DOMENICA DELLE PALME:
PASSIONE DEL SIGNORE
Mt 26,14-27.66; Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11
Colletta
Dio onnipotente ed eterno,
che hai dato come modello agli uomini
il Cristo tuo Figlio, nostro Salvatore,
fatto uomo e umiliato fino alla morte di croce,
fa' che abbiamo sempre presente
il grande insegnamento della sua passione,
per partecipare alla gloria della risurrezione.
Egli è Dio e vive e regna con te...
Con questa Domenica inizia la Settimana Santa, un momento di grande spiritualità che
la tradizione cristiana chiama la “grande Settimana” (Hebdomada maior), e questo
perché, come afferma san Giovanni Crisostomo, in tale periodo sono stati donati
all’umanità i beni più grandi: il Signore si è riconciliato con la sua creatura più cara, il
cielo si è fatto più vicino, la morte è stata sconfitta per sempre, la schiavitù del demonio
annullata, e il Dio della pace ha reso “buona” ogni cosa, sia in cielo sia in terra. Per
questo è bello che un avvenimento tanto espressivo, sia preceduto dalla benedizione
delle “palme” e dalla processione in onore di Cristo-Re, a ricordo del suo ingresso
trionfale in Gerusalemme; una scena di grande esultanza, che ben presto si muterà
nella spietata congiura contro Gesù e terminerà con la sua morte sulla Croce.
Se la Liturgia della “Parola” non proponesse come seconda lettura il meraviglioso inno
di Paolo, sembrerebbe veramente che l’ora delle tenebre avesse il potere di annullare
per sempre ogni speranza di salvezza; infatti, il lamento del servo sofferente (prima
lettura) pone una struggente nota di dolore su una vicenda, che rimane incomprensibile
se non alla luce del “dopo”, e il corpo che cala nella tomba, la pietra che la richiude
inesorabilmente, i soldati armati che la sorvegliano, non possono che lasciare una
profonda sensazione di gelo (pagina evangelica). È la storia del dramma della follia di
un popolo, della perversità umana, e della violenza gratuita contro l’unico innocente
apparso sulla terra, sulla quale, però, emerge sovrana la figura del Cristo che sulla
Croce celebra il suo vero trionfo.
Mt 21,1-11
L’ingresso di Gesù in Gerusalemme
Gesù ha lasciato la Galilea e, dopo un viaggio in gran parte al di fuori delle regioni
abitate prevalentemente da giudei, arriva finalmente a Gerusalemme. L’ingresso nella
città santa introduce l’ultima fase del ministero di Gesù, che si concluderà con la sua
morte e risurrezione. A Gerusalemme ha luogo una serie di controversie e di scontri tra
di lui e gli esponenti dei giudei (21,23-22,40).
Nei sinottici l’arrivo di Gesù a Gerusalemme assume un rilievo particolare perché è
questa l’unica volta, nel corso del suo ministero pubblico, che si reca nella città santa.
L’esposizione di Matteo si articola in due parti contrassegnate ciascuna da una citazione
scritturistica: invio di due discepoli per prelevare l’asina e il suo puledro (vv. 1-7);
entrata di Gesù in Gerusalemme (vv. 8-9).
L’invio dei discepoli (vv. 1-7)
Quando Gesù, avvicinandosi a Gerusalemme, arriva a Betfage manda avanti due
discepoli con un compito ben preciso (v. 1). L'evangelista non dice quando ha avuto
luogo questo evento, ma secondo lo schema sinottico esso dovrebbe essere avvenuto
nel primo giorno della settimana (domenica). Venendo da Gerico Gesù giunge a Bètfage.
Egli osserva anche che la località si trova presso il monte degli Ulivi, quindi proprio là
dove si pensava che JHWH sarebbe apparso per liberare Gerusalemme dai suoi nemici
e dove i rabbini collocavano la venuta del Messia.
