiano, però sfido chiunque a scrivere “locale notturno” invece di “night”, senza che sembri che si sta stilando una denuncia di polizia. E’ vero che l’inglese si usa molto, io stessa ho cominciato questa conversazione con voi proprio citando una parola straniera, l’ “accountability”, che è intraducibile. E’importante cercare di usare l’italiano il più possibile, perché è una lingua molto ricca, che bisogna conoscere bene, perché si può dire che non esistono sinonimi, le parole hanno ognuna un leggero slittamento rispetto all’altra, non esiste una parola che significhi esattamente quel che significa un’altra. Ci sono dei colleghi che si divertono a scrivere molte parole in inglese, ma possiamo scusarli, e poi anche tu, giustamente, parli del Grande Fratello e lo chiami “reality”. E’ così. In realtà molti programmi sono di modulo straniero, anche il Grande Fratello non so se sia nato in Svezia, in America o non so dove. I reality a me non piacciono, non per snobismo, ma perché mi annoiano; ho provato a guardarli, ma è come guardare delle persone rinchiuse in un acquario. Il Grande Fratello è un universo concentrazionario, che è l’espressione che usiamo per Auschwitz, Birkenau, per i campi di concentramento, per i Gulag e i Lager. Sono mondi chiusi e sfido chiunque, anche dei premi Nobel o delle persone simpaticissime, dovendo stare chiuse dentro un modulo definito, senza nessuna percezione della realtà, a comportarsi meglio di come si comportano quei poveretti. Anche se, però, mi pare che ci stiano benissimo, vincono, sono pagati, vanno a fare altre cose in TV: se sono contenti così, peggio o meglio per loro. Professoressa Fierro: Adesso c’è la domanda del professor Carini, poi facciamo i saluti e vi darò appuntamento per l’ultima conferenza, quella del 21 di aprile, in cui ospiteremo Corrado Augias, il quale verrà un po’ a sparigliare le carte e a fare un discorso sul linguaggio della scienza e quello della poesia. Adesso sentiamo il professor Carini, la dottoressa Rampino che gli risponderà e concludiamo così come abbiamo cominciato e poi proseguito questo lavoro, con attenzione, disponibilità e silenzio. Professor Carini: Grazie, spero di non essere noioso, ma volevo fare una domanda che riguarda un istituto che credo sia ancora esistente, cioè il segreto di Stato, che si traduce negli omissis apposti ai documenti pubblicati. I giovani forse non lo sanno, però 61 la storia della nostra repubblica è costellata di pagine bianche, di segreti, cioè di fatti che non si conoscono ancora bene, di inchieste non completate, retroscena ancora ignoti, perché è una storia piena di misteri, fin dagli anni cinquanta, anzi ancora prima: penso alla banda Giuliano, al separatismo in Sicilia, alla strage di Portella delle Ginestre, e poi ancora, negli anni ’60-’64 allo scandalo Sifar, il Piano Solo, quell’inchiesta dei giornalisti Tino Iannuzzi e Eugenio Scalfari, che rivelò come, negli alti ambienti, addirittura nel Quirinale, si architettasse un piano per arrestare e deportare i leaders politici e sindacalisti di sinistra. E, per quel caso, ci fu un tempestoso colloquio tra Saragat e il presidente Segni. E poi ancora, la strage di piazza Fontana, tutte le inchieste sull’eversione e sul terrorismo, la strategia della tensione: ancora ignoriamo chi fossero i veri colpevoli della strage di piazza Fontana nel ’69, si parlò di Freda e Ventura e ultimamente è venuto fuori il nome di Delfo Zorzi, rifugiato in Giappone; e poi ancora i grandi scandali di finanzieri, Michele Sindona avvelenato in carcere, il caso del Banco Ambrosiano, il banchiere Calvi trovato morto sotto il ponte di Londra, lo scandalo Lockheed, ancora non conosciamo il nome di Antilope Cobler, cioè quel politico italiano che avrebbe preso le tangenti dall’industria Lockheed per agevolare una commissione per l’esercito, uno scandalo molto grave per il quale furono incriminati i ministri Gui e Tanassi; e ancora, il caso Moro, e i memoriali, cioè quello che aveva scritto Aldo Moro, che si pensò li avesse il generale Dalla Chiesa; come fu scoperto realmente il covo di via Gradoli, e tanti altri casi. Ora, le chiedo questo: molte di queste inchieste approdano a prospettive di eversione e cioè a sospettare intrecci tra apparati dello Stato, e potrei citare per esempio i nomi dei generali Belmonte, Santovito, il colonnello Giovannone, il colonnello Spiazzi, Francesco Pazienza e Guido Giannettini, l’agente Zeta: ora, per coprire questi rapporti, si appone il segreto di Stato, gli omissis sui documenti; siccome siamo ormai nell’Europa Unita, il comunismo è caduto, non c’è più l’Unione Sovietica, non sarebbe il caso forse di eliminare il segreto di Stato anche per approdare finalmente a quella verità che ci sfugge da tanti anni per la crescita civile del nostro paese? Grazie. Dottoressa Rampino: Ringrazio il professor Carini, anche perché mi tratta come un Presidente del Consiglio, che è poi l’istituzione deputata a mettere o a togliere gli omissis. Credo che Prodi abbia tolto degli omissis su alcuni di questi misteri di Stato, anche se non penso che sia servito a molto. Devo sottolineare che le inchieste di cui lei parlava sono anzitutto inchieste della magistratura, in molte di esse ci sono stati depistaggi ad opera dei servizi segreti italiani che venivano definiti deviati, e sono cominciate daccapo. Speriamo che tolgano gli omissis, potremmo sapere moltissime cose, anche se credo che la verità storica la conosciamo già: è una verità che prescinde in qualche modo dagli omissis e credo che sia un percorso di democrazia molto grave e doloroso. Pensate a che cosa è stato per gli Stati Uniti l’ assassinio di John Fitzgerald Kennedy, e le decine di interpretazioni che ancora circolano. Vorrei dire che non ho nessuna fiducia nel fatto che, tolti gli omissis, sapremmo qualcosa di simile alla verità, e che quello che ci interessa davvero è la verità storica. E credo che quella per fortuna ce l’abbiamo già. Professoressa Fierro: Ringraziando la dottoressa, voglio fare pubblicamente un elogio ai ragazzi che hanno partecipato con attenzione e hanno posto domande tutte belle, interessanti e pertinenti: questa è la riprova che i nostri incontri sono lezioni, fatte in un altro modo, ma tanto ricche, belle e anche divertenti. Grazie a voi. 62 Noi, come al solito, regaliamo alla nostra relatrice dei libri: giacché la scuola è povera, l’unica cosa che possiamo offrire ai relatori che ci regalano il loro tempo e certo non si fanno pagare per le loro conferenze, sono libri. Spero che lei non li abbia, uno è di Luciano Canfora, uno dei più grandi filologi viventi che abbiamo avuto l’onore di ospitare qualche anno fa: è l’inizio di una nuova collana della Laterza che si chiama Anticorpi, bellissimo il titolo, e si intitola La natura del potere; l’altro è Aspettando la cometa, di Franco Cordero, un grande giurista, che usa un linguaggio veramente particolare, tagliente, sottile, bellissimo. Spero che le piacciano. Grazie. Dottoressa Rampino: Grazie a voi tutti e grazie anche dei libri, professoressa. 63 Il linguaggio della scienza e quelo della poesia Corrado Augias Conferenza del 21 aprile 2009 Dirigente Scolastico prof. Franza: Con oggi concludiamo il tema di approfondimento culturale del Liceo Orazio grazie all’impegno della professoressa Fierro che ne ha curato l’organizzazione e l’esecuzione. E’ con noi il dottor Augias che ringraziamo di aver aderito all’iniziativa pur essendo fagocitato dagli impegni. Perciò senza perdere tempo do la parola alla professoressa Fierro per la consueta presentazione. Prof.ssa Fierro: L’ultima riflessione sul tema “Umanesimo e Scienza” è affidata, oggi, a Corrado Augias, un personaggio talmente noto da renderne per certi aspetti superflua e forse proprio per questo più difficile la presentazione. La sua personalità è complessa, molteplici gli interessi che lo animano, le vie che egli ha percorso, dalla stesura di testi teatrali, alla letteratura, al giornalismo. In ognuno di questi settori, mi pare che si avvicini alla dimensione esistenziale come chi indaga e al tempo stesso lascia una porta socchiusa sul mistero. Nei suoi romanzi, penso alla trilogia narrativa “quel treno da Vienna”, “il fazzoletto azzurro”, “l’ultima primavera”, si compongono trame dentro un tessuto concreto dove gli eventi incalzano e vengono descritti e tradotti nel linguaggio letterario senza alcuna contaminazione. La grande passione e conoscenza della storia sorregge l’autore nel racconto intricato come avviene in “giornali e spie” dove egli ricostruisce con assoluta veridicità la vicenda spionistica ordita dai servizi segreti del Kaiser nel 1919 per favorire l’uscita dell’Italia dalla guerra; la medesima passione lo spinge a sempre più ardite incursioni nell’avventurosa scoperta di luoghi, persone storie , segreti di Londra, Parigi, New York. E che dire della sua attività di giallista con libri come “una ragazza per la notte” o “quella mattina di luglio”. Forse è qui il segreto della convivenza tra l’anima sua di scrittore e quella di giornalista: raccontare, sempre e comunque raccontare. Augias è stato inviato speciale per L’Espresso, Panorama , La Repubblica, quotidiano con cui attualmente collabora; ha ideato e condotto programmi di significativo spessore culturale come Telefono Giallo, Babele e adesso su Rai tre Le Storie. Ma non è una star televisiva, secondo l’accezione comune del termine. E’ un intellettuale a tutto campo che difende i valori di una cultura libera e laica; esprime un’ansia sottile e contagiosa di verità non senza provocare a più riprese polemiche di scuola come è avvenuto per la sua “Inchiesta su Gesù”. Da noi, oggi, viene a sparigliare le carte: ci farà entrare in quella prospettiva in cui il linguaggio in quanto espressione diventa, per dirla con Croce, creazione estetica, nella sua forma compiuta, poesia. Il linguaggio della scienza e quello della poesia è il titolo di questa sua relazione che siamo pronti ad ascoltare. Grazie. A lei la parola. 64 Dott. Augias: Bene, molto bene. Guardate, vi devo dire come stanno le cose: sono le nove e cinque e io purtroppo ho un guaio in redazione, sto qui soltanto per il grande amore che ho per la scuola, per poter dire qualcosa sperabilmente utile a dei giovani, perché in realtà non dovrei stare qui ma dovrei stare là a cercare di rimediare. C’è saltato un ospite per il programma di oggi, è stato investito, quindi, non sappiamo bene che fare. Quindi vi prego, ecco, a cominciare da quel giovanotto con la maglia (rivolto a uno studente), con la giubba, con il giubbetto rosso, là con quella scritta, con quei bei capelli, vi prego di stare attenti possibilmente o se proprio non riuscite a stare attenti di allontanarvi in punta di piedi, perché io cercherò di essere molto conciso e perché se mi fate perdere il filo diventa un macello. In compenso, io quello cercherò di fare in cambio della vostra attenzione, che spero meritata, è darvi il senso di una lunga discussione, perché questa Prof.ssa Fierro mi ha affidato un compito immane, parlare del linguaggio della scienza e della poesia è una cosa da far tremare, perché voi sapete che su questo si è discusso e si continua a discutere da sempre. Dante, per dire…, no, prima ancora Lucrezio, è poeta o è scienziato. Quando scrive La natura delle cose, De rerum natura, che cosa fa? Fa opera di poesia o opera di scienza? Fa tutt’e due le cose: mette la scienza dentro il linguaggio della poesia e anche la filosofia dentro il linguaggio della poesia, perché Lucrezio ci offre una visione completa del mondo, tra l’altro una visione laica e quindi tendenzialmente, come diciamo noi oggi, a partire dal XVIII secolo, scientifica. Dissipa i fumi di troppi dei che affollavano il cielo di quegli anni. Dante che cosa fa? Poesia, scienza, teologia? Fa tutt’e tre le cose, Dante fa tutt’e tre le cose, è un altro di quegli uomini… Lo stesso possiamo dire di Goethe. Goethe fa tutt’e tre le cose, analizza lo spettro, analizza le rifrazioni dei colori e scrive il Faust. Cioè sono quegli uomini che… ovviamente mi vengono in mente un sacco di altri nomi, perché lo stesso si può dire di Leonardo, sono quegli uomini che veramente incarnano il motto di Terenzio, ve lo ricordate? Lo avrete tutti studiato: homo sum, nihil humani a me alienum puto. L’humanitas: voi fate un Liceo Classico. Perché fate un Liceo Classico? Che ragione c’è di fare un Liceo Classico? La ragione è l’humanitas, che in questi casi che ho esemplificato (ovviamente molti altri se ne potrebbero fare) è un tutt’uno. Poi, invece, in base ad una certa concezione, di cui oggi non possiamo parlare, che è quella di Croce e di Gentile, i quali credevano che le attività intellettuali e conoscitive debbono essere divise per grandi branche, questo ha prodotto una sorta di cristallizzazione per cui il sistema scolastico del nostro Paese si divide in un Liceo Classico e in un Liceo Scientifico, al livello vostro. Voi siete dei privilegiati, perché ci sono anche quelli che alla vostra età battono le lamiere o mettono i mattoni l’uno sull’altro perché devono cominciare a lavorare. Voi potete concedervi il lusso di passare alcune ore della giornata chini sui testi, cosa per la quale, vi dico la verità, vi invidio profondamente. Ma questa divisione Liceo Classico e Liceo Scientifico è valida soltanto nei paesi di vecchia tradizione, come il nostro. La Francia pure ha un sistema scolastico di questo tipo, ma per esempio, negli Stati Uniti già non esiste perché lì il sistema è tutto diverso. Adesso senza approfondire perché se no ci perdiamo, anche perché vi voglio dire qual è il mio schema e sono già le nove e dieci; io voglio parlare fino alle dieci meno un quarto e poi abbiamo mezz’ora per discutere dopo di che scappo come un ladro. Leopardi, ecco un altro nome che avevo appuntato, anche Leopardi scrive una Storia dell’astronomia. Leopardi, che è uno dei nostri sommi dell’Ottocento… giovanotto 65 (rivolto a uno studente), e stai attento, maledetto!, sì tu, quella ragazza la corteggi dopo… Leopardi, dicevo, uno dei nostri pochi sommi dell’Ottocento. Qui apro una parentesi, non vorrei confondervi con troppe nozioni, voi sapete che c’è una tesi storiografica molto importante e abbastanza consolidata la quale dice che se questa penisola, che si chiama Italia fosse riuscita a raggiungere un’unità politica, per esempio nel XV secolo, quando l’Italia dominava il Mediterraneo, attraverso l’intraprendenza dei mercanti e la sagacia dei banchieri, il nostro destino, e quindi anche il vostro, sarebbe stato molto diverso. Invece noi abbiamo raggiunto un’unità politica solo nell’Ottocento, nella seconda metà dell’Ottocento che è stato per noi un secolo fiacco. Per l’Italia è un secolo fiacco l’Ottocento. Mi viene in mente questa breve considerazione proprio perché Leopardi, invece, è l’eccezione. Leopardi è un poeta e filosofo, ultimamente si tende addirittura a valutarlo come filosofo, quasi alla stessa stregua del poeta di importanza e di livello mondiale. Dicevo Leopardi, perché, per esempio, c’è anche un’altra cosa che possiamo prendere come uno scherzetto, poi entro nel vivo della questione, questa piccola chiacchierata è solo un preambolo. Voi avrete probabilmente fatto o visto o scorso l’abate Zanella, no? Eh, niente? L’abate Zanella era un abate e una persona rispettabile che scriveva poesie e ha scritto una poesia, fra le altre, che si chiama Sopra una conchiglia fossile: Sul chiuso quaderno / di vati famosi / dal musco materno / lontana riposi, / riposi marmorea, / dell’onde già figlia, / ritorta conchiglia. Qui fa tutta un’analisi. Chi sono questi che arrivano? Prof.ssa Fierro: Sono sempre alunni. Dott. Augias: I ritardatari? Dirigente Scolastico Prof. Franza: Vengono dalle altre sedi. Dott. Augias: Mi dispiace, non è che devo ricominciare da capo? Ecco, dicevo, l’abate Zanella è il relativo minore di Leopardi. Anche l’abate Zanella fa poesia scientifica perché racconta tutta la storia di una conchiglia fossile, però, tra Leopardi che scrive la Storia dell’astronomia e l’abate Zanella corrono alcuni piani di differenza. Allora, avviciniamoci adesso di più al tema che la diabolica Prof.ssa Fierro ci ha assegnato. Ve lo illustro ricorrendo a Giambattista Vico. Vico suscita immediatamente, suscita, suscita… va bene. Giambattista Vico dice: partiamo da questo… Tu, tu (rivolto a una studentessa), per esempio, signorina con il golf nero e la matita blu, tu guardi un quadro o ascolti una sonata per pianoforte di Beethoven. Io ti chiedo, che cosa pensi di quel quadro? Che impressioni ti ha suscitato quella sonata? E tu, come farei io del resto, balbetti delle cose: ma, veramente quella sonata mi è sembrata come un mare in tempesta, quel quadro, quei colori, mi hanno ricordato una volta un tramonto alle isole Galapagos. Cerchi di rendermi quello che tu hai provato ascoltando quella sonata o guardando quel dipinto con delle metafore. Perché me lo rendi con delle metafore? Perché la sensazione, l’emozione estetica, o anche intellettuale, anche concettuale, che tu sicuramente hai provato guardando o ascoltando, non la puoi rendere con il 66 linguaggio diretto. Difatti per questo i testi critici, i testi dei critici sono così, diciamo pure, noiosi, perché dovendo diventare tecnici, allora, nel caso della sonata, quelli ti dicono perché la successione delle quinte in Beethoven, proibita dalla teoria armonica ma da lui applicata così genialmente… Lui deve scendere nella descrizione di dettagli tecnici che con l’emozione che tu hai provato ascoltando, non hanno nessuna parentela, non la rendono, anzi, la gelano e lo stesso critico d’arte… alle volte i critici d’arte si inventano non si sa che! Insomma la verità è che le emozioni estetiche sono difficilmente restituibili con il linguaggio proprio della logica, questa è la prima osservazione che bisogna fare. La seconda osservazione è proprio quella di Vico, perché io ho detto le metafore, va bene? Allora la metafora “bianco come la neve” è una metafora che chi la dice meriterebbe di essere schiaffeggiato come faceva Nanni Moretti in quel film, Bianca. Bianco come la neve, alto come un soldo di cacio, sono tutte metafore logore, cadono a pezzi ma sono metafore. Il primo che ha detto “bianco come la neve” era un poeta, il secondo che l’ha ripetuto era già uno normale, chi lo dice oggi andrebbe schiaffeggiato, perché è una cosa che non si può più sentire. “Pesante come un macigno”, lo leggete continuamente sui giornali: altra metafora logora, ridicola, però appartiene alla figura letteraria della metafora. Sono espressioni linguistiche che usano parole associate alle esperienze quotidiane per evocare un’altra esperienza, per renderla più comprensibile. Per esempio, qui avevo appunto questo esempio che è già più complesso di “bianco come la neve”. Insieme al mio amico Roberto sono andato a Milano e abbiamo volato sulla sua Ferrari. Ora siccome noi sappiamo che da Roma a Milano con la Ferrari bisogna fare l’autostrada e che se anche le Ferrari ora vanno malissimo, insomma, anche se sono delle macchine da corsa poderose, non volano, allora, dov’è lì la metafora? Che io trasferisco l’idea della velocità applicando all’oggetto automobile, ancorché Ferrari, il concetto di volare che appartiene ad un altro oggetto che si chiama aeroplano. Questa è una metafora immediatamente comprensibile perché chi ascolta questo, subito capisce che io sto esagerando. Del resto nel vostro linguaggio giovanile queste esagerazioni sono continue. Adesso, ogni tanto io ho dei nipoti appena un po’ più piccoli di voi che mi fanno sentire delle cose che si rizzano i capelli sulla testa, ma è il continuo gioco metaforico che viene rinnovato proprio grazie a quello che voi vi dite: la maggior parte sono delle cose triviali, nel senso che poi cadono, però ogni tanto rimane qualche perla. Se uno di voi, mentre io continuo a parlare, si prepara per dopo una metafora giovanile da proporre la possiamo prendere in considerazione. C’è un altro tipo di metafora. Allora questa è una metafora di primo tipo, dice Vico, dove tutti i termini, sia quelli propri che quelli traslati, sono immediatamente comprensibili. C’è un altro tipo di metafora, secondoVico, che esemplifico con un verso di un poeta. Sentite: Se prendo le ali del mattino / e dimoro nelle zone più estreme del mare… 3 Se prendo le ali del mattino? Ma che vuol dire? …le ali del mattino? Il mattino ha le ali? Se prendo le ali del mattino / e dimoro nelle zone più estreme del mare: queste parole non possono essere interpretate come un’esperienza realmente vissuta. Tra le ali, sia quelle degli uccelli sia quelle degli aeroplani sia quelle degli aquiloni, insomma ogni tipo di ali, e il mattino non c’è nessuna relazione possibile: tra la Ferrari e il volare la relazione, per traslato, facendo un piccolo salto logico, si poteva indovinare, ma tra le ali e il mattino la relazione non c’è. Allora che succede in questo caso? Succede in questo caso che fra le ali e il mattino, voi ci dovete mettere qualcosa dentro, perché questo verso, che non è brutto, risuoni. Se prendo le ali del mattino / e dimoro 3 Salmi 139, 9-10. 67 nelle zone più estreme del mare: anche le zone più estreme del mare, io non so bene dove siano, probabilmente nessuno di voi neanche lo sa. Ecco questo buco che c’è tra un termine e l’altro, costituisce sì una metafora ma costituisce una metafora del tipo poetico, nel senso che lo iato, il gap, come direste voi che studiate l’inglese, tra una parola e un’altra può essere riempito solo con qualcosa di sconosciuto che va al di là dell’esperienza e attribuisce a una cosa conosciuta, le ali e il mattino, mettendole insieme, una proprietà misteriosa. Questa è la poesia. E qui possiamo andare ad analizzare, stai attento (rivolto a uno studente), qui è il punto cruciale, lascia quella mano per un attimo, vai così, questo è il punto centrale, non vi distraete maledetti!, non vi distraete… Che cosa distingue la metafora del primo tipo da quella del secondo? La metafora del primo tipo è da me associabile, con facilità, a un’esperienza quotidiana, devo fare un saltino alto così per arrivare a capire il paragone. La metafora del secondo tipo richiede un intervento emotivo, prelogico considerevole, ma anche inesprimibile: provate a dire le ali del mattino e le zone estreme del mare. Hanno per chi le sente, ovviamente… Ma potremmo fare, anzi preparatevi qualche altro verso dove c’è il valore metaforico. Anche tra i poeti, certo non versi dell’abate Zanella, tra i poeti dell’Ottocento ne trovate a iosa. Se fossi la Prof.ssa Fierro vi darei un esercizio di questo tipo. L’insegnante di Italiano, giustamente, ognuno ha il suo specifico. La professoressa di italiano vi dà un esercizio : fate degli esempi di metafore nelle quali il salto tra le parole consenta l’inserimento di un intervento poetico. Adesso mi dispiace, questa parte non l’ho preparata. Vi viene, al volo, qualcosa in mente a qualcuno di voi? Per esempio sono sicuro che… beh, va bene, dopo la cerchiamo, questo è un buco. Guardate, avevo messo da parte dei versi di Blake. Come voi sapete, Blake è un poeta del XVIII secolo inglese. William Blake è importante, merita un attimo di silenzio. Sentite questi versi di Blake, (rivolto a uno studente) giovanotto con la barba, per Dio, senti questi versi di Blake! Sorridi sui nostri amori, e, mentre apri il / blu sipario del cielo, spargi la tua rugiada d’argento / su ogni fiore che chiude / i suoi dolci occhi / in un sonno senza tempo. 4 Ora va tutto bene, queste metafore sono tutte comprensibili, è afflato poetico che accompagna un certo tipo di discorso ma diventano molto più misteriose se pensate che il sipario blu, il cielo, la rugiada, i fiori e gli occhi, che son tutte cose familiari, nell’immaginazione poetica di Blake, le loro azioni, sorridere, aprire, spargere, sono attribuite alla stella della sera. E’ la stella della sera il soggetto che ispira tutte queste azioni. Allora voi capite che è la classica fantasia poetica del XVIII secolo. Ci spiazza improvvisamente il poeta, facendo soggetto di tutte queste azioni una stella lassù nel cielo. Questo linguaggio della poesia, attenzione, confina con il linguaggio della mistica, la mistica. I grandi mistici, gli estatici: oggi ce ne sono di meno, ma nei secoli passati le figure dei grandi mistici che avevano le estasi, le visioni erano piuttosto frequenti. Ora non c’è dubbio che il visionario, colui che ha le visioni, le estasi arrivano fino a suscitare nel soggetto delle reazioni fisiche: il mistico veramente sa di vedere e di udire, ci sono dei casi di ciarlatani. Ma non parliamo di quelli, parliamo dei veri mistici. Voi andate, una mattina che avete un’ora, nella Chiesa di Santa Maria della Vittoria e guardate, date un’occhiata alla statua famosa, la potete guardare pure su internet, insomma, la statua 4 William Blake, La stella del mattino (ca. 1770). 68 famosa di Santa Teresa del Bernini. Lì vedrete l’estasi mistica gelata da quel geniale artista in una posa di rapimento anche fisico. George Bernard Shaw nel suo Santa Giovanna, per Santa Giovanna s’intende Giovanna d’Arco, fa fare questo dialogo fra Giovanna e l’inquisitore. Giovanna: “…non dovete parlarmi.” (rivolto agli studenti) Voi sapete di che sto parlando, vero? Giovanna d’Arco? XV secolo, Inglesi, Francia, Orléans. Giovanna: “…non dovete parlarmi delle mie voci.” Inquisitore: “Che cosa volete dire con voci? Giovanna: “Sento delle voci che mi dicono cosa fare. Vengono da Dio.” Inquisitore: “Vengono dalla vostra immaginazione.” Giovanna: “Certo, questo è il modo in cui i messaggi di Dio arrivano a noi.” 5 Vedete, l’inquisitore cerca di coglierla in fallo, dicendo: ma le tue visioni, le parole che tu ripeti e che tu dici arrivare da Dio, te le sei inventate tu? E Giovanna dice: certo, me le sono inventate io, ma chi me le ha messe nella testa? Qui il linguaggio della poesia e il linguaggio della mistica si confondono, diventano un tutt’uno e tutt’e due stingono, sia la mistica sia la poesia, verso quell’irrazionale che sfugge ad una piena comprensione logica di quello che si sta dicendo. Del resto, e qui chiudo questa parte, chiudo, forse, anche tutto, del resto, voi sapete che i grandi matematici… intanto si diventa grandi matematici, come grandi poeti, in età giovanissima. Un matematico che a quarantacinque anni non abbia ancora lasciato un piccolo segno sulla storia della matematica, può continuare a fare il suo mestiere tranquillamente ma è quasi impossibile che lasci un suo segno. Ci si rivela grandi matematici, come grandi poeti, fra i venticinque e i trentacinque anni. Anche grandi musicisti ci si rivela a quell’età, poi, dopo, si diventa dignitosi professionisti della musica e della matematica. I grandi matematici che sembrerebbero i padroni assoluti del linguaggio unicamente razionale, spesso partono da un’intuizione che non saprebbero spiegare in termini razionali, scientifici. Il grande matematico parte da un’intuizione e poi, dopo, lavorandoci, elaborandola, riesce anche ad esprimerla in una formula, consolidarla, dargli un andamento che appartiene al linguaggio della scienza. Ma la prima scintilla è un’intuizione. Allora, in questa fase embrionale nulla distingue l’intuizione del matematico dalla scintilla del poeta. Vedete come il discorso è complesso. Poi, dopo, i cammini si dividono e torniamo a quella cosa che dicevamo poc’anzi, cioè al fatto, e qui voglio chiudere, così magari parliamo un po’ insieme e torniamo al problema che il linguaggio della scienza è il linguaggio verificabile, (rivolto a una studentessa) prenda nota di questo signorina, il linguaggio verificabile per eccellenza. Il linguaggio della scienza, deve essere, attenta! (rivolto a una studentessa), verificabile, falsificabile, ripetibile. Perché dico queste tre cose? Verificabile, nel senso che deve essere espresso in termini talmente precisi che chiunque sia all’altezza di capirlo, ovviamente, deve poter vedere la correttezza del ragionamento che ha portato da A a B. Falsificabile: il linguaggio della scienza deve essere espresso in termini così precisi che chiunque possa dire no, questo non è vero, perché il mio esperimento ha dimostrato un’altra cosa. Ripetibile: il linguaggio della scienza che vuol dire anche le equazioni, sia chiaro, deve essere tale da poter essere ripetuto tutte le volte che serve, nelle condizioni date. Io faccio questo esperimento con tanta temperatura, in un tale ambiente, tanta umidità, tanti ingredienti e viene. Se riprendo temperatura, umidità, ingredienti, e invece di stare al Liceo Orazio sto a Los Angeles, deve venire lo stesso. Qui il linguaggio della scienza si divide radicalmente da quello della poesia. La poesia appartiene a tutt’altro ordine di cose, appartiene alle intuizioni, alle emozioni interne, a quelle che all’inizio, non mi ricordo più con chi 5 George Bernard Shaw, Santa Giovanna, scena 1 (1923). 69 dicevamo di poter essere ripetute, descritte addirittura con una certa esitazione, difficoltà o ricorrendo a delle metafore. Non fate l’applauso, per carità, perché mi viene il mal di testa, invece fate qualche domanda, cominciando, per esempio da te (rivolto a uno studente), hai l’aria di chi può fare una buona domanda. Dai, dai, veloce. La Fierro prende le tue difese. Prof.ssa Fierro: Io non prendo le difese di nessuno. Allora, il dottor Augias non vuole applausi, quindi noi ubbidiamo e non applaudiamo. Quindi, senza porre indugi, cominciamo con le vostre domande, quelle che immediatamente vi sentite di fare, dopo aver ascoltato. Le prime suggestioni, diciamo che avete ricevuto da questa riflessione, una riflessione fatta ad ampio raggio. Quindi, secondo me, fin da subito potete cimentarvi nel domandare, nel cominciare questo dibattito. Dott. Augias: Ci penso io, guardi, è il mio mestiere. Cominci lei, e non… ma, scusi, non è possibile. Guardate, vi dico una cosa. Vi dico una cosa generale per il seguito della vostra vita: ogni volta che in pubblico qualcuno vi invita ad alzarvi e prendere la parola, alzatevi e prendete la parola. Questa è una regola di base del comportamento pubblico, voi avete il diritto ma anche il dovere di dire la vostra, anche se è un pensiero appena accennato, anche se è un’intuizione, anche se è per dire “non ho capito bene”, anche se è per dire “quel punto non mi è piaciuto, lei non è stato abbastanza chiaro”. Si alzi e prenda la parola (rivolto a una studentessa), dai! Forza, giovanotta! Si alzi, faccia una considerazione, dica un verso, dica un verso! Beh, niente, non sono abituati! Abituatevi! Prof.ssa Fierro: Sono abituati ad intervenire, ma liberamente. Dott. Augias: Sei pronto? Prof.ssa Fierro: Con il microfono. Dott. Augias: Fierro, per favore, ci penso io, ci penso io. Abbiate pazienza, se parla quello laggiù (rivolto a uno studente) come facciamo? Prof.ssa Fierro: Vengono qui a parlare. Dott. Augias: Perdiamo un sacco di tempo se vengono qui a parlare. Prof.ssa Fierro: No, non perdiamo tempo, non si sentono e non si può registrare. 70 Studente: Perché il linguaggio della scienza deve essere falsificabile? Dott. Augias: Ottima domanda, bravo. Ha chiesto: “Perché il linguaggio della scienza deve essere falsificabile?” Si è molto applicato a questo concetto un filosofo dell’Ottocento che si chiama Karl Raimond Popper. Lui diceva, per esempio… Come ti chiami? Studente: Flavio. Dott. Augias: Flavio, nome romano, benissimo, fra l’altro c’è una dinastia. Dunque Flavio ha fatto una domanda fondamentale, ha chiesto un tempo di riflessione, ma… Che cosa diceva Popper con “falsificabile”? Parto al contrario, lui diceva che né la psicoanalisi né la religione possono mai essere linguaggi scientifici. Non per tutte le ragioni che si possono dire e che sono state dette, ma per questa semplice considerazione, che sia la psicoanalisi sia la religione sia le dottrine politiche… Lui ci metteva anche il comunismo. Allora, voi forse non lo sapete, il comunismo si chiamava anche socialismo scientifico e Popper lo contestava perché diceva che tutte queste teorie e queste dottrine, al mutare delle condizioni politiche o sociali dalle quali sono nate, mutano, cambiano, si adattano, deviano dalla loro originaria concezione e si plasmano, si adagiano sulle rinnovate condizioni politiche, proprio perché sono tutte queste cose espresse con un linguaggio che si presta ad una successiva adattabilità. Mi segui? (rivolto a uno studente) La scienza deve avere un linguaggio molto più rigido e molto più vischioso. Se io dico, adesso un esempio qualunque, dico due più due fa quattro, dico una cosa molto precisa. Se tu arrivi un anno dopo e dici: “Guardi, il famoso teorema Augias che due più due fa quattro non è più vero, perché io posso dimostrarvi che due più due fa cinque”( non sono in grado di fare un esempio più pregante); se tu dimostri che due più due fa cinque, due più due fa quattro viene buttato via e da quel momento due più due fa cinque. Questo significa la falsificabilità della scienza. La scienza, i principi scientifici, meglio, devono essere espressi in maniera così precisa da poter essere dimostrati falsi, (rivolto a uno studente) mi segui? Se io dico, adesso non vorrei fare un esempio politico anche se mi viene in mente, perché poi, in una scuola, lo posso fare? Prof.ssa Fierro: Certo. Dott. Augias: Se io dico, guardate, faccio una premessa, (rivolto a una studentessa) signorina, stia attenta, che sto per pronunciare un nome importante. Io considero Carlo Marx, per alcuni aspetti, uno dei geni dell’umanità e per altri aspetti un uomo crudelmente smentito dalla storia. Se io dico, all’inizio c’era la società schiavistica, poi è arrivata la società nobiliare, il feudalesimo, i principi, i servi della gleba, poi dopo è arrivata con le grandi rivoluzioni del XVIII secolo la società borghese, la prossima società sarà l’avvento del proletariato. Io dico una cosa che certo, poi, è stata falsificata dalla 71 storia, ma dico una cosa che può essere vista in mille modi: le avanguardie della società borghese non sono possibilmente delle avanguardie assimilabili a quelle del proletariato? Mi posso divincolare in maniera molto abile fra queste maglie, laddove, se dico due più due fa quattro, sono inchiodato a quello che ho detto, mi sono spiegato? Una volta che è stato dimostrato il contrario, chiede Flavio, il linguaggio della scienza come può essere ripetibile? Una volta che è stato dimostrato il contrario, sarà ripetibile quello, il contrario. Se io dico due più fa quattro, adesso l’esempio che ho fatto io si presta male. Tu comunque sei un abile dialettico e ti esorto ad andare avanti. Io prendo due fagioli e prendo altri due fagioli e poi conto, uno, due, tre, quattro. Poi vado a Torino e faccio uno, due, tre, poi vado in capo al mondo e faccio uno,due, tre, quattro. Ripeto sempre, tu sai, se io dimostro e tu sai che la matematica può dimostrare molte cose. Se io dimostro che due più due fa tre, e ripeto la formula ogni volta, io mi sono fatto falsificare da un matematico più ingegnoso. Ovviamente su due più fa quattro è difficile, ma io non sono in grado di fare un esempio più pregnante. Prendi uno dei teoremi più difficili e credo risolto solo da pochi mesi o anni: il teorema di Fermat. Lì, un teorema che per decenni nessun matematico al mondo è stato capace di dimostrare falso, poi è stato verificato e dimostrato falso. Il linguaggio della scienza è questo: ripetibile. Quando dico ripetibile, parlo soprattutto non tanto della matematica ma degli esperimenti: se io prendo due parti di idrogeno e una parte di ossigeno, tò!, mi è venuta l’acqua! Poi vado da un’altra parte e dico: volete vedere come faccio l’acqua? Prendo due parti di idrogeno e una parte di ossigeno e faccio l’acqua. Questo è un esempio ripetibile, perché è vero. Non sei convinto? Studente: No. Dott. Augias: Ho paura che sono stato poco chiaro, se vuoi, poi ne parliamo, perché se no non finisce più. Prof.ssa Fierro: Allora, innanzitutto voglio dare la parola a chiunque. Non può essere solo una persona, altrimenti non è un dibattito. C’è la collega che vuol fare una domanda fin da subito? Gli adulti, i ragazzi, chiunque, appunto, può partecipare.. Prof.ssa Arcuri: In realtà io credo che la questione della ripetibilità deve essere posta in altri termini, come la questione della ripercorribilità delle procedure. Le procedure della scienza sono procedure pubbliche. Per esempio, un farmaco contro il cancro può non funzionare, ma è comunque un farmaco di cui si conosce o almeno si dovrebbero conoscere, in genere, gli ingredienti, le quantità, i dosaggi, i modi di funzionamento. Può non funzionare, anzi, purtroppo, spesso non funziona. Invece, succede che, per esempio, una pratica da magliari, da strapazzo funzioni. Resta il fatto che non è scientifico, non è riproducibile la procedura con cui lo si è fatto. Quindi, magari il siero di Bonifacio per qualche misterioso, enigmatico, motivo pazzesco, assolutamente dissennato, antiscientifico, funziona, ma la distinzione fra ciò che è scienza e ciò che non è scienza peraltro rimane, anzi deve essere tenuta molto presente a proposito della verificabilità. Per esempio, pensiamo all’astrologia. Molto in breve: se dico che stamane 72 un capricorno incontrerà l’amore, questo non è che non sia confermabile, è confermabile. Al contrario, non è falsificabile per un capricorno. Nel mondo, magari l’amore questa mattina lo trova. Prof.ssa Fierro: Questa esemplificazione è bellissima. Dott. Augias: Ecco che cosa vuol dire, andiamo avanti. Prof.ssa Fierro: Andiamo avanti, ragazzi. Dott. Augias: Scusi, Fierro, per piacere. Volevo quel giovanotto con la maglia bianca. (rivolto a uno studente) Tu biondo, dai, fatti vivo, alzati, alzati e cammina. Prof.ssa Fierro: Viene qua con il microfono. Dott. Augias: Ma non può camminare... Prof.ssa Fierro: Sì, tutti sono abituati ad avvicinarsi per fare interventi ordinati.Vieni. Dott. Augias: Guarda il tempo che perdiamo. Prof.ssa Fierro: Non perdiamo tempo. Dott. Augias: Come no? Prof.ssa Fierro: Ragazzi, preparatevi qua come sempre. Si preparano in fila, non si perde tempo. Luca Storchi II D: Lei ha parlato di questi buchi di comprensione che ci sono nei testi poetici, mi ha molto incuriosito. Volevo sentire da lei, con questi testi poetici che lei ha citato è comunque abbastanza semplice ricostruire questo buco, ma quando abbiamo un testo poetico, tipo Pindaro o Tristram Shandy di Sterne, come può il lettore accostarsi senza un testo critico? Deve fare un patto con il poeta per credergli? 