L’incarico ricevuto dai due discepoli è quello di recarsi nel villaggio vicino dove
troveranno un’asina legata e con essa un puledro: essi devono scioglierli e portarli da
Gesù (vv. 2-3). Per Matteo non si tratta di un semplice puledro, ma un’asina con il suo
puledro: in questo particolare è evidente l’influsso della profezia di Zaccaria che parla
di due animali, mentre in realtà si tratta di uno solo. Se qualcuno chiederà loro ragione
dovranno rispondere che il Signore ne ha bisogno, ma li rimanderà subito (v. 3). Matteo
osserva che ciò è avvenuto perché si adempisse un oracolo profetico (v. 4).
Il testo a cui l’evangelista si riferisce è Zaccaria 9,9, che Matteo riporta per esteso (v.
5). Questa profezia, che rappresenta il punto focale del racconto di Matteo, nell’originale
suona così: «Esulta grandemente, figlia Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te
viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio
d’asina» (9,9). Matteo omette l’invito all’esultanza e lo sostituisce con un’espressione
tratta da Isaia: «Dite alla figlia di Sion». Per lui l’esultanza è fuori luogo perché
Gerusalemme si sarebbe autoesclusa dalla salvezza e Gesù più avanti ne predirà la
condanna. Matteo tralascia anche gli aggettivi «giusto e vittorioso» per concentrare
l’attenzione sull’attributo della mitezza: egli vede questa caratteristica raffigurata nel
fatto che Gesù non entra a Gerusalemme su un focoso destriero, bensì su un’asina che,
pur essendo anch’essa una cavalcatura principesca, aveva connotati pacifici.
Matteo accenna poi in forma abbreviata all’attuazione dell’incarico: i due discepoli
portano l’asina e il puledro, stendono su di essi i mantelli e Gesù si siede su di essi (vv.
6-7). Non si capisce come Gesù abbia potuto sedersi contemporaneamente su due
animali, cioè l’asina e il puledro. È vero che il profeta parla di due animali, ma in realtà
si riferisce solo a un «asino», che poi denomina, in forza del parallelismo tipico della
poesia ebraica, con il sinonimo «figlio d’asina». Matteo lo segue prendendo alla lettera
il testo e, preoccupato di sottolinearne l’adempimento letterale, non si accorge
dell’incongruenza di una persona che siede su una doppia cavalcatura.
L’entrata trionfale (vv. 8-9)
Matteo annota che la folla numerosissima stendeva sulla via mantelli e «rami» tagliati
dagli alberi (v. 8). Insistendo sull’enormità della folla Matteo dimostra l’intenzione di
dare la massima visibilità e solennità alla scena. Il particolare dei mantelli stesi sul
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puledro e sulla strada ricorda la proclamazione di Ieu come re di Israele (2Re 9,13);
l'uso delle fronde invece richiama sia i riti che si compivano nella festa delle capanne
(Lv 23,40), sia quelli compiuti da Giuda Maccabeo per la dedicazione del tempio dopo
la profanazione che ne era stata fatta dai re siriani (2Mac 10,7). L’evangelista allude
anche al Salmo 118,19 («Ordinate il corteo con rami frondosi fino ai lati dell’altare»)
che veniva proclamato nelle feste delle Capanne e della Dedicazione. I pellegrini galilei
che accompagnano Gesù si ispirano a queste parole liturgiche per acclamarlo come il
Messia. Se queste allusioni ai testi biblici sono intenzionali, vi sarebbe qui un riferimento
ai temi della messianicità di Gesù, del nuovo esodo e della purificazione del tempio:
quest'ultimo motivo sarà poi ripreso nella scena successiva.
La folla grida: «Osanna al Figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del
Signore! Osanna nel più alto dei cieli» (v. 9). Queste espressioni, ricavate dal Sal 118,
sono usate dai sacerdoti per rivolgere il loro saluto a un personaggio, probabilmente il
re che, dopo aver ottenuto una grande vittoria, sale al tempio per ringraziare JHWH. Il
termine «osanna» (salvaci) ha il senso di «Evviva». Con l’aggiunta dell’appellativo
«Figlio di David», Matteo trasforma l’invocazione in un’acclamazione messianica.
Nei due versetti successivi (vv. 10-11) l’evangelista descrive il turbamento di
Gerusalemme che rievoca quello che aveva avuto luogo all’arrivo dei magi. Come allora
i gerosolimitani restano passivi ed estranei all’avvenimento messianico. La domanda
«Chi è costui?», esprime il loro atteggiamento sospettoso; sono quasi infastiditi per
tanto chiasso. Essi non riescono a cogliere i segni dei tempi. Nella risposta la folla
presenta Gesù come il profeta di Nazaret della Galilea. Per gli abitanti di Gerusalemme
l’origine di Gesù da Nazaret della Galilea non doveva riuscire particolarmente
significativa.
La fitta rete di riferimenti alla Bibbia mostra chiaramente che la tradizione ha visto
nell'entrata di Gesù in Gerusalemme la manifestazione del Messia, figlio di Davide. Dal
punto di vista storico il significato messianico dell'episodio è discutibile. Da una parte è
difficile immaginare che questo evento abbia avuto connotati messianici troppo evidenti,
perché non sarebbe passato inosservato alle autorità romane. Dall'altra non si può
escludere che Gesù sia entrato in Gerusalemme cavalcando un asinello e che una piccola
folla lo abbia effettivamente accolto come un affermato maestro o come l'atteso messia.
Nulla fa pensare che egli stesso abbia voluto avanzare una pretesa messianica.
Gesù aveva sempre nascosto la sua dignità messianica. Per la tradizione è invece
evidente che, entrando in Gerusalemme, Gesù si è presentato come il re mansueto e
pacifico annunziato dalle Scritture profetiche. Per Matteo Gesù è il Messia che prende
simbolicamente possesso della Città Santa, e come tale entra subito dopo nel tempio e
lo purifica con la cacciata dei profanatori.
Questa presentazione fortemente messianica dell’entrata di Gesù a Gerusalemme mette
in una luce nuova le controversie che avranno luogo subito dopo con i capi del popolo.
Non è un profeta qualunque, ma il Messia figlio di Davide che entra a prendere possesso
del suo regno e chiede al suo popolo un’adesione di fede che esso non è disposto a dare.
Fin d’ora però la sua regalità è contrassegnata dalla mitezza e dalla misericordia. Egli
non viene per giudicare e condannare, bensì per annunziare e per offrire salvezza al suo
popolo. Il suo ingresso in Gerusalemme dimostra anche il suo coraggio e la sua
determinazione. Egli ha un progetto, al quale ha subordinato tutti i suoi passi, e ora lo
attua, costi quel che costi, fino al dono supremo della propria vita.
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Alla commemorazione
dell’ingresso del Signore
in Gerusalemme
Orazione
Dio Onnipotente ed eterno, benedici questi rami,
e concedi a noi, tuoi fedeli, che accompagniamo
esultanti il Cristo, nostro Re e Signore,
di giungere con lui alla Gerusalemme del cielo.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.
Dal Vangelo secondo Matteo
(21,1-11)
Quando
furono vicini a Gerusalemme e giunsero presso Bètfage,
verso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due discepoli, dicendo loro:
«Andate nel villaggio di fronte a voi e subito troverete un’asina,
legata, e con essa un puledro. Slegateli e conduceteli da me. E se
qualcuno vi dirà qualcosa, rispondete: “Il Signore ne ha bisogno, ma
li rimanderà indietro subito”». Ora questo avvenne perché si
compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: «Dite alla
figlia di Sion: “Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e
su un puledro, figlio di una bestia da soma”».
I discepoli andarono e fecero quello che aveva ordinato loro Gesù:
condussero l’asina e il puledro, misero su di essi i mantelli ed egli vi
si pose a sedere. La folla, numerosissima, stese i propri mantelli sulla
strada, mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla
strada. La folla che lo precedeva e quella che lo seguiva, gridava:
«Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del
Signore! Osanna nel più alto dei cieli!». Mentre egli entrava in
Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva: «Chi è
costui?». E la folla rispondeva: «Questi è il profeta Gesù, da Nàzaret
di Galilea».
Parola del Signore.