73 Dott. Augias: Ottime domande. Dunque se tu mi fai un esempio così, io ti potrei, ognuno di noi potrebbe fare una quantità di esempi, perché se vai sulla poesia antica ci sfuggono non solo il significato logico di tante cose come sulla poesia contemporanea, diciamo a partire da Settecento in poi, ma ci sfuggono proprio i riferimenti che quel poeta aveva in testa quando scriveva quei versi. Ci sfugge il suo mondo, lì c’è bisogno di un intervento. Anche se leggi Dante, Dante è il grande inventore della nostra lingua, ma ci sono delle parole che in sette secoli sono state cancellate, sono diventate desuete, si sono trasformate, hanno cambiato di significato. Lì hai bisogno dell’interpretazione dello storico che ti dica: guarda che questa parola nel Trecento voleva dire un’altra cosa, non quello che vuol dire oggi. Quello va bene, ma io mi riferivo ad un’altra cosa. Mentre tu parlavi mi sono venuti in mente questi tre versi: Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera. 6 Ora voi capite bene che dare un cuore alla terra, è già una cosa… quando mai? Sì e no ce l’abbiamo noi un cuore, quanto meno in senso metaforico. Che la terra abbia un cuore, è una cosa che ci lascia… Eppure quella cosa, ognuno è solo sul cuore della terra, è misteriosamente evocativa di qualcosa, che sarebbe difficile esprimere in altro modo. La nostra signorina che abbiamo preso… Per esempio, se le dicessi perché ognuno è solo sul cuore della terra evoca qualche cosa, suscita, ci fa vibrare qualche cosa, lei avrebbe delle difficoltà, io pure, a dirlo. Però, sappiamo che è così, no? Qui non c’è nessun bisogno di un critico, di un interprete. Ognuno che legga o dica questi versi ne è interprete. Lo storico sparisce perché questo appartiene alla nostra sensibilità totalmente, alla nostra sensibilità contemporanea. Sei contento? Prof.ssa Fierro: Posso io fare una considerazione? Dunque la poesia, per lei è ancora, come è nella tradizione idealistica, creatrice di senso, cioè lingua primitiva che crea il senso. L’interpretazione diventa, soggettiva, quindi non c’è bisogno di mediazioni. Dott. Augias: Io, come lei, mi par di capire, sono per la concezione romantica della poesia, cioè che la poesia è un linguaggio metalogico che va al di là della logica, ma che proprio per questo è fortemente evocatore. Perché per il linguaggio della logica che è fortemente comunicativo al livello logico, alle ore 9 del 21 aprile, Natale di Roma, nell’Aula Magna del Liceo Orazio, si è tenuto un incontro. Io faccio la cronaca di quello che si è tenuto qua, guai se non c’è una sola parola che non sia immediatamente comprensibile. Questa è la funzione del linguaggio cronistico che deve comunicare delle notizie. Qui si potrebbe aprire la dolorosa parentesi delle notizie che vengono date con un linguaggio tale da poter esser decifrate solo da chi la sa lunga. Il linguaggio della poesia è il contrario, il linguaggio della poesia deve richiamare, deve far risuonare delle corde segrete, deve far vibrare in ognuno di noi la cosa che solo lui sa perché. Che poi, guardate, in una dimensione meno potente è quello che si applica ad ogni opera della letteratura. Qualche giorno fa io ho segnalato con grande favore un libro, un romanzo appena uscito di un autore vivente italiano, che mi aveva veramente turbato, un romanzo, una storia che mi ha veramente turbato e ne ho parlato in termini di sincero turbamento. Mi ha scritto un signore, io ho una posta pubblica, mi ha scritto: “Ma, caro Augias, ma che 6 Salvatore Quasimodo, Ed è subito sera. 74 mi ha fatto leggere? Ma perché mi ha segnalato quel libro che è una zozzeria, che non mi ha interessato per niente?” Lui era sicuramente sincero, ma lo ero anch’io. Lo stesso libro ha risuonato in maniera completamente diversa nella testa, e se posso dire, usare una parola abusata, nel cuore di quel signore e nel mio, perché ognuno di noi legge la letteratura, ecco qui la cosa, Flavio. Ognuno di noi legge la letteratura, non la cronaca, certo, della partita Roma-Juventus, ognuno di noi legge la letteratura filtrandola dentro la sua testa. Ti dirò di più: ogni filosofo legge e interpreta il mondo filtrandolo attraverso la sua testa e la sua biografia. E che cosa distingue il filosofo dal grande filosofo? Il fatto che, pur filtrando ciò che vede e descrive attraverso la sua testa e la sua biografia, lui riesce a superare, a superarsi, a saltare fuori dalla sua pelle e a far sì che noi oggi leggiamo Kant con la stessa passione con la quale si è letto alla fine del Settecento. Ma per quanto riguarda la letteratura narrativa e la poesia, non c’è dubbio che ognuno di noi legge un libro in maniera diversa dall’altro, tanto è vero che negli anni Sessanta si è a lungo discusso su quella che si chiama la teoria dell’ “opera aperta”. Uno dei suoi propugnatori in Italia più forti, è stato Umberto Eco, il quale diceva proprio, vedeva il lettore come co-creatore del testo. Il lettore diventa co-autore, perché l’autore scrive quello che deve scrivere, il lettore, leggendolo, prende quel testo e lo fa suo, lo trasforma, lo plasma, lo fa aderire alla sua biografia. Quindi, cara Prof.ssa Fierro, su una cosa siamo d’accordo. Prof.ssa Fierro: Ragazzi! Dott. Augias: Quella bionda lì? Prof.ssa Fierro: Ma così li mette a disagio. Dott. Augias: Ma non li metto a disagio, sono ragazzi grandi, hanno la vita dalla loro. Angelo: Salve, io sono Angelo e le volevo chiedere se per lei, a questo punto, il linguaggio poetico e il linguaggio scientifico sono inconciliabili. A me viene un esempio come Spinoza. Spinoza che parla fa una grande trattazione metafisica, utilizzando un linguaggio che è geometrico, scientifico tramite dimostrazioni, corollari, scolii. Di conseguenza io volevo sapere se, secondo lei, la trattazione poetica può essere suscettibile anche di un linguaggio scientifico. Dott. Augias: Ripeti l’ultima parte. Angelo: Volevo sapere se la trattazione poetica, metafisica, può essere suscettibile anche di un linguaggio scientifico, quindi di portare i propri ragionamenti metafisici, perché, come lei ha detto prima, anche i più grandi ragionamenti possono essere interpretati in maniera diversa da ciascuno di noi. Come si è visto, molti filosofi sono 75 stati interpretati in un modo o in un altro, possono comunque parlare secondo la chiarezza, la verificabilità del linguaggio geometrico tipico del linguaggio scientifico. Dott. Augias: Come ti chiami tu? Prof.ssa Fierro: Angelo. Dott. Augias: Grazie, Angelo. Dunque, qui questi ragazzi fanno delle domande micidiali, sono terribili, pensa a doverci combattere tutti i giorni. Dunque, mi fa piacere che tu richiami a Spinoza, perché mi incuriosisce anche, perché è un filosofo di cui si parla poco, invece è uno dei grandi. Non ti dimenticare mai, quando parli di Spinosa, che lui era ebreo e cacciato dalla sinagoga, poi che i suoi libri sono stati messi all’indice dalla Chiesa cattolica. Quindi era un doppio reietto, dalla sua originaria famiglia ebraica e reietto dalla chiesa cattolica, e buon per lui che viveva in Olanda, perché se stava in Italia gli andava anche peggio. Non ti dimenticare nemmeno che Spinoza era un tecnico, non dico uno scienziato, ma un quasi scienziato. Era un tecnico, faceva le lenti, era un occhialaio. Se tu andavi da Spinosa, lui ti poteva spiegare la natura naturans e ti poteva anche fare le lenti nuove per questi occhiali. Quindi vedi la sua visione del mondo, che è una delle cose che più mi affascinano. Hai citato uno dei miei filosofi preferiti, anche in questo siamo d’accordo con la Prof.ssa Fierro.( Fierro, e già son due! ) La sua visione di Dio, della natura, di Dio come natura, è una visione allo stesso tempo fortemente scientifica e fortemente poetica, non c’è nessun dubbio. Che ti posso dire? Per esempio, la sua visione di Dio come entità inconoscibile perché siccome noi abbiamo esperienza diretta solo delle cose che possiamo misurare, se noi andiamo verso un’entità che è incommensurabile perché infinita, eterna, come facciamo a misurare una cosa di cui non abbiamo la minima consapevolezza, come facciamo a conoscerla? Vedi bene che questa non è una cosa che possa essere dimostrata in nessun modo, è solo un’intuizione scientifica che quasi sconfina nella poesia. Quando leggevo, purtroppo in anni lontani, Spinoza, che tanto mi ha appassionato, leggevo la sua confutazione della teoria dei miracoli. Lui diceva: come si fa a chiedere un miracolo alla divinità? Significa volerla forzare fuori dal disegno che è ab aeterno, che quella ha prestabilito. Allora, chiedere un miracolo, come si fa in tutte le religioni paganeggianti, è una forma di superstizione infantile, che non ha senso rispetto all’infinità del dio a cui ci si rivolge, non ha senso, anzi può essere vista come una forma quasi di blasfemia. Vi esorto alla lettura di Spinoza, soprattutto delle sue lettere, etc. Grazie. Prof.ssa Fierro: Vediamo, chi altri ha da fare domande? Forza, anche l’immagine bellissima della circonferenza per dire l’ordine immanente dell’universo in Spinoza, la circonferenza infinita che tutto ha dentro di sé, è suggestiva. Ragazzi, ancora le domande che possono arricchire questo confronto, su. Studente: Ho preparato dei versi. 76 Prof.ssa Fierro: Va benissimo. Dott. Augias: Cacio sui maccheroni. Prof.ssa Fierro: Vieni, leggili tu. Come, non sai leggere? Sai scrivere e non sai leggerli? Vuole leggerli lei, dottore? Dott. Augias: Scusate, il vostro collega Francesco ha scritto: Resto immobile con le mani in lacrime / sorseggiando frammenti di vite sconosciute / con gli occhi di un bambino / che ha appena scoperto come ridere. Non è male (applausi). Prof.ssa Fierro: Bravo. Dott. Augias: Tu sai che c’era una teoria crociana, una teoria di Croce, che è un filosofo del primo Novecento italiano, che si chiama poesia e non poesia. Il Croce andava cercando nelle poesie, questo verso è poetico, questo sì, questo no, che è una cosa un po’… Adesso io, non per fare il piccolo Croce del Liceo Orazio, siccome gli ultimi due versi sono bellissimi, ti devo dire la verità. Con gli occhi di un bambino / che ha appena scoperto come ridere, se li leggessi in un’antologia poetica non mi sorprenderebbero, starebbero benissimo al posto loro. Le mani in lacrime è una metafora troppo forte, è troppo forte. Insomma, attribuire alle mani le lacrime non è solo incomprensibile, nella poesia, ma che vuol dir? Va bene, invece qua si capisce e anche frammenti di vite sconosciute va benissimo, sorseggiando è troppo lungo, sono quattro sillabe, troppo pesante perché toglie valore a frammenti. Ma adesso basta, perché se no… Va bene così, vai avanti. L’ultima domanda. Prof.ssa Fierro: Avanti. Dott. Augias: La penultima. Prof.ssa Fierro: La penultima, mi angoscia, mi angoscia, allora. Dott. Augias: Vedi laggiù, in piedi, quelle quattro persone? Prof.ssa Fierro: Sì. 77 Dott. Augias: Quelle sono della mia redazione e stanno qua per dirmi… Prof.ssa Fierro: E noi non le guardiamo. Noi facciamo finta che non ci siano. Questo è un momento nostro, suo, per noi. Francesco: Buongiorno, sono Francesco. All’inizio trattavamo di poeti che riportano il linguaggio scientifico in quello poetico, quindi abbiamo incontrato Lucrezio, il De rerum natura, Dante. Secondo lei, che tuttora è uno scrittore che lavora con degli scrittori, c’è ancora questa usanza di riportare il linguaggio scientifico in quello poetico? Dott. Augias: Una bella domanda, grazie, Francesco. La cosa non si fa più o si fa raramente, almeno io non lo so, perché il linguaggio scientifico è diventato molto complicato. Questa cosa si poteva fare quando le cognizioni scientifiche erano abbastanza rudimentali e dunque non era difficile far sconfinare il linguaggio della scienza nel linguaggio poetico. Pensate una cosa: quando si riteneva che il lampo, il tuono non era scontro di elettricità statica, ma era l’ira di Giove che si scaricava o il fragore del suo carro che correva sulle nubi, tu capisci bene che qua siamo in una concezione scientifica che non ci vuole niente a far trasformare in una concezione poetica. Invece oggi la scienza ha preso delle strade così specializzate che è molto più complicata questa operazione di trasferimento. La mia idea è che tra i due linguaggi, è più facile questo per la filosofia. Tu sai che, della filosofia contemporanea, della quale so pochissimo, però questo so, che spesso le intuizioni filosofiche e le intuizioni poetiche si assomigliano molto, è più facile nel momento iniziale, come dicevamo prima. Un’intuizione matematica può assomigliare ad un’intuizione poetica, come del resto un’intuizione economica. Guardate l’economia di cui tanto si parla in questi giorni per le tristi ragioni che sappiamo. Gli economisti sono persone che hanno un’intuizione e che poi alle volte riescono ad esprimere in una formula, o a verificare nella realtà della borsa. Ma è un’intuizione dalla quale, quindi, per rispondere definitivamente e in poche parole alla tua domanda, direi, questa coincidenza la posso vedere possibile nel momento iniziale dell’intuizione e nel momento più alto, cioè, della filosofia che sconfina nella scienza e della scienza che sconfina nella filosofia. L’ultima domanda, veramente, perché se non mi menano. Prof.ssa Fierro: Allora lei ci crede alla poesia delle formule, come dice Bernardini? Che le formule sono poetiche? Emanuela: Mi chiedevo, a questo punto, se non è più poetica un’interpretazione come quella di Leibniz piuttosto che di Spinosa, che preferisce la possibilità piuttosto che il necessario. E quindi, in questo senso può essere riferito al discorso che lei faceva sulle metafore, che giungono quindi alla sensibilità di ciascuno di noi? Dicevo, Lebniz preferisce il possibile al necessario e quindi concepisce un mondo di infinite possibilità. Giusto, se lei faceva il discorso sulle metafore delle quali una metafora del secondo tipo ha un vuoto all’interno e perciò tutti noi abbiamo un’infinta possibilità di metterci 78 dentro qualcosa, a questo punto non è più poetico Leibniz piuttosto che Spinoza, che invece ha un concetto totalmente diverso? Dott. Augias: Grazie, questa bella domanda di Emanuela mi dà modo di chiudere questa conversazione della quale vi ringrazio per due ragioni: la prima ragione è che siete stati attenti e questa è una grande consolazione. Ma perché dico questo? Manuela, poi rispondo anche a te. Fatemi fare questo piccolo discorso generale: passare alcune ore della propria vita e della propria giornata a scuola può dare e in molti spesso dà un senso di insufficienza, di inutilità: ma che sto a fare qui dentro, mentre là fuori corre la vita? Questo è sbagliato, come vi renderete conto più tardi, perché stare qua dentro significa preparare i materiali, in chi lo sa fare, perché purtroppo non tutti lo sanno fare, significa preparare i materiali per poter utilizzare, godere più largamente di quello che c’è là fuori. Aspetta, c’era una frase bellissima che avevo messo da parte, vediamo se la trovo al volo. Purtroppo non la trovo. Beh, va bene, era una frase molto bella sul senso di sazietà che alle volte può prendere a scuola. Guardate, vi voglio raccontare un mio aneddoto personale, proprio del Liceo. Io ero un ragazzo, un giovanotto così, mediocre, e una mattina il professore d’italiano ci cominciò a leggere I sepolcri del Foscolo e per una ragione che non vi saprei dire, al sentire quei versi io ho avvertito improvvisamente che mi riguardavano. Riguardavano un po’ la mia vita, ma soprattutto la mia sensibilità. In quei versi io mi riconoscevo, cioè in quella descrizione così accesamente romantica che Foscolo fa, io sentivo di stare dentro quei versi e che quei versi stavano dentro di me. Adesso magari mitizzo un po’, ma da quel momento il mio atteggiamento nei confronti di quello che lì, dentro quell’aula, si raccontava è cambiato, dopo. Tanto è vero che poi ho fatto studi di quel tipo all’università e poi ho fatto quello che ho fatto. Vedete che se uno sta dentro, in quella situazione, e quella mattina era anche abbastanza noiosa, una mattina di primavera come questa più calda e dunque c’era anche quel po’ di sopore che viene verso la seconda e terza ora che voi ben conoscete, in cui uno si abbiocca un po’, quando poi quel Professor Duranti, me lo ricordo ancora, disse: All’ombra dei cipressi e dentro l’urne / confortate di pianto è forse il sonno / della morte men duro?, mi sentii risvegliato all’interesse per un carme, per un poema che cominciava in maniera così traumatica. 7 Va bene, allora questa era la cosa per dirvi che nella scuola c’è sempre quel momento della scintilla, in cui chi è pronto… Voi sapete che c’è un’altra legge statistica implacabile, secondo la quale in ogni collettività umana, venti persone o seicento persone come al parlamento, il dieci per cento sono il meglio, il dieci per cento sono il peggio, il resto è la media. Ogni collettività umana ha questa enorme pancia della media, e queste due piccole alette, una di qua e una di là, dell’eccellenza e del pessimo. Ecco, quindi voi cercate di stare come minimo nella pancia e possibilmente nell’aletta, quella di qua, falsando la statistica che fino adesso si è quasi sempre rivelata esatta. Torniamo alla nostra Manuela. Manuela, Leibniz è uno scientista e va benissimo, Leibniz è un filosofo scienziato ottimista, tu sai bene. Vi voglio raccontare un episodio che riguarda Leibniz. Nel 1755, (mi integra la Prof.ssa Fierro fresca di studi) nel diciottesimo secolo, Lisbona, la capitale del Portogallo, venne colpita da un maremoto e terremoto orribile, veramente orribile. Pensate che le conseguenze di quel maremoto investirono le coste dell’africa del Nord e le coste dell’Europa, golfo del Leone, golfo di Biscaglia, le coste della Bretagna. Lisbona ne venne quasi integralmente distrutta, e lì successe anche una cosa atroce, perché molte persone andarono a rifugiarsi nella 7 Vd. Corrado Augias, Leggere, Mondadori, Milano 2008, rist., pp.17-19. 79 cattedrale perché appariva costruzione solida, massiccia, andarono per così dire a mettersi sotto la protezione divina. Dalla parete si staccò un enorme crocefisso, per le scosse, che schiacciò alcuni bambini che si erano rifugiati lì. Questo episodio scatenò una discussione filosofica in Europa alla quale partecipò anche Leibniz, il quale non vide incrinato il suo ottimismo, ma lo trasformò in una formula che chiamò teodicea. Tu studi il greco? Non ti sarà difficile ricostruire le due radici di questa parola, Theos e Dike. In che modo Dio e la Giustizia sono in relazione? Perché dei bambini che si erano rifugiati sotto un crocefisso dovevano morire schiacciati? E questa fu la ragione per la quale un altro grande filosofo, Voltaire, scrisse il Candide o dell’ottimismo, le avventure di un povero disgraziato a cui gliene succedono di tutti i colori, ma siccome crede in Leibniz non perde la sua fiducia nell’ottimismo della storia e delle vicende umane. Leibniz è un grande filosofo,un grande scienziato, ma, vedi, Spinosa, indipendentemente dalla distinzione corretta che tu hai fatto, Spinoza ci dà una dimensione, una visione completa del nostro stare su questa terra e del rapporto che si può avere con la divinità, un rapporto corretto, adulto, laico, sereno, con la divinità, con una divinità non a caso disapprovata dalle due confessioni, quella ebraica e quella cattolica, ma proprio per questo agli occhi della modernità, proprio per questo credo che Spinoza sia un filosofo molto moderno, molto adatto ai nostri tempi, vero? È il terzo punto sul quale siamo d’accordo e su questo possiamo chiudere. Prof.ssa Fierro: Un applauso (applausi). Dott. Augias: Grazie, Preside. Prof.ssa Fierro: Un attimo, la devo salutare e darle questo dono. Ragazzi, un attimo, state tutti fermi, seduti. Ringraziamo il dottor Augias e come al solito, gli rubiamo un altro minuto per regalargli dei libri. Li aprirà davanti a noi e il bigliettino se lo legge poi, in separata sede. Ecco, vediamo. Ecco Gregorio (applausi). Adesso ci mettiamo un po’ di tempo. Non è facile regalare un libro a lei, gliel’ho scritto pure nel bigliettino. Vediamo un po’, non è facile obiettivamente: questo libro è con il testo latino, greco e copto. Com’è? Dott. Augias: Dunque il Corpus Hermeticum, a cura di Ilaria Ramelli, doppio testo a fronte. Prof. Fierro: Ce lo aveva? Dott. Augias: No, invece questo (si riferisce al saggio di Luciano Canfora, La natura del potere, Laterza, Roma-Bari 2009) non solo ce l’ho, ma lo abbiamo presentato in televisione qualche giorno fa. Pensate, pensate che cos’è questo Paese, questo Paese di scarsa lettura apparente, di gente ignava, fiacca. Un libro come questo, bellissimo, 80 perché Canfora, professore di Filologia Classica a Bari, ha acquistato… lo avete avuto anche qui? Prof.ssa Fierro: Certo, cinque anni fa. Dott. Augias: Pensate che ha acquistato una disinvoltura di linguaggio, insieme a – e fatevi dire un’ultima cosa, Santo Dio! – a una profondità di riferimenti che rende la lettura gradevole. Bene, questo libro, presentato in televisione, ha messo davanti allo schermo un milione e duecentomila persone, quindi valeva la pena. Grazie (applausi). 81 Parte seconda Le riflessioni degli studenti 82 Relazione sulla conferenza tenuta dal prof. Tullio De Mauro Il 14 gennaio ’09 si è svolta presso l’Aula Magna del nostro Liceo un’ interessante conferenza dal titolo “Il linguaggio e le scienze” tenuta dal professore Tullio De Mauro. Il preside del nostro Istituto, il professore Franza, insieme all’insegnante di storia e filosofia, la professoressa Fierro, hanno introdotto il discorso dell’esimio linguista di fama internazionale che fa onore al nostro Paese, affermando che il rapporto tra umanesimo e scienza è un argomento affascinante ma anche molto complesso. De Mauro, uno dei più insigni studiosi di linguistica ed intellettuale militante, capace di accettare le sfide del nostro tempo, ha iniziato la sua conferenza elogiando il linguaggio verbale, sottolineando il fatto che le lingue del mondo sono circa settemila, nonostante negli ultimi trenta – quaranta anni si siano sviluppate altre forme di linguaggio non verbale, quali ad esempio quello gestuale. Il linguaggio verbale ha costituito, costituisce e costituirà sempre un complemento necessario delle elaborazioni umane, sia cognitive, cioè relative alla conoscenza, che operative. Non sempre nella vita quotidiana sentiamo la necessità di utilizzare un linguaggio che sia verbale, tesi sostenuta anche dal filosofo Guido Calogero, del quale De Mauro ci ha fornito un esempio: “se mentre guido la macchina vedo un ostacolo davanti a me, cerco di evitarlo con determinati movimenti, tutto ciò avviene nel giro di pochi secondi e non viene verbalizzato”. Ma quando la situazione si fa più complessa è difficile rinunciare alla parola. Tuttavia, nonostante la grande importanza del linguaggio verbale, la parola non va sopravvalutata, principalmente per due motivi: il primo relativo all’esempio di Calogero, sopra citato, ed il secondo relativo al fatto che le parole non possono vivere da sole, ma ci servono per capire le cose in quanto si incastrano in una serie di pratiche. Importante è anche notare il fatto che ognuno apprende le parole, non sfogliando il vocabolario, ma semplicemente vivendole nella quotidianità. Ad esempio la parola “dentro” l’abbiamo compresa in situazioni come:”Mi trovo dentro l’aula di scienze”. Così il linguaggio ha bisogno delle pratiche, degli usi, di un addestramento. Il linguista ha proseguito il suo discorso asserendo che le parole sono correlate a qualcosa che è al di là di loro stesse, ma ciò non vuol dire comunque che esse vadano sottovalutate; infatti il linguaggio verbale ci aiuta moltissimo in ogni situazione. Correlata alle parole vi è la flessibilità, l’equivocità delle stesse, caratteristica che ritroviamo anche in Grecia, ai tempi di Socrate e Platone. Anche Aristotele, che De Mauro cita spesso per enunciare le sue tesi, afferma ripetutamente che ogni cosa si può dire in tanti modi diversi: “πολλακοσ λεγεται”. Accade spesso inoltre che avvenga un vero e proprio trasferimento di senso, un trasporto della parola da un senso all’altro (procedimento che prende il nome di metafora). A questo punto sorge spontanea una domanda: “Non sarebbe meglio avere parole con un unico linguaggio determinato?”. Anche se apparentemente potrebbe sembrare di sì, la risposta e sicuramente negativa, infatti noi costruiamo i rapporti interdisciplinari proprio perché non restiamo chiusi nei confini delle definizioni di ogni parola. L’espansibilità del significato, infatti, amplia la definizione di una cosa e la trasforma. Senza la possibilità di far variare i significati non si potrebbe andare avanti. Il metalinguaggio, prosegue De 83 Mauro, è un linguaggio alto, attraverso il quale si riesce a spiegarne un altro che viene chiamato linguaggio oggetto; tale situazione può generare paradossi; uno dei più famosi è quello del mentitore: “Se io mento e dico che questo è vero, mento o dico il vero?” Il linguista ha toccato anche altri punti quali ad esempio il fatto che la parola nell’ambito tecnico assume un significato specifico e determinato e indica questo e soltanto questo. Il livello più alto di formalizzazione è la creazione di simboli che scavalcano le definizioni delle parole. I numeri stessi per essere numeri sono parole (uno, due, tre, cento, mille…), il cui nucleo è molto antico. Il primo passo verso la formalizzazione è affermare, ad esempio, che cinque è indicato per un insieme di cinque cose; si cerca poi di trovare un equivalente scritto delle parole, un sistema che le indichi con delle cifre uguali per tutte le lingue. Tale linguaggio è quello di cui poi si serve l’aritmetica. Si giunge quindi a due conclusioni: la prima è che senza l’aiuto dell’indeterminatezza delle parole non riusciremmo a costruire nulla – la seconda è che vi è una contiguità e una continuità tra i diversi campi del sapere; la pensano così anche Albert Einstein e Richard Mises che scrive: “Manuale di scienze positive” nel quale discute e parla di tale rapporto. Si è svolto a questo punto un dibattito tra noi studenti e De Mauro, chiunque riteneva utile qualche chiarimento poteva avvicinarsi alla cattedra per presentare la propria domanda. Sono state esposti numerosi quesiti quali ad esempio:” Per parlare di un incidente stradale si può usare la parola crak?” o “Il latino, come lei afferma, è molto importante, allora come pensa si possa spiegare la recente ascesa di altre lingue?” o ancora:”Non sarebbe utile avere una lingua comune come ad esempio l’esperanto?” Il linguista è stato così gentile da rispondere ad ogni nostro dubbio o interrogativo. Alla fine abbiamo ringraziato De Mauro per la sua disponibilità nel parlarci di un argomento molto affascinante ed interessante. Alessia Coletta 84 Relazione sulla conferenza tenuta dal prof. Tullio De Mauro “Il linguaggio e le scienze “è l’intitolazione della conferenza tenutasi mercoledì 14 gennaio 2009 nel Liceo Ginnasio Orazio di cui è stato relatore il prof. De Mauro, docente di Linguistica generale nella Facoltà di Scienze Umanistiche dell’ università “La Sapienza” di Roma ed ex ministro dell’istruzione. La conferenza si è aperta con l’introduzione del prof. Franza e della prof.essa Fierro, organizzatrice dell’evento. Materia della conferenza è il ruolo del linguaggio tra il cosiddetto mondo delle materie umanistiche e quello delle materie scientifiche. La lezione si è aperta con l’analisi, da parte del professor De Mauro, del linguaggio verbale, cioè fatto di verba e quindi di parole, del quale è stato sottolineato il valore semantico al confronto di linguaggi “nuovi” come quelli gestuali, simbolici e delle segnaletiche. Il linguaggio verbale, però, non è autosufficiente ed ha bisogno di pratiche, di usi, in quanto le parole che impariamo, che appunto sono “immerse” in questa serie di pratiche dette training o addestramento, acquistano significato solo se correlate a ciò che è al di la delle parole stesse. A causa della “dipendenza” delle parole, secondo il professor De Mauro, non si deve sopravvalutare il linguaggio e cioè la facoltà di esprimere e comunicare concetti mediante suoni organizzati in parole. Naturalmente questo non deve portarci al procedimento opposto ovvero a sottovalutare il linguaggio e quindi il suo ruolo indispensabile nelle costruzioni che avvengono nella mente umana. Il linguaggio ci aiuta, infatti, nelle nostre elaborazioni mentali più complesse. Inoltre non deve essere sottovalutato per due principali motivazioni rintracciabili la prima, nella caratteristica che ha a che fare con il significato delle parole e delle frasi ovvero la semantica , e la seconda nella metalinguisticità riflessiva. La caratteristica semantica è un tema che ha attratto da sempre gli studiosi ed in particolar modo sono state oggetto di riflessione e di analisi la dilatabilità del linguaggio e il significato delle parole e in modo specifico la loro equivocità. Aristotele è il primo a riconoscere la molteplicità dei significati delle parole e a coniare l’espressione pollakos leghetai “si dice in modi diversi” come loro definizione, dando luce alla teoria dei trasferimenti di senso e spiegando il modo del cambiamento del significato in un termine. Soprattutto Aristotele indirizza la sua ricerca del significato nel campo politico in cui la molteplicità di significati è accettabile solo ed esclusivamente nel caso in cui la parola e il suo significato si riferiscono al concetto pensato ( posso dire nero riferendomi al bianco a patto che nel momento in cui io uso il bianco mi riferisco ad un oggetto realmente bianco). La domanda che spesso ci si è posti nel tempo è se fosse stato possibile avere uno specifico ed univoco significato delle parole per evitare soprattutto nell’ambito politico lo sfruttamento dell’ambiguità per scopi privati. La risposta è lasciata in sospeso perché se restassimo chiusi nell’ambito dei confini di significato che conosciamo, di una parola non potremmo costruire nuovi saperi legati sia alla scienza, sia ad elementi della vita quotidiana (ad esempio basti pensare alla parola atomo che in passato indicava l’indivisibile adesso indica un insieme di particelle di varia natura come protoni e neutroni…). In conclusione senza la variabilità del significato non potremmo “avanzare” né nella vita quotidiana né in quella intellettuale. L’altra caratteristica su cui è necessario soffermarsi è quella della metalinguisticità riflessiva . La metalinguistica permette che un linguaggio A descriva un secondo linguaggio B. La metalinguisticità riflessiva consiste nell’usare le parole per significare le parole stesse, descrivere un enunciato per mezzo dello stesso enunciato, da qui il 85 problema della nascita di paradossi (come ad esempio quello del mentitore che è rimasto irrisolto). Questa proprietà è quella che ci permette la costruzione dei linguaggi tecnici e scientifici. C’è una continuità tra la determinazione del senso di una parola occasionale e la formalizzazione fino a livelli in cui si decide in base ai primitivi, che sono le parole base di una lingua. Infine il livello più alto raggiungibile di formalizzazione è quello di abbandonare la parola per l’utilizzo di simbologie che valgono per tutte le lingue ed hanno un significato determinato. Questa idea ha radici antichissime rintracciabili nell’inconsapevole invenzione dei numeri che per essere sono prima di tutto parole: uno, due , tre.... Chi ha utilizzato la parola “tre” per indicare un insieme di tre elementi ha compiuto il primo passo per la formalizzazione e ha stabilito perciò un termine, che è uguale per tutti, per indicare quella quantità di tre elementi e la parola che ne indica due non può essere usata per quella che ne indica uno. I numeri sono il primo esempio che scavalca la pluralità e l’indeterminatezza del significato dei termini. Infine il professore riassume i punti principali toccati durante la lezione: 1. Senza l’aiuto delle parole nella loro indeterminatezza non le determineremmo neppure e non riusciremmo a costruire né i numeri né tutte le altre scienze in tutti i campi. 2. Vi è una unitarietà radicale alla radice di tutti i campi tecnici e scientifici e una continuità tra i diversi indirizzi di studio sia quelli delle così dette scienze “dure” sia di quelle astratte, dovendo tutte queste discipline fare riferimento alle loro pratiche per quantificare il significato delle loro affermazioni . La seconda parte della conferenza è stata dedicata al confronto diretto tra il professor De Mauro e gli studenti che hanno posto le loro domande. Tra le innumerevoli ho ritenuto di riportarne alcune delle più rilevanti:1) se l’impossibilità di giungere ad un compromesso per mezzo del dialogo sia strutturale della politica, sia un vizio italiano o è sintomo della diminuzione della qualità politica attuale. 2) E’ possibile annullare il significante e conservare il significato utilizzando un termine onomatopeico come ad esempio CRASCH, e, ancora , è considerabile formalizzazione del linguaggio utilizzare la parola “STOP” in un simbolo come quello del cartello stradale?, in ultimo se il fatto di utilizzare parole straniere come computer in tutto il mondo con lo stesso significato sia una formalizzazione o rientri in qualche altro campo. A tali domande, il professor De Mauro risponde che oggi si tende sempre più ad utilizzare la parola, in politica, non per giungere a compromessi per il bene della comunità rappresentata dalle varie parti ma per il proprio interesse e perciò bisogna ostacolare chi vuole fare a meno del dialogo per poterlo raggiungere (data la sua attuale inesistenza). In realtà noi abbiamo la più totale libertà d’espressione, a rischio però di non essere capiti, e dunque possiamo utilizzare il termine CRASCH per indicare “schianto” perché l’utilizzo di alcune parole rispetto ad altre è solo una formalizzazione . L’utilizzo di parole comuni a tutti è frutto della formalizzazione ma è anche pragmatismo dovuto al bisogno di avere elementi comuni per tutti e chiari, ed è il bisogno di formalità che porta alla nascita di parole nuove o ricalcate. La possibilità di realizzare un evento di così rilevante valore esprime la necessità d’apertura culturale delle nostre scuole e di ricerca di vie alternative alla didattica tradizionale. La partecipazione a queste forme di dialogo trovo che sia molto fruttuosa come occasione di crescita e riflessione in uno scambio costruttivo di opinioni. Giacomo Franchi 86 Relazione sulla conferenza tenuta dal prof. Tullio De Mauro Il 14 gennaio (2009), in occasione della prima conferenza del progetto “Umanesimo e scienza”, promosso come negli anni precedenti dalla Prof.ssa Fierro, il liceo classico Orazio ha avuto la gioia di ospitare l’onorevole Tullio De Mauro. Gioia perché avere la possibilità di un confronto , anche per una sola mattinata, con persone del calibro di De Mauro, non può che stimolare ed arricchire la voglia e l’interesse di sapere. Tullio De Mauro, ex ministro dell’istruzione, è infatti un linguista di fama altissima.. L’argomento approfondito e discusso durante la conferenza è stato quello riguardante il confronto tra il linguaggio e le scienze. Tale confronto risulta senza dubbio complesso, affascinante ed allo stesso tempo inesauribile.. Entrando nel vivo della sua esposizione, ha iniziato col distinguere il linguaggio verbale dal linguaggio generico. Il linguaggio in generale consta infatti di numerosi generi, come quello gestuale o simbolico. Quello verbale invece, consiste nell’uso di una lingua storico-naturale costituita da verba (parole). Fatta questa precisazione, De Mauro ci ha poi invitato a riflettere sul numero e la varietà di linguaggi verbali, o lingue, esistenti in tutto il mondo, che sono circa 7000. Ci ha quindi esposto la tesi centrale del suo discorso, secondo la quale il linguaggio verbale è un complemento necessario delle elaborazioni umane sia cognitive che operative. Con ciò tuttavia, ha anche affermato che sarebbe sbagliato pensare il linguaggio verbale come un qualcosa capace di abbracciare tutto il campo della espressione e della comunicazione. Esempio immediato sono tutte le circostanze nelle quali il linguaggio verbale viene istintivamente sostituito da quello gestuale o simbolico, nello stesso modo, ad esempio, in cui si effettua improvvisamente una brusca frenata con la propria autovettura. Quindi il linguaggio verbale non deve essere ignorato, né però sopravvalutato. Nel non sottovalutarlo, ha aggiunto De Mauro, bisogna anche tener conto del fatto che il linguaggio non è autosufficiente, ed ha continuamente bisogno di essere addestrato ed esercitato. “Impariamo parole attraverso altre parole, ma soprattutto attraverso l’uso di esse in situazioni concrete”. Nel linguaggio verbale inoltre, ci sono da distinguere ed analizzare due diverse caratteristiche. La prima, ha spiegato il nostro ospite, è quella che riguarda squisitamente il significato delle parole e delle frasi. Ed è studiata dalla semantica. La prima esperienza di questo studio fu quella del linguista francese Breal, e risale al 1884. Ma prima di arrivare al 1884, De Mauro ci ha invitato a fare un passo indietro, avvalendoci anche delle discipline che ci propone il nostro corso di studi liceali, per tornare ai tempi di Socrate e Platone. Già nei due filosofi greci infatti, si poteva notare la consapevolezza della grande flessibilità del significato delle parole. Di qui, la grande idea del maestro Socrate, dell’incessante dialogo, dell’incessante ricerca, nello scambio di battute, del senso delle parole stesse. “Ciascuna parola infatti“, ci ha ricordato Tullio De Mauro ancora attraverso Socrate, “si dice in tanti modi diversi“. Ma oltre allo scopo di chiarire il senso delle parole, nell’incessante ricerca propostaci da Socrate, vi è anche un obiettivo politico-civile. Nell’amministrare la polis infatti, prima ancora delle scienze era importante capire le parole usate, il loro peso, ciò che volevano intendere. Emblematico a tal riguardo l’esempio proposto dal linguista italiano, “anche uno scettico, può definire che una cosa bianca può essere nera, a patto che usi la parola “bianca” riferendosi a qualcosa di effettivamente bianco”. E’ quasi istintivo e naturale, 87 davanti ad esempi del genere, rimanere dubbiosi e perplessi, e ciò a conferma dell’estrema flessibilità del significato, che spesso può risultare ambiguo e sfuggente. Questo aspetto ha ovviamente causato notevoli difficoltà all’uomo dei secoli trascorsi, e ancora ne causa. Ma le stesse difficoltà dovute alla pluralità di sensi e determinazioni, costituiscono anche la spinta che ci permette di costruire le basi dei nostri rapporti. Se infatti si restasse chiusi nei confini di significato di una sola parola, sarebbe impossibile con la stessa accedere anche a saperi di tipo scientifico. La seconda caratteristica del linguaggio verbale presa in analisi da De Mauro, è quella riguardante il metalinguaggio. Che cos’è? Quando subentra? Ancora molto chiaramente, l’ex ministro dell’istruzione ha definito il metalinguaggio la descrizione di un altro linguaggio, che prende il nome di linguaggio oggetto. Non poteva trovare esempio più esplicativo dell’algebra, che se si riflette, altro non è che un metalinguaggio del linguaggio (oggetto) aritmetico. Ed è così che le lingue sono metalinguaggi di se stesse. Anche in questo caso De Mauro è tornato agli albori della cultura greca, dove frequentissimo era l’uso di enunciati diversi per descrivere la stessa cosa, e di qui ovviamente, l’ambiguità dei paradossi. Impossibile non riportare, quello più celebre sul “mentire”. Partiamo allora dall’affermazione “io sto mentendo”. Se la persona che afferma ciò dice il vero, allora è vero che sta mentendo. Tuttavia anche se la persona che afferma ciò dice il falso, allora è vero, egualmente, che sta mentendo. Emblematica e stupefacente la facilità di una lingua nell’originare paradossi. Questo, ha proseguito il professor De Mauro, potrebbe farci rendere conto della frequente fallacità di una lingua, ma tale fallacità è al tempo stesso la sua forza. E’ proprio dalla fallacità che si è giunti infatti al bisogno, all’esigenza di costruire linguaggi tecnici e scientifici, dove le parole acquistano un significato specifico e determinato. Il Professore ha così voluto farci rendere conto, della forte dipendenza reciproca che persiste tra linguaggio e scienze. Senza fallacità non si sarebbe mai giunti ad un processo di specificazione, senza un processo di specificazione non si sarebbe mai giunti ad una formalizzazione, senza una formalizzazione infine, non si sarebbe mai giunti, tramite le parole primitive, alla costruzione di quegli assiomi, postulati e principi che sono alla base di determinati campi del sapere. Un ulteriore prova del profondo nesso tra linguaggio e scienze ci è data dall’esperienza comune dei numeri. Questi infatti, per essere numeri, prima ancora sono parole, sono simbologie. Il 5 prima ancora del numero 5, è una parola che indica un insieme di cinque elementi. Quello dei numeri, insieme all’esigenza di trovare un equivalente scritto al “parlato”, costituisce uno dei primi grandi passi dell’uomo verso la formalizzazione. Con questo ultimo esempio De Mauro ha concluso il suo discorso, con il quale ha voluto, riuscendo pienamente nell’intento, dimostrare la sostanziale continuità tra diversi campi di studio, di sapere, i quali hanno in comune un’intelaiatura che è possibile costruire solo grazie al linguaggio. E’ toccato quindi alla curiosità e all’interesse di noi ragazzi, alimentare un variopinto dibattito sul tema trattato, ponendo molte domande, sollevando dubbi e chiedendo chiarimenti all’egregio professore. Con le prime domande è stato chiesto all’ex ministro se la mancanza di dialogo tra i politici in Italia fosse da attribuire alla natura stessa della politica o ad un “vizio” propriamente italiano, come si spiegasse la predominanza della lingua inglese a livello internazionale , e se fosse possibile un rapporto non conflittuale tra saperi umanistici e scientifici. De Mauro ha risposto alla prima domanda spiegando che il mancato dialogo in politica non è da attribuire a nessun vizio, giacché anche in quelle che sembrano risposte dure o poco adeguate vi è un’esercitazione del linguaggio. Bisogna insistere piuttosto sulla chiarezza espositiva, cercando di arrendersi sempre meno ai tautologismi frequenti nel linguaggio politico. Ha poi precisato, rispetto alla 88 seconda domanda, che la lingua inglese ha trovato maggiore diffusione per