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Is 50,4-7
Il Servo perseguitato (3° carme)
La seconda parte del libro di Isaia (Is 40-55), chiamata anche Deuteroisaia, si distacca
nettamente dalla precedente in quanto non si situa nel periodo storico in cui è vissuto
il profeta, ma contiene una serie di oracoli rivolti ai giudei esuli in Mesopotamia per
annunziare loro la fine dell’esilio. Il libro si apre con il lieto annunzio del ritorno nella
terra dei padri (Is 40,1-11) e termina con un poema sulla parola di Dio (55,1-13). Il
corpo del libro contiene una serie di oracoli che possono dividersi in due blocchi, quelli
composti prima della conquista di Babilonia da parte di Ciro (Is 41,12 - 48,22) e quelli
che invece hanno visto la luce dopo questo evento (Is 49,1 - 54,17). Nel libretto del
Deuteroisaia emerge con insistenza la figura e l’opera di un personaggio misterioso,
chiamato «Servo di JHWH», di cui trattano quattro composizioni poetiche a cui è stato
dato l’appellativo di «Carmi del Servo di JHWH» (42,1-7; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12).
Mentre nei primi due carmi si tratta rispettivamente della chiamata del Servo e
dell’insuccesso che lo attende, nel terzo (Is 50,4-9) si descrive la persecuzione di cui è
fatto oggetto. Esso è molto simile ai salmi di lamentazione individuale, in cui un giusto
perseguitato si lamenta delle sue sofferenze e si abbandona alla protezione divina: solo
dalle parole conclusive, non riportate dalla liturgia, appare che si tratta ancora una volta
del servo di JHWH. Nel brano liturgico il Servo ricorda anzitutto la sua chiamata (vv. 45), poi passa alla descrizione delle sofferenze che gli sono inflitte (v. 6) e termina con
una dichiarazione di fiducia in Dio (v. 7).
La composizione si apre con un soliloquio: «Il Signore Dio mi ha dato una lingua da
discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato. Ogni mattina fa attento
il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli. Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio
e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro» (vv. 4-5). Il servo è una
figura profetica, il cui compito è quello di parlare a nome di Dio. Questo concetto viene
formulato mediante l’immagine della lingua, cioè della capacità di parlare, che gli è stata
data direttamente da Dio, al quale egli d’altra parte ha volto ogni giorno il suo orecchio
esattamente come fa un vero discepolo. Il rapporto del Servo con JHWH è dunque simile
a quello del discepolo nei confronti del maestro. Quando egli parla lo fa a nome di colui
che lo ha istruito. Per questo può parlare con autorevolezza soprattutto a chi è
sfiduciato. Proprio perché ha ricevuto lui stesso per primo un’istruzione interiore, il
Servo può toccare il cuore dei suoi ascoltatori. Nel contesto del Deuteroisaia gli sfiduciati
sono gli esuli deportati in una terra straniera, ai quali il Servo dà la speranza di poter
ritornare finalmente nella loro patria.
Bruscamente il Servo soggiunge che il suo abbandono all’iniziativa divina comporta una
dolorosa persecuzione: «Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro
che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi» (v. 6).
Il fatto di annunziare quello che JHWH gli aveva suggerito comporta nei confronti del
Servo non un atteggiamento di apertura e di fiducia, ma un’opposizione rabbiosa e
violenta. Si parla di flagellazione, di strappare la barba, di insulti e di sputi. È difficile
dire in che contesto queste vessazioni gli sono state inflitte e se sono reali o metaforiche.
Ma certo si tratta di sofferenze gravissime. Non si dice neppure chi ne è l’autore. Si
potrebbe pensare all’autorità civile che vede in lui un sobillatore. Dal contesto però
sembra piuttosto che si tratti di coloro a cui è stato mandato, i quali non solo non
accettano il suo messaggio, ma cercano di eliminare l’incomodo messaggero: è questa
la sorte dei profeti, di cui l’esempio più significativo è Geremia.
Il Servo passa poi a descrivere la sua reazione personale: «Il Signore Dio mi assiste,
per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare confuso» (v. 7). Nella difficile situazione in cui si trova, il Servo
non si difende con la forza, e neppure fa ricorso, come aveva fatto Geremia, alla violenza
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verbale contro i suoi avversari; al contrario, fortificato dalla sua fiducia in Dio, resta
fermo come una roccia senza venir meno alla sua missione. La sua forza d’animo gli
deriva dalla certezza che Dio porterà a termine il suo progetto nonostante tutte le
opposizioni. Egli dimostra così di non cercare il proprio successo personale ma la
realizzazione di quanto va annunziando, anche se ciò dovesse costargli la vita.
Nella conclusione, omessa dalla liturgia, il Servo riafferma la sua fiducia in Dio e lancia
una sfida ai suoi avversari (vv. 8-9). Alla fiducia in Dio corrisponde la certezza che i suoi
avversari non avranno il sopravvento. La previsione della loro distruzione non deriva da
una volontà di vendetta ma dal desiderio che la vittoria di Dio sia completa.
In questo carme il Servo è descritto come una figura di profeta che annunzia il piano di
Dio per Israele. Egli si presenta come un uomo totalmente immerso in Dio, dal quale
riceve il messaggio che egli comunica al popolo. Nel suo comportamento è assente tutto
quello che potrebbe anche solo sembrare un progetto umano, perseguito a scopi di
successo personale o nazionale. Al primo posto il Servo mette Dio e la sua decisione di
liberare Israele. Così facendo egli si oppone a ogni tentativo di considerare il ritorno
nella terra promessa come occasione per una ricerca di potere da parte di un individuo
o di un gruppo nei confronti del popolo, o anche come una rivalsa del popolo nei
confronto dei propri oppressori.
Il servo ha dovuto pagare di persona perché il primato di Dio apparisse veramente
convincente. Egli non è andato semplicemente incontro all’insuccesso, come appare nei
carmi precedenti, ma ha suscitato un’inspiegabile persecuzione; di fronte ad essa però
è rimasto fedele al compito ricevuto e ha continuato ad annunziare con fermezza il
decreto divino senza abbandonare il metodo non violento adottato fin dall’inizio. Il rifiuto
della violenza appare così come l’unico mezzo capace di assicurare non solo il successo,
ma anche una piena partecipazione di tutti alla libertà acquistata. Se la libertà fosse
acquistata per mezzo della violenza facilmente lascerebbe il posto a una nuova violenza
nei confronti degli stati più poveri e indifesi della popolazione. Forse è proprio il fatto di
essersi rivolto a tutto il popolo che ha suscitato l’opposizione delle classi dirigenti, le
quali avrebbero voluto gestire il ritorno nella terra promessa a proprio vantaggio.
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PRIMA LETTURA
Dal libro del profeta Isaìa
(50,4-7)
Il signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo,
perché io sappia indirizzare
una parola allo sfiduciato.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio
perché io ascolti come i discepoli.
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio
e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,
le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia
agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste,
per questo non resto svergognato,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare confuso.
Parola di Dio.
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SALMO RESPONSORIALE
(Sal 21,8-9.17-20.23-24) (22)
Anche se nell’antica Israele questo stupendo Salmo è stato un’invocazione di aiuto
rivolta al Signore dal giusto afflitto e perseguitato, per la ricchezza delle immagini e per
l’intensità della preghiera, si presta anche a una lettura simbolica che lo rende sempre
attuale (per questo gli Evangelisti, nei racconti della passione, lo hanno utilizzato per
sottolineare con le sue parole i momenti decisivi della vicenda dolorosa di Gesù); esso
è una delle suppliche più celebri di tutto il Salterio, ed è particolarmente caro alla
tradizione cristiana perché, nella sua parte iniziale, ricorda le parole che Cristo in Croce
(secondo Matteo) pronunziò nella versione aramaica (Elì, Elì, lemà sabactàni? “Dio mio,
Dio mio, perché mi hai abbandonato?”). Per comprendere in modo corretto il profondo
significato di questa preghiera è necessario, però, leggere e meditare il Salmo in ogni
sua parte; esso, pur essendo dominato da un grande senso di tristezza, e inizialmente
segnato dal silenzio di Dio, contiene anche un gioioso ringraziamento al Signore per il
suo aiuto, la sua giustizia e il suo amore.