molteplici fattori. Tra i quali ha contato molto la creazione negli Stati Uniti di una ampia comunità di studiosi, i quali generarono il progetto di un’enciclopedia della scienza unificata, tesa alla ricerca di un linguaggio unitario per la trattazione di tutte le materie possibili. E il fatto che l’enciclopedia fu scritta inizialmente in lingua inglese rappresentò un notevole impulso per la diffusione dell’inglese internazionalmente. Alla terza domanda, il linguista ha risposto che un rapporto non conflittuale tra saperi umanistici e scientifici è possibilissimo, e anzi necessario, affermando che le più grandi scoperte nascono spesso al confine tra i campi diversi del sapere. Nella successiva serie di domande è stato anche chiesto al linguista cosa pensasse dell’esperimento della lingua universale “esperanto” e se fosse possibile la creazione di una lingua alternativa più semplice. Alla domanda riguardante il progetto “esperanto”, De Mauro ha risposto che, se mai dovesse andare in porto, tale esperimento conoscerebbe un’inevitabile differenziazione come qualsiasi altra lingua. Nel “parlato” quotidiano infatti, come già accadde al latino, si disperderebbe e muterebbe in pochissimo tempo. Il linguista ne ha conseguentemente riconosciuto una sua maggiore utilità nello studio di testi scritti internazionali. Alla domanda su una lingua alternativa di maggior comprensibilità, ha infine risposto con la citazione di un saggio sulla politica e la lingua inglese per evidenziare che, a suo avviso, potrebbe si essere possibile la formulazione di un linguaggio più comprensibile ma solo guardandosi da una sua imposizione, che finirebbe col limitare fortemente le libertà. Si è conclusa così la mattinata di Tullio De Mauro al liceo classico Orazio, con piacevole soddisfazione del linguista per il vivo dibattito alimentato dai quesiti dei ragazzi, e notevole interesse di questi e dei docenti per le pronte risposte e la dotta eloquenza dell’ospite d’eccezione. Adriano Masci 89 Relazione sulla conferenza tenuta dal prof. Tullio De Mauro Il tema di approfondimento culturale del nostro liceo riguarda quest’anno “Umanesimo e Scienza”. Il ciclo di conferenze è iniziato il 14 gennaio, con l’intervento di uno dei più grandi linguisti italiani del nostro secolo: il Professore Tullio De Mauro, “un intellettuale militante”, come lo ha definito la Professoressa Fierro nell’introdurre il relatore, il quale ci ha presentato una lezione interessante dal titolo “Il Linguaggio e le Scienze”. Il nodo centrale delle considerazioni fatte dallo studioso nella conferenza ha riguardato il linguaggio verbale. Nell’ ultimo trentennio si sono sviluppate altre forme di linguaggio non verbale, basti pensare al linguaggio utilizzato nella segnaletica o a quello gestuale. A partire dagli anni ’50, il linguaggio non si è sviluppato soltanto verso una direzione prettamente verbale in quanto oggi, quasi con certezza, possiamo affermare che ogni specie vivente possiede un suo linguaggio specifico e un suo sistema di comunicazione. Ma cos’ è precisamente questo linguaggio verbale? Come afferma il professore, esso è quel sistema che si serve dei cosiddetti “verba”, cioè quel linguaggio fatto di parole, che utilizza una delle tante lingue storico naturali (se ne calcolano circa settemila). Il linguaggio verbale è un complemento necessario delle elaborazioni umane del nostro cervello, quando queste siano di una certa complessità; elaborazioni sia di tipo cognitivo, consistenti nel sistemare o nel ricercare la conoscenza, sia operative, quelle che utilizziamo nel progettare qualsiasi cosa. In entrambi i casi il linguaggio verbale si dimostra uno strumento indispensabile. Questo tuttavia non vuol dire che il linguaggio abbracci la totalità dei mezzi di comunicazione, in quanto esistono cose che realizziamo al di là dell’utilizzo del linguaggio, senza tradurre in parole ciò che dobbiamo fare. Quando l’elaborazione si fa più complessa il linguaggio risulta uno strumento indispensabile, ma questa valutazione, secondo De Mauro, non deve portare ad una sopravvalutazione del linguaggio verbale, sia in quanto le parole adoperate non vivono in maniera autonoma ma significano e ci permettono la comprensione, poichè si incastrano in una serie di pratiche, nelle quali impariamo l’uso delle parole in situazione reali, sia in quanto esistono casi in cui il verbalizzare non si presenta come necessario. Tuttavia non si deve neanche giungere ad una sottovalutazione del linguaggio. Perché non dobbiamo sottovalutare il linguaggio?, il relatore risponde mettendo in luce due caratteristiche: la prima caratteristica è di tipo semantico, relativa al significato delle parole e delle frasi; la seconda è la duttilità, la flessibilità, e quindi l’equivocità che le parole possono assumere. Il problema relativo alla flessibilità di una parola viene percepito sin dall’antichità: Socrate riteneva che fosse necessario discutere per giungere alla definizione di una determinata parola, per comprendere quale significato le si volesse attribuire. In questa direzione non si mossero solamente Socrate o Platone ma anche Aristotele, il quale considerava naturale che ogni parola potesse avere più significati. Aristotele per far fronte a ciò che noi oggi chiamiamo “vaghezza”,ci spinge ad alcune riflessioni. In primo luogo elabora una teoria del trasferimento di senso con l’uso della metafora; in secondo luogo sceglie una direzione di tipo civile, volta a combattere lo scetticismo sofistico e a dar maggior chiarezza ai cittadini. Grazie a questa pluralità e all’espansibilità di significati che possiamo attribuire ad una determinata parola, possiamo costruire rapporti interpersonali e “nuovi saperi”, in particolare i saperi scientifici (basti pensare alla parola atomo che nell’antichità voleva dire “non-divisibile” e col passare dei secoli ha assunto il significato di un elemento scindibile). Altro punto fondamentale affrontato da De Mauro nella conferenza, è quello 90 relativo alla metalinguisticità riflessiva. Ma andiamo con ordine, e chiediamoci prima cosa sia il metalinguaggio. Il metalinguaggio è un linguaggio più alto in grado di descrivere un linguaggio più semplice, chiamato “oggetto”. Il fatto che ogni lingua possa funzionare come metalinguaggio di sé è stato colto nell’antichità come un paradosso e in accezione del tutto negativa ( un celebre esempio è quello del mentitore “chi dice: io mento, dice il vero o il falso?”). Col passare dei secoli però, lasciando stare i fantasiosi paradossi dei diversi matematici e filosofi, è maturata nell’uomo una concezione sempre più positiva del metalinguaggio riflessivo, tanto che oggi si è giunti alla conclusione, secondo De Mauro, che esso è necessario per vivere ed interagire chiaramente con gli altri. Questa proprietà, insieme alla flessibilità dei significati ci permette di creare i linguaggi scientifici e tecnici. Il primo passo per produrre tali linguaggi consiste nello stabilire a quale dei molteplici significati ci si rivolge in un determinato contesto tecnico,che è strettamente collegato con l’ equivocità e la pluralità dei significati di una parola. Questa operazione, step iniziale per la determinazione semantica di una determinata parola,è il primo passo verso la formalizzazione,che, in primis,consiste nello stabilire all’interno di un contesto specifico a quale fra i molteplici significati di una parola vogliamo riferirci. Il secondo passo prevede di determinare quali parole siano veramente necessarie per costruire un sapere tecnico o scientifico. Questi procedimenti di determinazione di una serie di parole in relazione fra loro hanno come conseguenza la chiusura dei vocaboli di base di un campo determinato,che da questo momento in poi sarà necessario per creare nuovi linguaggi,partendo proprio da tale base. Ciò che il professore ha sottolineato e messo in rilievo in conclusione ,è che vi è un “continuum” fra la determinazione del senso di una parola occasionale e la chiusura delle parole “primitive”,che sono parole di una lingua storico-naturale,grazie alle quali possiamo introdurre nuove parole . Su questa base si procede verso la formalizzazione all’interno della quale il livello massimo è quello in cui,grazie ai primitivi e al loro metalinguismo riflessivo, si decide di abbandonare le parole della lingua a favore di simboli che vadano oltre lo stesso metalinguaggio . L’idea di giungere ad una simbologia che sia universale,ovvero la creazione di simboli con un significato determinato ha una radice molto antica da ricercare nei numeri. I numeri ,infatti ,per essere tali sono parole nelle quali il nucleo ha un’ origine molto antica ed ha una radice comune in tutte le lingue indoeuropee (per quanto riguarda i numeri fino al dodici all’incirca).Questo passo è di grande importanza perché dà l’avvio alla formalizzazione,nata dalla scoperta della possibilità di stabilire delle parole in base a determinati significati. Il secondo passo si ha fra le differenti popolazioni,nella loro storia,quando gli uomini cercano di trovare un corrispondente scritto alle parolenumero di cui si è precedentemente parlato. In seguito, questa ricerca,con il trascorrere dei secoli, ha portato gli uomini ad inventare un sistema che,valido per qualsiasi lingua,utilizza una serie di cifre per indicare le parole-numero e i loro relativi significati (quelle che noi oggi chiamiamo “cifre arabe”).In conclusione, i punti che al professore sono stati più a cuore e si è impegnato a farci comprendere per darci spunti di riflessione sono principalmente due:senza l’indeterminatezza delle parole non sarebbe possibile determinarle,e quindi non sarebbe possibile creare linguaggi scientifici ;e di conseguenza,secondo De Mauro e altri autorevoli studiosi ,fra cui Einstein, esiste una continuità fra i diversi campi tecnici e scientifici,e dunque fra Umanesimo e Scienza. Tali convinzioni appartengono ormai ad una gran parte di intellettuali cominciando dall’autorevolezza di A.Einstein e di tanti altri che si ispirano a lui come lo stesso professore De Mauro. A mio giudizio la discussione è stata molto ricca ed articolata e mi ha fornito molti spunti per la riflessione,che sarebbe troppo lungo esaurire qui,giacché ho scelto di trattare soltanto l’aspetto formale della conferenza. Francesca Musci 91 Relazione sulla conferenza tenuta dal prof. Tullio De Mauro Il 14 gennaio il professor Tullio De Mauro è stato ospite nel nostro liceo ed ha tenuto una conferenza sul rapporto tra Umanesimo e Scienza. Due culture che per troppo tempo sono state considerate talmente diverse da essere poste in “conflitto” . E’ opportuno riuscire a superare tale opposizione andando oltre quello che viene definito “onnivoro integralismo umanista”, ovvero la pretesa del primato assoluto delle humanae litterae, e lo “scientismo trionfalista” secondo cui, invece, la matematica è in grado di risolvere qualsiasi problema. Posta tale premessa, il professore inizia la sua riflessione soffermandosi in primo luogo sulle differenti tipologie di linguaggio, che generalizzando è possibile ricondurre a linguaggio verbale e linguaggio non verbale. Negli ultimi trenta, quarant’anni si è condotto uno studio circa i linguaggi simbolici della segnaletica, e addirittura dal ’45 in poi si è giunti a conoscere linguaggi appartenenti ad altri animali diversi dall’uomo. L’essere umano,dunque,non comunica solamente tramite la parola, ma anche tramite gesti e simboli. La comunicazione può assumere innumerevoli forme. Fare un confronto tra quello che viene definito linguaggio verbale e quello non verbale, permette di comprendere appieno l’importanza del primo. Difatti il linguaggio verbale risulta indispensabile nelle elaborazioni umane complesse, ovvero, le elaborazioni operative e quelle cognitive. Per le prime esso è utile per la progettazione di un qualcosa, per le seconde invece, per la ricerca di nuove conoscenze. Il linguaggio verbale è oltretutto necessario nel momento in cui ci si accinge a compiere la rielaborazione di un concetto. Tuttavia non bisogna sopravvalutare le potenzialità del linguaggio verbale, in quanto le parole “vivono” e significano giacché esse vengono inserite in un preciso contesto, e in quanto correlate ad una serie di operazioni. Quindi il linguaggio da solo non è autosufficiente, ma ha per così dire, bisogno di un “addestramento”. Molto spesso si apprende il significato di una parola tramite l’esperienza, basti pensare alle parole “dentro”, “fuori”, “là”, “uffa” e così via; “anche la più umile interiezione spezza il continuo dell’esperienza, ne isola e tipizza un frammento in modo che altri possano accedere alla sua comprensione” (Contare e Raccontare , editore Laterza 2005, pag. 128) .Non bisogna, tuttavia, cadere nemmeno nell’opposto, ovvero sottovalutare le potenzialità del linguaggio verbale. Esso infatti si differenzia dalle altre tipologie di linguaggio per due caratteristiche fondamentali: la semantica e la metalinguisticità riflessiva. Il professore si è addentrato nella spiegazione delle due proprietà del linguaggio verbale. Per quanto concerne la prima, per semantica ,(dal greco σημαντικη = significato, indicativo), si intende lo studio scientifico del significato delle parole. Da tale studio è emerso il carattere duttile, flessibile ed equivoco che la parola possiede. Lo stesso Socrate e dopo di lui Platone , Aristotele e molti altri, capiscono che una parola abbraccia diversi significati. Per il filosofo il dialogo chiarisce in che senso si adoperi una determinata parola. Aristotele riconosce che sia naturale che le parole possano avere diversi significati. Da qui la sua teoria della μεταφορα , secondo cui è possibile trasferire il significato di una parola ad un’altra. Aristotele conduce anche uno studio circa le modalità di cambiamento del senso e del significato delle parole, elaborando una teoria complessiva. Anche in ambito politico, o meglio civile, è importante determinare il senso delle parole che si utilizzano. Tuttavia la flessibilità delle parole permette di abbattere lo scetticismo dei sofisti che affermano che la parola ha un unico significato. Lo stesso Aristotele riconosce , però , che essi sono i maestri dell’arte retorica, tramite la quale si è in grado di dire che tutto è il contrario 92 di tutto. Molti studiosi non hanno letto in chiave positiva il carattere flessibile delle parole, giacché troppo spesso si cade nell’equivoco. Dunque ci si chiede se non sia meglio che le parole abbiano un unico significato. A tale interrogativo,tuttavia,non è stata ancora data una risposta. Il professore procede specificando cosa si intenda per metalinguisticità riflessiva. Con tale definizione ci si riferisce alla capacità del linguaggio, in grado di descrivere un linguaggio più semplice, chiamato linguaggio oggetto. Basti pensare alle formule algebriche che sottintendono il funzionamento del linguaggio aritmetico. Dunque l’algebra è un esempio lampante di metalinguaggio riflessivo. Le lingue sono in grado di spiegare tramite l’utilizzo di vocaboli le parole stesse, o più sinteticamente, esse sono spiegazione di se stesse. Viene riportato l’esempio del mentitore (Eubulide di Megara IV secolo a.C.), “Io sto mentendo”, che spiega esaurientemente la proprietà metalinguistica delle parole; giacché tramite la parola “mentire” si spiega l’azione che si compie, nel senso dunque, che “ciò che sto dicendo è una menzogna”. Inoltre quotidianamente chiunque ricorre, anche inconsapevolmente, alla metalinguisticità riflessiva, con la semplice espressione “Che cosa stai dicendo?”. Dopo tale spiegazione il professore continua affermando che questa caratteristica del linguaggio verbale permette di giungere alla formulazione dei linguaggi tecnici e scientifici. Bisogna tuttavia compiere varie “operazioni” per ottenere la realizzazione di tale linguaggio. Difatti in ambito tecnico la parola si spoglia del suo carattere duttile, assumendo un significato ben preciso, questo è il processo di determinazione della parola, o meglio il processo definito “formalizzazione”. Esso costituisce dunque il primo passo verso la formulazione di un linguaggio scientifico. In tal modo si giunge ad una sorta di “chiusura” del linguaggio in un determinato ambito del sapere, il quale, tuttavia, può acquisire nuovi termini tenendo però conto delle parole che già esistono. Gli stessi numeri prima di essere tali, erano delle parole. Vari sono i processi che hanno condotto alla formulazione delle cifre numeriche. Si parte infatti dall’uso di una parola che indica un certo numero di elementi, quindi l’utilizzo di una parola che significhi una quantità specifica, passando poi alla creazione o scoperta di un equivalente scritto. Si giunge a questo punto all’ultima parte della conferenza e varie sono le conclusioni che si possono trarre da tale riflessione, e il professor De Mauro si sofferma facendone due in particolare. Senza l’aiuto delle parole nella loro completezza non si è in grado di giungere alla costituzione di alcun tipo di sistema, persino un sistema assiale. In secondo luogo la continuità tra studi umanistici, scientifici e naturali è garantita dalle proprietà del linguaggio verbale. Vengono a questo punto citati due grandi studiosi Albert Einstein e Richard von Mises. Quest’ultimo ne “Il manuale delle scienze positive” sostiene che non vi è alcuna discontinuità radicale tra gli studi umanistici e gli studi delle scienze matematiche, fisiche e naturali. Dunque sia gli studi umanistici sia gli studi scientifici devono ricorrere alla determinazione delle parole e questo ne costituisce un ulteriore punto di contatto. Qui si conclude la riflessione del Professor De Mauro, e la seconda parte della conferenza è dedicata alle domande che gli studenti e i professori , che hanno assistito al dibattito, rivolgono. Il primo quesito viene posto da Silvia, la quale chiede per quale motivo, sebbene il linguaggio ricopra un ruolo fondamentale, sia assente nell’ambito politico, e precisamente nella politica italiana. Questo difetto è proprio solo della nostra politica, o è riscontrabile anche nella politica in generale? Il professore risponde asserendo che non necessariamente l’assenza di dialogo è un vizio della politica in generale, ma anzi, esso ne costituisce una prerogativa fondamentale; sin dai tempi di Aristotele si comprende l’importanza dell’uso del dialogo nella sfera politica. Nelle stesse dittature risulta indispensabile il dialogo; il dittatore deve infatti persuadere e sedurre e non può farlo se non tramite il ricorso al l’arte del linguaggio. E’ dunque sempre necessario far uso del dialogo esplicito. Flaminia rivolge la seconda domanda: posta la differenziazione tra 93 significato e significante, per significante specifica De Mauro si intende la “parte esterna”, il vero e proprio involucro della parola, chiede se sia possibile ridurre al massimo il significante senza tuttavia annullare, allo stesso tempo, il significato. Il professore risponde dicendo che è possibile conservare il significato anche se si riduce al massimo il significante, ma ciò non toglie che tale processo debba poi essere inserito in un contesto di esplicitazioni di metalinguisticità riflessiva, nel quale viene chiarito ulteriormente ciò che si vuole dire. Un’altra domanda viene posta da Maya , la quale chiede se faccia parte del processo di formalizzazione sia la trasformazione di un termine in un simbolo, quale il cartello stradale, sia l’utilizzo di uno stesso termine , basti pensare alla parola computer, in tutte le lingue del mondo. De Mauro afferma che una parte importante del processo di formalizzazione è senza dubbio, la sostituzione di parole di uso corrente con simboli convenzionali, tuttavia questo non riguarda solo le “nobili scienze dell’accademia” , ma anche la sfera della vita quotidiana. Le stesse segnaletiche stradali sono una forma di adozione di simboli comuni a tutti, che hanno dei corrispondenti nelle lingue storico naturali. In molti ambiti specifici è presente la necessità di avere un riferimento a simboli che siano comuni a tutti; gli stessi romani utilizzano , ad esempio grecismi per venir meno alla loro rozzezza, facendo uso di un linguaggio maggiormente colto. Molti studiosi, infine, hanno sempre aspirato alla realizzazione di un’enciclopedia universale dei simboli. Il primo è Leibniz, il quale ambisce, tramite il processo di matematizzazione della logica, a ricercare i segni universali comuni a tutti i concetti, facendo sì che si affrontassero i problemi logici come se fossero problemi algebrici; egli tuttavia ne comprende anche il limite, in quanto ciò sarebbe possibile, dice De Mauro, solo per gli studi scientifici , i quali non possono fare a meno della determinazione del significato delle parole. Si è giunti dopo ampia discussione al termine del dibattito nel quale si è a lungo riflettuto sulle caratteristiche e proprietà specifiche del linguaggio, il quale ricopre un ruolo preminente in qualsiasi ambito, partendo dalla dimensione quotidiana, sino a giungere ai più alti campi del sapere. Esso costituisce un ulteriore elemento che avvicina gli studi umanistici a quelli scientifici, i quali se posseggono numerose caratteristiche specifiche non sono poi così distanti e divergenti come molti stentano a credere. Maria Palermo 94 Relazione sulla conferenza tenuta dal prof. Tullio De Mauro Il giorno 14 gennaio il professore Tullio De Mauro ha tenuto la prima conferenzadibattito sul tema “umanesimo e scienza”, intitolata “Il linguaggio e le scienze”. “La maggior parte di quanto sappiamo e crediamo ci è stata insegnata da altri per mezzo di una lingua che altri hanno creato. Senza la lingua la nostra capacità di pensare sarebbe assai meschina e paragonabile a quella di altri animali superiori”. Come afferma Albert Einstein nella sua opera “Come io vedo il mondo” e cita lo stesso De Mauro nel suo libro “Contare e raccontare”, l'uomo senza il linguaggio non potrebbe relazionarsi con altri uomini perchè non avrebbe la capacità di trasferire i suoi pensieri in suoni o gesti che gli permettono la comunicazione. Infatti il linguaggio, in senso più generale, è l'insieme di segnali e simboli per mezzo dei quali gli animali, compreso l'uomo, si intendono tra loro. Il professore De Mauro nel suo libro sopra citato afferma come “bisogno e capacità di comunicare si radicano negli strati più profondi della costituzione degli organismi viventi”. Il linguaggio può essere verbale e non verbale: quello verbale è costituito da parole espresse mediante suoni , mentre quello non verbale è riferito ad un tipo di comunicazione diverso dall'utilizzo delle parole, come i gesti, i linguaggi visivi e fonico-acustici. Il linguaggio verbale è utilizzato per esprimere le complesse riflessioni umane, che sono sia cognitive, cioè riguardanti la conoscenza, sia operative, quando si progetta la realizzazione di qualcosa. E' difficile rinunciare al linguaggio verbale, infatti le parole servono agli uomini per comprendersi e relazionarsi tra loro. Naturalmente le parole non sono acquisite sul vocabolario, ma fin dalla nascita l'essere umano ne apprende sempre di nuove. Il filosofo Wittgenstein afferma che l'uomo memorizza i termini sia attraverso il linguaggio descrittivo, sia per mezzo del linguaggio prescrittivo, cioè il comando. Un discorso è formato da più parole correlate tra di loro, ma per esprimersi al meglio bisogna allenarsi. Il linguaggio presenta due caratteristiche: la prima concerne la semantica, lo studio scientifico del significato delle parole e delle frasi. Questo termine deriva dal greco e significa indicativo, aggettivo usato spesso da Aristotele. Le parole, a volte, possiedono delle equivocità, cioè diversi significati attribuiti ad un solo termine. Già dal V secolo a.C. vi era una estensione del significato, perciò solo attraverso il dialogo si può addure un determinato significato alla parola. Inoltre è possibile “giocare” con le parole, dando un preciso significato ai termini. Per esempio la parola “atomo” dal greco significa indivisibile. Questo termine però può essere inteso sia come un qualcosa di piccolo, sia come la parte infinitesimale che forma la materia, ma anche come qualcosa che non si può spezzare, essendo indivisibile. Con questo esempio il professore chiarisce che l'espansione del significato avviene anche nei rapporti con altre persone, dove è modificabile il senso della frase. La seconda caratteristica riguarda la metalinguisticità riflessiva; il metalinguaggio corrisponde ad un linguaggio più “illustre”, utilizzato per descrivere un linguaggio più semplice, come quello matematico. Infatti le formule dell'algebra apperentemente denumerate, sono servite per il funzionamento delle operazioni. Il meta linguaggio è utilizzato anche per i paradossi. Il professore De Mauro ha fatto un esempio con il famoso paradosso del mentitore: “io sono un uomo e tutti gli uomini sono mentitori, dico il vero o il falso?”, e così si entra in un circolo vizioso. Il processo di determinazione semantica è quella che si verifica quando un termine inserito in un' argomentazione precisa, risulta avere un determinato significato. Esistono delle parole di base che sono 95 denominate parole primitive. Solo in base a tali parole si possono poi introdurre altri termini nel discorso. Per mezzo delle parole di derivazione greca si inseriscono i primitivi della geometria. I numeri prima di essere considerati come tali, sono delle parole. La terminazione di queste parole ha derivazione molto antica. Infatti nell'antichità quando si indicava per esempio il numero cinque, esso era considerato come insieme di cinque elementi. Successivamente si cercò di adoperare un equivalente scritto di quel numero. Esso è molto importante perchè è utile a determinare un qualcosa, infatti senza numeri si vivrebbe nella indeterminatezza. Il linguaggio scientifico e tecnico è strettamente collegato a quello verbale, perchè di certo un discorso non può essere composto di soli numeri, ma anche di parole, le quali aiutano ad interpretare meglio il linguaggio matematico. La conferenza si è conclusa con una serie di domande poste al professore da parte di noi alunni. Sono state tutte domande interessanti ed alcune anche particolarmente brillanti e simpatiche, ma una domanda che mi ha colpita alla fine della conferenza, è stata quella di una ragazza, la quale aveva chiesto al professore se vi fosse un metodo specifico per riuscire ad esprimersi nel migliore dei modi. Chiaramente non esiste un vero e proprio metodo, ma secondo me il modo migliore per imparare ad esprorre meglio un argomento è quello di leggere molto a voce alta e soprattutto imparare sempre vocaboli nuovi. Utile inoltre, il dialogo senza l'utilizzo di termini dialettici che rovinano un pò la nostra bellissima e articolatissima lingua italiana. Flavia Parisi 96 Relazione sulla conferenza tenuta dal prof. Carlo Bernardini Il giorno 17 febbraio il liceo classico Orazio ha accolto nell'aula magna Carlo Bernardini,noto fisico e matematico italiano e direttore della rivista scientifica "Sapere",in occasione della seconda di quattro conferenze dibattito aventi come tema"Umanesimo e scienza".In tale conferenza,dal titolo"Il linguaggio della realtà"il rapporto umanesimo-scienza è stato affrontato da Bernardini in ambito scientifico,in risposta alla precedente conferenza che aveva avuto come relatore un insigne linguista italiano,Tullio De Mauro.In occasione della ricorrenza dell' "anno di Galilei"egli,in omaggio al celebre scienziato italiano,ha esposto gli enormi risultati cui pervenne lo studioso pisano. Un grande merito di Galilei è stato quello di essere riuscito ad usare la lingua volgare,considerata allora poco adatta per la trattazione di argomenti tecnici,per la divulgazione del sapere scientifico.Galileo è definito proprio per questo motivo,"il più grande divulgatore di tutti i tempi" avendo dato la possibilità di capire una trattazione scientifica ad un pubblico assai più vasto e vario di quello a cui questo tipo di testi erano generalmente rivolti.E' necessario capire,continua Bernardini, la grande portata non solo scientifica,ma anche,e soprattutto,ideologica,che ha costituito la divulgazione dei testi scientifici promossa da Galileo.La fisica,infatti,secondo Bernardini,è diventata una disciplina rivolta non solo ad un ristretto numero di specialisti,ma all'intera società al cui progresso scientifico e tecnonologico sono rivolti gli sforzi degli scienziati. Le innovazioni ,poi, apportate da Galileo in ambito squisitamente scientifico,hanno costituito una vera e propria svolta nella storia della fisica.E' nel "Dialogo sopra i massimi sistemi"infatti,che Galileo dimostra il principio della relatività classica secondo la quale i movimenti vanno sempre analizzati rispetto al sistema di cui fanno parte.Cita Bernardini ,allora,uno dei passi più noti del "Dialogo sopra i massimi sistemi"in cui, viene esposto,appunto è dimostrato il principio della relatività attraverso un semplice e chiaro esperimento:"Riserratevi con qualche amico nella maggior stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio , e quivi fate d' aver mosche , farfalle e simili animaletti volanti ; siavi anco un gran vaso d' acqua , e dentrovi de' pescetti ; sospendasi anco in alto qualche secchiello , che a goccia a goccia vadia versando dell' acqua in un altro vaso di angusta bocca , che sia posto a basso : e stando ferma la nave , osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza ; i pesci si vedranno andar notando indifferentemente per tutti i versi ; le stille cadenti entreranno tutte nel vaso sottoposto ; e voi , gettando all' amico alcuna cosa , non più gagliardamente la dovrete gettare verso quella parte che verso questa , quando le lontananze sieno eguali ; e saltando voi , come si dice , a piè giunti , eguali spazii passerete verso tutte le parti . Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose , benchè niun dubbio ci sia che mentre il vasello sta fermo non debbano succeder così , fate muover la nave con quanta si voglia velocità ; ché ( pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là ) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti , nè da alcuno di quelli potrete comprender se la nave cammina o sta ferma".Questa geniale soperta venne recuperata e utilizzata da Newton originando così la forma matematica e fisica della meccanicaMa ,continua Bernardini,soprattutto Einsten è stato il più grande debitore di Galileo,giacchè,è stato lui ad aver dimostrato scientificamente il principio di relatività,che in Galileo era rimasto ,fondamentalmente un'intuizione.(ricorda Bernardini a tal proposito, il 1905,il cosiddetto "annus mirabilis" per lo sviluppo della meccanica quantistica e della relatività). Lo studio meticoloso e 97 diretto che Galileo ha svolto nel decifrare quel libro della natura che" continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi " e che "è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola"è ,dunque,modello da seguire per le generazioni successive.Nella seconda parte della conferenza,dedicata al dibattito con gli studenti,Bernardini ha evidenziato quanto oggi ci sia la tendenza da parte degli studiosi,ad avere un approccio indiretto con le fonti,mediato attraverso l'opera inadeguata e,a volte del tutto deviante,intrapresa dagli storici della scienza.Recuperare,invece ,i testi scientifici e studiarli con cura scrupolosa :questo è l'invito rivolto da Bernardini ai giovani.Il linguaggio della fisica ,apparentemente astruso e di difficile comprensione, "nasconde la rappresentazione di un universo".Una volta che si sia deciso di intraprendere il cammino della fisica,che il relatore paragona ad un vero e proprio viaggio in"Contare e raccontare ("testo scritto a due mani da Bernardini e De Mauro),si scopre quanto le parole in realtà siano le "ruffiane dello spirito",mentre le formule sono il "telescopio della mente".Evitando,dunque,di incorrere da una parte nello "scientismo trionfalistico",dall'altra nell'"integralismo umanistico" è necessario un approccio più motivato alle facoltà scientifiche che negli ultimi anni hanno subito un rapido calo di interesse a favore delle discipline umanistiche.Agli studenti che hanno posto molte domande anche riguardo gli studi scientifici in Italia ,Bernardini ha evidenziato ,anche ricordando episodi della sua esperienza personale, quanta ignoranza ci sia anche nei ranghi più elevati delle classi sociali: " buchi culturali nel nostro Paese sono delle voragini".In questa ottica va l'invito alla classe politica italiana a non considerare una spesa ma un vero investimento il finanziamento della ricerca.Si conclude la conferenza con l'invito di Bernardini a studiare le facoltà scientifiche con la felice consapevolezza che attraverso lo studio della"poesia delle formule"l'uomo ha accesso all'unica strada che porta al progresso,prescindendo dalla quale,secondo la citazione galileiana ci si aggirerebbe "in un oscuro laberinto" . Rosa Calabrese 98 Relazione sulla conferenza tenuta dal prof. Carlo Bernardini Il 17 febbraio la scuola ha avuto l’onore di ospitare il professore Carlo Bernardini, uno dei più illustri fisici italiani; tema della conferenza è “il linguaggio della realtà”. Questa è la seconda delle cinque conferenze sul tema del linguaggio. La conferenza inizia con la presentazione del fisico da parte della professoressa Fierro. Carlo Bernardini è professore all’università “La Sapienza” di Roma, dirige la rivista “Sapere” ed è senatore della Repubblica. Il professore apre il suo discorso dicendo che tutti gli anni sono dedicati a scienziati illustri. In particolare l’anno 2009 è dedicato alla figura di Galilei. Egli si è prodigato per far comprendere a tutti la scienza, pubblicando per la prima volta testi scientifici in volgare. Fino ad allora erano scritti esclusivamente in latino e per questo erano accessibili ad una ristretta cerchia di persone. Oltre a pubblicare testi in volgare e a inventare molte altre cose Galilei inizia la Chimica teorica (chiamata dai posteri chimica pratica), e si occupa di fisica (in particolare studia l’accelerazione e la velocità anticipando quello che sarà poi sviluppato da Einstein). Secondo Galilei i caratteri della fisica sono 3: i triangoli, i cerchi e altre figure geometriche. Tutte le figure geometriche e tutti i poligoni derivano dalla somma di triangoli e cerchi. Per il professore Bernardini il linguaggio di Galilei è ancora poco studiato. Per tutti e due (Galilei e il professore) ci deve essere uno scambio del linguaggio tra il linguaggio fisico e quello della filosofia iduttiva. Consiliare il linguaggio della matematica con il linguaggio linguistico non è facile. Ai giorni nostri quasi tutti i testi scientifici e matematici internazionali sono scritti in inglese. Il professore afferma che l’inglese è una lingua facile ed efficiente, contrariamente all’italiano che ha molti sinonimi e parole antiche. Dopo aver parlato del linguaggio fa una breve digressione su Aristotele. Egli adatta la Filosofia alla fisica ed enuncia un principio di casualità: se un oggetto compie un’azione su un corpo, ne consegue un effetto L’agente è chiamato forza e la velocità effetto. Questa teoria sarà poi ripresa in futuro da Eulero, fisico svizzero del 1700 che si occupò di balistica, meccanica e ottica. La conferenza giunge al termine e, dopo il dibattito, si evince che la scienza si sta piano piano sviluppando, cercando si rispondere ai grandi quesiti. Vero è che in Italia non viene finanziata la ricerca e ormai si è ridotta ad laboratori privati. Maristella Cecinato 99 Relazione sulla conferenza tenuta dal prof. Carlo Bernardini Martedì 17 Febbraio si è tenuta la seconda delle conferenze sul tema di approfondimento “ Umanesimo e scienza”, che ha visto come relatore il Prof. Carlo Bernardini. Questo è l’anno di Galilei! Così inizia la trattazione il professore, il quale mette in luce come questa figura di spicco nel panorama italiano del XVII non sia ancora oggi studiata attentamente soprattutto nelle scuole ma anche dagli addetti ai lavori. Galilei è stato il primo, infatti, a porsi il problema dell’ integrazione del linguaggio scientifico in quello comune e a capire che la scienza doveva avere una divulgazione a più ampio raggio. A tal proposito è esemplificativo il suo “Dialogo sopra i due massimi sistemi” in cui introduce tre interlocutori: Salviati, ovvero la copia di se stesso, portavoce delle sue idee, Sagredo, personaggio perspicace e intelligente e infine Simplicio che incarna il tipico uomo di cultura ottuso dei tempi della Controriforma. L’ innovazione geniale contenuta in quest’opera è proprio il linguaggio; se infatti la lingua usata per la divulgazione della cultura era il latino, conosciuto soprattutto da preti e intellettuali, Galilei scrive in volgare per rendere il suo pensiero accessibile ad un pubblico di lettori più vasto. Tuttavia, quali erano le idee dominanti nel suo tempo? Erano quelle della cosiddetta “fisica ingenua”, cioè un insieme di rappresentazioni che spontaneamente si formano nella nostra mente,alla base anche della fisica aristotelica, mai messa in discussione fino a quel momento, la quale non era niente altro che una traslitterazione nel linguaggio parlato di tali rappresentazioni al fine di dare loro una sistemazione proposizionale. Il fulcro della concezione aristotelica della realtà è il principio di causalità, per cui dato un agente che compie un’ azione nei confronti di un corpo pesante ne consegue un effetto. L’agente viene chiamato “forza”, l’ effetto “velocità”. In verità, l’ effetto di una forza su un corpo pesante non è la velocità, bensì l’ accelerazione che è la variazione della velocità in relazione al tempo. Il concetto di accelerazione non era conosciuto nella fisica ingenua, anche perché per esprimerlo con una notazione appropriata si sarebbe dovuto ricorrere al concetto di funzione ad una variabile “f(x)”, che fu introdotto da Eulero solo nel 1734-1735. E’ ora possibile intuire come fosse difficile all’ epoca avere rappresentazioni mentali formalizzate in un linguaggio scientifico. Nel seicento, però, erano ben noti i “Principia matematica” di Euclide, e a partire dalla semplice geometria di quest’ ultimo Galilei riesce a fare dell’ eccellente fisica teorica. Nel “Saggiatore”1 infatti, dice che “il libro della natura è scritto in lingua matematica e i caratteri sono: triangoli, cerchi e altre figure geometriche. Oltre che per il carattere del tutto innovativo del suo linguaggio scientifico, la sua grandezza, condivisa con i più grandi fisici di tutti i tempi, stà nella capacità di compiere esperimenti pensati. Il più importante fra questi è quello che gli ha permesso di rendere relativo il concetto di velocità. A tal proposito si faccia riferimento al brano del “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” intitolato “il mare sotto coperta”2 : 100 "Rinserratevi con qualche amico nella maggior stanza che sia sotto coperta di alcun grande naviglio, e quivi fate di aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; siavi anche un gran vaso d’ acqua, e dentrovi dei pescetti, sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vadia versando dell’ acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia posto in basso: e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza, e i pesci si vedranno andar notando indifferentemente per tutti i versi; le stille cadenti entreranno tutte nel vaso sottoposto; e voi, gettando all’ amico alcun cosa, non più gagliardamente la dovrete gettare verso quella parte che verso questa, quando le lontananze sieno uguali, e saltando voi, come si dice, a piè giunti, egual spazii passerete verso tutte le parti.Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benchè niuno dubbio vi sia che mentre il vassello sta fermo non debbano succedere così; fate muovere la nave con quanta si voglia velocità: ché (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti, nè da alcuno di quelli potrete comprendere se la nave cammina oppur sta ferma..." 1. G.Galilei, Il Saggiatore, in Opere, vol VI, pag 302. 2. G.Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo,Oscar mondatori, pag 196. La conclusione che Galilei trae da queste comunissime osservazioni è che tutti questi eventi si verificheranno in tal modo senza che noi ce ne accorgiamo, come quando alla stazione ci troviamo sopra un treno e non riusciamo a capire se ci stiamo movendo o è il treno accanto a noi. Il professore conclude la conferenza ribadendo l’ importanza di uno scienziato come Galilei, il quale ha mostrato la sua grandezza, oltre che per gli studi da lui effettuati sulla velocità, sulla caduta dei gravi nel vuoto, sull’isocronismo delle oscillazione di un pendolo, solo per citarne alcuni, soprattutto per l’impegno volto a costruire un linguaggio libero da tecnicismi formali, basato su elementi semplici, libero da incrostazioni retoriche e capace di dimostrare, calcolare e formalizzare. Alla lezione del professore ha fatto seguito un ampio dibattito che ha visto la partecipazione di molti alunni del nostro liceo. Nella mia rielaborazione della conferenza, riporterò di seguito alcune tra le domande a mio avviso più interessanti con le relative risposte. Al professore sono stati posti quesiti di diverso genere, riguardanti la sua personale esperienza nello studio della fisica, problemi di attualità o di competenza più specifica nell’ ambito delle discipline scientifiche. Ad aprire il dibattito è stato un ragazzo il quale ha manifestato la sua particolare curiosità chiedendo al professore come fossero iniziati i suoi studi nel campo della fisica; Carlo Bernardini ha risposto dicendo che nella sua città natale, ovvero Lecce, la maggior parte degli abitanti sono giuristi, per cui era molto comune parlare di diritto, di grandi processi ma non certo di matematica o fisica. La sua passione per tali materie fu inizialmente coltivata da lui personalmente, alla maniera di un autodidatta e, successivamente, attraverso gli studi universitari. A questo punto il dibattito si è spostato su due argomenti particolarmente attuali, cioè il rapporto tra scienza ed etica e la scarsa propensione che si ha nel nostro Paese ad investire nella ricerca. Riguardo la prima tematica, la relazione tra scienza ed etica è possibile nel caso in cui si trovino a discutere persone competenti sull’ argomento scientifico in questione, in tal caso, infatti, l’etica di entrambi 101 sarebbe la stessa; invece è un fatto veramente immorale, sostiene il nostro relatore, che coloro che sono ignoranti in materia si permettano di mettere bocca senza averne le facoltà. Per quel che riguarda il secondo la questione è più complessa. Nonostante il momento di crisi generale che stiamo vivendo, non bisognerebbe risparmiare sulla ricerca, anzi si dovrebbero utilizzare i milioni di euro tenuti al sicuro dalle fondazioni bancarie per finanziare studi su progetti a lungo termine. Il professore conclude la sua risposta sostenendo che in Italia da molti anni manca la figura del “sistemista”, cioè colui che attraverso la lettura di testi di letteratura scientifica è in grado di mettere insieme sottosistemi, che presi singolarmente non produrrebbero valore aggiunto, per creare invece un sistema in grado di sfruttare al meglio la sinergia delle singole apparecchiature. Esempio tipico di tale figura è stato l’ italiano Guglielmo Marconi, il quale sfruttando gli studi del russo Popov sulle antenne e quelli di Temistocle Calzecchi Onesti per quanto riguarda la parte radio, riuscì a collegare l’ Europa con l’America attraverso onde elettromagnetiche. Ilaria Gravina 102 Relazione sulla conferenza tenuta dal prof. Carlo Bernardini Il professor Carlo Bernardini, insigne fisico, ordinario all’università di Roma La Sapienza, propone un confronto ideale tra umanesimo e scienza nel volume “Contare e Raccontare”, dove affronta il problema della difficile integrazione del pensiero scientifico nel linguaggio comune. Il 2009 è l’anno di Galileo Galilei che è stato il primo scienziato a comprendere il problema linguistico dell’integrazione delle scienze. Nel Dialogo sui massimi sistemi Galilei presenta la figura di Salviati, che è un interlocutore intelligente, in rapporto a Sagredo che rappresenta l’uomo comune della sua epoca. Nel 1600 infatti, la scienza veniva divulgata in latino che non era comprensibile alla gente comune, Galilei pertanto è il più grande divulgatore delle scoperte scientifiche poiché riesce a descrivere in volgare il pensiero del suo secolo. Nel XVII secolo erano generalmente accolte le idee della cosiddetta “fisica ingenua” ovvero quelle idee che sorgono intuitivamente e che sembrano dare una sistemazione razionale alla fenomenologia della realtà. La filosofia aristotelica era in gran parte costituita infatti da idee che corrispondevano a una traduzione in linguaggio comune delle idee della fisica ingenua. Quest’ultima consentiva a tutti di comprendere i concetti di base secondo cui un’agente(che può produrre un’azione) opera su un corpo pesante, ne consegue un effetto, ovvero quel corpo subisce un effetto di tale causa. Chiamando forza l’agente, ci si basava sull’idea della forza impressa al corpo tralasciando tuttavia la capacità di tale corpo di acquisire velocità, perché il concetto di accelerazione non esisteva nella fisica ingenua. Per comprendere nozioni come la dipendenza della velocità dal tempo, era necessaria un’idea meno intuitiva di che cosa è la funzione di una variabile. Galilei riesce a elaborare una eccellente fisica teorica ben prima che Eulero, un secolo dopo di lui,giungesse ad indicare la funzione (f) di una variabile x. Come afferma nei suoi Discorsi attinenti alla meccanica, Galileo ritiene che le rappresentazioni mentali derivino dalla natura dato che a suo avviso il libro della natura è scritto in lingua matematica e i caratteri sono triangoli, cerchi e altre figure geometriche. Egli conosce la geometria euclidea e utilizza sia i termini di “accelerazione” e perfino “la composizione vettoriale di moti ortogonali”, giungendo così a rappresentare nella propria mente i fenomeni naturali secondo regole che costituiscono già una teoria nel senso più moderno del termine. La straordinaria capacità di argomentare di Galilei viene ben rappresentata dai suoi “esperimenti pensati” come nel caso della nozione di “relatività cinematica” che ritrova nel Dialogo sopra i massimi sistemi: Galilei descrive la tipica situazione in cui ci troviamo tutti quando alla stazione ferroviaria siamo sul treno in attesa di partire e proviamo la sensazione di essere in movimento guardando il treno sul binario accanto. In realtà è il treno vicino che si muove e non il nostro e le osservazioni comunissime che si fanno in tali circostanze collegando causa ed effetto, dimostrano la legge fisica della relatività della velocità. 103 La forza del ragionamento induttivo di Galilei è in grado di superare le cognizioni intuitive della fisica ingenua e prelude a tutte le fenomenologie moderne. Grazie a Galilei impariamo come la fisica teorica sia un modo di pensare la realtà e di interpretarla correttamente attraverso un linguaggio appropriato corrispondente alla complessità dei fenomeni. Infatti se per la fisica aristotelica la velocità di un corpo derivava dal rapporto tra potenza e resistenza per cui il vuoto era impossibile, per Galilei il peso di un grave non ha rilevanza nella sua velocità di caduta nel vuoto ma è relativa,e questa sua scoperta molti decenni dopo condurrà al principio di equivalenza che sarà successivamente sviluppato da Heinstein nella teoria della relatività. È probabile che non tutte le intuizioni di Galilei siano corrette, ma il suo contributo più rilevante concerne sicuramente la concezione e la costruzione di un linguaggio specifico per riferire i fenomeni scientifici. La nozione galileiana che debba esistere un linguaggio specifico che produce relazioni mentali favorisce la comprensione del funzionamento della realtà. La fisica teorica attuale deve occuparsi in realtà di nozioni assai più facili da formalizzare in un linguaggio rispetto ai fenomeni di base formalizzati in maniera sintetica ed efficiente da Galilei. La specificità del linguaggio scientifico che Galilei formalizza, consente contemporaneamente di riconoscere i linguaggi specifici della cultura ma anche la necessità di un meccanismo di scambio delle specificità linguistiche e culturali che devono dialogare ma non identificarsi. Un esempio di interscambio tra linguaggio umanistico e linguaggio scientifico costituito dalla necessità di conservare la storia della fisica che è certamente rappresentata dalle conquiste intellettuali cui era pervenuto Galilei e che sono state successivamente superate da rappresentazioni maggiormente evolute, se si studia la storia delle fisica nel XIX secolo si scopre una straordinaria capacità di elaborare concezioni sempre più evolute fino ad arrivare all’anno 1905 quando nacquero la relatività, la meccanica quantistica etc. Il dibattito che è seguito alla lezione del professor Bernardini ha posto l’accento sulla formalizzazione del linguaggio scientifico che nell’insegnamento necessita di essere divulgato e sulla maggiore efficacia e semplicità della lingua inglese come veicolo della letteratura mondiale nel settore scientifico; un altro tema affrontato ha riguardato la necessità di mantenere viva la memoria storica delle scoperte scientifiche; i rapporti che si instaurano tra ricerca scientifica ed etica, soprattutto in relazione all’energia nucleare; ed infine il difficile rapporto che ancora oggi si instaura tra linguaggio umanistico e linguaggio scientifico, talvolta ritenuto meno colto del primo. A questo proposito ha suscitato particolare interesse il racconto di un questionario presentato nelle scuole elementari da una nota matematica francese che ha dimostrato l’incomunicabilità tra linguaggio verbale e il linguaggio scientifico: ad un problema che chiedeva ai bambini di risolvere il seguente quesito “una nave trasporta 32 pecore e 18 montoni. Quale è l’età del capitano?” L’80% degli alunni ha dato la risposta 50, mentre solo il 20% non ha risposto. Il questionario somministrato in Italia ad un campione di bambini inferiore ha condotto ad una percentuale del 100% della sommatoria di 32 pecore e 18 montoni in relazione all’età del capitano. Nessun bambino italiano ha rilevato l’assurdità del problema e anzi uno è riuscito persino a trovare delle giustificazioni. Giustificazioni a posteriori di assurdità a priori. Arianna Massimi 104 Relazione sulla conferenza tenuta dal prof. Carlo Bernardini Il giorno 17 febbraio 2009 il prof. Carlo Bernardini ha tenuto la conferenza dal titolo “il linguaggio della realtà”, che, nell’ambito del tema di approfondimento culturale del nostro liceo “Umanesimo e Scienza”, ha affrontato il problema del difficile rapporto tra linguaggio scientifico e umanistico, dal punto di vista dell’uomo di scienza. In risposta al discorso tenuto dal prof De Mauro circa le origini del linguaggio e le infinite possibilità di applicazione di una lingua in qualsiasi disciplina, il fisico si è preoccupato di analizzare le peripezie affrontate dal linguaggio scientifico nel suo cammino verso l’integrazione con il linguaggio comune. Il primo a porsi questo problema nel corso dell’evoluzione del pensiero scientifico è stato Galileo Galilei, “il più grande divulgatore di tutti i tempi”. Egli infatti si rese conto fin da subito della possibilità di tradurre in volgare le idee scientifiche fino a quel momento espresse unicamente in latino, con l’obiettivo di coinvolgere un numero sempre maggiore di persone nel discorso scientifico. La figura di Galileo riveste un ruolo centrale nel superamento di quella che oggi è generalmente chiamata “fisica ingenua”: si tratta infatti di dell’insieme di proposizioni nate spontaneamente dall’osservazione della realtà che costituiva il fondamento della fisica di matrice aristotelica. Esempio evidente dell’ “ingenuità” di tale fisica è la convinzione aristotelica che una forza, intesa come causa, produca, agendo su un corpo pesante, un effetto che consiste nella sua velocità: nell’ambito di queste teorie era del tutto assente il concetto di accelerazione, che fu proprio Galileo a introdurre, affermando che sotto l’azione di una forza il corpo non acquisisce solo velocità, bensì una variazione costante di essa, definita appunto accelerazione. Uno dei grandi meriti di Galileo consiste quindi nell’aver criticato l’immaginazione come fondamento del metodo di interpretazione della realtà dei suoi contemporanei, e aver posto le basi per la nascita di una fisica teorica. Questo metodo di analisi della realtà si nutre di un nuovo linguaggio, quello matematico: è proprio lo scienziato a scrivere nel Saggiatore che “la filosofia è scritta in questo grandissimo libro, che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’Universo) ma non si può intendere se prima non si impara a intenderne la lingua, a conoscere i caratteri ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica e i caratteri sono triangoli, cerchi e altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto”. Si tratta quindi di un linguaggio che parte dai fatti per parlare dei fatti, una lingua semplice e misurabile, quella della filosofia induttiva. Strettamente collegato al linguaggio della fisica è quello della matematica, anche se il suo rigore ha costituito e ancora costituisce un impedimento alla piena comprensione delle proposizioni della scienza. Secondo Bernardini, dunque, risulta impossibile trasmettere al lettore non scientificamente formato il patrimonio delle scoperte raggiunte nel corso della storia della ricerca: è significativo quindi il tentativo attuato dalla cultura inglese di trasformare in “modalità galileiane” quelle dottrine che sarebbero altrimenti incomprensibili per i “non addetti ai lavori” Il tentativo di integrazione tra il linguaggio scientifico e il linguaggio comune si configurerebbe pertanto come fallimentare: lo stesso professore constata che, fatta eccezione per Galileo, spesso assurto a simbolo dell’incontro tra Umanesimo e Scienza 105 (molti sono infatti i critici che si sono adoperati ad una lettura meramente letteraria del Dialogo sopra i due Massimi Sistemi, al di là del suo valore scientifico, tanto che Galileo Galilei compare in tutti testi di letteratura italiana) i fisici teorici sono portati a dare un'unica modalità di interpretazione della realtà che risulta inevitabilmente inconciliabile con quella della filosofia, della politica e dell’arte. È sempre Bernardini, tuttavia, a indicare come unica via per la realizzazione dell’unità della cultura l’approfondimento e lo studio in ogni campo del sapere. Nella seconda parte dell’incontro , il professore è stato coinvolto in alcune riflessioni proposte dagli studenti e da alcuni insegnanti, che hanno manifestato grande interesse verso una problematica cosi attuale. Una delle questioni più scottanti dei nostri tempi che è stata posta all’attenzione del fisico è la difficile dialettica tra scienza ed etica: spesso infatti il progresso scientifico scatena un’aspra polemica sul valore etico delle scoperte a cui esso porta. Bernardini rivendica la condivisibilità dei principi etici da parte di tutti, scienziati compresi; ma allo stesso tempo polemizza sull’intervento nelle questioni di bioetica spesso sconsiderato e inappropriato da parte di un gran numero di persone che il più delle volte non ha ben chiaro neppure l’oggetto di discussione. Questo discorso si collega anche alla propensione manifestata da Bernardini per la riabilitazione delle centrali nucleari in Italia. Il fisico, infatti, ha ricordato come in occasione del referendum del 1987, che all’atto pratico proponeva l’abrogazione di alcune disposizioni di legge concepite per rendere più facili gli insediamenti del nucleare, la maggioranza degli italiani abbia votato nella convinzione che fosse loro richiesto se abbandonare o meno il ricorso al nucleare come fonte di approvvigionamento energetico. Un altro problema richiamato all’attenzione del relatore è l’attuale organizzazione dell’insegnamento della matematica e della fisica: prevedendo, infatti, un’unica cattedra per entrambe le discipline , tale sistema mette in seria difficoltà i docenti, perche, in accordo con quanto puntualizzato in precedenza, la forma mentis dei fisici si differenzia notevolmente da quella dei matematici, impedendo a entrambi una contemporaneo approfondimento delle due materie. Il problema maggiore della lingua italiana è, secondo Bernardini, la sua inadeguatezza ad esprimere concetti scientifici: contrastando, quindi, nettamente con quanto aveva affermato nel suo precedente intervento il prof. Tullio De Mauro, il quale aveva dimostrato come qualsiasi lingua, compreso il leccese, fosse utilizzabile in ogni campo del sapere, il fisico ha invece professato la sua completa sfiducia nelle possibilità dell’italiano. Ideale per la scienza è l’Inglese, lingua semplice e concisa, che manca delle infinite sfumature e possibilità di interpretazione della nostra lingua. Era inevitabile poi che venisse alla luce quello che è forse oggi il principale problema del nostro paese: l’abbandono della Ricerca scientifica. Poche sono infatti le nazioni che destinano cosi esigue risorse all’investimento nella ricerca: secondo Bernardini una spiegazione plausibile alla nostra situazione si può individuare nella continua ricerca del profitto immediato da parte del nostro stato che,richiedendo “scoperte lampo” alla scienza, non è in grado di rispettare i tempi necessari perche il progresso in determinati settori sia effettivamente rilevante. A conclusione del suo intervento il nostro relatore ha individuato nell’incapacità dei fisici di storicizzare le proprie scoperte e di prendere in considerazione il passato per potersi proiettare nel futuro, il loro “errore memorabile”. Vivendo solo nel presente e 106 cancellando la storia hanno negato qualsiasi possibilità di incontro con il mondo dell’umanesimo. Andrea Miniagio 107 Relazione sulla conferenza tenuta dal prof. Carlo Bernardini Il giorno 17-02-09 si è tenuta nell’aula magna della nostra scuola una conferenza dal titolo “Il linguaggio della realtà”. Il relatore, Carlo Bernardini, si è rivelato una persona simpatica e frizzante, oltre che un uomo di grande spessore intellettuale. Egli, nato a Lecce nel 1930, oltre ad essere un grande fisico incarna anche la figura dell’opinionista e dell’uomo politico (è stato senatore negli anni ’70) ed è inoltre autore di numerose opere di divulgazione scientifica, ma anche di saggi a sfondo politico e sociale, senza dimenticare che dirige la rivista scientifica “Sapere”. Insomma, Bernardini è uno scienziato a tutto tondo! Per delineare meglio il difficile rapporto che intercorre tra pensiero scientifico e pensiero comune viene preso ad esempio Galilei: egli fu il primo a capire il problema linguistico dell’integrazione delle scienze nel pensiero comune. Infatti Galilei si prodigò perché quanta più gente possibile potesse capire il contenuto delle scienze. Ai suoi tempi infatti la scienza veniva comunicata in latino, mentre le sue opere più importanti, come il “Dialogo sopra i due massimi sistemi”,sono scritte in volgare. Un’altra grande innovazione apportata da Galileo è stata la distinzione della fisica vera e propria dalla “fisica ingenua”: le idee della fisica ingenua sono quelle idee concepite spontaneamente dall’osservazione istintiva e primitiva della fenomenologia e non fondate dunque su uno studio scientifico e razionale della realtà. Galileo introduce per la prima volta il concetto di accelerazione, che nella fisica ingenua non esiste. Per la chiarezza del discorso, per l’importanza data al ragionamento induttivo, per quel modo di pensare la realtà oltre l’apparenza, lo studio di Galilei è ancora oggi ricco di insegnamenti nonostante non sia stato affatto capito ed apprezzato dai suoi contemporanei. D’altronde come avrebbe potuto un uomo del ‘600 accettare un sistema copernicano dove non più la terra nè l’uomo sono il centro dell’universo? E come minimamente concepire che un corpo leggero e un corpo pesante nel vuoto impieghino lo stesso tempo a cadere? Non potendosi spiegare con mezzi propri tutto ciò che accade in natura si finisce col ritenere reali principi infondati, ed è proprio ciò che fa la fisica ingenua e che Galileo ha in gran parte cancellato. E questo accade perché la cultura umana è soverchiata dalla parola, dal linguaggio. Infatti ciò che si può dire a parole acquista un carico di verità tale da poter addirittura vanificare i fatti. Ed è Galileo ad avanzare l’idea che bisogna costruire un linguaggio concepito e costruito sui fatti, che permetta alla filosofia naturale (la fisica ingenua), di diventare fisica teorica. Tale linguaggio è quello della filosofia induttiva. La fisica teorica consiste dunque nel superamento della fisica ingenua. Bernadini conclude la sua relazione con una constatazione: purtroppo un fisico teorico assorbendo un suo modo spontaneo e naturale di rappresentare la realtà, a causa delle specificità linguistiche, nega gli altri modi di pensare, come quello dalla filosofia, della politica, dell’arte, cosa che non permette un’unità della cultura. Si pone dunque il problema dell’integrazione di una cultura in un’altra e l’unico modo per uscirne, non c’è scampo, è studiare! Nel momento del dibattito, dai ragazzi provengono molte domande riguardo il linguaggio matematico, il suo rigore e il modo di poterlo conciliare con quello umanistico. Il nostro fisico in un discorso generale ci espone le sue tesi al riguardo. Innanzitutto Bernardini ci dice che è molto difficile conciliare il linguaggio matematico con quello 108 umanistico e tale tentativo è reso ancor più difficile dal modo di insegnare la matematica. Infatti l’insegnamento della matematica, che spesso si ferma all’interno di una meccanica razionale senza aprirsi alla relatività, ha bisogno di continui ammodernamenti. Inoltre il grande problema della matematica è la sua decontestualizzazione a livello didattico: molto spesso, infatti, gli studenti si trovano ad estrarre i numeri,gli elementi matematici, dal contesto proprio perché si tende a distaccare il linguaggio matematico da quello umanistico. Ciò è dovuto secondo me anche al rigore della matematica, che tende a chiudersi all’interno di uno schema da seguire in modo preciso e coerente. Proprio per questo rigore che caratterizza la mente dello scienziato, si tende a credere che siano gli umanisti e non i fisici o i matematici a cercare un contatto tra le due realtà. Bernardini da parte sua sembra sfatare quest’idea. Esistono molti uomini di scienza che hanno anche una grande cultura umanistica e classica, ma il problema è arrivare agli umanisti, verso i quali gli scienziati sono un tantino diffidenti. Da entrambe le parti c’è dunque il sentirsi migliori e il ritenersi responsabili della ricerca di un rapporto con l’altro:ovviamente la ragione non è di nessuno! Un altro problema affrontato è il rapporto della scienza con l’etica. L’etica di uno scienziato è pari a quella di qualsiasi altro, ma dopo una scoperta scientifica lo scienziato sa di cosa si parla e a cosa si va incontro, mentre molto spesso gli altri no. Bernardini è stato infatti, si sa, sostenitore del nucleare. E questo perché lui, che è uno scienziato, studiando di persona il fenomeno si è potuto rendere conto dei vantaggi e degli svantaggi del nucleare. Quello che ci vuole far capire è che il problema etico della scienza è valido solo dal momento in cui si conoscono veramente tutte le implicazioni di una nuova scoperta e che quindi gli scienziati non hanno un’etica differente da quella della gente comune, sono solo più informati di noi. Un’altra domanda solleva il problema linguistico dell’italiano: è l’inglese la lingua maggiormente utilizzata per il linguaggio scientifico, mentre l’italiano non viene ritenuto adatto per questo tipo di linguaggio. Perché? In realtà questo è un problema piuttosto infondato secondo me: come ci conferma Bernardini, l’italiano pone molte più difficoltà linguistiche dell’inglese in quanto la nostra è una lingua ricca di sinonimie e parole ambigue mentre l’inglese, essendo una lingua semplice ed essenziale, è più efficace per un linguaggio scientifico che non permette equivoci. Molto interessante è anche il discorso riguardo al ruolo del ragionamento induttivo e di quello deduttivo nell’ambito della fisica. Alla base di tutto vi è il dubbio, e il solo metodo che permette il dubbio è quello induttivo. Infatti secondo il ragionamento di tal genere dall’osservazione di un fenomeno arrivo a darne una formulazione che mi permette di generalizzare, ma nel fare ciò devo ammettere la possibilità di sbagliare e la spiegazione che do deve dunque poter essere confutabile! Seguendo un metodo induttivo, dunque, tento di superare dei dubbi ma devo mantenermi sempre nell’ambito del dubbio. Un ragionamento di tipo deduttivo invece è inconfutabile perché contiene in sé già tutte le risposte: non è adatto alla fisica! Certamente l’intervento di Bernardini in questo ciclo di conferenze sul dibattito tra umanesimo e scienza è stato di primaria importanza. Infatti è stato l’incontro che più di tutti ci ha permesso un contatto diretto con la realtà scientifica e senza dubbio un grande stimolo per ognuno di noi ad allargare gli orizzonti del nostro sapere. Marta Santaniello 109 Relazione sulla conferenza tenuta dal prof. Carlo Bernardini Martedì 17 febbraio 2009 al liceo classico “Orazio”,su invito della prof.ssa Fierro è venuto a tenere la conferenza lo stimatissimo fisico e divulgatore del sapere scientifico:Carlo Bernardini.Dopo il breve ringraziamento del Dirigente scolastico la prof.ssa Fierro,coordinatrice del tema di approfondimento “ Umanesimo e Scienza”,ha presentato l’ospite,ringraziandolo a sua volta per aver accettato l’invito. Immediatamente Bernardini,con spiccata ironia,pur dichiarando di non essere del tutto sicuro di poter esaurientemente sviluppare un tema così complesso, poiché il rapporto Scienza-Umanesimo è un rapporto di continuità/frattura, ha presentato la sua argomentazione attraverso un excursus filosofico scientifico dell’evoluzione del sapere scientifico,a cominciare da Galilei. Infatti secondo l’opinione del fisico,Galilei che 100 anni prima di Leibniz e Newton portò a compimento risultati pratici su numerosi fenomeni,in virtù dei quali esplicitò prove dimostrative,è ancora oggi pieno di insegnamenti illuminanti. Partendo proprio da Galilei,che a buon diritto può essere considerato il “faro” del linguaggio scientifico,che ha illuminato la strada alle successive scoperte fisiche e astronomiche,è necessario ripercorrere l’iter che ha determinato la profonda spaccatura fra il linguaggio scientifico e il linguaggio verbale. Infatti ai tempi di Galilei la conoscenza scientifica era espressa attraverso il latino e già a partire dalla seconda metà del’500 si è verificata la mancata integrazione del linguaggio scientifico nel linguaggio verbale,provocando perciò nell’immaginario comune la “ famosa”antitesi scienza-humanae litterae. Questa dicotomia,come ha puntualizzato il profesore è derivata dal fatto che i rapporti tra la fisica o la matematica e la letteratura sono deformati da “ estremizzazioni”pregiudiziali di natura ideologica. Pertanto Bernardini,focalizzando la sua attenzione sull’importanza del metodo galileiano,attraverso numerosi esempi,ha mostrato come Galilei sia stato il primo a creare quel ponte di collegamento,tentando di diffondere in volgare le idee della fisica ingenua. A tal fine,dal momento che era indispensabile sviluppare un linguaggio matematico,che potesse corrispondere al linguaggio della natura,ancor prima dei risultati degli altri filosofi-matematici,Galilei conosceva le parole accelerazione e osservazione,in base alle quali sapeva il significato del termine relatività della velocità. Quest’ultima che equivale,secondo il principio di causalità all’effetto che scaturisce dalla causa dell’agente è la condicio sine qua non dell’esistenza del binomio potenzaresistenza .Riguardo ciò,già Aristotele si era soffermato sul problema,ritenendo che poiché il rapporto potenza-resistenza è un rapporto uguale all’infinito,il vuoto non esiste. Bernardini, dunque, è convinto che il metodo della moderna scienza,come già i primi tentativi durante l’età galileiana,si basino su due strumenti fondamentali:l’immaginazione e l’intuizione,mediante i quali è possibile razionalmente spiegare i meccanismi della fisica teorica. Essa contiene un’equilibrata dose di “realismo classico”,perché non guidata da tecnicismi virtuosistici,si basa proprio su quell’immaginazione e su quell’intuizione che superano lo stadio delle congetture apparenti. Tuttavia ritornando alla problematica iniziale,se esista effettivamente un nesso tra il mondo scientifico e quello umanistico,il relatore,polemizzando con il linguista De Mauro,crede che l’unità di cultura sia solo una velleitaria identità di cultura,poiché la fisica- a differenza delle discipline umanistiche- vive nel presente senza considerare il passato e cerca di superare incessantemente le rappresentazioni 110 ingenue. All’interessante argomentazione di Bernardini che ha lasciato intravedere la sua sfrenata curiosità per la scienza,affermando all’inizio del suo discorso che la ricerca scientifica non è una spesa ma un investimento,sono seguite numerose domande,dubbi,perplessità degli alunni del liceo,che hanno soprattutto posto l’accento sul problema della formalizzazione matematico-fisica. Il dibattito si è aperto con una domanda relativa alla vita del relatore: 1)Riguardo la scelta che ha fatto ha avuto mai dubbi? Lo scienziato ha risposto che certamente nessuno può prevedere il futuro ma con il senno del poi ha effettivamente visto che il “rischio”corso da giovane si è rivelato fortunatamente proficuo. Successivamente è intervenuta anche la prof.ssa Fierro con una domanda dettagliata: 2)Dalla lettura di alcuni suoi testi,si evince la necessità di produrre una storia della fisica, giacchè finora i tentativi in tal senso si sono rivelati discutibili,chi dovrebbe scrivere dunque una storia della fisica? All’argomentazione del relatore che ha ripercorso le tappe salienti del progresso scientifico,è seguita un’interessante discussione in merito al problema della formalizzazione. Bernardini,affermando che il problema esiste realmente tanto per la matematica quanto per la fisica,spiegando inoltre che la fisica più della matematica ha un apparato di notazioni semplice per gli scienziati,ma difficile effettivamente per i contenuti,ha risposto che il problema non ha purtroppo soluzione. Infine l’interlocutore ha affrontato il discorso sul nucleare,esprimendo la sua posizione e riferendo all’uditorio anche un divertente episodio,in cui sottolineava la diffidenza e la paura della gente nei confronti della costruzione di centrali nucleari. Infatti Bernardini ha affermato che sarebbe necessario “sfatare” il mito del nucleare = pericolo = morte. Secondo il suo pensiero il nucleare non è la causa delle numerose malattie mentali di cui l’Italia soffre. Infatti ha riportato l’esempio di un piccolo paese delle marche:Potenza Picena,in cui tutti gli abitanti credevano che i malati mentali così tanto numerosi fossero tali a causa della presenza di un radar di un megawatt. Il professore,convinto che il caso derivasse da un’altra motivazione,telefonò al sindaco del paese e chiese informazioni a tal proposito. Il sindaco rispose che Potenza Picena aveva il più grande ospedale di malati mentali di tutta Italia e che per accedere all’ospedale era necessario possedere la cittadinanza di Potenza Picena.Era stato così svelato il mistero dell’eccesso di malati mentali. Con questo breve racconto e con altri esempi concreti Bernardini soddisfando tutti gli interrogativi ha saputo far sorridere e spesso far divertire i ragazzi,insegnando anche qualche piccolo “trucco del mestiere”. Aurora Volpini 111 Relazione sulla conferenza tenuta dal dott.ssa Antonella Rampino Per il ciclo di conferenze relative al tema “Umanesimo e scienza“ dopo aver ospitato i professori Tullio De Mauro e Carlo Bernardini, il nostro liceo ha accolto il 19-03-09 la dottoressa Antonella Rampino, attualmente giornalista del quotidiano “La Stampa”, per parlarci più approfonditamente riguardo il linguaggio giornalistico e il tipo di comunicazione che svolgono i quotidiani. La dottoressa Rampino ha intervistato personaggi di importanza internazionale come Yasser Arafat, Tareq Aziz, Federico Fellini e, donna ricca di interessi, attiva in partecipazioni radiofoniche oltre che giornalistiche (ha scritto per “La Repubblica” e “Il Corriere della Sera”), direttrice nel 2001 di una rivista di politica internazionale, “Aspenia”, è una convinta assertrice del fatto che l’informazione sia un mezzo di comunicazione fondamentale. Le riflessioni nella prima parte della conferenza hanno riguardato principalmente l’uso del linguaggio come strumento nella formazione dell’opinione pubblica, i problemi metodologici di scelta delle fonti per il linguaggio giornalistico e la risposta ad alcuni quesiti comuni riguardo il metodo giornalistico, come ad esempio il punto di partenza nel raccontare un avvenimento di cronaca, o l’affidabilità delle notizie date in un quotidiano. Alla luce di queste premesse la dottoressa Rampino è entrata subito nel vivo della lezione partendo da un punto di fondamentale importanza per il giornalismo, ovvero il così detto tema del “rigore” nel dare una notizia, quella regola dell’ “account ability”, intraducibile in italiano, ma che può essere identificata con il dovere da parte del giornalista di “dare conto” al lettore di ciò che sta dicendo. Proprio per il fatto che il giornalista si deve attenere a questa regola fondamentale del “dar conto” è più affidabile la notizia trovata su un quotidiano rispetto ad una notizia appresa attraverso internet. La dottoressa, infatti, spiega come internet, nell’era dell’information technology, nonostante la sua enorme importanza e la sua immensa portata mediatica, che permette a molte più persone di giungere contemporaneamente a conoscenza di un determinato fatto, sia però più pericoloso a livello di affidabilità. Descrive la rete come un immenso mare, un flusso indefinito e senza tempo di informazioni, ma pieno di insidie e, proprio per questo, afferma essere vitale il controllo costante delle fonti da cui il sito stesso ha ricevuto la notizia in questione. Al contrario il giornale, non è un flusso informativo, bensì si trova all’interno di esso, è una parte di esso, e si deve occupare di ricercare il “senso” dell’informazione stessa, non deve semplicemente fornirla. Un giornale, afferma la dottoressa, “mette in pubblicazione una giornata della vita del mondo”, scompone i fatti, li analizza, dà apertamente un’opinione e proprio mediante quest’ultima il lettore è in grado di formarsene una propria, scontrandosi o approvando ciò che legge. Inteso in tal senso il giornale può essere considerato come uno strumento di vera e propria consapevolezza e sapere, ma essendo uno strumento umano bisogna rendersi bene conto dell’uso che se ne fa. Proseguendo nella definizione della funzione del giornale la dottoressa precisa che esso decodifica “la realtà, dai piccoli annunci alle grandi notizie”; anche se ultimamente i quotidiani hanno iniziato a prendere l’abitudine di preferire le così dette notizie morbide alle “hard news”, cioè le notizie importanti che cambiano il corso della storia degli eventi, poiché attraverso queste ultime ogni giornale acquista una sua 112 identità, una sua anima, che può essere più o meno nitida, percepibile e che alle volte un giornale potrebbe voler celare. Ma allora, detto questo, ci si interroga su quale sia il ruolo del giornalista. Per un tale quesito la Rampino fa riferimento ad una definizione data da Honorè De Balzac che descrive il giornalista come “pensiero che cammina”, in quanto questa frase specifica bene l’atto di attraversamento che compie il giornalista che non analizza sterilmente la realtà, ma lo fa filtrandola attraverso il suo pensiero e quindi la esprime attraverso il linguaggio che usa. Dunque il linguaggio si fa pensiero e da qui deriva la sua immensa importanza. Come esempio dell’uso più o meno forte del linguaggio è stata presa la notizia con cui il 19 Marzo stesso tutti i quotidiani hanno titolato in prima pagina. Confrontando l’apertura de “Il Corriere della Sera” con quelle de “La Stampa” e “La Repubblica” si vengono a trovare due titolazioni differenti. Il primo quotidiano scrive così: “AIDS: dure critiche verso il Papa”, gli altri due invece optano per “AIDS: l’Europa contro il Papa”. Si può immediatamente notare, sottolinea la dottoressa, come “l’Europa contro il Papa” sia immensamente più forte e incisivo rispetto a “dure critiche verso il Papa”, ma continua precisando che in nessuno dei due vi è omissione, è solo il linguaggio che cambiando fa quasi cambiare il senso che si coglie della notizia. È bene dunque essere accorti nella lettura delle notizie e confrontarsi con la difficoltà dei linguaggi, ma diffidare dei linguaggi ostici, poco chiari, in quanto solitamente il bravo giornalista è colui che riesce a rivolgersi al lettore con chiarezza espositiva anche se il tema trattato è di difficile argomentazione. In relazione al linguaggio è anche da sottolineare la coniazione di nuove parole da parte dei giornali, che, per dare maggiore espressività a determinati eventi, ricorrono a neologismi che racchiudono in modo ancora più incisivo quello che vogliono esprimere. Esempi calzanti possono essere le parole come “lottizzazione” (usata per la divisione dei partiti politici fatta all’interno della Rai), “ribaltone” (inerente ad un improvviso ribaltamento di governo) e infine “Tangentopoli” (coniata per assonanza alla città di Walt Disney “Paperopoli” e perciò di maggior immediatezza). Per concludere questa prima parte della conferenza la dottoressa Rampino ha voluto precisare solo un ultimo punto, ovvero che, essendo la libera informazione, che forma il cittadino consapevole, essa ha una funzione democratica; la democrazia, infatti, è l’insieme dei cittadini consapevoli che danno espressione all’opinione pubblica: maggiore è la qualità delle istituzioni, e perciò della democrazia di un paese, maggiore sarà la qualità dell’informazione pubblica stessa. A questo punto la dottoressa ha lasciato ampio spazio ad un ricco dibattito in cui ha risposto ad ogni curiosità, provocazione e quant’altro le sia stato richiesto. Molto del dibattito si è incentrato su quale sia il rapporto che deve intercorrere tra il “potere” e la stampa e quanto può questo rapporto influenzare la veridicità delle notizie riportate, se ci sia un limite quindi tra l’ esposizione di un’ opinione e la manipolazione del fatto stesso. A questo proposito è stato specificato innanzitutto il fatto che l’obiettività non esiste da parte del giornalista, perché ,anche involontariamente, nel raccontare una qualsiasi notizia implicitamente si trova ad esprimere un proprio giudizio e perciò, anzi, bisogna diffidare di chi afferma di essere imparziale. A questo presupposto è stato aggiunta la considerazione che è molto difficile trovare i cosiddetti “editori puri”, ovvero imprenditori occupati solo nel campo editoriale ed è perciò altrettanto difficile che la linea di un giornale sia priva di faziosità. La dottoressa a questo proposito ha citato il proprietario e direttore del “New York Times” come uno dei pochi “editori puri”, i quali in Italia sono del tutto assenti. Alla luce di questa considerazione appare 113 chiaro che se l’editore di un giornale è, ad esempio, anche il presidente di Confindustria, come nel caso del “Sole 24 ore”, giornale economico tra i migliori a livello europeo, è implicito che generalmente la linea editoriale non andrà contro l’operato di Confindustria stessa; e questo è solo uno degli esempi citati. Un altro argomento di grande interesse all’interno del dibattito ha riguardato la sfera del linguaggio giornalistico e del ruolo giocato da internet nell’informazione. Per quanto riguarda il linguaggio, l’inglesizzazione sempre più frequente nei quotidiani è stato il centro della discussione. Se, infatti, da un punto di vista puramente linguistico è sempre preferibile l’uso dei termini italiani al posto dei corrispettivi inglesi, data anche l’ampiezza del lessico della nostra lingua, da un punto di vista puramente giornalistico, di impatto, di espressività, è pur vero che determinati termini inglesi meglio si confanno all’articolo di un quotidiano. Ed in questo è stato anche importante il ruolo giocato dalla rete, che ha uniformato il linguaggio a tal punto da far diventare di uso comune, nella lingua italiana, termini di matrice inglese. E, sempre la rete, con la sua vasta portata, ha messo a serio rischio la vita del quotidiano, tanto che i risultati di una stima americana parlano di una scomparsa entro 10 anni dei quotidiani che saranno sostituiti completamente dalle loro rispettive versioni di internet. Su questo punto la dottoressa si è detta certa del fatto che un tale avvenimento non potrà accadere, ribadendo il concetto che solo il quotidiano, la carta stampata crea il cittadino consapevole, il quale non si accontenta di una semplice news trovata su un sito, che per problemi di spazi sarebbe ovviamente più sintetica e sbrigativa nell’analisi di ogni avvenimento. Alla conclusione di questo momento di condivisione di dubbi, curiosità sorte dopo la prima parte della conferenza, la professoressa Fierro, in seguito ad un lungo applauso di noi studenti, si è occupata di congedare la dottoressa Rampino che con grande cordialità ha tenuto un’interessante lezione sulla comunicazione giornalistica. Laura Arista 114 Relazione sulla conferenza tenuta dal dott.ssa Antonella Rampino Il giorno 19 Marzo il Liceo Classico Orazio ha avuto l’onore di ospitare la dott.ssa Antonella Rampino, giornalista de “La Stampa”. Il nostro liceo sta affrontando un tema tanto complesso quanto interessante. Nelle precedenti conferenze il Prof. De Mauro e il Prof. Bernardini hanno preso in considerazione alcuni aspetti della lingua, nel confronto tra umanesimo e Scienza. Oggi una giornalista tratta questo tema con riferimento alla formazione della pubblica opinione. Tutte le mattine la maggior parte di noi va in edicola e compra il giornale. Dietro a quelle pagine che sanno di nuovo, c’è un lavoro che molti di noi non possono immaginare. Se cominciamo a sfogliare il giornale, possiamo leggere gli articoli di cronaca. Ma cos’è la cronaca? La cronaca sicuramente non è storia ma la storia è l’insieme delle cronache. E il compito del giornale è di raccontare, come dice Enzensberger l’universo, di dare la realtà al lettore, che con spirito critico dovrà leggere le notizie e sviluppare una propria opinione. Ma il giornale parla solo di cronaca? Assolutamente no. Wittgenstein dice che di ciò di cui non si può parlare si deve tacere, quello che non si può dire va scritto. Infatti, come ci ha spiegato la Dott.ssa Rampino, il compito del giornalista è di non tacere niente, Honoré de Balzac afferma che il giornalismo è pensiero che cammina. Il giornalista deve informare e controllare la veridicità delle fonti. Compito sicuramente importante dato che l’informazione è un diritto dei cittadini. Basti pensare alla Russia di Putin dove non c’è libertà di stampa e quindi manca la Democrazia. Ma da chi è formata la democrazia? Dai cittadini consapevoli, tali sono quelli che leggono il giornale, cosi sostiene la giornalista. Siamo nell’era dell’information tecnology e informarsi attraverso internet o leggere il giornale su internet è sempre più di moda. Ma il giornale a differenza di internet mette in evidenza il senso dell’evento, mette in prima pagina una giornata importante della vita del mondo. Quale linguaggio deve usare il giornalista? Benedetto Croce dice che il linguaggio non è mai veramente complesso se chi scrive ha piena consapevolezza di ciò che scrive. Esattamente come il professore che per spiegare un argomento a un suo alunno deve essere chiaro ed incisivo. Ed è proprio per questa chiarezza ed incisività che nel giornale nascono anche dei neologismi. Basti pensare alla parola “Onda” che oggi sta ad indicare il movimento studentesco o la parola “Tangentopoli”; ma si potrebbe continuare all’infinito. Dopo la relazione molto interessante della giornalista è stato il momento di noi ragazzi, che, curiosi come al solito, abbiamo iniziato a prendere timidamente il microfono. Con lo spirito critico e a volte anche polemico che ci contraddistingue abbiamo puntato subito alla politica. Qual è il rapporto tra la stampa e il potere? Chiede Luca. Non pensa che la qualità dell’informazione provenga dall’alto? Chiede Giulia. Come i giornali influenzano l’opinione pubblica? Chiede Sofia. Un altro ragazzo chiede: ” A cosa è dovuta la disillusione dei giovani nei confronti della politica’?” La Dott.ssa Rampino ha risposto con piacere e disponibilità a molte delle nostre domande. Ci ha detto che l’articolo di cronaca non è un articolo di fondo e che l’obiettività non esiste e non sarà mai possibile non far emergere la propria opinione. 115 La cosa che mi ha veramente colpito è stato il momento in cui Antonella Rampino ha detto che l’anomalia italiana è inaccettabile. Sicuramente vedere il proprietario del giornale aiuta a capire varie sfumature. Prendiamo il Sole 24 Ore, è il quotidiano della Confindustria, potremmo definirlo un quotidiano di “Partito” eppure nella politica estera è uno dei migliori giornali italiani. In Italia sicuramente manca il giornalismo popolare (badate bene non sono i rotocalchi che si trovano dal parrucchiere). La Dott.ssa Rampino ci ha poi detto che la disillusione nei confronti della politica non è dovuta al linguaggio; nella politica italiana non c’è difficoltà ad esprimere i contenuti, il problema di fondo è che questi contenuti mancano ai nostri politici. Basti pensare alla politica di Obama; “yes we can”, questo slogan ha avuto un senso perché in esso si riconosceva ogni americano consapevole di essere parte di un compito comune. Non “io", ma “noi” ce la faremo! È stata una conferenza veramente interessante. La Dott.ssa, con la sua chiarezza e disponibilità ci ha chiarito le idee su un mondo del quale molti dopo il liceo vogliono entrare a far parte in modo attivo e ci ha ridato un po’ di quella speranza che manca a noi giovani al giorno d’oggi. Valentina Bombardieri 116 Relazione sulla conferenza tenuta dal dott.ssa Antonella Rampino Nell’ambito del progetto culturale del liceo classico Orazio, curato anche quest’anno dalla professoressa Fierro, si è affrontato il complesso tema del rapporto tra umanesimo e scienza. Proprio il titolo “Umanesimo e scienza” è stato il filo conduttore dei quattro incontri che si sono svolti presso il nostro Istituto. Per la terza conferenza, tenutasi il giorno 19 marzo, il liceo ha avuto l’onore di ospitare una nota giornalista: Antonella Rampino. Accreditata giornalista, la dottoressa Rampino, inviata del quotidiano“La Stampa”,si è dedicata spesso a lunghi e impegnativi reportage in tutto il mondo, incontrando protagonisti della scena internazionale, da Balthus ad Arafat, da Fellini a Tarek Aziz. Donna di vastissima cultura ha dato il proprio contributo sia nelle nuove espressività teatrali, sia in radio dove ha condotto alcune trasmissioni. Nonostante il forte impegno per il suo giornale si è dedicata a scrivere articoli anche per altre importanti testate giornalistiche. La relazione della dottoressa Rampino è stata incentrata sull’uso del linguaggio nella formazione della pubblica opinione. Essendoci precedentemente interrogati sul rigore e la complessità delle forme linguistiche attraverso le relazioni dei professori De Mauro e Bernardini, in questa conferenza è stato posto il problema se il linguaggio giornalistico costituisca uno strumento rigoroso e scientifico oppure no. Si potrebbe affermare però che l’ oggettività e l’obbiettività, l’interpretazione dei fatti e la selezione dei documenti non sia propria del giornalista ma dello storico. Prendendo la parola la dottoressa Rampino ci introduce subito in una delle importanti questioni riguardanti il giornalismo, quella del rigore. Il rigore, elemento tanto importante nelle società anglosassoni, è alla base di queste democrazie e viene definito “account ability”, espressione che, non si riferisce solo a persone che lavorano in un determinato settore, ma a tutti i cittadini di una comunità di qualunque estrazione sociale. Il rigore quindi deve anche essere alla base del lavoro del giornalista, il quale può essere sempre chiamato a rispondere delle informazioni che riporta in un giornale. La contrapposizione tra l’Umanesimo e la scienza, viene tuttavia mitigata dall’inesattezza che vi è in entrambe; infatti anche la scienza, che è ritenuta esatta e rigorosa, è soggetta ai limiti della mente umana. Il linguaggio giornalistico è in ogni caso molto più vicino all’umanesimo piuttosto che alla scienza. In relazione alla questione sollevata dalla professoressa Fierro, ossia se il lavoro del giornalista nello scrivere un articolo coincida con quello dello storico, la dottoressa, benché riconosca le differenze tra un pezzo di cronaca e uno scritto storiografico, ritiene che la storia sia composta da un insieme di cronache e fondata sull’interpretazione della sequenza degli avvenimenti. Per comprendere la realtà che ci circonda è necessario essere costantemente informati su ciò che accade, anche utilizzando fonti e interpretazioni differenti. Uno dei più comuni mezzi di informazione che concorre alla formazione della pubblica opinione è il giornale. Articoli, foto e piccoli annunci, tradotti in un codice che è il linguaggio, compongono un giornale e costituiscono un universo compiuto e finito. Ogni singolo giornale ha una propria identità che si può esprimere in modo più o meno evidente; 117 l’anima di un giornale emerge dalle stesse scelte che si fanno in redazione, nel selezionare i fatti da riportare, nel decidere quanto spazio dedicare ad un articolo e anche la scelta del titolo di un articolo rivela profondamente quelle che sono le ideologie e i principi di un giornale. Ma nello specifico di cosa parla un giornale? Il giornale riferisce, dopo un’ attenta analisi e riflessione, gli avvenimenti che influiscono nella quotidianità. Quando però un giornale, che come si è detto è un universo raccontato, omette un fatto è come se volesse cancellarlo dalla realtà, e nascondere un avvenimento alla società significar far finta che non si avvenuto nulla. “Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere” è evidente come per Wittgenstein con questa affermazione non voglia riferirsi all’omertà, ma sottolineare la necessità di zone d’ombra in ognuno di noi, nel nostro inconscio e nella nostra psiche. Interpretazioni recenti, tuttavia, intendono questa frase come un riferimento al mondo del giornale affermando che ciò che non si può dire può essere scritto. Su questo principio si fonda il lavoro del giornalista, ossia non tacere nulla di ciò che vede, apprende e verifica. Siamo dunque arrivati a dover definire cosa sia un giornalista: la dottoressa Rampino ci propone come definizione, quella di Honorè de Balzac, secondo il quale il giornalismo è pensiero che cammina. Il giornalista dunque attraversa e riflette sulla realtà. Il lavoro del giornalista è tuttavia un mestiere pericoloso, non solo per gli inviati speciali che spesso devono lasciare la loro casa per essere testimoni di ciò che accade nel mondo, ma anche per coloro che devono scrivere nel loro paese. Un giornalista, infatti, descrivendo la realtà e riportando quelle che sono le proprie idee e i propri pensieri, può essere anche esposto a pericoli e intimidazioni. La dottoressa Rampino sottolinea come l’informazione costituisca uno dei diritti fondamentali del cittadino, che per essere ben informato deve poter avere la possibilità di leggere pareri diversi e interpretazioni differenti e confrontarsi con essi. Uno dei mezzi di comunicazione più vasti, e sicuramente uno dei più utilizzati dai giovani è internet. Internet garantisce un flusso di informazioni continue e sempre aggiornate, tuttavia è anche bene sapersi guardare da questo flusso di informazioni senza tempo. Bisogna, infatti, prima di prestar fede ad una notizia controllarne le fonti e la validità. Questo è uno dei compiti del giornalista che deve controllare le proprie fonti e cercare di comprendere e collegare gli avvenimenti di una giornata cercando di tracciarne il senso. Tutto questo flusso di informazioni passa attraverso il linguaggio. Un linguaggio particolare, quello del giornale, sta che spesso si ritrova anche ad inventare nuove parole,e che fa sue espressioni inesistenti nel linguaggio formale. Questo avviene perché il giornalista ha la necessità di comunicare in poche righe un evento anche molto complesso, e quindi spesso utilizza parole nuove di immediata comprensione per il lettore; basti pensare al termine “ribaltone” riferito al cambiamento del governo, o anche alle “convergenze parallele” di Aldo Moro. Il giornale quindi è un elemento ineliminabile di una democrazia, non solo perché incarna il diritto di espressione e di opinione, ma anche perché forma il cittadino consapevole; ed è proprio l’insieme dei cittadini consapevoli che costituisce uno stato democratico. La dottoressa, dopo aver toccato in maniera breve quanto incisiva gli argomenti relativi all’uso del linguaggio nella formazione della pubblica opinione, decide di lasciare spazio 118 al dibattito in modo tale da permettere sia a noi ragazzi sia ai nostri insegnanti di intervenire nella conferenza, per approfondire alcune e chiarirne altre. La professoressa Fierro è la prima a fare una domanda riguardo la creazione di neologismi all’interno della redazione di un giornale. La professoressa si chiede infatti se questi termini vengano inventati dai giornalisti, oppure, se sia il giornale stesso che, utilizzando termini nuovi già in uso nella società, finisca per attribuire a queste nuove parole un certo statuto linguistico. Il giornale quindi propone nuove parole che entrano a far parte del nostro vocabolario, ma questo è sempre positivo o si rischia anche di intaccare la “purezza della lingua italiana”. La dottoressa Rampino, rispondendo subito alla domanda della professoressa Fierro, spiega come la nascita di questi nuovi termini possa avvenire in modi diversi. Può accadere che un giornalista, spinto dalla necessità di tener conto del numero delle battute, sia portato ad inventare una nuova parola, oppure può anche accadere che il giornalista riprenda termini già inventati da personaggi importanti del nostro scenario politico. Basti pensare al termine “tesoretto”, coniato da Padoa-Schioppa. Questa necessità di sintetizzare un concetto difficile e complesso può sicuramente portare alla nascita di parole brutte in relazione alla purezza della lingua italiana, ma è un rischio che il giornalista deve correre necessariamente. Le prime quattro domande proposte da noi ragazzi concentrano invece l’attenzione sul rapporto informazione-potere. Tutti e quattro i ragazzi, anche se in maniera diversa, hanno fatto una critica nei confronti dell’anomala situazione italiana, dove una sola persona, il nostro presidente del consiglio, controlla gran parte dell’informazione per cui sembra che anche nella scelta delle notizie da riportare sia sempre presente la pressione politica. La dottoressa Rampino, risponde che nonostante anche lei ritenga inaccettabile il controllo eccessivo da parte del presidente del consiglio dell’ informazione, non si può negare che questa situazione sia stata accettata passivamente dagli italiani, che oramai la concepiscono come una situazione normale, e come essa sia stata anche legittimata,in passato, da quella che oggi è l’opposizione. I giornali, come si è detto prima, seguono una propria linea di pensiero, e quindi quando si legge un giornale è necessario sapere a chi appartiene per capirne le sfumature e per capire qual è la legittima rappresentanza di interessi che quel giornale fa. La dottoressa porta l’esempio del giornale il “Sole 24 Ore”, un giornale forse poco considerato in Italia ma che in realtà costituisce uno dei più importanti giornali nazionali. È ovvio, afferma la Rampino, che questo giornale, essendo il giornale di Confindustria, scriverà raramente articoli in contrasto con la linea di pensiero di questa, ma comunque rimane sempre un ottimo giornale, sicuramente uno dei migliori in politica estera, in quanto si interessa sempre attivamente, soprattutto per gli interessi dei vari imprenditori, degli eventi che riguardano la scena internazionale. Non è sempre vero quindi che un giornale che non abbia un editore “puro”, ossia che sia diretto da imprenditori che nella vita producono solo informazione, sia necessariamente peggiore o falsario. Si pone poi in un secondo giro di domande, una maggiore attenzione al valore proprio del linguaggio e del giornale in rapporto con la società. Ci si chiede, infatti, come da una parte abbiano influito il giornale e tutti gli altri mezzi di comunicazione sulla società in questo periodo di crisi, e perché molti programmi o giornali concentrino la propria attenzione su fatti,spesso di cronaca nera, ponendo l’accento su fatti della vita privata che forse non dovrebbero essere né riportati né essere considerati così importanti dalle persone. 119 Riguardo l’influenza che hanno avuto i giornali sulla società, in particolare in questo periodo di crisi, la dottoressa Rampino afferma con estrema decisione che lei non crede che siano i giornali ad influire sull’umore degli italiani, quanto la crisi stessa. In realtà i giornali non hanno raccontato fino in fondo il punto di rottura nel modello capitalistico e non l’hanno raccontato sia perché non conosciamo ancora l’entità del crack finanziario, sia perché questo punto di rottura porterà necessariamente ad un nuovo tipo di modello economico per ora individuabile. Per quanto riguarda la seconda questione, la dottoressa riconosce come questo sia un dei grandi problemi dell’informazione, che forse spesso si concentra sul alcuni avvenimenti, anche in maniera morbosa, per distogliere l’attenzione dello spettatore o del lettore da questioni più gravi e importanti, ma come forse questa esagerata attenzione verso i fatti di cronaca nera sia dovuta anche alla necessità di cogliere il gusto del pubblico indirizzato, purtroppo, molte volte solo verso questi aspetti della vita di una società. Sempre in relazione all’uso del linguaggio viene sollevata la questione se il linguaggio abbia avuto un ruolo nel generare la disillusione nei confronti della politica italiana. La dottoressa Rampino risponde che forse la disillusione degli italiani verso la politica non è dovuta ad un problema di linguaggio, ma forse dall’assenza di contenuti. Il linguaggio in politica è fondamentale per trasmettere le proprie idee, basti pensare al ruolo che ha avuto lo slogan di Obama “We can” nella corsa alla Casa Bianca, ma la dottoressa ricorda come il linguaggio, da solo, non è sufficiente, esso deve esprimere validi contenuti. Con queste parole si conclude il lungo dibattito dedicato al linguaggio giornalistico e alla funzione di questo nella formazione del cittadino consapevole. Riteniamo che questa conferenza abbia dato a ciascuno di noi lo spunto necessario per riflettere sul valore dell’informazione nella nostra società, affinché sia possibile salvaguardare la nostra libertà e i nostri diritti. Infatti solamente il lettore che possiede una solida base culturale, arricchita da una costante lettura dei giornali e delle opere letterarie, avrà i mezzi necessari al confronto e al rafforzamento delle proprie idee. Giulia Giannini e Francesca Vernile 120 Relazione sulla conferenza tenuta dal dott.ssa Antonella Rampino Il giorno 19 marzo 2009 l’inviata e giornalista de “La stampa” Antonella Rampino ha preso parte nel nostro Liceo ad una conferenza circa il ruolo dell’informazione nella formazione della pubblica opinione, facente parte di un ciclo di incontri dedicati al rapporto tra Umanesimo e Scienza. La conferenza è partita da una domanda estremamente semplice, ma che ha subito colto il punto del dibattito occorso: tra il fatto accaduto, il dato oggettivo, e l’interpretazione data di esso da parte del giornalista, comunque soggettiva, sussiste una distanza. Come si può giudicare se le informazioni ci vengono trasmesse in modo corretto e che non vengano invece manipolate, modificate, e magari anche strumentalizzate? In primo luogo la dottoressa ha sottolineato l’umanità del mestiere del giornalista: il giornalista è un uomo come altri, e come tale è fallibile, può sbagliare. Al giornalista non si può richiedere l’infallibilità; bisogna però pretendere da lui, come da qualunque altro lavoratore serio, un certo rigore, e quella che nei Paesi Anglosassoni viene definita l’ “Account Ability”, il dover rendere conto del proprio operato agli altri. Il giornalismo, in particolare, è un mestiere che costringe ad un continuo confronto con l’altro, con il fruitore; è un mestiere che non può e non deve essere autoreferenziale, perché trova nella comunicazione il suo punto nevralgico, il suo nodo focale. Questa comunicazione deve essere diretta, immediata, e quanto più chiara possibile: citando Benedetto Croce, “un linguaggio non è mai difficile se chi scrive ha compreso veramente”. Di qui l’invito della dottoressa a diffidare di linguaggi eccessivamente arzigogolati, che denotano scarsa comprensione dell’argomento trattato. Ritornando al discorso iniziale, oggettività del dato-soggettività dell’interpretazione, è stata calzante in questo senso la definizione che la Rampino ha dato circa il ruolo del giornalista: citando Honorè de Balzac, e il suo giornalismo come “pensiero che cammina”, ha detto che il giornalista è colui che in primo luogo riflette sulla realtà, e che poi la trasmette attraverso un filtro soggettivo. La notizia viene poi ulteriormente filtrata, al di là delle istanze del singolo, anche dalla linea del giornale. A questo proposito la dottoressa ha portato giornali differenti, per farci notare, nell’ambito della divulgazione della medesima notizia, la differenza sostanziale a livello comunicativo. Il giornale riporta una giornata di vita del mondo, uno spaccato di quello che ci succede attorno; non si limita a divulgare, ma riflette, smonta il fatto, cerca il senso. Bisogna imparare ad accostarsi alle notizie in maniera critica, magari leggendo più giornali diversi, per formarsi un proprio pensiero e una propria opinione, senza mai prendere nulla per vero in maniera acritica, ricordandoci, come ci insegna Nietzsche, che non esistono fatti, ma solo interpretazioni di essi. Se non siamo d’accordo con l’interpretazione che un giornalista dà di un evento, possiamo non leggerlo, non comprare più quel dato giornale; ricordandoci sempre però 121 che la libertà di stampa è un grande indicatore di democrazia, e così il pluralismo dell’informazione. E’ il giornale scritto, letto, analizzato e interpretato, che fonda il cittadino consapevole di sé e della società circostante. L’insieme dei cittadini consapevoli rappresenta la democrazia, che altrimenti sarebbe un concetto vuoto e astratto. Anche il giornale senza la società circostante sarebbe carta straccia: esso è indissolubilmente legato alla società e ad essa si deve rivolgere. La conferenza come vera e propria lectio è durata mezzora; la dottoressa ha preferito lasciare uno spazio maggiore al dibattito e alle nostre domande e curiosità, che si sono fatte apprezzare per numero e partecipazione come poche altre volte prima. Il dibattito è stato vasto e ha toccato tanti argomenti, la maggior parte dei quali di attualità. La Rampino ha ribadito l’impossibilità quasi ontologica, per il giornalista, di essere realmente obiettivo. Non esiste l’obiettività; piuttosto l’equanimità. Il grado di influenza dell’informazione sulla formazione del pensiero viene determinato dalla criticità del lettore. Una domanda ha toccato il concetto del giornalismo come cassa di amplificazione delle notizie. Può il giornalismo gonfiare delle notizie ad hoc e alimentare dunque una sorta di isteria collettiva, come è avvenuto nel caso dell’ultima grande crisi finanziaria ed economica di cui siamo tutti testimoni? Può essere stata la sopracitata crisi gonfiata dai giornali? La dottoressa ha espresso a tale riguardo parere negativo; la risonanza mediatica in questo caso è stata causata dalla rilevanza abnorme dell’evento occorso, un vero crack del modello capitalistico, anche per portare i lettori a riflettere circa la necessità di una regolamentazione nuova che ponga limiti più saldi alla più assoluta libertà di azione individuale. In questo, come in altre occasioni, la Rampino ha notato una mancanza di coesione a livello europeo. Un altro ragazzo ha domandato se esista o meno un rapporto tra il linguaggio adoperato dai giornali e la disillusione politica che si respira nel nostro Paese. La Rampino ha risposto rammaricata che il problema non è il linguaggio, ma la politica e il suo messaggio. Obama, con il semplice “Yes, we can”, è riuscito a conquistare il mondo sottolineando in tre parole due elementi fondamentali: la portata innovatrice del suo disegno politico e la dimensione corale dello stesso. Non è stato un semplice slogan, quanto una dichiarazione di politica e un appello al popolo americano, che è stato coinvolto in un progetto di cui si sente protagonista. Quel “noi” esprime l’aggregazione, la possibilità di conseguire un obiettivo comune. Come direbbero i latini, res, non verba: sono i fatti a contare, non le parole. Silvia Staffa 122 Relazione sulla conferenza tenuta dal dott. Corrado Augias Dopo gli importanti interventi del linguista Prof. De Mauro, del fisico Prof. Bernardini, e della giornalista Rampino, il ciclo di conferenze sul tema di approfondimento culturale di quest’anno, dal titolo “Umanesimo e Scienza”, si è concluso con una dissertazione, seguita da dibattito, tenuta da Corrado Augias su “Il linguaggio della scienza e quello della poesia”. In molte occasioni, in passato, scienza e poesia si sono incontrate, in un connubio che ha partorito opere di fondamentale importanza nella storia della letteratura e della filosofia. E’ difficile, in questi casi, distinguere il poeta dallo scienziato, perché è proprio attraverso il rigore del linguaggio scientifico che la poesia prende forma, evocando suoni ed immagini che perdono del tutto la loro fredda logicità ed acquistano la delicatezza e l’eleganza proprie del linguaggio metaforico. Un testo scientifico può dunque suscitare emozioni, così come fa una poesia? Il poema filosofico-scientifico di Lucrezio lo ha fatto. Ha analizzato matematicamente la struttura dell’universo, ma allo stesso tempo ha esplorato gli angoli più remoti dell’anima umana, con il rigore della scienza e la sensibilità della poesia. E così come il “De Rerum Natura”, la “Divina Commedia” dantesca ha affascinato per secoli e secoli studiosi di tutte le discipline, per la sua sapiente commistione di poesia, scienza e teologia. Per non parlare poi di Leonardo, che ha riassunto in sé i caratteri dell’umanista e dello scienziato, o di Goethe, autore della “Teoria dei Colori”, saggio sullo spettro ottico, e contemporaneamente del “Faust”, opera teatrale, e per finire del nostro stesso Leopardi, che oltre ad essere stato uno dei più grandi poeti della letteratura romantica italiana ed europea, ha anche affrontato, in gioventù, problemi di astronomia, di idrodinamica, di fisica teorica e sperimentale nelle sue “Dissertazioni filosofiche”. Non è dunque impossibile incontrare figure di poeti-scienziati. Eppure nel corso della storia si è andata definendo quella frattura, tra scienze naturali e scienze umane, che spinge noi, oggi, ad affrontare un’indagine che possa portarci a capire che cosa ci sia di irrimediabilmente lontano tra il linguaggio poetico e quello scientifico. Gian Battista Vico, a proposto della poesia, disse che la sensazione e l’emozione estetica che si prova di fronte ad un’opera d’arte si può esprimere solo attraverso la metafora: il messaggio poetico, quella vibrazione nell’anima che avvertiamo, non è restituibile con il linguaggio della logica, ma solo con quello figurato. Dalle semplici parole di un verso alla sua piena comprensione, si apre un abisso che solo noi lettori possiamo colmare, con un qualcosa si sconosciuto e misterioso che proviene dalla nostra anima. Poeta è chi scrive, dunque, ma anche chi legge, perché un testo poetico richiede un intervento emotivo che rende ciascuno di noi interprete singolo e diverso da tutti gli altri interpreti. Questo spiega il motivo per cui non sempre si rivela necessario l’aiuto di un testo critico per la comprensione di una poesia. Da studenti, siamo portati a credere che sia impensabile avvicinarci ad una lirica qualsiasi senza un’interpretazione alla mano, eppure la risposta di Augias è stata semplice e diretta: ciò che ha provato quel critico nel leggere quella poesia non può adattarsi al nostro modo di sentire e vedere. Certamente, un aiuto di tal genere ci può servire nel momento in cui ci accostiamo alla lettura dei testi antichi, per 123 gli innumerevoli riferimenti che esso potrebbe riportare, e che noi potremmo non conoscere; ma siamo perfettamente in grado di avvertire il messaggio di un poeta nostro contemporaneo, perché condivide le inquietudini, i drammi, le malattie del nostro tempo, quello che egli scrive, farà suonare corde segrete completamente diverse da persona a persona, e anche se non saremo in grado di esprimere logicamente ciò che abbiamo sentito, potremo dire di aver sentito. Non c’è dunque da meravigliarsi, se il linguaggio poetico confini con il linguaggio dei mistici: l’immaginazione è strumento indispensabile per la lettura dei testi poetici come per la comunicazione con Dio. E’ la difficoltà di comprendere, di esprimere, di definire in maniera chiara e distinta ciò che per un attimo, un istante infinito, ha turbato la nostra anima. Ed è proprio in quell’attimo, in quell’istante, che poesia e misticismo incontrano la scienza. Sì, perché la scintilla del poeta e l’intuizione immediata e (perché no) fortunata del matematico, sono davvero molto simili: nessun matematico saprà mai spiegarsi da dove sia venuta effettivamente l’idea che ha magicamente risolto quel problema che proprio non riusciva a capire. Scienza e poesia non sono, e non saranno mai, così vicine come lo sono nel momento dell’intuizione. Non appena infatti sarà compreso il come applicare quel dato mancante, l’intuizione del matematico sarà esplicata in formule, e perderà la sua magia. Ecco quindi che, abbandonato tutto quel che di poetico si può trovare nel linguaggio scientifico, esso si presenterà con i caratteri della verificabilità, falsificabilità e ripetibilità: come dice Popper, né la psicoanalisi, né la religione, possono essere scientifiche, perché cambiano al mutare delle condizioni originarie; la scienza ha un linguaggio più rigido, e più rischioso, e i principi scientifici devono essere così precisi da poter essere dimostrati falsi, poiché se in un teorema c’è un errore, la sua precisione permetterà di individuarlo. La complessità delle formule scientifiche di oggi toglie alla poesia scientifica qualsiasi speranza di rifiorire. Quando ancora l’indagine sulla natura si limitava ad una spiegazione fantastica, spesso mitica, dei fenomeni, era facile sconfinare nel linguaggio poetico: come non inserire l’immagine dei cavalli scalcianti del carro di Zeus, se l’ira divina era l’unica forma di interpretazione plausibile di fronte al fragore di un fulmine? D’altra parte, è proprio attraverso la poesia che si sono espressi i più antichi tentativi di spiegazione della realtà, e non a caso i primi filosofi si servirono del linguaggio poetico: abbondano nell’antichità greca i “Περί Φύσεως”, poemi filosofici tra i quali senza dubbio i più importanti sono quello di Parmenide e di Empedocle. C’è infatti un po’ del poeta anche nel filosofo: il filosofo legge il mondo filtrandolo attraverso la sua testa, e nelle sue speculazioni metafisiche spesso si avvicina a quel grado di elevazione che non è molto diverso dall’intuizione matematica o dall’ispirazione poetica. D’altra parte, non fu proprio un filosofo, Spinoza, a ritenere che la trattazione poetica potesse esprimersi attraverso la verificabilità e la chiarezza del linguaggio geometrico? Tuttavia, Spinoza è, rispetto agli altri, una figura straordinaria. Gli fu possibile trovare compatibilità tra i due linguaggi, perché egli stesso era, a tutti gli effetti, un tecnico, un occhialaio, e allo stesso tempo un filosofo, in grado di guardare alla Natura da una prospettiva scientifica e poetica insieme, e di individuare in Dio l’ordine razionale necessario che è in tutte le 124 cose e che le comprende tutte, ma, contemporaneamente, quell’entità inconoscibile e immisurabile al cospetto della quale ciascuno di noi non può che provare smarrimento e tremore. E’ vero che Spinoza, come ha potuto notare una ragazza durante il dibattito, nel suo intendere l’ordine dell’universo nei termini di necessità, potrebbe non essere considerato filosofo “poetico”: l’infinità dei modelli interpretativi di un testo poetico, così come della realtà circostante, si accorderebbe in questo senso più con una filosofia come quella di Leibniz, il quale, contemplando per l’universo un ordine contingente, ha lasciato lo spazio alla libertà umana e alla sua volubilità; nel salto dalla parola al suo significato metaforico, infinite sono le possibilità di comprensione, e in questo consiste, come già detto, la libertà di chi legge e l’irrimediabile lontananza di una poesia dall’univocità di un testo scientifico. Tuttavia Augias ci ha portati a considerare che pur nell’esclusione, da parte di Spinoza, di altre forme di interpretazione della realtà, e quindi nel suo rigoroso determinismo, pochi sono stati i filosofi che sono riusciti ad esprimere la gioia di un rapporto maturo con la divinità, e la beatitudine dell’unione di mente e natura, con un linguaggio più poetico, e più ispirato di quello spinoziano. Filosofia e poesia quindi possono essere, e spesso lo sono state, vicine l’una all’altra. La difficoltà, oggi, come nel passato, non è di individuare un legame tra queste due discipline, che rientrano nell’ambito di quanto è definito “Umanesimo”, ma di rintracciare, se esiste, il collegamento con quel mondo che chiamiamo “Scienza”. Abbiamo visto che questo collegamento c’è, dal momento che all’origine di ogni trovata dell’intelletto umano, che sia di tipo poetico, filosofico, o matematico, si trova un’ispirazione. Inoltre, molti sono gli scienziati, tra cui il Prof. Bernardini che abbiamo avuto occasione di ascoltare, che insistono sul carattere evocativo di una formula matematica, che la rende certamente accostabile ad un verso poetico. Dunque, nonostante la resistenza di alcuni rappresentanti dell’una e dell’altra parte, un ponte tra questi due mondi, universalmente considerati agli antipodi, è possibile, perché, per quanto diversi, i linguaggi di cui si servono non sono poi così incompatibili. Ripresi, interrogati, e certamente provocati, siamo stati guidati da Augias attraverso riflessioni che vanno al di là del semplice studio manualistico, eppure così importanti, per comprendere a fondo lo spirito dei filosofi, e per affrontare questioni che ancora oggi si rivelano irrisolte. Marina Amadori 125 Relazione sulla conferenza tenuta dal dott. Corrado Augias Il giorno 21 aprile nel liceo classico Orazio si è concluso il ciclo di conferenze sul tema di approfondimento culturale "Umanesimo e scienza" con l'intervento di Corrado Augias, noto giornalista,scrittore e conduttore televisivo.Augias in questa conferenza dal titolo "il linguaggio della scienza e quello della poesia",ha espresso la complessità del rapporto che sussiste tra linguaggio poetico e scientifico cercando di inserire l'uditorio in quella prospettiva in cui,come afferma Benedetto Croce,"il linguaggio in quanto espressione diventa creazione e tecnica,nella sua forma compiuta poesia".Questo argomento ,oggetto ancora oggi di diffuse discussioni, riguarda un tema già tarttato nell'antichità ,a partire dal "De rerum natura" in cui Lucrezio ha espresso in un linguaggio squisitamente poetico il frutto delle sue ricerche sulla natura,rendendo addirittura difficile catalogare la sua opera tra gli scrittti di fisica o poesia. Dante,ugualmente,è' allo stesso tempo, poeta ,scienziato e teologo ,proprio come Goethe, il quale "analizza lo spettro,analizza le rifrazioni dei colori e scrive il Faust".Leopardi stesso "uno dei nostri poeti sommi dell'Ottocento"scrive una storia dell'astronomia.A questo punto Augias entrando nel vivo della questione, fa riferimento al filosofo Giovan Battista Vico.Egli ha avuto,infatti, un ruolo particolarmente importante nell'ambito degli studi sulla funzione della lingua.Infatti,afferma Augias,guardando un quadro o ascoltando un'opera musicale,l'unica maniera possibile per rendere le sensazioni ,le emozioni provate è ricorrere all'uso di metafore.La difficoltà di restituire altrimenti ciò che un'opera d'arte suscita è data dal semplice fatto che"le emozioni estetiche sono difficilmente restituibili con il linguaggio proprio della logica".Questa è la motivazione per cui così noiose e complicate,a volte anche devianti sono le argomentazioni di carattere tecnico messe in pratica dai critici d'arte i quali,dovendo scendere nei particolari e analizzare scientificamente l'opera non lasciano spazio all'impulso delle emozioni e della fantasia che quella stessa opera si propone di suscitare.Attingendo sempre all'analisi di Vico,Augias individua essenzialmente due tipi di metafora.Il primo tipo di metafora è quella più semplice e nota,quello i cui termini propri e traslati sono immediatamente comprensibili.Ne sono un esempio l'espressione "bianco come la neve "o "pesante come un macigno".Il secondo tipo di metafora si identifica con il verso di un poeta e richiede per capirne il senso,uno sforzo maggiore in quanto non esiste nessuna chiara relazione tra i termini propri e quelli traslati.Un esempio : "le ali del mattino".Non c'è alcun nesso tra le ali e il mattino.Siamo noi che dobbiamo unire i due termini attrarverso un terzo elemento che spetta a noi di recuperare attraverso un "intervento emotivo ,prelogico inesprimibile".E' interessante,notare a questo punto,quanto in realtà il linguaggio poetico confini con quello della mistica , rileva Augias,citando come esempio alcuni versi di William Blake.L'esperienza mistica nasce,proprio come quella poetica,da una ricerca dell'inafferrabile che solo l'immaginazione può cogliere.George Bernard Shaw in "Santa Giovanna"mette in luce proprio, in un dialogo tra la protagonista e l'Inquisitore,quanto l'immaginazione sia lo strumento privilegiato con cui Dio si manifesta nella mente dell'uomo.Giovanna afferma che le voci che sente nella sua anima sono si,come dice l'Inquisitore, frutto della sua immaginazione,ma Dio è,Colui che le ispira.Così il linguaggio della poesia e quello della mistica sono accumunati da questa tensione verso l'irrazionale"che sfugge ad una piena comprensione logica".D'altronde,precisa Augias,anche il linguaggio scientifico ha palesi affinità con 126 quello poetico.I grandi matematici,come i grandi poeti,traggono spunto per le loro riflessioni da una intuizione,da quell'impulso irrazionale dell'anima che non appariene all'ambito della scienza ma a quello dell'immaginazione.Quell'intuizione non è in alcun modo frutto,dunque,di un ragionamento logico,ma della capacità creativa della mente.La fase che segue l'impulso emotivo,definisce la separazione tra l' attività del poeta e dello scienziato.Mentre il poeta si serve della poesia nell'intento di esternare le emozioni vissute cercando di resituirle al lettore attraverso l'uso di un liguaggio nobiltante e altamente ricercato,lo scienziato formalizza quell'intuizione e la rende oggetto di verifica e controllo da parte della mente attraverso un'attenta analisi rigorosamente logica e scientifica.La razionalizzazione dell'intuizione fa sì che della fase intuitiva non resti traccia,ma rimanga solamente la rigorosa argomentazione scientifica che ha portato a determinate conclusioni.Mosso dalle domande degli studenti che hanno preso vivamente parte al dibattito, Augias ha spiegato che il linguaggio scientifico,per essere tale,deve innanzitutto essere "verificabile",cioè deve essere espresso in maniera così rigorosa che chiunque deve poter intendere la validità di una tesi.In secondo luogo la chiarezza del linguaggio scientifico deve permettere eventualmente di negarne la veridicità ,deve essere, cioè,falsificabie.Per finire, un'argomentazione scientifica deve essere ripetibile,cioè valida in qualsiasi luogo e circostanza.Si comprende così quanto sia differente questo tipo di processo dalle modalità di espressione della poesia ,"misteriosamente evocativa" la cui unica clausola è quella di riuscire a "far vibrare le corde segrete dell'anima".Mentre il linguaggio della logica è comunicativo,informativo,quello della poesia è assolutamente evocativo proprio in quanto,come è espresso dagli artisti romantici, esso deve suscitare i moti dell'animo.. Così,con la brillantezza che ha caratterizzato fin da subito la conferenza ,Corrado Augias ha concluso il suo discorso con un ultimo riferimento a Leibniz individuando nella sua concezione libera ,laica e progressista della società un modello da seguire per le generazioni future;così tra i ringraziamenti e gli appausi di tutti i presenti è terminata l'ultima conferenza del tema di approfondimento culturale dell'anno 2008-12009 del liceo. Rosa Calabrese 127 Relazione sulla conferenza tenuta dal dott. Corrado Augias Il 21 aprile Corrado Augias ha tenuto l’ultima conferenza sul tema di approfondimento culturale di quest’anno dal titolo: “Il linguaggio della scienza e il linguaggio della poesia”. Il Preside del nostro Liceo e l’insegnate di storia e filosofia, la professoressa Fierro, hanno introdotto la conferenza elogiando le qualità di Augias e ritraendolo come un uomo polivalente con molteplici interessi: la letteratura, la stesura di testi teatrali, il giornalismo ed anche il ruolo di inviato speciale de “La Repubblica”, “L’Espresso” e “Panorama”. Corrado Augias ha iniziato con l’enumerare casi in cui i due tipi di linguaggio, scientifico e poetico, coesistono senza problemi; ciò avviene ad esempio nel “De rerum natura” in cui Lucrezio ci offre una visione completa del mondo; anche Dante fa nello stesso tempo poesia, scienza e teologia. Lo stesso si può dire di Leonardo e di Leopardi che è un poeta e un filosofo di livello mondiale. Augias prosegue il suo discorso coinvolgendo anche noi ragazzi:” voi state guardando un quadro e io vi chiedo che impressione vi ha suscitato;voi cercate di rendermi ciò che avete provato con delle metafore quali ad esempio:”ci ricorda un tramonto!”