Il canto amaro dell’orante è indirizzato a un Dio simile a un imperatore indifferente alla
sofferenza e alle lacrime di chi soffre; la lamentazione si completa con la descrizione
dello sfacelo fisico e degli incubi in cui è immerso l’orante, e di come la sua dignità sia
completamente calpestata. I nemici sono raffigurati con immagini “bestiali” in una scena
di caccia dove la preda è raggiunta e assalita. Il quadro finale descrive il fedele ormai
in fin di vita, umiliato e spogliato anche delle vesti che sono divise tra i persecutori. Ma
ecco improvvisamente la nuova realtà, un’immagine di gioia che vede la passione del
giusto finalmente premiata; egli è rappresentato nel tempio mentre scioglie i suoi voti
per la liberazione e l’aiuto concessi da Dio. Tutta l’assemblea degli oppressi e dei fedeli,
intona un inno di lode in onore di JHWH re, davanti alla quale si prostrano tutti i viventi,
i defunti e persino le generazioni future. Iniziato come un grido di desolazione, il Salmo
si conclude con un inno di gioia.
Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Si fanno beffe di me quelli che mi vedono,
storcono le labbra, scuotono il capo:
«Si rivolga al Signore; lui lo liberi,
lo porti in salvo, se davvero lo ama!».
R.
Un branco di cani mi circonda,
mi accerchia una banda di malfattori;
hanno scavato le mie mani e i miei piedi.
Posso contare tutte le mie ossa.
R.
Si dividono le mie vesti,
sulla mia tunica gettano la sorte.
Ma tu, Signore, non stare lontano,
mia forza, vieni presto in mio aiuto.
R.
Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli,
ti loderò in mezzo all’assemblea.
Lodate il Signore, voi suoi fedeli,
gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe,
lo tema tutta la discendenza d’Israele.
R.
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Fil 2,6-11
Inno cristologico
Questo testo si presenta come una composizione abbastanza autonoma all’interno della
lettera ai Filippesi a motivo sia del suo contenuto cristologico, sia della sua forma
letteraria poetica: queste due caratteristiche fanno sì che esso venga comunemente
chiamato “inno cristologico”. Il contesto del brano è il seguente: dopo aver incoraggiato
i fedeli a lottare concordemente per la causa del vangelo contro gli avversari provenienti
dall’esterno, l’apostolo si rivolge a loro nel c. 2 con un lungo periodo nel quale li invita
ad «avere i medesimi sentimenti» e inculca l’umiltà e la rinuncia a se stessi per il bene
comune. A tal fine li esorta a «sentire in se stessi» ciò che ha sentito Gesù, il quale
viene poi presentato nell’inno cristologico come modello di una rinuncia di sé portata
fino all’estremo delle proprie possibilità (vv. 6-11). La parenesi si conclude poi con una
rinnovata esortazione a lottare per la salvezza, che si attua in mezzo a un mondo
perverso ed è fonte per Paolo e per i suoi lettori di una gioia comune.
Attualmente è diffusa l’opinione secondo cui Paolo non sarebbe direttamente l’autore
dell’inno, in quanto questo rivela uno stile e soprattutto una visione teologica che non
sono quelli tipici dell’apostolo. Esso sarebbe perciò una di quelle composizioni
preesistenti, originariamente autonome, utilizzate successivamente in funzione di un
contesto diverso. L’inno di Filippesi avrebbe avuto origine nell’ambito del culto e sarebbe
stato qui inserito da Paolo per scopi parenentici. Paolo non se ne è servito per fare una
sintesi o un’esposizione teologico-dottrinale sulla persona di Cristo (la sua preesistenza,
l’incarnazione, le due nature), ma per proporre ai cristiani l’umile atteggiamento di Gesù
come esempio del loro comportamento comunitario.
L’inno cristologico si divide in due parti (vv. 6-8 e 9-11), di cui la prima a sua volta si
divide in due unità (vv. 6-7b e 7c-8). Da ciò risulta la seguente divisione: dalla
condizione di Dio a quella di servo (vv. 6-7b), la sua umiliazione (vv. 7c-8) ed
esaltazione (vv. 9-11).