. Questo accade perché non si può rendere ciò che vediamo con un linguaggio diretto. Le emozione estetiche, infatti, sono difficilmente restituibili con il linguaggio della logica. Augias inoltre ha spiegato due diversi tipi di metafora: -il primo nel quale tutti i termini, sia propri che traslati, sono immediatamente comprensibili:”Luca ha volato con la sua Ferrari”, in questo io trasferisco l’idea della velocità dal concetto di macchina a quello di aereo -il secondo tipo è quello poetico nel quale lo iato tra una parola e l’altra deve essere riempito con qualcosa di sconosciuto, con un intervento poetico:” Se prendo le ali del mattino e dimoro nelle zone piu’ estreme del mare”; in questo verso non c’è relazione tra le ali e il mattino,bisogna metterci qualcosa di nostro! Il primo tipo di metafora è associabile ad un’esperienza quotidiana; il secondo richiede invece un impegno maggiore. Augias prosegue sottolineando il fatto che il linguaggio della poesia confina con quello della mistica; il mistico è colui che sa veramente di vedere e di udire ciò che si vede o che si ode. Tale collegamento tra poesia e mistica è testimoniato da vari esempi, come quello di Giovanna d’Arco la quale dice all’Inquisitore che le parole con cui si difende se le è inventate lei; ma chi gliele ha messe in testa? A questo punto Corrado Augias decide di terminare la conferenza per lasciare spazio alle domande di noi alunni, affermando che il linguaggio della scienza deve essere: -verificabile, cioè espresso in termini precisi perché chiunque deve poter constatare se sia corretto; -falsificabile, cioè espresso in termini precisi perché chiunque deve potere affermare se sia falso; -ripetibile, cioè espresso in termini tali da poter essere ripetuti nelle condizioni date. 128 Al contrario il linguaggio poetico appartiene alle intuizioni e alle emozioni interne;la poesia deve far richiamare alla mente delle corde segrete. Concluso il suo discorso è iniziata la seconda parte della conferenza, quella dedicata alle domande: la prima attiene al perché il linguaggio della scienza debba essere falsificabile anche se è già verificabile. Augias ha risposto citando Popper. Secondo Popper sia la psicoanalisi, sia la religione, sia le dottrine politiche al mutare delle condizioni politiche e sociali dalle quali sono nate, mutano anche esse perché sono espresse in un linguaggio che si presta a questo tipo di cambiamento. Quindi i termini devono essere tali da poter essere smentiti. Così l’alunno ha replicato: una volta che è stato dimostrato il contrario come può essere ripetibile? Il giornalista ha risposto che sarà ripetibile il contrario, ripetendo la formule ogni volta. Il dibattito si è poi spostato e l’attenzione si è rivolta a come si possano comprendere le metafore di tipo poetico. Nel rispondere Augias ha affermato che c’è bisogno di uno storico, di un critico per l’interpretazione. Proseguendo sullo stesso argomento è stato chiesto se la trattazione poetica possa essere assimilabile a quella scientifica. Per la risposta è stato citato Spinoza; infatti la sua visione della natura è fortemente scientifica e poetica, c’è una compatibilità tra i due linguaggi; L’argomento è stato chiuso domandando se ci sia ancora usanza di riportare il linguaggio scientifico in quello poetico. La risposta è stata negativa perchè il linguaggio scientifico è diventato troppo complicato per far sconfinare il linguaggio della scienza in quello poetico. In conclusione del dibattito si è posto il quesito su quale delle soluzioni sia più adeguata al “riempimento” dei vuoti del secondo tipo di metafora tra quella prospettata da Leibniz e quella di Spinoza. Nel 1754 a Lisbona ci fu un grande terremoto e di conseguenza un maremoto, così tutti i cittadini si rifugiarono in una Cattedrale; ci fu una nuova scossa e il Crocifisso si staccò dal muro e morirono alcuni bambini. In seguito a questa tragedia scaturì una discussione filosofica e Leibniz elaborò la dottrina teodicea (da teòs = Dio e dìke = giustizia). Spinoza ci dà una visione completa del mondo e del nostro rapporto con la divinità. Alla fine abbiamo ringraziato Augias per la sua disponibilità nel parlarci di un argomento molto affascinante ed interessante. Alessia Coletta 129 Relazione sulla conferenza tenuta dal dott. Corrado Augias Il tema di approfondimento culturale per l’a.s. 2008/09 è “Umanesimo e scienza”. Esso è affrontato nella chiave di lettura del “linguaggio” attraverso quattro conferenzedibattito l’ultima delle quali è stata tenuta il 21 aprile 2009 dal dottor Corrado Augias, giornalista, scrittore, conduttore televisivo, con il titolo “Il linguaggio della scienza e quello della poesia”.Augias per introdurre il tema centrale della propria relazione prende in considerazione illustri letterati ,che possono essere considerati sia poeti che scienziati come Lucrezio che,nel De Rerum Natura, utilizza il linguaggio poetico per affrontare tematiche scientifiche e filosofiche o come Dante e Leopardi che possono essere ritenuti poeti,scienziati e teologi. Tutti uomini che incarnano l’ HUMANITAS con la quale s’intende,fin da Terenzio, una concezione etica basata sull’ideale di un’umanità positiva, fiduciosa nelle proprie capacità,sensibile e attenta ai valori interpersonali e ai sentimenti. Terenzio sostiene appunto-Homo sum: humani nihil a me alienum puto; ovvero : sono un uomo e perciò nulla di ciò che è umano mi è estraneo”.Augias poi, ha soffermato la sua attenzione sul concetto di metafora, citando Giovan Battista Vico il quale ritiene che non si possa esprimere con il linguaggio diretto e logico l’intuizione estetica Le metafore si possono classificare in due gruppi: per le metafore di primo tipo si usano termini propri e traslati che sono immediatamente comprensibili come ad esempio la metafora “bianco come la neve”. Le metafore di secondo tipo invece non possono essere interpretate immediatamente dal momento che tra i termini non c’è una relazione reale, dunque, è necessario il nostro intervento come ad esempio nella metafora ” se prendo le ali del mattino e dimoro nelle zone più estreme del mare” in cui bisogna inserire qualcosa di sconosciuto che va al di là dell’esperienza. Ma allora che cosa distingue queste due classi? La prima comprende metafore associate all’esperienza, la seconda implica un intervento emotivo, prelogico ed inesprimibile a tal punto da giungere ad una identificazione del linguaggio della poesia addirittura con quello della mistica. I grandi matematici,che potrebbero sembrare i possessori del linguaggio razionale partono da una intuizione che non saprebbero spiegare in termini scientifici ed è proprio in questa scintilla intuitiva che poesia e scienza coincidono dal momento che anche i poeti partono da una intuizione di base arazionale. A questo punto Augias vuole evidenziare quelle che sono le caratteristiche proprie di questo linguaggio scientifico: esso è verificabile in quanto si serve di termini precisi che ne fanno comprendere la correttezza, falsificabile perché espresso in modo così chiaro che non si ammettono ambiguità ,tale che può essere dichiarato falso,inoltre,deve risultare ripetibile perché i suoi principi possono essere ripetuti in ogni condizione senza essere smentiti. Finito il suo intervento, il dottor Augias ha lasciato spazio al dibattito con i ragazzi permettendoci di fare domande . I primi dubbi emersi riguardano il concetto di falsificabilità del linguaggio scientifico che Augias si è proposto di chiarire meglio .Successivamente ha preso in considerazione il carattere fortemente evocativo della poesia in grado di far vibrare nel lettore le corde segrete e assolutamente soggettive ed è così che si spiega il ruolo del lettore di coautore del testo . Un altro 130 esempio di intellettuale che ha unito filosofia e scienza è Spinoza, il quale si è servito di un metodo geometrico per sviluppare la sua metafisica. La domanda più interessante concerne le motivazioni per le quali al giorno d’oggi non si può parlare di una vera e propria relazione tra poesia e scienza e il dottor Augias ha spiegato che il linguaggio scientifico non può essere più legato a quello poetico dal momento che è divenuto eccessivamente complicato ,quindi, l’unica coincidenza tra i due si verifica nel momento iniziale e in quello culminante, quando la filosofia sconfina nella scienza e la scienza nella filosofia . A nostro parere la relazione è stata interessante e chiara . Sono stati ben sviluppati i punti fondamentali e sono stati affrontati temi complessi in maniera facilmente comprensibile . Le metafore e il concetto di intuizione poetica e scientifica sono stati i nuclei principali della relazione con la quale Augias si è impegnato a dimostrare come scienza e poesia siano indispensabili l’una all’altra pur nella differenza del taglio linguistico. Per quanto concerne la nostra opinione, anche noi riteniamo che, sebbene scienza e filosofia abbiano un linguaggio diverso, la sostanza del ricercare è la stessa. Infatti anche la ricerca scientifica, come la poesia, è una forma di creatività che si esprime con un proprio linguaggio. La scienza fornisce sicuramente delle rappresentazioni che soddisfano il nostro innato bisogno di ordine, il bisogno di vedere il mondo inquadrato di leggi coerenti di causa ed effetto, che poi queste leggi siano reali o meno non è rilevante dal momento che il vero esiste unicamente nella nostra mente. Ma anche il linguaggio della poesia, seppure fornisce delle immagini del mondo più soddisfacenti dal lato emotivo, non afferma di certo verità assolute. Il poeta, come lo scienziato, come può anche essere un qualsiasi artigiano, rappresenta dei fatti della vita o del mondo come li vede, come li teme, come spera che siano, come dunque sono presenti nella sua mente. E inoltre siamo anche convinte che la scienza e la poesia, lungi dall'escludersi a vicenda, si compiono e si armonizzano in una grande unità: la poesia diventa scientifica quando s'ispira alle scoperte ed alle verità della scienza; la scienza nonostante la rigidità del suo metodo è in se stessa altamente poetica, quando dischiude al sentimento ed alla fantasia gli abissi infiniti dell'essere. Giulia Cossu e Ilaria Ferrara 131 Relazione sulla conferenza tenuta dal dott. Corrado Augias Il 21 aprile nell’Aula magna del nostro liceo classico, si è svolta l’ultima conferenza sul tema culturale dell’anno 2008/2009: “Umanesimo e Scienza”. Come sempre, infatti, la professoressa Fierro ci ha presentato il relatore, Corrado Augias, giornalista de “La Repubblica”, scrittore di romanzi e opere teatrali, giallista e conduttore di alcuni programmi culturali. Prima dell’inizio della conferenza, Augias ci ha richiamato all’ordine spiegando che, a causa di imprevisti capitati al suo programma televisivo, non ha molto tempo da dedicarci. Ci promette così che in cambio della nostra attenzione cercherà di chiarirci i dubbi su una lunga discussione: il rapporto tra il linguaggio della scienza e quello della poesia. Perciò, prima di spiegarci la differenza tra un poeta e un matematico, e tra i loro linguaggi,inizia col citare nomi di uomini i quali hanno incarnato perfettamente il motto di Terenzio: “ Homo sum: humani nihil a me alienum puto”. Il primo su cui viene posta l’attenzione è Lucrezio, il quale con il De Rerum Natura fa sia opera di poesia sia di scienza. Egli, infatti, tratta di temi scientifici e filosofici attraverso il linguaggio della poesia, fornendo così una visione laica e completa del mondo. Come lui, non solo Dante, che analizza argomenti di poesia, scienza e teologia, ma anche Goethe, il quale, studiando lo spettro dei colori e le loro rifrazioni, scrive il Faust, vengono annoverati tra gli uomini più geniali. Fra questi viene citato anche Giacomo Leopardi, il quale, definito da Augias “uno dei nostri sommi dell’800”, rappresenta l’eccezione del 19° secolo. Egli è in grado di fondere la figura di poeta con quella di scienziato e, secondo alcuni critici, anche con quella di filosofo. Perciò per capire quale sia il confine che separa la genialità di uno scrittore da quella di uno scienziato, Corrado Augias ha cercato di spiegarci come non sia possibile rendere con un linguaggio diretto un’emozione provata. Infatti, essendo le emozioni estetiche difficilmente rendibili attraverso un linguaggio analogico, l’uomo ricorre all’uso di metafore per potersi esprimere. Usare una metafora, ovvero un’espressione linguistica la quale usa parole associate ad un’esperienza quotidiana in modo da evocarne un’altra, significa rendere un concetto più comprensibile. Il problema però sussiste quando bisogna capire se si sta parlando di una metafora del primo o del secondo tipo, e che tipo di “salto” deve essere effettuato per intenderne il significato. La metafora del primo tipo è associata dal lettore a un’esperienza quotidiana e tutti i suoi termini, siano essi propri o impropri, sono subito comprensibili. Quella del secondo tipo, invece, richiede da parte del lettore un intervento emotivo, pre-logico, inesprimibile, comportando l’introduzione di qualcosa di nuovo, di parole sconosciute che possano riempire il “buco” lasciato dal poeta. Ad esempio, William Blake, scrittore del 18° secolo, nonostante utilizzi metafore facili da comprendere, le rende misteriose od oscure quando vengono attribuite a un soggetto che a livello logico non è adatto a compiere quelle azioni. Inoltre, il linguaggio della poesia confina anche con quello della mistica. Nel passato, infatti, i mistici e gli empatici avevano visioni così forti emotivamente da suscitare e provocare reazioni fisiche. Una dimostrazione ci viene offerta dal dialogo che avviene 132 tra l’Inquisitore e Giovanna d’Arco nell’opera “Santa Giovanna”. In esso, infatti, si assiste a un’unione tra il linguaggio della poesia e quello della mistica, i quali spingono la parte irrazionale di un discorso a sfuggire a una piena comprensione logica. Lo stesso accade con i grandi matematici. Loro partono da un’intuizione che in un primo momento è indefinibile in termini razionali-scientifici. Solo in seguito è possibile esprimere questa intuizione in una formula, ovvero con il linguaggio della scienza. Così nella fase embrionale, la scintilla è tipica sia del poeta sia dello scienziato. Ma allora, ci chiede Augias, perché le loro strade si dividono? Esse si separano perché, mentre il linguaggio della poesia è composto di emozioni e sensazioni, quello della scienza ha regole e parametri da rispettare. Quest’ultimo deve infatti essere verificabile, falsificabile e ripetibile. E’ verificabile nel senso che deve essere espresso in termini così precisi che chiunque deve poter capire la correttezza del ragionamento. E’ falsificabile in quanto, essendo scritto in modo chiaro, qualsiasi persona può dire che il risultato ottenuto da un dato esperimento non è vero. Infine la scienza deve essere ripetibile poiché i termini utilizzati devono essere tali da poter far ripetere tutte le volte che serve quell’esperimento nelle condizioni date. Così se da una parte può ritenersi conclusa la relazione di Augias, dall’altra la sua fine rappresenta l’inizio del momento che tutti gli studenti aspettano nelle conferenze: il dibattito. Le domande e le osservazioni fatte a noi ragazzi e dai docenti spingono il relatore a trattenersi più del dovuto. Tra i quesiti posti, alcuni hanno attirato la mia attenzione. Uno di essi riguarda il modo con cui il lettore deve avvicinarsi agli scritti poetici dei tempi antichi e se sia necessario utilizzare testi critici. Augias risponde a questo interrogativo ponendo l’attenzione sul fatto che rifacendosi al passato, spesso ci mancano riferimenti o addirittura le parole possono avere significato diverso da quello attuale. In questi casi nonostante sia necessario l’uso di testi critici, è importante ricordare che ognuno è interprete di ciò che legge. Emerge così, anche grazie all’intervento della professoressa Fierro, il modo in cui Augias concepisce la poesia. Essa è per lui un’interpretazione soggettiva e assume perciò una connotazione romantica. Il linguaggio della poesia va oltre la logica in quanto, essendo evocativo, deve richiamare e far emergere ciò che è proprio di ognuno. Ciò accade anche per quanto riguarda le opere letterarie. Infatti dal secolo scorso è nata l’idea di una “letteratura aperta” , la quale si verifica quando il lettore diventa co-autore del testo. Chi legge non solo fa sua l’opera, ma la fa anche aderire alla sua biografia, diventando nello stesso tempo destinatario e scrittore. Se perciò il linguaggio poetico è così diverso da quello scientifico, non è proprio possibile conciliarli? Questa domanda, posta da uno studente, ha suscitato interesse nel relatore. Egli spiega che la trattazione poetica può essere suscettibile di linguaggio scientifico tanto che un esempio ci viene fornito da Spinoza. Questo filosofo è stato in grado di proporci non solo una visione scientifica e poetica del mondo, ma anche il nostro modo di vivere sulla terra, e il rapporto laico e sereno che l’uomo può avere con Dio. Elisabetta Orlando Senatore 133 Relazione sulla conferenza tenuta dal dott. Corrado Augias Nell’ ambito del ciclo di conferenze organizzate dalla prof.ssa Fierro riguardo il rapporto “Umanesimo e Scienza”, il giorno 27 Aprile ha avuto luogo nell’ aula magna del nostro liceo l’ ultima conferenza tenuta dal dottor Corrado Augias, scrittore, giornalista, autore e conduttore televisivo che ha effettuato una riflessione sul linguaggio della scienza e il linguaggio della poesia. Il suo discorso si è aperto con una domanda circa l’autore latino Lucrezio: “E’ un poeta o uno scienziato?”. Analizzando il De Rerum natura, poema didascalico di natura scientifica ma anche filosofica, emerge un elevato linguaggio poetico ma anche una visione scientifica, laica e completa del mondo in quanto egli dissipa i fiumi di troppi dèi contrapponendo chiaramente ratio e religio. Lo stesso Dante, fa notare Augias, unisce nella sua Divina Commedia poesia, scienza e teologia creando un linguaggio che riesce ad amalgamare tutti questi elementi rispecchiando l’eclettismo dell’ autore così come Goethe che, da un lato analizza scientificamente le rifrazioni della luce, dall’ altro scrive il Faust in cui appaiono elementi a-scientifici come ad esempio la magia nera. Secondo Augias questi uomini incarnano perfettamente l’assunto Terenziano “Homo sum, humani nihil a me alienum puto” (“Sono un uomo, nulla che sia umano mi è estraneo). Nel mondo contemporaneo la stessa divisione liceo classico – liceo scientifico, contrapposizione reputata antica da Augias, è ancora un sistema legato alla tradizione; quest’ ultima ha considerato infatti una eccezione, un caso limite Leopardi che seppur celeberrimo scrittore e letterato ha scritto una storia dell’ astronomia. Il relatore in seguito cita Giambattista Vico e rivolge una domanda a noi studenti: “Se voi ascoltate una sonata o guardate un quadro ed io vi chiedo le vostre impressioni, cosa mi rispondete? Mi rispondete vagamente e potete rendere ciò che avete provato solo per mezzo di metafore perchè l’emozione estetica non si può rendere con un linguaggio diretto né scientifico”. I testi critici infatti sono noiosi proprio perché, non lasciando spazio alla poeticità, sono estremamente tecnici e particolari. La metafora, al contrario, usa parole legate alla quotidianità , di grande fruibilità per esprimere un concetto all’apparenza inesprimibile. Vi è anche un tipo di metafora che non corrisponde alla realtà neanche per traslato, come “le ali del mattino”, nel quale dobbiamo aggiungere noi qualcosa di personale per colmare lo iato che si crea tra un termine e l’altro; proprio per questo a volte il linguaggio dei poeti confina con quello dei mistici, degli estatici esprimendo l’ irrazionalità. Ad esempio nell’ opera drammatica di Gorge Bernard Shaw “Santa Giovanna” la misticità poetica delle voci che Giovanna D’ Arco sente, viene contrapposta alla rigorosa metodicità con cui l’ Inquisitore le parla per farla cadere in fallo. Come alla base della loro opera i poeti hanno una scintilla improvvisa, anche i grandi matematici muovono da un’ intuizione che non sanno inizialmente spiegare in termini scientifici, dunque la radice è molto simile ma poi nell’ elaborazione formale le strade si dividono. Augias ha infine concluso il suo discorso con una chiara distinzione tra i due linguaggi. 134 Il linguaggio della scienza deve essere: • verificabile, espresso in termini precisi per poter verificare la correttezza del ragionamento; • falsificabile, espresso in termini tali da essere confutato se errato; • ripetibile, espresso in termini tali da poter essere ripetuto in ogni momento in condizioni simili. Il linguaggio della poesia, invece, appartiene ad emozioni interne non oggettive, bensì esclusive. Ampio spazio è stato riservato al dibattito che si è alimentato con varie domande da parte di noi studenti. E’ stata chiesta in primis una chiarificazione riguardo al concetto di linguaggio scientifico falsificabile che è stata accostata a quella riguardo la possibile espressione della religione e della psicoanalisi in linguaggio scientifico. Augias ha spiegato in modo molto breve ma efficace che la scienza deve avere un linguaggio rigido, serrato, 2 + 2 = 4 non può significare nient’ altro che questo a meno che in futuro qualcuno sia in grado di dimostrare il contrario, di qui la falsificabilità. Marx fa del socialismo scientifico, dunque il linguaggio scientifico può essere applicato a varie branche del sapere, la teologia, la sociologia, l’ economia, la psicoanalisi purché abbia una funzione esplicativa e sia ad essa attinente. Alla domanda “Perché lo iato poetico è presente nei testi più difficili?” Augias ha risposto che più la poesia è elevata più diventa impalpabile, difficile da cogliere, questo avviene specialmente nei testi antichi nei quali, oltre a dover ricostruire veri e propri “buchi” testuali, bisogna carpire il significato di parole desuete o di termini che con il tempo hanno cambiato significato, per questo motivo spesso la letteratura si avvale dell’ apporto della storia. Augias ha poi, approfittando di una domanda postagli, analizzato il fatto che la poesia è ancora creatrice di senso e che con il suo linguaggio metalogico è fortemente evocativa, fa vibrare le corde della nostra anima sull’ esempio di Umberto Eco che, nella sua opera aperta, rende il lettore coautore del testo. E’ emerso dal dibattito che il linguaggio scientifico e poetico non sono inconciliabili; lo stesso Spinoza aveva una visione della realtà insieme fortemente poetica e scientifica, ma se prima i due linguaggi sconfinavano l’ uno nell’ altro, ora il linguaggio scientifico è decisamente più preciso, teorico e specifico tanto che se in tempi antichi il lampo veniva poeticamente spiegato come ira di Zeus e non implicava il concetto fisico di elettricità, oggi la coincidenza dei due linguaggi è possibile, secondo il parere di Augias, solo nel momento più alto dell’ intuizione. Arianna Sorrentino 135 Mario Carini Gli usi moderni del latino Da più parti ci si lamenta della perdita di sensibilità per la civiltà classica, quale tratto peculiare della nostra società moderna (o, meglio, postmoderna), quasi che essa dovesse essere, proprio per definizione, in antitesi con il classico. È un dissidio che già si era manifestato apertamente nel Novecento (soprattutto nella seconda metà), in accordo con le grandi correnti ideologiche che imponevano di guardare al nuovo nella cultura e nella società, preparando il sommovimento del Sessantotto. “C’è ancora posto, nell’èra dei missili e delle bombe atomiche, degli «urlatori» e dei fumetti, per il mite Virgilio?”, si chiedeva preoccupato Adriano Bacchielli nella prefazione alla sua nota traduzione dell’Eneide virgiliana, dando comunque, poi, una rassicurante risposta affermativa. 8 Ma oggi, nella scuola delle famose tre I (Inglese, Internet, Impresa), v’è ancora posto per la cultura classica, e per le lingue che di essa sono strumento ed espressione, ossia il greco e il latino? Premettiamo che non vogliamo di proposito affrontare questo argomento assai dibattuto, e che registra, nella grande varietà di opinioni degli “addetti ai lavori”, accanto a posizioni di accorato pessimismo, 9 altre improntate a una più fiduciosa visione sul destino dei classici, che continueranno certamente a persistere nella scuola e nella società. 10 Limitiamo il nostro discorso al latino, lingua, il cui studio è posto, assieme al greco, a fondamento dell’indirizzo liceale classico. 11 La lingua di Cicerone e Cesare, di Virgilio e Orazio, considerata abitualmente il simbolo stesso della classicità, soffre di un pregiudizio che quasi sempre affiora allorché si tocca questo argomento: sembra essere trattata alla stregua di vessillifera di una cultura antiquata e polverosa, che nulla abbia più da dire alle nuove generazioni, perché è una lingua morta, ossia una lingua che nessuno, da tempo, parla più. Molti studenti della scuola media, lo dico per esperienza diretta, vengono al ginnasio con questa convinzione. Ma è davvero una lingua morta, il latino? Se una lingua è “morta” proprio perché non viene più praticata, non vive più nell’uso quotidiano, non sopravvive più nella coscienza dei parlanti, ciò non può dirsi certamente del latino. Non poteva dirsi ieri (allorché era la lingua dei dotti, delle università, delle accademie, del diritto e della Chiesa) e, soprattutto, non può dirsi oggi, perché sta vivendo in questi ultimi decenni un singolare destino. Scomparso da secoli dall’uso quotidiano, per la naturale evoluzione di esso nelle lingue neolatine, il latino è tornato inaspettatamente a rivivere, come lingua della comunicazione, nell’ambito di quei gruppi di studiosi e cultori del latino come sermo vivens, che lo praticano esattamente come una qualunque altra lingua moderna: scrivendo e parlando in latino. 8 Adriano Bacchielli, pref. a Virgilio, Eneide, versione poetica, introduzione e commento di Adriano Bacchielli, Paravia 1979⁴, 28ª rist. (I ed. 1963), p.V. Come quella espressa da Carlo Carena, secondo il quale il classicismo viene considerato, nella società di oggi, come “una stramberia e un’ascesi”, vd. Carlo Carena, Trenodia sui classici, in Di fronte ai classici, a colloquio con i greci e i 9 latini, a cura di Ivano Dionigi, Rizzoli, Milano 2003⁴, p.65. Vd., ad esempio, l’intervista a Luciano Canfora, Il fiume si scava il suo letto, in Di fronte ai classici, cit., pp.45-62. 11 Sulla necessità e importanza dello studio del latino quale lingua di tutta la cultura occidentale si è espresso con salde motivazioni Luigi Miraglia nel suo contributo Il latino non era la lingua dei Romani, in La Civiltà dal Testo. Convegno di studio sulla didattica del latino, Liceo scientifico statale “C. Cavour”, Roma, 22-23 Novembre 2002, pp.66-67. La necessità dello studio del latino quale mezzo per riscoprire la piattaforma comune su cui si sono edificate le civiltà nazionali europee, era già stata rilevata nell’articolo di Edmondo Coccia, Le lingue e la «casa comune», in “Licei”, n.4/5, aprile-maggio 1990, pp.3-5. Si veda anche il breve saggio di Peter Wülfing sull’importanza del greco e del latino quali mezzi per conservare e trasmettere l’eredità del patrimonio culturale antico: Peter Wülfing, Le lingue classiche nel nostro tempo, in Temi e problemi della didattica delle lingue classiche, Herder Editrice, Roma 1986, pp.27-49. 10 136 Quando si pone la domanda sull’attualità del latino per volere (forse con una certa punta di malafede) considerare la lingua di Roma come un’eredità del passato inevitabilmente datata, ovvero quando si dice che il latino è una lingua morta, si resterebbe sorpresi nel sapere, invece, che questa lingua è praticata come strumento di comunicazione da studiosi e cultori riuniti in circoli e associazioni di latinisti. In questi ultimi anni, grazie anche agli sviluppi delle comunicazioni via Internet, ne sono fioriti moltissimi non solo in Italia ma anche in Europa. Attraverso varie iniziative che sono sorte in tutto il mondo si è cercato di riattivare il latino, di rivitalizzarlo, anche sul piano didattico, approntando anzitutto nuovi strumenti per un approccio al latino che utilizzi nuove metodologie, ben diverse da quelle delle cosiddette grammatiche normative tradizionali e certamente più adatte e stimolanti rispetto alla sensibilità e alla mentalità delle odierne generazioni di alunni. 12 La pratica del latino come lingua viva nasce, innanzitutto, nell’ambito della Chiesa: la necessità di tradurre in latino (la lingua delle encicliche papali e dei documenti della Chiesa) idee, concetti e invenzioni moderne, che nel tempo dell’antica Roma non si sarebbero potute concepire, pose il problema dello “svecchiamento” del lessico latino fin dagli anni Cinquanta. Al riguardo viene in mente l’arguto episodio narrato da Roger Peyrefitte nel suo romanzo Le chiavi di San Pietro (trad. di Adriana Pellegrini, Longanesi & C., Milano 1968, rist., I ed. 1955), in cui il protagonista, un giovane seminarista francese, entra alla Pontificia Università Gregoriana, a Roma, e ascolta una conferenza sui clipei ardentes, che non sono gli scudi della mitologia, ma gli UFO. 13 In quell’episodio Peyrefitte si serviva del latino per svolgere una sua critica del mondo ecclesiale preconciliare in senso spregiudicatamente antitradizionalista. Quell’episodio, però, ispirato probabilmente da una conferenza ascoltata dallo scrittore francese, aveva, magari inconsapevolmente, il merito di mostrare che il latino, opportunamente rinnovato nel lessico, poteva prestarsi, come in effetti si presta, alla trasmissione dei più svariati contenuti, dalla notizia di pura cronaca a quella di carattere tecnico-scientifico. Il problema, che è sorto ed è stato affrontato allorché si è cominciato, intorno agli anni Cinquanta, a utilizzare il latino come lingua viva al di fuori dell’ambito ecclesiastico, è stato quello di creare ex novo un lessico di voci per esprimere le invenzioni dell’era moderna e i concetti e le idee create dall’incessante progresso in tutti i campi della civiltà umana. Il card. Antonio Bacci, quale eminente studioso e cultore del latino come sermo vivens, offrì in un suo contributo apparso oltre quarant’anni fa una soluzione che ci appare certamente valida ed efficace ancora oggi (Antonii S. R. E. Cardinalis Bacci, Quatenus possint huius temporis inventa et excogitata Latine significari, in Institutum Romanis Studiis Provehendis, Acta omnium gentium ac nationum conventus Latinis litteris linguaeque fovendis, a die XIV ad diem XVIII mensis Aprilis a. MDCCCCLXVI Romae habiti, 12 Intendiamo riferirci al “metodo natura” di Hans H. Ørberg, che mette gli alunni immediatamente di fronte ai testi per far acquisire un sicuro orientamento e una padronanza anche della lingua parlata. Il metodo di Ørberg è alla base del suo manuale: Hans H. Ørberg, Lingua Latina per se illustrata, pars I Familia Romana (Accademia Vivarium Novum, Montella 2003), pars II Roma aeterna (Accademia Vivarium Novum, Montella 2002), Latine disco (Accademia Vivarium Novum, Montella 2001). Di simile impostazione, ma con una maggiore attenzione alle strutture linguistiche del latino, è il manuale di Edmondo Coccia – Walter Sievert – Werner Straube – Klaus Weddingen, Ostia, corso di lingua latina per il biennio delle scuole superiori, teoria ed esercizi vol. I (Armando Scuola, Roma 1992) e vol.II (Armando Scuola, Roma 1991). Il manuale è la traduzione e adattamento, a cura di Edmondo Coccia, del corso di latino Ostia. Lateinisches Unterrichtswerk di Sievert - Straube – Weddingen (Stuttgart, 1985 e 1986). 13 Vd. p.14-15: «Non poté che compiacersi della sua «seria cultura latina», poiché i corsi si svolgevano in latino. L’università aveva persino una cattedra di latino moderno. Un monsignore del Vaticano, latinista arrabbiato, segretario del Papa per i brevi ai principi, ne era l’ideatore. Voleva fare del latino una lingua viva, capace di esprimere qualsiasi cosa. Alla prima lezione, passò un po’ di tempo prima che l’abate riuscisse a capire che i clipei ardentes non erano altro che i dischi volanti,ma ben presto prese parte ad un pubblico dibattito in frasi ciceroniane sull’ascensione dell’Everest». 137 Romae in aedibus Caroli Colombo MDCCCCLXVIII, pp.299-310). Accertata la lacuna nel lessico latino di termini con cui rendere i nova nostrae aetatis inventa et excogitata, il Bacci enunciava sei principi normativi, con cui poter procedere alla creazione di nuovi termini latini. La teorizzazione e l’applicazione di questi principi, ispirati alle concezioni degli scrittori della latinità classica, come Cicerone, Orazio e Quintiliano, dovevano servire ad evitare che il latino rinnovato nel lessico perdesse la sua identità, la sua specifica fisionomia e finisse per assomigliare al latino “maccheronico” del Folengo. I principi esposti dal card. Bacci sono i seguenti: 1) Anzitutto, i neologismi si possono creare prendendo termini già esistenti negli autori classici e usandoli per similitudinem et affinitatem, seu analogiam, per significare nuovi concetti e nuove invenzioni. Il Bacci porta, come esempio di riuso di materiale lessicale già esistente in latino, il termine anabathrum (dal gr. α̉νάβαθρον, a sua volta derivato dal verbo α̉ναβαίνω , “salire”), che compare in Giovenale, 14 utilizzandolo per indicare, nel latino moderno, l’ascensore, peraltro così definito (Cella illa ex pluribus tabulis aliisque rebus compacta, in qua, electrica vi acta sedentes, sine labore ac sine scalis possumus domos ascendere, et quam ascensore nos Itali vocamus). 15 In alternativa il Bacci indica le espressioni cella scansoria e pegma scansorium (dal gr. πη̃γμα, “tavolato”, e dal verbo lat. scando, “salire”). Analogamente, per indicare il portalettere il Bacci consiglia il termine tabellarius, già in uso presso i Romani, e per la posta ricorre a una ampia rosa di espressioni, tra cui cursus publicus, cursus vehicularis, cursus fiscalis, res raediaria vel vehicularis. Per indicare il francobollo il Bacci prende in prestito dal Paoli l’espressione pittacium cursuale, 16 intendendo con pittacium, termine del latino classico, 17 una scidula 18 seu chartae particula che si attacca a qualcosa per indicare alcunché: aggiungendo a scidula l’agg. cursualis (alludente al cursus publicus), precisa il Bacci, si intenderà trattarsi del rettangolino filigranato, ossia del francobollo. 2) Un secondo modo di creare neologismi latini, soprattutto per il lessico tecnico, è l’uso di termini greci (semplici o composti) con un significato parzialmente modificato, come attesta Orazio. Ma, avverte il Bacci, soltanto in quanto necessario: se è a disposizione il corrispondente termine latino, non occorre ricorrere al greco (Si igitur Latina vox praesto sit, ad Graecam confugiendum non est). Così, è errato usare archivum (dal lat. tardo archivum, derivato dal gr. α̉ρχει̃ον, “residenza del governo o dei magistrati” e anche “archivio pubblico”, in Dionigi d’Alicarnasso), 19 perché c’è già tabularium. Invece un neologismo di questo secondo tipo è concepito per indicare un mezzo tipicamente moderno: aeroplanum (composto dalle voci greche α̉ήρ, “aria”, e πλανάω, “andare errando, vagare”). Però il Bacci avverte che ornatius, con maggior eleganza, si possono usare i latini velivolum, aëria navis, navis volans, volatilis navicula, aligera cymba, etc. Analogamente è creato spintherogenum, ad indicare lo spinterogeno, ossia il dispositivo che permette alle candele di generare la scintilla nel motore a scoppio (dalle voci greche σπινθήρ, “scintilla”, e γεννάω, “generare”). 14 IUV. 8,45: conducto pendent anabathro tigillo. Il termine anabathrum indicava un macchinario atto a sollevare o abbassare pesi e persone nei teatri e nei pubblici spettacoli 15 Antonii S. R. E. Cardinalis Bacci, Quatenus possint huius temporis inventa et excogitata Latine significari, in Institutum Romanis Studiis Provehendis, Acta omnium gentium ac nationum conventus Latinis litteris linguaeque fovendis, a die XIV ad diem XVIII mensis Aprilis a. MDCCCCLXVI Romae habiti, Romae in aedibus Caroli Colombo MDCCCCLXVIII, p.302. 16 E così è tradotto nel dizionario di J. Mir – C. Calvano, Nuovo vocabolario della lingua latina, European Language Institute – Mondadori, Milano 1992, rist., p.115. Questo dizionario contiene numerosissimi neologismi del latino moderno, ancora non registrati nella III edizione del Castiglioni-Mariotti. 17 Pittacium compare, fra l’altro, in Petronio (34,6) ad indicare le etichette delle anfore di Falerno nella cena di Trimalchione. 18 O schedula. 19 DION. 2,26,2. 138 3) Un terzo modo consiste nel ricavare termini nuovi da parole latine, già impiegate dagli scrittori classici. Ad esempio le voci communismus e socialismus possono utilizzarsi in quanto derivate dagli aggettivi latini communis e socialis, con l’aggiunta del suffismo latinizzante in –ismus. Ma il Bacci riporta anche l’espressione bonorum omnium aequatio, usata da Cicerone (in De off. 2,21) per indicare, appunto, la teoria comunistica che già aveva avuto i suoi illustri teorici antichi (come, ad esempio, Platone, nella sua Repubblica, e Blossio di Cuma, il maestro di Tiberio Gracco). Il Bacci, avvertendo che non sempre può usarsi l’espressione ciceroniana perché non si adatta pienamente alla dottrina moderna del comunismo e del socialismo, ammonisce comunque a non spingersi troppo in là nella creazione di simili neologismi, onde il latino moderno non latinitatem sapiat, sed potius iocularem illam Merlini Coccaii linguam. 20 4) Il quarto modo è creare termini composti, ibridi (verba, quae hybrida a grammaticis vocantur), congiungendoli dal greco e/o dal latino e/o da un’altra lingua, come illustra Quintiliano (Inst. 1,5,68) che cita per il latino superfui, malevolus, per il greco e latino epitogium 21 e per il greco e gallico epiraedium. Perciò, assumendo l’esempio di Quintiliano, si possono formare termini come, per indicare l’it. automobile, il composto greco autocinetum e l’espressione grecogallica automataria raeda. 5) Il quinto modo è l’uso di una circollocuzione (verborum ambitus) o perifrasi. Il Bacci ricorda in proposito l’esempio di Cicerone, che rende il greco σωτήρ con la perifrasi qui salutem dedit (nelle Verr. 2,2,63). Quindi il gioco del calcio (che in inglese è il composto foot-ball) si può indicare con l’espressione perifrastica follis pedumque ludus o follis calciumque ludus, intendendo il follis come il pallone. 6) Il sesto e ultimo modo è quello di utizzare i termini latini arricchiti da nuovi significati che hanno apportato il decorso del tempo e determinati fenomeni storici, come, ad esempio, l’avvento del Cristianesimo (il Bacci cita il caso del termine martyr, passato a indicare, com’è noto, dal testimone processuale il testimone della Fede cristiana). Si potrà pertanto usare divortium, che letteralmente significa “biforcazione di due strade”, per indicare la separazione civile dei coniugi, ossia il moderno istituto del divorzio. Più recentemente il prof. Biagio Amata ha ampliato i criteri di creazione dei neologismi latini, enunciandoli nel suo Lexicon recentioris Latinitatis. 22 I principia theoretica Latini lexici coaevi sono: il principium transhistoricitatis, per cui la lingua latina moderna, sermo metalinguisticus in nessun luogo o tempo universaliter vigens, conserva la sintassi normativa degli antichi e accoglie i termini nuovi; il principium indolis propriae sermonis cuiusque, per il quale possono assumersi: un termine italiano, ovviamente latinizzandolo, se sia omogeneo al carattere del latino, un termine di lingua straniera comunemente usato, un termine greco o latino che possa adattarsi al nuovo significato; il principium polisemiae, per il quale il termine del latino classico può essere arricchito da nuovi significati e le parole greche possono essere usate per indicare le invenzioni moderne; il principium concinnitatis, per il quale la parola antica può assumere significati moderni; il principium reciprocitatis, per cui ai termini antichi se ne possono aggiungere altri e creare nuove espressioni per indicare nuovi significati. Il principium facilius accedendi e il principium ordinis servandi riguardano, invece, i criteri di redazione del Lexicon. Questi principi enunciati dall’Amata appaiono, in verità, più elastici di quelli esposti dal Card. 20 Antonii S. R. E. Card. Bacci, Quatenus possint huius temporis inventa et excogitata Latine significari, cit., pp.304305. 21 Una sopravveste da portare sulla toga. 22 Testo accessibile su Internet all’indirizzo: www.geocities.com/blas3/lexicum/lex_index.html 139 Bacci e, per conseguenza, hanno condotto alla formazione di un grande numero di neologismi latini. Vi è dunque la continua fioritura di un lessico latino adeguato a trasmettere i contenuti attinti agli ambiti più svariati, dalla vita quotidiana alla scienza, all’arte e alla letteratura. Ci permettiamo di fare al riguardo un’osservazione. Il latino moderno, secondo la nostra modesta opinione, può mantenere la sua specificità come lingua latina, ossia la sua Latinitas, se osserva i precetti di formazione dei nuovi termini, ossia se attinge i neologismi dal greco e dal latino. Viceversa, se ammette termini stranieri latinizzandoli, rischia di diventare un ibrido, ossia di accentuare la sua artificiosità a scapito della genuinità e naturalezza. Per fare un esempio, è ammissibile il termine manuballista per indicare la pistola o vermiculi per gli spaghetti, ci lascia perplessi, invece, la recente coniazione di tabernae Macdonaldianae per i moderni fast food. Per questa via il latino moderno rischia di avere il medesimo destino dell’italiano, lingua “ibridizzata” – ci si passi l’espressione 23 – dall’enorme introduzione di termini inglesi italianizzati (si pensi, ad esempio, al neologismo chattare, dall’ingl. chat, “chiacchierata”, usato per indicare lo scambiarsi messaggi in tempo reale). Seppure il latino moderno non sia sfuggito alle critiche di quanti vedono in esso sostanziamente il frutto di un’operazione artificiosa e antistorica, 24 tuttavia, a nostro giudizio, ci sembra lodevole il tentativo, che riteniamo coronato da successo (visto che i circoli e le associazioni di cultori di Latinum vivens aumentano col trascorrere del tempo), di rivitalizzare e riabilitare il latino promuovendolo come lingua d’uso e stimolando la sua capacità “produttiva”, ossia di mezzo di espressione del pensiero. 25 Presentiamo ora una scelta di articoli di attualità, tra quelli composti in latino moderno dall’Abate Prof. Carlo Egger (1914-2003), insigne studioso e cultore pontificio della lingua latina, nonché redattore di testi ufficiali della Chiesa. 26 Essi sono stati pubblicati sul Diarium Latinum, curato dal Prof. Egger quale supplemento della rivista trimestrale “Latinitas, Commentarii linguae Latinae excolendae provehendae”, edita dalla fondazione Latinitas nella Città del Vaticano. Vi abbiamo aggiunto anche alcuni brevi testi apparsi sul periodico “Vita Latina”, pubblicato dall’Institut d’Etudes Latines, 17 rue de la Sorbonne, Paris. Facciamo seguire agli articoli una sintesi del contenuto e alcune brevi annotazioni, mettendo soprattutto in rilievo i neologismi latini presenti nei testi. Cominciamo con un primo gruppo di articoli incentrati su fatti di terrorismo, fenomeno che già negli anni Ottanta turbava le relazioni internazionali, a seguito del conflitto israelopalestinese, e aveva assunto soprattutto la forma dei dirottamenti aerei. 23 Che non vuole necessariamente esprimere un giudizio negativo, anche perché i termini d’origine straniera nell’area informatica, che hanno peraltro il vantaggio di una più immediata comprensione rispetto a una perifrasi in italiano, sono ormai entrati stabilmente nell’uso. 24 Vd., ad esempio, le critiche di Giorgio Raimondo Cardona, Prospettive linguistiche per lo studio e l’insegnamento del latino, in “Aufidus”, n.1, 1987, pp.93-107; peraltro già il Biliński aveva rimarcato la dissona et hibrida coniunctio creata dai neologismi latini, nel suo intervento stampato dopo il contributo del Bacci, Quatenus possint huius temporis inventa et excogitata Latine significari, cit., p.310. 25 Citiamo al riguardo le parole di Antonio Traglia, nella pref. al dizionario di J. Mir – C. Calvano, Nuovo vocabolario della lingua latina , cit., p.V: “Orbene, assecondando questi movimenti di riabilitazione del latino anche come lingua d’uso, gli autori offrono agli studenti uno strumento che possa facilitarne lo studio. E non solo agli studenti essi si rivolgono, ma a tutti coloro che intendono acquisire una conoscenza del latino più profonda, attraverso la lettura e lo studio degi autori, ma anche attraverso la “produzione”. Solo così infatti si può acquistare una conoscenza non superficiale di una lingua che ha in sé ancora tanta vitalità. Proprio la mancanza della capacità “produttiva” fa odiare spesso l’uso del latino come mezzo di espressione del pensiero. Non raramente si odia quello che non si sa fare.” 26 Su Carlo Egger vd. l’articolo di Dario di Maso – Edmondo Caruana, L’Abate Carlo Egger latinista di cinque pontefici, in «L’Osservatore Romano», 3 settembre 2005 (testo accessibile in Internet all’indirizzo www.associazionenomentana.com/annali_2006/8-9 140 AERONAVIS AEGYPTIA, RETROVERSUS PROPULSA, A TROMOCRATIS EST ABDUCTA MULTORUMQUE SANGUINE FOEDATA (dal Diarium Latinum, Moderator et sponsor: Carolus Egger, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus: Octobri-Novembri-Decembri, Anno MCMLXXXV, suppl. a “Latinitas”, IV, 1985, p.280) Aeronavis Aegyptia, inversa vi propulsa, quae, Athenis profecta, Cairum petebat, mense Octobri a tromocratis, qui se «seditiosos Aegypti» profitebantur, supra insulam (Milos) iussa est cursum mutare atque ad aeroportum Melitensem dirigere. In ipso aeroplano est proelium commissum, quo milites Aegyptii ac due vectores sunt occisi, nonnulli sauciati. Cum aeronavis in aeroportu Melitensi, cui nomen La Valletta, constitisset, eius loci auctoritates cum tromocratis de liberandis vectoribus, praesertim mulieribus ac pueris, egerunt. Sed res ad irritum cecidit. Advenerunt autem clam milites Aegyptii, qui «capita coriacea» appellantur et ad debellandos eiusmodi praedones sunt exercitati. Quattuor seditiosi (unus a gubernatore securi est necatus) et amplius quintaginta (sic) 27 vectores in terribili pugna sunt pyrobolis, igne, fumo interempti. La notizia riportata è quella di un sanguinoso dirottamento aereo avvenuto il 23 novembre 1985 (non mense Octobri). Un aereo di linea egiziano, partito da Atene e diretto al Cairo, mentre era sull’isola di Milo, è stato dirottato da terroristi appartenenti al gruppo “Rivoluzionari d’Egitto” (a tromocratis, qui se «seditiosos Aegypti» profitebantur), i quali hanno ordinato ai piloti di fare rotta sull’aeroporto di Malta. A bordo dell’aereo avveniva nel frattempo uno scontro a fuoco, nel quale alcuni soldati egiziani e due passeggeri (vectores) restavano uccisi, altri feriti. All’aeroporto di Malta “La Valletta” le autorità locali intavolavano trattative con i terroristi per liberare i passeggeri, soprattutto le donne e i bambini, ma invano. Quindi giunsero sul posto in segreto le “teste di cuoio” egiziane (milites Aegyptii, qui «capita coriacea» appellantur), soldati addestrati alla lotta antiterrorismo. Quattro terroristi (uno dei quali veniva ucciso dal comandante dell’aereo con una scure) e più di cinquanta passeggeri perdevano infine la vita nel terribile scontro, uccisi dalle bombe (pyrobolis), dalle fiamme e dal fumo. Tra i neologismi notiamo aeronavis, tromocratis, aeroportum, capita coriacea, pyrobolis. Aeronavis è una variante di aeroplanum. Capita coriacea è un calco semantico creato per indicare le “teste di cuoio”, i reparti speciali antiterrorismo organizzati da molti stati nel mondo. L’abl. pyrobolis presuppone un nom. pyrobolum, “bomba”, formato da due termini greci : il prefisso pyro- dal gr. πυ̃ρ , “fuoco”, e il suffisso – bolum dal gr. βάλλω, “scagliare, gettare”. Il Lexicon recentis Latinitatis di Cleto Pavanetto registra tromocrates come maschile della 1ª decl. (con gen. in -ae), quale nomen agentis. Il termine tromocrates è costruito con prefisso e suffisso greco: tromo- dal gr. τρόμος, “tremore” (derivato a sua volta dal verbo τρέμω , “tremare di paura”) e -crates, dal gr. κράτος , “forza, potere, dominio”. Ι tromocratae sono dunque, letteralmente, “coloro che assoggettano altri al dominio del terrore”. È una soluzione colta ed elegante, ma il termine potrebbe risultare di difficile comprensione al di fuori del suo contesto. 28 Altre soluzione per “terrorista”, a nostro giudizio, potrebbero essere quella più comoda ma meno 27 Probabile errore di stampa per quinquaginta (cfr. p.280). Di difficile comprensione per gli studenti di latino del biennio, come ho avuto modo di sperimentare personalmente assegnando in traduzione un articolo dal Diarium Latinum, in cui compariva questo neologismo. 28 141 elegante di terroristae (dal lat. terror con l’aggiunta del suffisso -ista), 29 o una equipollente perifrasi latina, del tipo rerum novarum adfectatores (o fautores) vi armisque. Al latino classico appartengono invece vectores nel senso di “passeggeri” e gubernator, “pilota”, qui dell’aereo. L’espressione inversa vi propulsa, lett. “spinta da una forza contraria”, riferita alla aeronavis, è una perifrasi per indicare che si tratta di un aviogetto. L’espressione multorumque sanguine foedata è classica (foedare sanguine è, per esempio, in Sallustio, Hist. 1,47) e lascia intendere che il dirottamento si è concluso con un massacro. NAVIS ITALICA, ORAS MARIS INTERNI CIRCUMVECTANS, CAPTA A FEDAHINIS (dal Diarium Latinum, Moderator et sponsor: Carolus Egger, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus: Octobri-Novembri-Decembri, Anno MCMLXXXV, suppl. a “Latinitas”, IV, 1985, p.281) Navis Italica, cui nomen Achilles Lauro, oras Maris Interni circumvectans, cum ante portum urbis Aexandriae in Aegypto staret in ancoris, a quattuor fedahinis, qui ad factionem quandam Corporis Palaestinae Liberandae pertinebant, mense Octobri est capta – gubernatori armis ignivomis illi minitabantur – et ad portum Syriacum Tartous iussa est navigare; sed eius Civitatis moderatores appulsum denegarunt. Deinde praedonum mandato Tunesiam petiit, sed, nefariis illis contra praecipientibus, Portui Saidensi in Aegypto appropinquavit. Ubi tres dies constitit, dum potestates Aegyptiae, ut assolet fieri, cum illis paciscuntur. Civem quendam Americanum, nomine Leonem Klinghoffer, in sella rotali sedentem, cruente antea praedones trucidarant. Demum his facultas est facta aeronavi Aegyptia evolandi – hac enim condicione se a gravioribus facinoribus destituros spoponderunt. Verumtamen aeroplana Americana, quae in volatu ad aeronavem, in Tunesiam cursum tenentem, accesserant, eam coegerunt ad stationem militarem, Sigonella appellatam, quam Americani in Sicilia habent constitutam, descendere. Ibi fedahini traditi sunt publicae securitatis custodibus Italis, qui eos in custodiam condiderunt. Dux autem eorum, Abu Abbas, est dimissus permissusque aerio itinere se in Iugoslaviam conferre. L’articolo si riferisce al famoso episodio, avvenuto nell’ottobre del 1985, del dirottamento della motonave “Achille Lauro”, che provocò tra l’altro una crisi nei rapporti tra l’Italia e gli Stati Uniti (per la mancata consegna del capo dei terroristi Abu Abbas) e una crisi politica interna (con le dimissioni del governo Craxi). L’articolo narra brevemente i fatti salienti. La motonave italiana “Achille Lauro”, in crociera lungo le coste del Mediterraneo, mentre stava all’ancora davanti al porto di Alessandria d’Egitto, era assaltata da quattro fedayn (guerriglieri palestinesi), appartenenti al’organizzazione Fronte per la Liberazione della Palestina (FLP), che ne prendevano possesso e imponevano al comandante, con la minaccia delle armi (gubernatori armis ignivomis minitabantur), di fare rotta verso il porto siriano di Tartus. Le autorità di Damasco negavano però alla nave il permesso per l’attracco, quindi i terroristi facevano rotta per la Tunisia e si fermavano a Porto Said, arrendendosi dopo tre giorni di trattative. Un cittadino americano, Leon Klinghoffer, invalido costretto sulla sedia a rotelle (sella rotali sedentem), durante il dirottamento veniva trucidato dai terroristi. I dirottatori, dietro promessa di astenersi da ulteriori atti di pirateria, avevano il permesso di lasciare l’Egitto a bordo di un aereo egiziano. Il velivolo, una volta in volo sui cieli della Tunisia, era però fatto atterrare dai “caccia” americani sulla base militare di Sigonella, in Sicilia. Nella base americana i terroristi venivano presi in consegna dagli agenti di pubblica sicurezza italiani, mentre il loro capo, Abu Abbas, era rilasciato e, a bordo di un aereo, poteva rifugiarsi in Iugoslavia. 29 Una soluzione che, a nostro giudizio, potrebbe ammettersi (presupponendo, ovviamente, anche terrorismus), perché sono registrati anche i termini in -ismus, per identificare le forme ideologiche del Novecento, come il comunismo (communismus), il socialismo (socialismus) e il nazismo (nazismus), nel dizionario di J. Mir – C. Calvano, Nuovo vocabolario della lingua latina, cit. (alle pp.63, 244, 175). 142 Da notare il neologismo fedahinis, abl. pl. m. presupponente il nom. sing. fedahinus, latinizzazione dell’arabo fedahin (ovvero fedayn), per indicare il guerrigliero palestinese. Con armis ignivomis (abl. n. plur., nom. arma ignivoma) sono indicate genericamente le armi di cui erano dotati i dirottatori (mitra kalashnikov). Sella rotali, abl. sing. f., rimanda a un nom. sella rotalis, la “sedia a rotelle”. Da notare anche i termini aeroplana e aeronavem, varianti per indicare i velivoli coinvolti nella vicenda. Il Fronte per la Liberazione della Palestina (FLP) è reso con l’espressione Corpus Palaestinae liberandae. Gli agenti di pubblica sicurezza italiani sono indicati con l’espressione publicae securitatis custodes. CAEDES A TROMOCRATIS PALAESTINENSIBUS FACTA IN AEROPORTU ROMANO ET VINDOBONENSI (dal Diarium Latinum, Moderator et sponsor: Carolus Egger, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus: Octobri-NovembriDecembri, Anno MCMLXXXV, suppl. a “Latinitas”, IV, 1985, pp.284-285) Die XXVII mensis Decembris pax temporis natalicii in aeroportu Romano ad Fossam Traianam (Fiumicino) et Vindobonensi, qui a pago Schwechat appellatur, gravissimum in modum est turbata. In Romano aeroportu hora nona cum quindecim minutis ante meridiem ante ostiolum sedis societatis aeronauticae Israelianae, cui nomen El Al, et proximae stationis societatis aeronauticae Americanae, compendiariis litteris TWA insignis, subito quattuor tromocratae Palaestinenses constituerunt statimque pyrobolos iacere et e parvis polybolis (mitragliatrice, mitrailleuse, machinegun, Maschinengewehr) metallicas glandes spargere coeperunt. Immo etiam homines, ad thermopolium conglobatos, sine discrimine petierunt. Biocolytae (polizia, police, Polizei) Italici ac tecti vigiles Israeliani, vim illatam defendentes, tres aggressores occiderunt, quartum vulnerarunt, qui est in custodiam datus. Tredecim iter aerium inituri sunt interfecti, in quibus Anastasia Simpson, puellula undecim annorum Americana, quae, in valetudinarium recepta, confestim est mortua; circiter sexaginta homines sunt sauciati. Eodem die et eadem fere hora in aeroportu Vindobonensi tres tromocratae in oecum proficiscentium incurrerunt, item sedem societatis aeronauticae Israelianae adorturi. Nonnulli, qui ibi scidulas «conscensionales», id est quibus facultas datur aeronavem conscendendi, exspectabant, sunt interempti, ad quadraginta sauciati. Tromocratae in tanto tumultu aufugerunt, raedarium autocineti, quod forte foris erat, armis cogentes ut se aveheret. Sed milites a publica tutela Austriaci, eos insecuti, comprehenderunt, postquam ictus manuballistulis hinc inde sunt missi. Unus e praedonibus est interfectus. Audaces manus horum tromocratarum eo sunt periculosiores, quod ii sunt voluntarii sui interemptores, id est parati mortem sponte obire (quos sermone Iaponico kamikaze appellant). L’articolo narra delle stragi compiute da terroristi palestinesi sotto il periodo natalizio (pax temporis natalicii… gravissimum in modum est turbata), ossia il 27 dicembre 1985, negli aeroporti di Fiumicino a Roma e di Schwechat a Vienna. All’aeroporto romano di Fiumicino (ad Fossam Traianam), alle ore nove e un quarto, fermatisi davanti all’ingresso della sede della compagnia aerea (societas aeronautica) israeliana El Al, che è attigua a quella dell’americana TWA, all’improvviso quattro terroristi (tromocratae) palestinesi cominciarono a lanciare bombe a mano (pyrobolos) e a sparare con mitragliette automatiche (et e parvis polybolis metallicas glandes spargere coeperunt, lett. “e cominciarono a spargere pallottole dalle piccole mitragliatrici”). Colpirono, indistintamente, anche individui che affollavano il bar (thermopolium). Poliziotti (biocolytae) italiani e agenti segreti (tecti vigiles) israeliani, reagendo all’aggressione, uccisero tre terroristi e ne ferirono un quarto, che venne catturato. Furono uccisi tredici passeggeri in attesa di imbarcarsi, tra i quali Anastasia Simpson, ragazzina americana di undici anni, morta all’ospedale subito dopo il ricovero (quae, in valetudinarium recepta, confestim est mortua). Nello stesso giorno e quasi alla stessa ora tre terroristi nell’aeroporto di Vienna (in aeroportu Vindobonensi) irruppero nella sala d’attesa dei viaggiatori in partenza (in oecum proficiscentium), con l’intenzione, anche qui, di assalire la sede della compagnia israeliana. Rimasero uccisi alcuni viaggiatori, che attendevano di ritirare la carta d’imbarco (scidulas «conscensionales», id est quibus facultas datur aeronavem conscendendi, lett. “biglietti di salita a bordo, ossia con i quali si consente di imbarcarsi sull’aereo”), e circa quaranta furono feriti. I terroristi, fuggiti nella grande confusione dall’aeroporto, costrinsero con le armi un automobilista (raedarium autocineti), che sostava lì per caso, a prenderli a bordo della sua auto, ma gli agenti austriaci di pubblica 143 sicurezza li inseguirono e li catturarono, dopo uno scontro a fuoco (postquam ictus manuballistulis hinc inde sunt missi , lett. “dopo che furono esplosi colpi di pistola da ambo le parti”). Uno dei banditi rimase ucciso. Le azioni audaci di questi terroristi sono tanto più pericolose perché sono pronti ad affrontare la morte, come i kamikaze giapponesi. Come neologismi notiamo aeroportus e l’espressione societas aeronautica, per indicare la compagnia aerea, tromocratae per indicare i terroristi, pyrobolum per la bomba a mano. La mitragliatrice è indicata con polybolum, termine coniato dal prefisso gr. πολυ-, esprimente l’idea di molteplicità (dall’agg. πολύς , “molto”), e dal suffisso -βολος (dal gr. βάλλω, “scagliare, gettare”): lett., è l’ “ordigno che lancia molti proiettili”. La pallottola è indicata dall’espressione metallica glans, lett. “ghianda di metallo”; per il moderno bar l’autore è ricorso al termine classico thermopolium (composto dal gr. θερμός e πωλέω, lett. “spaccio caldo”), che nell’antica Roma, e soprattutto a Pompei, indicava i locali di ristorazione, antenati delle “tavole calde”, ove gli avventori potevano bere vino e gustare qualche piatto alla buona. 30 Un altro interessante neologismo è biocolytae, coniato per indicare gli agenti di polizia: è la latinizzazione di un termine greco, βιοκωλύτης (da βία, “violenza” e κωλύω, “impedire”), “colui che impedisce atti di violenza”, che è usato in ambito giuridico, ad esempio nelle Novellae constitutiones di Giustiniano (Nov. 8,12) per indicare le guardie pubbliche. Gli agenti segreti israeliani sono chiamati tecti vigiles, lett. “guardie coperte”; valetudinarium indica l’ospedale, mentre l’oecus proficiscentium è la sala d’aspetto dei viaggiatori (oecus dal gr. οι̉̃κος). Le carte d’imbarco sono indicate con l’espressione scidulae «conscensionales» (scidula è dimin. del lat. scida o scheda, “foglio”, dal verbo gr. σχίζω, “spezzare, dividere”), spiegata con la perifrasi id est quibus facultas datur aeronavem conscendendi. Il conducente dell’autoveicolo è chiamato raedarius autocineti: nel latino classico il raedarius era il guidatore della raeda (o rheda), carrozza da viaggio a quattro ruote e due o quattro cavalli, di origine gallica, largamente usata per il pubblico trasporto di persone, merci e corrispondenza. 31 Il gen. autocineti (nom. autocinetum), che integra l’espressione, è un neologismo coniato dal prefisso gr. αυ̉το- e dal verbo gr. κινέω, “mettere in movimento”. Per la pistola si ricorre a manuballistula, composto dal prefisso manu- e dal diminutivo di ballista, che nel latino classico indicava una macchina per lanciare pietre e vari proiettili nel campo nemico, da cui l’it. balestra. Interessante la perifrasi, d’origine classica, per indicare i volontari suicidi, chiamati poi kamikaze, con l’ausilio del giapponese: voluntarii sui interemptores, “i volontari assassini di sé medesimi”. Non è stato coniato ancora un termine, in latino moderno, esprimente il concetto: potrebbe essere accettabile uno del tipo autointerfectores? Un secondo gruppo di articoli, che riportiamo, riguarda fatti di cronaca nera. MALEFICIUM CIGARETTAE (dalla rubrica Commentarium Aprilis, in “Vita Latina”, anno MCMLXVII, Mense Maio, n.30, p.82) In quadam urbis Clichy domo, mulier mortua in combusto pulvinari et ad modum carbonis redacta reperta est. Quomodo res acciderit facile conjicitur quia notum erat illam feminam tum somniferis medicamentis tum fumo tabaci multum uti. Probabile est ergo eam somno raptam esse atque cigarettam ab ejus labiis decidentem pulvinar incendisse. L’articolo menziona l’evento di una tragedia domestica, avvenuto a Clichy nell’aprile del 1967: una donna fu trovata pressoché carbonizzata, tra i resti bruciati del suo letto. L’incendio fu causato 30 Sui thermopolia di Roma e Pompei rimandiamo alla voce osteria nel dizionario di Karl-Wilhelm Weeber, Vita quotidiana nell’antica Roma, trad. di Francesca Ricci, Newton & Compton editori, Roma 2003, pp.299-300. 31 Sulla rheda informa Giuseppina Pisani Sartorio, Mezzi di trasporto e traffico (Vita e costumi deiRomani antichi, n.6), Edizioni Quasar, Roma 1994², pp.58-61. 144 da una sigaretta lasciata inavvertitamente accesa dalla donna, che aveva ingerito sonniferi ed era stata colta dal sonno. Per indicare il letto della donna è stato usato il termine del latino classico pulvinar. Che la donna fumasse molto è indicato dall’espressione fumo tabaci (nom. tabacum) multo uti. Somnifera medicamenta sono i sonniferi. Cigaretta, forma latinizzata del fr. cigarette, è al posto del più usato (e registrato) convolvulus tabacinus. 32 Per Clichy non è stranamente usato il corrispondente toponimo latino. VIR COLUMBIANUS, VENENUM STUPEFACTIVUM GERENS IN VENTRE, NOLENS SE IPSE INTEREMIT (dal Diarium Latinum, Moderator et sponsor: Carolus Egger, Mensibus: Iunio, Iulio, Augusto, Septembri, Octobri, Anno MCMLXXXX, in “Latinitas”, III, 1990, p.205) Medio mense Augusto, dum calores sunt maximi, hoc accidit in statione ferroviaria Urbis: Vincentius Mellana, vir Columbianus, cocaini negotiator fraudulentus, eius veneni chiliogramma, diligenter dispertitum et in parvis excipulis e re plastica inclusum, ore hausit et in stomacho servavit. In statione illa ferroviaria quidam, rixa excitata, pugnum in stomachum Columbiani impegit, quo factum ut unum e quattuor excipulis illis rumperetur et cocainum in circuitum sanguinis immitteretur. Sic miserandus ille negotiator et lucrum et vitam amisit. Il fatto è avvenuto ad agosto del 1990, alla stazione Termini di Roma. Uno spacciatore di cocaina (cocaina negotiator fraudulentus) di nazionalità colombiana, tale Vincente Mellana, è morto durante una rissa, a seguito di un pugno ricevuto allo stomaco. L’uomo, infatti, aveva inghiottito e teneva nello stomaco un chilo di cocaina sigillata in capsule di plastica (eius veneni chiliogramma, diligenter dispertitum et in parvis excipulis e re plastica inclusum, ore hausit et in stomacho servavit). Il pugno ricevuto ha causato la rottura delle capsule e la cocaina è entrata immediatamente in circolo, determinando la morte dell’individuo. Statio ferroviaria è forma in alternanza con statio ferriviaria. Per indicare il trafficante o spacciatore di droga (cocaina) è usata la perifrasi cocaini negotiator fraudulentus. I piccoli contenitori o capsule di plastica contenenti la droga sono indicati con parva excipula e re plastica. L’excipulum nel latino classico (dal verbo excipio, “ricevere, accogliere, prendere” e suff. dim. ulum) significa “recipiente, vaso”. VESANI FAUTORES FOLLE PEDIBUSQUE LUDENTIUM GRAVISSIMIS POENIS IN BRITANNIA DAMNATI (dal Diarium Latinum, Moderator et sponsor: Carolus Egger, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus: Octobri-NovembriDecembri, Anno MCMLXXXV, suppl. a “Latinitas”, IV, 1985, pp.282-283) Primum ex quo coeptum est ludi folle pedibusque, gravissima sententia contra vesanos fautores hac ludica exercitatione certantium mense Novembre in Britannia est pronuntiata. Circiter viginti eorum qui, eiusmodi ludis astantes, rem ad manus et pugnam vocarunt, praegravibus poenis sunt damnati, ex quibus unus, nomine Kevinus Whitton, sempiternis est vinculis mandatus, quia certamen inter turmam Londiniensem et Mancuniensem (Manchester) una cum aliis manu prompta turbavit. Alius ex eodem grege in carcerem est coniectus, octo annos ibi mansurus. Sine ulla dubitatione ad talem sententiam ferendam vim habuit caedes Bruxellis in Heyseliano stadio edita, ubi manus Liverpulana et «Iuventus» Taurinensis inter se pugnaverunt. Contra Kevinum Whitton tam graviter est animadversum, quia facinus iterato admisit. La notizia riguarda la prima gravissima sentenza, dall’inizio del gioco del calcio (ex quo coeptum est ludi folle pedibusque), comminata a novembre del 1985, in Inghilterra, contro i teppisti degli stadi (contra vesanos fautores). Circa venti di questi esagitati, colpevoli di aver scatenato risse e incidenti durante le partite di calcio, sono stati colpiti da pene gravissime: tra questi il giovane Kevin Whitton è stato condannato all’ergastolo (sempiternis est vinculis mandatus), per gli incidenti, i ferimenti e le devastazioni causate 32 Cigaretta non è registrato nel dizionario di J. Mir – C. Calvano, Nuovo vocabolario della lingua latina, cit. 145 durante e dopo la partita Chelsea-Manchester. Un altro suo accolito è stato condannato a otto anni di detenzione. Senza dubbio una così grave sentenza è stata suggerita ai giudici inglesi dalla strage avvenuta allo stadio di Heysel, a Bruxelles, durante l’incontro tra Liverpool e Juventus (ubi manus Liverpulana et «Iuventus» Taurinensis inter se pugnaverunt). Contro Kevin Whitton i giudici hanno preso un provvedimento così grave perché l’imputato ha ammesso di aver ripetuto i fatti contestatigli (quia facinus iterato admisit). L’articolo presenta i termini del lessico calcistico latino: i teppisti degli stadi sono chiamati nel titolo con una lunga perifrasi, vesani fautores folle pedibusque ludentium, lett. “i tifosi impazziti dei giocatori di calcio”, la squadra del Liverpool è la manus Liverpulana. Da notare che i calciatori, nel titolo, sono chiamati folle pedibusque ludentes, con un’espressione trimembre (participio reggente due abl. strumentali), mentre per calciatore è usato anche il sostantivo pedilusor (da pediludium, composto di pes, pedis , “piede”, e ludere, “giocare”, che indica il gioco del calcio). 33 Un altro gruppo di articoli che presentiamo riguarda notizie di carattere medico-scientifico e annunci di nuove invenzioni. 34 «SYNDROME COMPARATI DEFECTUS IMMUNITATIS» (AIDS) NOVA PESTILENTIA ESSE PERHIBETUR (dal Diarium Latinum, Moderator et sponsor: Carolus Egger, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus: Octobri-Novembri-Decembri, Anno MCMLXXXV, suppl. a “Latinitas”, IV, 1985, pp.280-281) Nomen AIDS, quod e primis litteris verborum Anglicorum Acquired Immunity Deficiency Syndrome («syndrome comparati defectus immunitatis») constat, quasi de nova agatur pestilentia, hominum, qui nunc sunt, animos perturbat. Virus sanguine vel aliis liquoribus organicis transmittitur. Nullum adhuc remedium efficax adversus hunc morbum mortiferum est inventum. Nec solum homosexuales et medicamentis stupefactivis utentes eo corripiuntur, sed etiam alii, in quibus infantes, pueri puellaeque. Novum Eboracum primum locum in urbibus obtinet, ubi hac nova pestilentia laboratur. Ab anno MCMLXXIX usque in praesens ibi duo milia hominum et ducenti septuaginta duo, secundum rationarium medicorum, eo morbo sunt mortui. La notizia riguarda il morbo dell’AIDS, che l’umanità nel 1985 stava imparando a conoscere in tutta la sua drammatica virulenza. L’articolo fornisce poche, scarne notizie: come fosse una nuova peste, il virus atterrisce gli animi dei contemporanei, si trasmette col sangue o altri liquidi organici, contro di esso non è stato ancora ancora trovata una cura efficace, ne sono colpiti non solo gli omosessuali (homosexuales) e i tossicodipendenti (medicamentis stupefactivis utentes), ma anche altri soggetti, tra cui i bambini. New York (Novum Eboracum) risulta essere la città più colpita dal contagio. Dal 1979 fino ad oggi (ossia al 1985) sono morti di AIDS nella città americana 2272 individui, secondo i calcoli dei medici. 33 Attestato nel dizionario di J. Mir – C. Calvano, Nuovo vocabolario della lingua latina, cit., p.45. A proposito dell’adattabilità del latino a contenuti di carattere tecnico-scientifico, segnaliamo che il «Praemium Urbis» per il LIX Certamen Capitolinum, organizzato dall’Istituto di Studi Romani, è stato conferito a Luigi Luzzi, autore della composizione De ozonio et ozonosphaerae foramine, “un elaborato che affronta una tematica ardua e di grande attualità, risolvendo i comprensibili problemi espressivi con una prosa elegante e scorrevole” (dalla Rassegna d’informazioni dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, n.7-9, luglio-settembre 2008, p.3). 34 146 Da notare la traduzione latina di AIDS (syndrome comparati defectus immunitatis), ove compare il termine syndrome, latinizzazione dal gr. συνδρομή, “concorso di folla; insieme di sintomi” (da σύν, “con”, e δρόμος, “corsa”). Per indicare i tossicodipendenti è usata la perifrasi medicamentis stupefactivis utentes, lett. “quelli che usano sostanze stupefacenti” (ma nel Nuovo vocabolario della lingua latina di J. Mir – C. Calvano, Milano 1992, II rist., è registrato il termine drog(i)a per “stupefacente”). 35 FRATRES GEMINI «SIAMENSES» SECTIONE CHIRURGICA FELICITER SUNT SEIUNCTI (dal Diarium Latinum, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus: Junio, Julio, Augusto, Septembri, Octobri, Anno MCMLXXXX, in “Latinitas”, III, 1990, pp.204-205) Non agitur quidem de fratribus geminis vere Siamensibus, sed de infantibus Hassan et Salem e Libya oriundis. Solent autem fratres gemini, quorum corpora naturae vitio ex parte sunt coniuncta, ita appellari exemplo conspicuo germanorum hoc modo deformium, qui saeculo XIX in Siamo – ut illa aetate Thailandia vocabatur – fuerunt quorum pectora e matris utero conectebantur (nihilominus matrimonium inierunt patresque exstiterunt viginti duorum filiorum). In nosocomio Vindobonensi delecti medici perdifficilem sectionem chirurgicam – immo quinque sectionum seriem – peregerunt : imprimis necesse fuit vasa sanguinea in cerebro, quae parvulis illis Libycis erant communia, separare, deinde utrique calvariam e re plastica imponere. Solum recentissima artis medicae progressione potuit fieri ut eiusmodi sectio, id est capitum seiunctio, perficeretur. Eiusdem artis periti quasi quoddam miraculum factum esse declarant. Id mense Iulio evenit. La notizia non riguarda i veri e propri gemelli siamesi, ma due piccoli libici, Hassan e Salem, congiunti dalla nascita nella parte craniale e separati con successo da una équipe medica viennese. I gemelli siamesi (gemini «Siamenses»), ossia quelli che nascono uniti in qualche parte del corpo per una naturale anomalia (quorum corpora naturae vitio ex parte sunt coniuncta), sono così chiamati dal caso dei due gemelli originari del Siam – l’odierna Thailandia –, che nacquero uniti nella parte toracica (ciononostante poterono sposarsi e mettere al mondo ventidue figli). 36 All’ospedale di Vienna, nel mese di luglio 1989, medici specialisti (delecti medici) hanno eseguito una difficilissima operazione chirurgica (perdifficilem sectionem chirurgicam peregerunt) – anzi una serie di cinque interventi –: prima hanno dovuto separare i vasi sanguigni cerebrali, che i due gemellini avevano in comune, poi a entrambi hanno dovuto applicare una speciale calotta di plastica (deinde utrique calvariam e re plastica imponere). Solo i recentissimi progressi della medicina hanno potuto permettere l’effettuazione di tale intervento, ossia la separazione dei crani: un’operazione che, a detta degli esperti, è stata quasi un miracolo. L’ospedale è qui indicato come nosocomium, in alternativa a valetudinarium. L’operazione di neurochirurgia è la sectio chirurgica, i vasi sanguigni cerebrali sono indicati come vasa sanguinea in cerebro, la speciale calotta cranica apposta ai due piccoli pazienti, dopo l’intervento, è la calvaria (termine che nel latino classico è usato col senso di “cranio”) e re plastica. DE «LACUNA OZONICA» (dal Diarium Latinum, Moderator et sponsor: Carolus Egger, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus: Octobri-NovembriDecembri, Anno MCMLXXXVIII, suppl. a “Latinitas”, n.3, 1988, pp.210-211) Quadringenti speculatores venatoresque naturae, ut verbis utar Tullianis, mense Augusto Gottingam (Göttingen), in Germaniae urbem, sunt congregati ut de «lacuna ozonica» per sex dies disceptarent atque consilium darent iis qui in publica re versantur atque officio tenentur rei oecologicae prospicienti. Panditur in stratosphaera, quae par est aëris Terrae circumfusi, in altitudine, quae est inter viginti et triginta chiliometra, ozonosphaera, qua solis radii perviolacei (ultravioletti, ultraviolets, ultra-violets, ultraviolette) cohibentur seu potius colantur. 35 Vd. p.94. Sono i primi celebri gemelli siamesi Chang e Eng, che, scampati alla morte decretata loro da re del Siam, sposarono due sorelle americane e generarono più di venti figli (vd. la loro storia in Darin Strauss, Chang ed Eng (Chang and Eng, 2000), trad. di Idolina Landolfi, Rizzoli, Milano 2001). 36 147 Verumtamen in regione antartica factus est hiatus seu lacuna in ozonosphaera, ita ut perpetua glacies, qua axis meridianus contegitur, calescat. Ozonio deficiente etiam caeli status mutatur. Haec pericula hominum generi impendere dicuntur: cancer in pelle et calor in mundo, qui similis caldariae herbarum aedi (serra, serre, hothouse, Treibhaus) effici possit. Affirmant in causa esse gasia et sparsivos liquores nebulosos (aerosol), quae ob inductam quaestuosam industriam per haec decennia ingenti auctu in aëra sunt emessa. Agitur hominum generis salus! Il fenomeno del buco nell’ozono è l’argomento di questo articolo. Quattrocento studiosi e ricercatori della natura (speculatores venatoresque naturae) nell’agosto 1988 hanno partecipato a un convegno di sei giorni a Gottinga, in Germania, per discutere del “buco nell’ozono” e formulare proposte da presentare ai governi e ai ministri dell’ambiente. L’ozono è un gas atmosferico presente nella stratosfera, tra i venti e i trenta chilometri d’altezza, che permette di riparare la Terra dai raggi ultravioletti, perché li respinge o piuttosto li filtra (qua solis radii per violacei cohibentur seu potius colantur). Ma nella regione antartica si è formato un buco nella sfera di ozono che avvolge il pianeta (in ozonosphaera), cosicché il ghiaccio che ricopre la superficie polare si sta riscaldando. La riduzione dell’ozono ha effetti anche sul clima. I pericoli che incombono sul genere umano sono i tumori della pelle e l’aumento della temperatura globale del pianeta, ossia il fenomeno dell’ “effetto serra” (calor in mundo, qui similis caldariae herbarum aedi effici possit, lett. “l’aumento di temperatura nel mondo, che potrebbe esser reso simile a una serra”). La causa della riduzione dell’ozono è attribuita ai gas e ai propellenti delle bombolette spray emessi nell’atmosfera in quantità sempre maggiori e prodotti dalle industrie che badano soltanto ai profitti. Speculatores venatoresque naturae sono chiamati, con il dotto stilema ciceroniano (dal De natura deorum 1,83), gli studiosi e i ricercatori della natura che si sono riuniti a convegno a Gottinga; «lacuna ozonica» indica il buco nell’ozono (ozonium); stratosphaera (composto grecolatino dal verbo lat. sterno, “stendere, cospargere”, e dal gr. σφαιρ ̃ α, “sfera”) e ozonosphaera (da ozonium e σφαιρ ̃ α) indicano i corrispondenti strati dell’atmosfera; solis radii perviolacei è perifrasi per indicare i raggi ultravioletti; caldaria herbarum aedes è la serra, lett. la “calda dimora delle piante” (espressione costruita probabilmente su caldaria cella, che in Plinio, Ep. 5,6,26, indica la stanza con vasche per il bagno caldo); gasia (sing. gasium) indica i gas; sparsivi liquores nebulosi sono i gas propellenti usati come spray, del tipo aerosol, che a sua volta è la sigla di sol(uzione) aer(ea), il cui significato è sotteso dall’espressione latina. Notevole, da ultimo, è l’arguto gioco di parole, quale ammonimento finale: agitur hominum generis salus! L’espressione è basata, a nostro giudizio, sul doppio senso di salus, “salute” e “salvezza”. “È in gioco la salute del genere umano!”, perché l’esposizione alle radiazioni ultraviolette può provocare tumori della pelle, ma è anche in gioco la sua salvezza, giacché il surriscaldamento progressivo e ininterrotto della temperatura potrebbe causare, fra l’altro, lo scioglimento dei ghiacci polari, con effetti catastrofici per il pianeta. ITER AD LUNAM 37 (dalla rubrica Commentarium Martii, in “Vita Latina”, anno MCMXVI, Mense Dicembri, n.29, p.72) Notum est soviéticum missile, nómine Luna IX, ultimo Januárii die post méridiem ad satéllitem terræ jactum esse. Scopum die tértio Februárii mane attigit. Inde prima photográphica lunæ imago in terram die sequenti pervenit. Mirábile quidem! Mirabílius autem erit (quod jam impossibile non videtur) quando ipse homo lunam adibit. Tu vero puer, noli de hoc eventu in scholā intempestive cogitare ne magister te interpellet: «Puer, attendisne ad ea quae dico? Nonne in lunā mente vagaris?» È uno dei primi articoli sulle imprese spaziali, negli anni Sessanta, e ricorda il lancio verso la Luna della sonda sovietica Lunik 9, avvenuto il 31 gennaio 1966. Atterrata sulla Luna, la sonda inviò poi le prime foto della superficie del satellite. L’autore preconizzava l’allunaggio dell’uomo (che sarebbe avvenuto, com’è noto, nel 1969) e concludeva il breve scritto con una battuta 37 I termini accentati compaiono nel testo. 148 spiritosa, Nonne in luna mente vagaris?, rivolta dal maestro all’alunno distratto (che è un modo di dire anche in italiano). Da notare l’aggettivo sovieticus (stranamente non in maiuscolo), riferito a missile, 38 e l’espressione photographica imago (agg. derivato da photographia, dal gr. φως̃ , “luce”, e γραφ ́ ω, “scrivere”, lett. “riproduzione di una immagine fatta attraverso la luce”). AEREOFOLLIS ADHUC IN USU (dalla rubrica Commentarium Maii, in “Vita Latina”, anno MCMLXVII, Mense Maio, n.30, p.84) Vix hodie memoria habetur illorum ingentium follium sphericorum hydrogenio inflatorum, in quibus audaces homines iter per aerem olim faciebant. Non tamen omnino derelinquuntur. His diebus photographica illiusmodi follis publicatur in quo americanus Barnes foederatos Americæ Status supervolare intendit. Octo hebdomadas iter aereum faciet. Il breve testo ricorda le mongolfiere e preannuncia il volo in mongolfiera dell’americano Barnes, sugli Stati Uniti, che durerà otto settimane. La mongolfiera (aereofollis) è indicata anche con la perifrasi folles sphericae hydrogenio inflatae, lett. “palloni sferici riempiti di idrogeno”. DE PERCONTATRO MARTIALI (da Nuntii Latini 6.6.2003, dal sito Latinitas viva , testo accessibile all’indirizzo: www.latinitatis.com/latinitas/menu_it.htm ) Ordo Europaeus spatio cosmico investigando (ESA) suam expeditionem in aliam planetam incohavit, cum proprium percontatrum spatiale ex Cazastania ad stellam Martem versus emisit. Propositum est, ut hoc navigium iter suum quadringentarum fere milionum chilometrorum iam ante finem huius anni emetiretur. Ei applicatum est instrumentum sensorium, quod solum planetae perscrutaretur ad cognoscendum, utrum ibi aqua aut alia vitae signa invenirentur necne. Nell’articolo si annuncia il lancio di una sonda spaziale verso Marte, da una base in Kazakistan, effettuato nel giugno 2003 dall’ESA (European Space Agency, Ente Spaziale Europeo). La sonda, secondo il progetto degli scienziati, sarebbe dovuta arrivare sul pianeta alla fine dell’anno, dopo aver percorso quattrocento milioni di chilometri. Era provvista di uno strumento sensorio per l’esplorazione del suolo marziano e la ricerca di acqua o segni di vita. La sigla ESA è stata sciolta in latino con l’espressione Ordo Europaeus spatio cosmico investigando. Percontatrum spatiale designa la sonda spaziale (dal verbo lat. percontor, “interrogare, indagare” e il suffisso -atrum): altra espressione, di eguale significato, usata dai latinisti moderni è siderale instrumentum speculatorium. Instrumentum sensorium indica l’insieme della strumentazione applicata alla sonda, per compiere i rilievi sul Pianeta Rosso. AUTOCINETUM SOLARE INVENTUM (dal Diarium Latinum, Moderator et sponsor: Carolus Egger, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus: Octobri-NovembriDecembri, Anno MCMLXXXVIII, suppl. a “Latinitas”, n.3, 1988, pp.209-210) Autocinetum solare, nuperrime inventum, mense Augusto, experimenti causa Darvinopoli (Darwin) vectum est Adelaidopolim (Adelaide), id est a septentrione ad meridiem Australiane. Vehiculum sic est constructum ut sola vi solari propellatur, ad quod amplae laminae metallicae, id paene contegentes, non tamen excedentes quattuor metrorum spatium, sunt necessariae. In iis novem milia cellularum solarium continentur. Capsus ipse est admodum parvus; in quo machinamentum motorium electricum est et gubernator. Pondus totius vehiculi est solum centum sexaginta quinque chiliogrammatum, velocitas usque ad centum tredecim chiliometra unius horae tempore pertingit. Loco indicis benzini est amperometrum, quo ostenditur, quantum roboris supersit adhuc in peculiaribus pilis ex argento et zinco. Ratio huius vehiculi automatarii fabricandi, quod Anglice spaceracer nuncupatur, summo secreto obtegitur (top secret dicunt Americani). 38 Nel dizionario di J. Mir e C. Calvano, Nuovo vocabolario della lingua latina, cit., è registrato (p.169) per “missile” anche il non più ammesso f. rocheta (forma latinizzata dell’ingl. rocket). 149 L’articolo dà notizia dell’invenzione, in Australia, di un veicolo ad energia solare. L’invenzione è stata provata nell’agosto 1988 con successo: l’automobile ha coperto il percorso nord-sud da Darwin ad Adelaide. Il veicolo è mosso esclusivamente dall’energia solare (vehiculum sic est constructum ut sola vi solari propellatur): ad esso sono stati applicati grandi pannelli metallici, lunghi poco meno di quattro metri, che contengono novemila cellule solari. Nel piccolo spazio interno sono disposti il motore elettrico e l’abitacolo del guidatore. Il peso complessivo non supera i centosessantacinque chili, la velocità può toccare i centotredici chilometri all’ora. Al posto dell’indicatore di benzina (loco indicis benzini) vi è un amperometro che misura la corrente presente nelle speciali batterie di argento e zinco. I piani di costruzione del veicolo, il cui nome inglese è spaceracer, sono coperti dal più assoluto segreto (top secret). Autocinetum solare indica l’autoveicolo ad energia solare, cellulae solares sono le cellule solari, con capsus (in latino classico la “cassetta” ove siede il cocchiere, vd. VITR. 10,9,2) è da intendere lo spazio interno del veicolo, contenente il vano motore e l’abitacolo del pilota. Altri termini tecnici: index benzini (gen. sing. presupponente un nom. benzinium) è l’indicatore del livello di benzina, amperometrum è l’amperometro, strumento che misura l’intensità della corrente elettrica. Summum secretum corrisponde all’ingl. top secret. MANUALE INSTRUMENTUM ASPERSIONI NUBIFORMI FACIENDAE CONTRA AGGRESSORES IN BRITANNIA INVENTUM (dal Diarium Latinum, Moderator et sponsor: Carolus Egger, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus: Ianuario et Februario, Anno MCMLXXXIX, suppl. a “Latinitas”, I, 1989, p.44) Manuale instrumentum, quod in sinu condi potest ideoque portatu est facile, in Britannia est inventum, quo praesertim mulieres et homines aetate provecti scelestorum aggressiones valent declinare. Venit autem pretio sex sillingorum (shilling). Ita, quemadmodum speratur, nefarii conatus latrunculorum circumforaneorum, qui mulieribus et senibus monile aut peram eripiunt (Italice scippatori vocantur), ad irritum cadent; etiam improbi pudicitiae expugnatores a mulieribus facilius poterunt repelli. Hoc instrumentum eo est efficax quod aggressor aspersione nubiformi (spray) rutili coloris irroratur; maculae, in eius veste inde effectae, solum smegmate chemico possunt auferri. Accedit quod cum aspersione illa vehemens odor coniungitur, ita ut molestissimus vexator eo etiam possit agnosci. Recte ergo instrumento illi nomen Anglicum tracer est inditum, quod idem valet ac vestigator. Haec mense Ianuario diario quodam sunt vulgata. L’articolo annuncia l’invenzione, in Inghilterra, di uno spray antiaggressioni, presentato nel gennaio 1989. È facile da nascondere addosso, e può essere utile a donne e anziani per scoraggiare eventuali malintenzionati. È venduto al prezzo di sei scellini. È sperabile che con questo ritrovato scippatori e maniaci facilmente possano essere respinti. L’efficacia dello spray sta nel fatto che spruzza addosso all’aggressore una sostanza di colore rosso, le cui macchie possono essere tolte soltanto con un detergente chimico. Inoltre la sostanza spruzzata emana un odore pungente e persistente, che può essere utile per individuare il malintenzionato. Gli inglesi hanno battezzato lo strumento tracer, perché ha la stessa efficacia di un investigatore. Da notare, nel testo, l’espressione aspersio nubiformis, per indicare lo spray, nonché la lunga perifrasi latrunculi circumforanei, qui mulieribus et senibus monile aut peram eripiunt (lett. “i ladruncoli che gironzolano per la città e strappano alle donne e agli anziani i gioielli e le borse”) che designa gli scippatori. Un’altra perifrasi, improbi pudicitiae expugnatores, lett. “i malvagi espugnatori della pudicizia femminile”, designa i maniaci e i violentatori. Con l’abl. smegmate chemico (da cui il nom. neutro smegma chemicum, dal gr. σμηγ̃ μα, “detergente, unguento”) è indicato il detergente chimico. Altri articoli riguardano anniversari e decessi di illustri personaggi. ENTIUS FERRARI, PRINCEPS REI AUTOCINETICAE CURRULIS, VITA FUNCTUS (dal Diarium Latinum, Moderator et sponsor: Carolus Egger, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus: Octobri-NovembriDecembri, Anno MCMLXXXVIII, suppl. a “Latinitas”, n.3, 1988, p.209) 150 Die XIV mensis Augusti Mutinae (Modena), ubi et natus erat, Entius Ferrari nonagenarius diem obiit supremum, qui princeps fuit rei autocineticae currulis seu ad certamina pertinentis, quae in autocinetodromis eduntur. De parvo crevit. Mature, anno MCMXXIX, autocineta cursoria coepit exstruere, quae praestantissimis gubernatoribus vehentibus, maximam famam per totum orbem terrarum sunt adepta: inter praecipuos gubernatores «Ferrarianos» hi recensentur: Vido Moll, Tatius Nuvolari, Aegidius Villeneuve, Nicolaus Lauda. Non igitur mirum quod rubra illa autocineta, quorum machinamentum motorium duodecim cylindris praeditum erat quaeque in huius viri ergasterio, in oppido Maranello, intra Mutinensis provinciae fines sito, conficiebantur, plurimum expeterentur. Tanta erat auctoritas Entii Ferrari, a saeculi conventibus ac strepitu remoti, ut et reges empturientes in eius procoetone exspectare debuerint. Sunt qui dicant eum maximum huius saeculi Italum fuisse. Nell’articolo si dà notizia della scomparsa, avvenuta a Modena il 14 gennaio 1988, di Enzo Ferrari, il padre delle celeberrime macchine da corsa nonché principe dell’automobilismo sportivo ossia da competizione su circuito (qui princeps fuit rei autocineticae currulis seu ad certamina pertinentis, quae in autocinedromis eduntur). Ferrari se ne è andato all’età di novanta anni. È ripercorsa brevemente la sua vita: dopo un’infanzia modesta, nel 1929 cominciò a costruire auto da corsa (autocineta cursoria), che, grazie a validissimi piloti come Guy Moll, Tazio Nuvolari, Nicky Lauda e Gilles Villeneuve, ottennero la massima celebrità nel mondo. Non bisogna perciò meravigliarsi se le rosse macchine con motore a dodici cilindri (quorum machinamentum motorium duodecim cylindris praeditum erat), costruite da Ferrari nell’officina (in ergasterio) di Maranello, in provincia di Modena, erano assai richieste. La grande fama di Ferrari, uomo schivo e lontano dalle chiassose manifestazioni mondane, faceva attendere in anticamera (in eius procoetone) anche i re che volevano acquistare un suo modello. Secondo alcuni Enzo Ferrari è stato il più grande italiano del Novecento. Nel brano compaiono termini ed espressioni tecniche: la res autocinetica currulis è l’automobilismo da corsa, l’autocinetodromus è il circuito per le auto da corsa (termine composto dal prefisso gr. αυτ̉ ο-, dal verbo gr. κινεω ́ , “mettere in movimento” e dal sostantivo gr. δρομ ́ ος, “corsa”), il machinamentum motorium duodecim cylindris praeditum è il motore a dodici cilindri, l’ergasterium è l’officina di Maranello, in procoetone (nom. procoeton, dal gr. προκοιτων ́ ) designa l’anticamera nella quale Ferrari faceva attendere i suoi illustri acquirenti. AGATHA CHRISTIE, CELEBERRIMA FABULARUM CRIMINALIUM AUCTOR, ANTE CENTUM ANNOS IN BRITANNIA NATA (dal Diarium Latinum, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus: Junio, Julio, Augusto, Septembri, Octobri, Anno MCMLXXXX, in “Latinitas”, III, 1990, p.205) Non solum die IV mensis Septembris, quo ante centum annos in lucem est edita (in oppido Torquay), sed totum per annum memoria Agathae Christie, pernotae fabularum criminalium auctoris, in Britannia recolitur. Quae duodenonaginta fabulas criminales, animum moventes erigentesque, conscripsit; quibus adduntur sex fabulae milesiae ac quattuor libri alterius generis. Amplius miliardum eiusmodi fabularum venditum eaeque in quadraginta quattuor linguas esse conversae dicuntur. Quod prodigii simile esse videtur. Unde uberrimae scriptricis progenies quaestum facit amplissimum, quippe in quam iura auctoris devenerint. Persona notissima fabularum criminalium Hercules Poirot, investigator, esse cognoscitur. Il testo informa sul centenario della nascita della celeberrima regina del giallo (pernota fabularum criminalium auctor), la scrittrice inglese Agatha Christie (nata il 4 settembre 1890 a Torquay). Le celebrazioni dureranno per tutto l’anno. Agatha Christie ha pubblicato ben ottantotto avvincenti romanzi gialli (fabulas criminales), sei storie d’amore (fabulae milesiae) e quattro libri d’altro genere, vendendo più di un miliardo di copie. I suoi libri sono stati tradotti in quarantaquattro lingue e hanno fruttati enormi guadagni all’autrice, grazie ai diritti d’autore. Ha creato il famosissimo personaggio dell’investigatore Hercules Poirot. Con fabulae criminales vengono designati i romanzi gialli. LADISLAUS BIRO, INVENTOR GRAPHII SPHAERALIS, IN ARGENTINA VITA FUNCTUS 151 (dal Diarium Latinum, Moderator et sponsor: Carolus Egger, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus: Octobri-NovembriDecembri, Anno MCMLXXXV, suppl. a “Latinitas”, IV, 1985, pp.281-282) Ut die XXVI mensis Octobris accepimus, Bonaëropoli, in urbe principe Argentinae, vita functus est, annum agens octogesimum sextum, Ladislaus Biro, vir Hungarus, inventor graphii, quo nunc fere omnes utuntur. Id instrumentum est tubulo, quo atramentum continetur, et sphaerula, ad scribendum apta, instructum ideoque, ut liquet, cuspide caret. Cum exhaustum est in tubulo atramentum, plerumque proicitur graphium. Itali hoc graphium e nomine inventoris appellant biro, quod nos dicere possumus etiam graphium Biroanum. Vir Hungarus, qui anno MCMXL in Americam australem transmigravit, etiam libros conscripsit, imagines depinxit et recens tractavit de modo, quo uranium incrementis augeretur. L’articolo annuncia la scomparsa, avvenuta a Buenos Aires il 26 ottobre 1985, dell’ottantaseienne ungherese László Biró (1899-1985), l’inventore della famosa penna a sfera (inventor graphii sphaeralis), che da lui ha preso il nome. La penna di Biró consiste in un tubicino (tubulo), contenente in un apposito serbatoio l’inchiostro, e in una punta, con una sferetta metallica atta a scrivere (sphaerula, ad scribendum apta). L’inchiostro scorre dal tubicino alla punta e bagna la sferetta, che traccia il segno sul foglio. Gli italiani hanno chiamato questa penna, dal nome del suo inventore, biro (noi la possiamo chiamare anche graphium Biroeanum). L’inventore ungherese, che nel 1940 emigrò nell’America Meridionale, scrisse anche libri, dipinse quadri e infine studiò il modo di trattare l’uranio arricchito. Con graphium sphaerale è indicata la penna a sfera, sphaerula è la sferetta contenuta nella punta, che sparge l’inchiostro (atramentum), graphium Biroeanum è la versione latina della biro. Presentiamo ora altri articoli che riguardano particolari imprese sportive. ORIBATES HELVETIUS PERBREVI TEMPORE MONTEM ALBUM ASCENDIT INDEQUE DESCENDIT (dal Diarium Latinum, Moderator et sponsor: Carolus Egger, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus: Octobri-NovembriDecembri, Anno MCMLXXXVIII, suppl. a “Latinitas”, n.3, 1988, p.207) Iacobus Berlie, iuvenis Helvetius, oribates validissimus, ut die XXIX mensis Iulii est nuntiatum, principatum in Montis Albi (Monte Bianco, Mont Blanc) ascensu (cuius cacumen est in altitudine quattuor milium et octingentorum septem metrorum positum) simulque descensu est assecutus. Uterque enim inter se conexus hoc montanum efficiebat certamen. Ex oppido Campo Munito (Chamonix) summo mane profectus, Helvetius tam celeriter est ad Montis Albi verticem enisus, ubi miles eius adventum notavit, ac deinde ad oppidum illud remeavit ut tempore quinque horarum, triginta septem minutorum, quinquaginta secundorum perarduum iter conficeret et sic aemulum, Petrum Cusin, Sabaudum, qui ei instabat, tribus minutis et quattuor secundis superaret. Quamquam in glaciem lubricam ceciderat ac bis nervi eius tenti erant in cruribus, tamen Iacobus Bernie victor evasit. Il testo dà notizia di una straordinaria impresa alpinistica, compiuta dallo scalatore svizzero (oribates Helvetius) Jacques Berlie (o Bernie) e annunciata il 29 luglio 1988, ossia l’ascensione del Monte Bianco (alto 4807 metri) e l’immediata discesa, compiute nel tempo record di cinque ore, trentasette minuti e cinquanta secondi. Berlie ha iniziato la sua straordinaria impresa all’alba, partendo da Chamonix (ex oppido Campo Munito) e facendovi ritorno, dopo, appunto, essere asceso e disceso dal Monte Bianco, nel tempo di cinque ore e mezza (vincendo così il suo rivale, Pierre Cusin, con un tempo inferiore di tre minuti e quattro secondi). Una caduta sul ghiaccio e i crampi alle gambe non hanno impedito a Berlie di ottenere questo grande risultato. 39 Notevole, nell’articolo, è il neologismo oribates per “scalatore” o “alpinista”: è formato dal prefisso ori- (derivato dal sostantivo gr. ορ ̉́ ος, “monte”) e dal suffisso -bates (dal verbo gr. βαιν ́ ω, “andare, camminare”). STEPHANUS PEYRON, TABULA VELIFERA (SURF) USUS, AD AXEM SEPTENTRIONALEM PERVENIT (dal Diarium Latinum, Moderator et sponsor: Carolus Egger, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus: Octobri-NovembriDecembri, Anno MCMLXXXVIII, suppl. a “Latinitas”, n.3, 1988, pp.207-208) 39 Per la verità non abbiamo trovato riferimenti in Internet all’impresa compiuta da questo alpinista. 152 Mense Augusto hic vulgatus est nuntius: Stephanus Peyron, vir Gallus, arduis ludicris corporis exercitationibus assuetus, tabula velifera per tres hebdomadas vehens, inter glaciales montes vagantes (iceberg) et procellas furentes, ad polum magneticum septentrionalem feliciter pervenit. Postquam die XXX mensis Iulii in sinu Canadiensi, Resolute appellato, difficillimum iter iniit, mille quingenta chiliometra in vasta solitudine boreali confecit, saepius glacie detinebatur ac concutiebatur procellis, quarum velocitas centum chiliometrorum in unius horae spatio erat. Nihilominus locum petitum vir audentissimus atque fortissimus attigit: praeclarum facinus sane dignum historia! L’articolo annuncia l’eccezionale impresa del francese Stéphane Peyron, che, navigando per tre settimane su una tavola da surf, è riuscito a giungere sino al Polo Nord (magnetico). Partito il 30 luglio 1988 dall’isola di Resolute, in Canada, ha percorso millecinquecento chilometri in un mare solcato da iceberg e da venti che soffiavano a cento chilometri all’ora. Ciononostante è arrivato alla meta e ha compiuto una storica impresa. Notevole è la versione latina di surf, tabula velifera, composta con un termine come velifer, aggettivo usato dai poeti latini (ad esempio, Properzio 3,9,35). Aggiungiamo a questi testi anche un interessante dialogo, apparso nel 1966 sul periodico “Vita Latina” e tratto dalla vita quotidiana, di cui forniamo una nostra versione. DE BIROTA REPARANDA (dalla rubrica Quotidianae Vitae Colloquia, in “Vita Latina”, anno MCMXVI, Mense Dicembri, n.29, p.67) – – – – – – – – – – Dum urbem Vincentius autobirota petit, juxta viam Henricum animadvertit. Is birotam suam quam ad arborem applicaverat attente considerabat. Tum Vincentius constitit, et ad amicum accedens: Quid hic, inquit, facis? Id nonne vides ? Anterioris rotae gumen perforatum est. Quare involucrum et tubulum detraxi, ut foraminis locum reperirem. Quem tamen nec post horae quadrantem reperire potui. At cur non involucrum prius examinasti quam a tubulo separares ? Quid autem in eo, qui rugosus et luto maculatus est, videre poteram ? Fortasse clavum quo gumen peforatum est. Videamus. (Nec mora : clavi caput mox inventum est. Tum Vincentio:) Gratias tibi dico, Vincenti! – ait Henricus. Noli tamen maturius gaudere. Etenim, quoniam insipienter tubulum ab involucro detraxisti, foraminis locum etiam nunc ignoramus. Me ad res mechanicas minus idoneum esse fateor. Quid faciendum? Ad villam istam eamus. Villici certe nobis vas cum aqua commodabunt ut immerso tubulo per exeuntis aeris bullas foraminis locum detegamus. Tunc nihil aliud faciendum erit nisi ut ipso in loco guminis particulam conglutinemus. COME SI RIPARA LA BICICLETTA – Mentre Vincenzo andava in città con la sua moto, scorse vicino alla strada Enrico. Egli osservava attentamente la sua bicicletta appoggiata a un albero. Allora Vincenzo si fermò e, avvicinandosi all’amico, disse: – Che fai? – Non lo vedi? La gomma anteriore è bucata. Ho tolto il copertone e la camera d’aria per trovare il foro, ma non ci sono riuscito neppure dopo un’ora. – Ma perché non hai guardato il copertone prima di togliere la camera d’aria? – E che ci potevo vedere, se è pieno di grinze e sporco di fango? – Forse il chiodo che ha forato la gomma. Vediamo. (Subito si trova la testa del chiodo. Allora Enrico dice a Vincenzo:) – Grazie, Vincenzo! – Non essere contento troppo presto. È stata una sciocchezza togliere la camera d’aria dal copertone, non sappiamo ancora dov’è esattamente il foro. – Ammetto che non mi intendo molto di meccanica. Che bisogna fare? – Andiamo a questa casa vicina. I contadini certamente ci presteranno un recipiente con dell’acqua: ci immergeremo la camera d’aria e, badando a dove escono le bolle d’aria, troveremo il foro. Allora non dovremo fare nient’altro che incollare sul punto del foro una toppa di gomma. 153 I neologismi impiegati nel dialogo sono: autobirota (la motocicletta), birota (la bicicletta), gumen (n. gumen, guminis, la “gomma” della ruota), 40 tubulum (la camera d’aria), involucrum (il copertone della ruota), res mechanicae (la meccanica), particula (lett. “particella”, ossia la toppa di gomma da usare per la riparazione del foro), 41 conglutinare particulam (incollare la toppa di gomma). In questi ultimi anni v’è stato l’ampliamento del fenomeno dei notiziari (ephemerides) in latino su Internet. Redatti oggi da latinisti presenti in moltissimi Paesi del mondo, provvedono ad annunciare tempestivamente, nella lingua di Roma, gli eventi più importanti che accadono nel mondo. Il brano seguente, ad esempio, riporta il giuramento del neopresidente americano Barack Obama e i suoi primi atti da capo del governo. BARACUS OBAMA PRAESIDENS (dalla rubrica Ephemeris, nel sito Latinitas viva, testo accessibile all’indirizzo: www.alcuinus.net/ephemeris/ ) “Ego Baracus Hussein Obama sollemniter iuro, me officio praesidentis Civitatum Unitarum fideliter functurum esse. Quoquo modo potero, legem supremam Civitatum Unitarum servabo protegam defendam.” His verbis dictis, Baracus Obama novus praesidens USAe factus est, manu dextera attingens eadem Biblia sacra, quibus olim Abraham Lincoln usus erat. Immani multitudine presente, die XX mensis Januarii ius iurandum Washingtoniae pronuntiatum est. Posthac praesidens orationem habuit, qua USAe conditorum fidem et maiorum labores commemorans populum Americanum exhortatus est, ut ex hodiernis difficultatibus resurgat. “Dum patriae nostrae dignitatem confirmamus, novimus nos eandem dignitatem non certe et definite adeptos esse sed labore comparavisse. Numquam iter nostrum compendiarium neu minimis rebus contentum fuit neu aptum infirmis animis, qui vitae operosae commoda anteponerent et divitiarum famaeque voluptates mallent. Sed a periclitantibus et operosis hominibus exstruendo aptis, interdum praeclaris plerumque obscuris, lustrata est diuturna et ardua semita ad prosperitatem et libertatem.” Totum diem perduraverunt celebrationes, cui Baracus cum muliere Michaëla duabusque filiabus interfuit. Vesperi coniuges decem celebrationibus saltatoriis adfuere. Mercuri die praesidens prima consilia cepit: iudicia in reos Guantanami detentos intermisit et cum ducibus nationum orientis medii telephonio collocutus est, id est cum Palaestinorum et Aegyptiorum praesidentibus, cum Israelis ministro primario et cum Jordanorum rege. Quid enim in regionibus illis futurum sit, ante omnia Baraco cordi est. Scripsit Herimannus Novocomensis – 21/01/2009 Il testo contiene la versione latina del giuramento pronunciato da Barack Obama a Washington il 20 gennaio 2009, al momento del suo insediamento: “Io Barack Hussein Obama, giuro solennemente che adempirò con lealtà ai doveri di Presidente degli Stati Uniti e col massimo dell’impegno preserverò, proteggerò e difenderò la Costituzione degli Stati Uniti”. Dopo aver pronunciato queste parole, Barack Obama è diventato il nuovo presidente degli Stati Uniti, ponendo la mano destra sulla stessa Bibbia che usò Abraham Lincoln. Alla presenza di una enorme folla, il giuramento è stato pronunciato a Washington il 20 gennaio. Quindi il presidente ha tenuto il suo discorso, ricordando la fedeltà dei fondatori agli Stati Uniti e l’opera dei padri della patria, e ha esortato gli americani a risollevarsi dalle difficoltà del momento. “Nel riaffermare la grandezza della nostra patria, ci rendiamo conto che la grandezza non è mai raggiunta una volta per sempre, ma è stata ottenuta con l’impegno. Il nostro viaggio non è mai stato fatto di scorciatoie né si è fermato a piccole mete. Non è mai stato un cammino per animi incerti, per quelli che prescelgono il divertimento al lavoro e preferiscono i piaceri della ricchezza e della fama. Ma sono stati quelli che hanno saputo rischiare, quelli che si sono impegnati, quelli che hanno costruito, che talvolta sono diventati famosi e più spesso sono rimasti oscuri, coloro che hanno percorso il lungo e difficile cammino verso la prosperità e la libertà.” Le cerimonie, a cui hanno preso parte Barack, sua moglie Michaela e le due figlie, sono durate tutta la giornata. La sera i coniugi hanno partecipato a 40 Nel dizionario Mir – Calvano, Nuovo vocabolario della lingua latina, cit., “gomma” corrisponde a gummi (n. indecl.), a p.409. Vale la pena di osservare che “gomma” in ted. è Gummi, n. o m.: forse vi è stato un qualche influsso nella creazione del corrispondente termine latino? 41 Osserviamo che l’it. particola (dal lat.particula) indica l’ostia sacra, che ha forma tonda, come la toppa per la ruota. Forse anche qui vi sarà stato un influsso semantico dell’italiano (o, più facilmente, del latino ecclesiastico) sul termine particula, usato con quella accezione nel latino moderno? 154 dieci feste da ballo. Il mercoledì il presidente ha preso le sue prime decisioni: ha bloccato i processi contro i detenuti di Guantanamo e ha avuto colloqui telefonici con i leader del Medio Oriente, ossia con i presidenti della Palestina e d’Egitto, con il primo ministro israeliano e con il re di Giordania. I futuro di quella regione preoccupa Obama prima di tutto. Da notare, per quanto riguarda le nuove formazioni, telephonium, che indica il telefono ̃ ε , “lontano”, e φωνή, “voce”: lett. “apparecchio per la trasmissione della (dall’avverbio gr. τηλ voce a distanza”), e l’uso della desinenza genitivale per la sigla USA, sostantivizzata (novus praesidens USAe). Un’ultima, ma non meno importante, opportunità per la pratica della lingua latina moderna, a livello professionale, è data dai tribunali eccesiastici e in specie dal Tribunale Apostolico della Sacra Rota, sito a Piazza della Cancelleria a Roma, al quale si rivolgono, in seconda o ultima istanza, tutti coloro che desiderano ottenere l’annullamento ab origine del matrimonio cattolico, per tutti gli effetti civili e religiosi.42 Per tutti i documenti relativi al procedimento, le difese degli avvocati, i decreti e le sentenze del tribunale, è prescritto l’uso della lingua latina. La lettura delle sentenze emesse dai giudici ecclesiastici rotali è molto interessante, soprattutto (per chi non è esperto di diritto canonico e di diritto romano) nella prima parte, che si chiama facti adumbratio e riassume i fatti che hanno portato al giudizio e alla decisione del giudice rotale (le altre due parti sono quella In iure, che contiene tutte le norme e i principi del diritto canonico e romano, nonché i documenti del magistero della Chiesa, a cui i giudici hanno inteso richiamarsi, e quella In facto, che esamina le circostanze del caso giudicato, al fine di acclarare la pretesa nullità del vincolo matrimoniale). Sono davvero brani di Latinum vivens, che riflettono difficili, a volte drammatiche vicende coniugali, casi di vita vissuta e specchio della realtà del nostro tempo. Prendiamo, come esempio, una sentenza del Tribunale della Sacra Romana Rota, emessa nel 1984, della quale trascriviamo la sola prima parte, la facti adumbratio. DECISIO DIEI 24 IANUARII 1984 (da Apostolicum Rotae Romanae Tribunal, Decisiones seu sententiae, volumen LXXVI, Libreria Editrice Vaticana, Roma 1989, pp.44-45) 1. – Aelius Iacobus, in causa actor, cum mense novembri 1970 in viduitate cum semestri filiolo relictus esset, ut calorem familiarem ac matrem amissam infanti reddere posset, novas nuptias inire statuit. Sequens igitur bene momentum, ea de re nuntium matrimoniale in quadam ephemeride foras edidit. Reapse brevi tempore epistulam recepit a Maria Aloisia (Marisa), parte conventa, declamante se in animo habere eum conoscere matrimonii ineundi gratia. Tunc Aelius Patavium se contulit mulierem visum, quae cum parentibus ac fratribus suis illic versabatur. Cum vero Maria Aloisia, id temporis agens vigesimum annum, Aelium revera delectaverit, haud mirandum quod ex hoc occursu conversatio sponsalis orta est, subsequentibus sostentata salutationibus et frequenti epistularum commercio. Eo modo sponsi comune propositum assecuti sunt dum nuptias, die 1 maii 1972 in ecclesia paroeciali, intra fines dioeceseos Patavinae, rite celebraverunt. 2. – Vita communis, etsi ortu filii ricreata, progrediente tempore deterior facta est tum propter sat frequentes morbi comitialis accessus in uxore, tum propter incuriam vitae familiaris ex parte viri. Quare, instante uxore, anno 1979 ad separationem perventum est, quam Tribunal Civile Taurinense die 11 iulii 1980 ratam habuit. Interea vir libello diei 23 iunii 1980 matrimonium suum nullitatis accusavit penes Tribunal Ecclesiasticum Pedemontanum ob errorem qualitatis redundantem in errorem personae. Tribunal primae instantiae, ratione domicilii partis conventae competens, admisso libello ac processu legitime peracto, die 29 octobris 1981 edixit non constare de matrimonii nullitate ex adducto nullitatis capite erroris qualitatis redundantis in errorem personae, adstante rationabili dubio de exsistentia erroris in actore circa statum gravem epilepsiae partis conventae. Actore appellante, causa delata est ad Nostrum Forum. Nunc igitur Nobis respondendum est ad dubium, die 27 maii 1982 legitime concordatum, id est: An constet de matrimonii nullitate, in casu. 42 Rimandiamo per l’organizzazione e le competenze dei tribunali eccesiastici a Francesco Finocchiaro, Il matrimonio nel diritto canonico, Il Mulino, Bologna 1989, pp.119-125. 155 Questi i fatti che hanno portato alla causa e alla decisione dei giudici della Sacra Rota. Elio Jacopo, la parte attrice (ossia la parte che prese l’iniziativa della causa), nel novembre 1970 era rimasto vedovo con un figlio di appena sei mesi. Per poter ridare al fanciullo una famiglia e l’affetto materno, decise di sposarsi di nuovo. Pubblicò perciò un annuncio matrimoniale su un settimanale. In breve tempo ricevette una lettera da parte di Maria Luisa (Marisa), la parte convenuta (ossia la parte citata in giudizio dall’attore), che affermava l’intenzione di conoscere Elio a scopo di matrimonio. Allora Elio andò a Padova per conoscere la donna, che abitava in quella città con i genitori e i fratelli. Elio trovò Maria Luisa, che allora aveva vent’anni, gradevole, e dall’incontro nacque il fidanzamento, consolidato da frequenti incontri e scambi di corrispondenza. I due perciò convolarono alle nozze il I maggio 1972 nella chiesa parrocchiale di Padova. La vita coniugale, benché rallegrata dalla nascita di un figlio, col passare del tempo divenne alquanto difficile sia per i frequenti attacchi di “morbo comiziale” (epilessia) nella moglie sia per l’incuria della famiglia da parte del marito. Perciò, su istanza della moglie, nel 1979 si giunse al divorzio, sancito dal Tribunale Civile di Torino in data 11 luglio 1980. Nel frattempo l’uomo, con un esposto del 23 giugno 1980, accusò il suo matrimonio di nullità presso il Tribunale Ecclesiastico del Piemonte per errore sulla qualità ridondante in errore sulla persona (ob errorem qualitatis redundantem in errorem personae). 43 Il tribunale di prima istanza, competente in ragione del domicilio della parte convenuta, avendo accolto l’esposto e svolto il processo secondo la legge, il 29 ottobre 1981 sentenziò che non constava la nullità del matrimonio secondo l’addotto capo di nullità (caput nullitatis) per errore sulla qualità ridondante nell’errore sulla persona, stante un ragionevole dubbio sull’esistenza dell’errore nell’attore circa lo stato grave di epilessia della parte convenuta. Su appello dell’attore, la causa è stata deferita al “Nostro Foro” (ossia al Tribunale Apostolico della Sacra Rota). 44 Ora i giudici del Tribunale Rotale devono rispondere al dubbio, concordato secondo la legge il 27 maggio 1982, ossia: Se consti la nullità del matrimonio, nel caso (An constet de matrimonii nullitate, in casu). Alla conclusione del processo i giudici, dopo aver acquisito anche le testimonianze dei familiari di entrambi gli ex coniugi, hanno respinto l’istanza di nullità, dichiarando non sussistente il presupposto dell’error qualitatis redundans in errorem personae. 45 Al termine di questo nostro lavoro, vorremmo esporre due considerazioni conclusive. La prima riguarda un giudizio sul latino moderno. Di fronte alla querelle, ancora in discussione, se si tratti di una lingua naturaliter latina o di un ibrido artefatto, vorremmo avanzare un modesto suggerimento. Considerare, cioè, questa lingua latina come una sorta di latino “ucronico” (prendiamo a prestito il termine dal moderno concetto di “ucronia”, ossia della storia “fatta con i se…”, che ha generato un nutrito filone di saggistica e narrativa). 46 Il latino moderno potrebbe essere definito latino “ucronico”, ossia la lingua latina che avrebbero probabilmente parlato gli abitanti dell’impero romano, se per ipotesi si fossero avverate queste due condizioni impossibili: 43 Secondo il can. 1097 § 1 c.i.c. l’errore sulla qualità che ridonda sulla identità della persona è rilevante e, quale vizio del consenso, rende nullo il matrimonio, soltanto se tale qualità sia stata determinante per indurre al consenso quello dei due coniugi che afferma l’esistenza dell’errore. In altre parole, il coniuge che afferma di aver prestato il consenso per errore deve essere stato indotto a consentire al matrimonio proprio supponendo nella persona che ha sposato l’esistenza di quella stessa qualità, mancando la quale, invece, non l’avrebbe sposata. Sull’error qualitatis Francesco Finocchiaro, Il matrimonio nel diritto canonico, cit., pp.84-86. 44 Al nostro Foro, perché si esprimono i giudici rotali (Auditores) che hanno emesso la sentenza, ossia Anton Stankiewicz, Mario Giannecchini e Emilio Colagiovanni. 45 A proposito delle sentenze della Sacra Rota, va ricordato il giudizio negativo di Pasolini, che però leggeva queste sentenze da una prospettiva fortemente ideologica, condannandone anche il latino usato, con una certa critica forse un po’ pregiudiziale (Pier Paolo Pasolini, Marzo 1974. Vuoto di Carità, vuoto di Cultura: un linguaggio senza origini, in Scritti corsari, Garzanti, Milano 1977, rist., pp.40-45). L’epoca, però, era quella della contestazione e degli scontri tra laici e cattolici su questioni sociali molto importanti, come il divorzio e l’aborto. 46 Sull’ucronia rimandiamo al nostro lavoro Gli orizzonti dell’ucronia, in “Miscellanea di Saggi e Ricerche”, n.4, Liceo Classico “Orazio”, Roma 2008, pp.49-103. 156 • • la persistenza dell’impero romano come entità politica fino ai nostri giorni e quindi dell’utilizzazione del latino come lingua madre dalla comunità di popoli che formava l’orbis Romanus; l’arresto dell’evoluzione linguistica del latino al tempo della fine della repubblica romana (I secolo a.C., l’età “aurea” della letteratura latina, quella di Cesare e di Augusto). Questo latino “ucronico” non ci appare essere una lingua artificiosa, perché si fonda sul medesimo impianto morfosintattico, che era quello della lingua di Cesare e Cicerone, Virgilio e Orazio. Artificiosi potrebbero essere, piuttosto, i neologismi usati per significare concetti e invenzioni moderne, ma essi si fondano tutti su etimologie greche e latine. D’altra parte, se le invenzioni moderne, come le armi da fuoco o l’automobile, fossero state realizzate per avventura in Roma antica, chi può affermare che i nostri antenati non avrebbero usato, per designarle, quei medesimi neologismi, come manuballista e autocinetum, creati dai moderni studiosi oggi? La seconda e ultima considerazione che facciamo è di carattere didattico: il docente del ginnasio potrebbe presentare agli alunni testi scritti in latino moderno, articoli di giornale tratti dal Diarium Latinum, traduzioni in latino di classici moderni, come il Pinoculus Latinus di Ugo Enrico Paoli (Le Monnier, Firenze 1962) o la traduzione del cap.VI di Alice attraverso lo specchio di Lewis Carroll di Eugène de Veauce, 47 nel quale appare il divertente personaggio di Humpty-Dumpty (tradotto con Gibbosus Crustosus) o, ancora, le sentenze della Sacra Rota (la parte della facti adumbratio, non particolarmente difficile per l’intelligenza degli studenti del ginnasio). Con ciò susciterebbe certamente, come è capitato a chi scrive, se non l’entusiasmo almeno la curiosità della classe, stupita dell’inaspettato e ai suoi occhi, antitradizionale, uso del latino. 48 Gli studenti riceverebbero l’idea di una lingua viva o almeno rivitalizzata, serbante intatte le sue possibilità di comunicazione e, anzi, in continua espansione nel lessico, stanti i continui progressi tecnologici. Quanti neologismi latini (rigorosamente latini o grecolatini) gli studenti potrebbero esercitarsi a creare, ovviamente con la guida dell’insegnante, per esprimere, ad esempio, le operazioni e i componenti di un computer, compiendo utilissime operazioni etimologiche e sottraendosi per una volta (sia detto senza polemica) alla schiavitù dell’inglese? Inoltre, non è da escludere che una lettura di testi in latino moderno, praticata nel ginnasio, possa essere utile quale propedeutica a una proficua lettura e comprensione dei classici al liceo. Certamente va considerato che il latino moderno è, oggi, ancora troppo lontano dal concetto di lingua, quale è stato formulato, ad esempio, dal linguista Tullio De Mauro. 49 Sono ancora molto lontani, e probabilmente non verranno mai, i tempi in cui il latino moderno possa essere padroneggiato da masse di parlanti o possa avere lo status di lingua internazionale dell’intellettualità. Però, anche se alcuni illustri studiosi lo ritengono 47 Ludovicus Carroll, Trans Speculum et quae Alicia ibi invenerit, opus ex anglico in Latinum sermonem ab Eugenio De Velcia conversum. Textus includit duo carmina ab Huberto D. Watson olim conversa et edita (in “Vita Latina”, n.29, Mense Decembri, 1966, pp.52-57). 48 Ossia non associato alla lettura dei classici solitamente previsti dai programmi. Ma v’è da dire che testi scolastici per il biennio, come l’antologia di autori latini Nostra latinità di Emidio Diletti (Casa editrice D’Anna, Messina-Firenze 1989) presentano in una apposita sezione testi di latino moderno dei secoli XIX e XX, compresi anche giochi enigmistici (pp.494-550). 49 “Un insieme di forme e di regole che vivono nel tempo, in un certo tempo, per una massa parlante, per una particolare, data, circoscritta massa parlante, con le sue abitudini (…), entro cui ci sono anche gli addestramenti al senso delle parole di quella data lingua”, in Carlo Bernardini – Tullio De Mauro, Contare e raccontare.Dialogo sulle due culture, Laterza, Roma-Bari 2003, pp.130131. 157 una lingua “contro natura” (o ritengono il latino una lingua morta tout court), 50 nondimeno gli attribuiscono una funzione di utilità, e può anche essere divertente sul piano didattico (il che non è poco). 51 E se fosse associato alle altre lingue ufficiali dell’Unione Europea, avrebbe certamente la possibilità di conseguire una assai ampia diffusione, anche con una benefica ricaduta sull’insegnamento scolastico. Ci sembra essere questo il pensiero di un grande studioso come Alfonso Traina, allorché dichiara il latino lingua morta, sempre più morta sul piano della comunicazione, quantunque viva come spontaneo veicolo dell’esperienza soggettiva (Alfonso Traina, Io e il latino, in Di fronte ai classici.A colloquio con i greci e i latini, cit., pp.259-263). 50 Antonio La Penna, Sulla scuola, Laterza, Roma-Bari 1999, p.13. Il La Penna svolge le sue considerazioni richiamando l’episodio del romanzo di Peyrefitte, citato alla nota 6. 51 158