Dalla condizione di Dio a quella di schiavo (vv. 6-7b)
La prima cosa che viene affermata di Gesù Cristo è che egli era «nella condizione di
Dio» (v. 6a). Sullo sfondo si può intuire il racconto della creazione, nel quale si dice che
il primo uomo fu creato a immagine di Dio. Siccome la «condizione di Dio», in
contrapposizione alla condizione dello schiavo, comporta essenzialmente dominio,
autorità e dignità, si può ritenere che Gesù Cristo fosse in condizione di Dio in quanto
queste prerogative divine gli appartenevano pienamente come suo privilegio originario.
L’esistenza di Cristo nella condizione di Dio viene espressa con una proposizione
concessiva («pur essendo»), con la quale si sottolinea come il suo essere in condizione
di Dio non sia stato rimosso, ma è continuato anche dopo che egli «si svuotò».
L’inno continua con una frase in cui si spiega in che modo Gesù ha gestito il suo essere
in condizione di Dio: «non ritenne un privilegio l’essere come Dio» (v 6b). L’oggetto di
cui Cristo avrebbe potuto approfittarsi consiste nell’«essere alla pari di Dio». Questa
espressione è stata comunemente tradotta «l’essere come Dio», con riferimento alla
natura o essenza divina di Cristo. Dal punto di vista filologico però essa indica
semplicemente l’esercizio attivo del suo «essere nella forma di Dio», cioè dei poteri
propri di Dio, e di riflesso la pretesa che gli altri li riconoscano e li rispettino con un
atteggiamento di obbedienza e di culto. Ciò che Gesù Cristo non volle sfruttare a proprio
vantaggio sono dunque le conseguenze esterne del suo rapporto privilegiato con Dio.
Anche qui sullo sfondo si intuisce l’esperienza di Adamo, il quale si è ribellato proprio
perché ha voluto essere «come Dio», acquistando la conoscenza del bene e del male.
In contrasto con lui, Cristo non ha voluto gestire in termini di potere il suo privilegio di
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essere «in forma di Dio»: per questo ha iniziato un cammino che lo ha portato a
immergersi negli strati più bassi dell’umanità, non come castigo ma per libera scelta.
L’autore dell’inno prosegue affermando che Cristo non solo non volle approfittare di ciò
che gli competeva, ma addirittura vi rinunciò, «svuotò se stesso» (v. 7a). L’oggetto di
cui svuotarsi è il diritto nativo di essere alla pari di Dio. L’espressione «svuotò se stesso»
significa quindi che Cristo ha rinunciato in modo totale, e al tempo stesso libero e
volontario, a tutto ciò che il suo status divino comportava dal punto di vista della dignità
e del trattamento. L’autore stesso spiega che cosa significa «svuotò se stesso» mediante
l’inciso «assumendo una condizione di servo» (v. 7b). Cristo durante la sua vita terrena
non volle comportarsi come Dio e Signore degli uomini, ma come servo, privo di ogni
dignità, autorità e potere, completamente dedito all’umile servizio degli altri. Il termine
«servo» si rifà ancora una volta al personaggio deutero-isaiano e alla sua esperienza: il
servizio consiste nell’accettazione della sofferenza in funzione della riaggregazione del
popolo, della sua conversione a Dio e del ritorno nella terra dei padri.
L’umiliazione del servo (vv. 7c-8)
Viene poi delineata l’inquadratura storica in cui si è svolta la rinunzia volontaria di Gesù:
«diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo» (v. 7cd). Colui
che era nella condizione di Dio è ora sullo stesso piano degli uomini. L’autore dell’inno
intende sottolineare come la totale somiglianza di Gesù con gli uomini si situi nel tempo
e nello spazio, sia cioè la conseguenza di un evento che si situa all’interno della storia
umana. Non si tratta però di una semplice somiglianza: durante la sua esistenza terrena
egli fu percepito, riconosciuto da quelli che l’hanno incontrato, nel suo modo di essere
e di agire, come veramente uomo, alla pari di tutti gli altri. Viene così sottolineata a
tutti gli effetti la sua piena solidarietà con il genere umano.
L’autore afferma che Gesù «umiliò se stesso» (v. 8a). Questa espressione viene usata
nel NT in contrapposizione ai sentimenti di vanità, ambizione e autoesaltazione propri
dell’uomo. L’autoumiliazione di Gesù consiste dunque nel radicale rifiuto dell’ambizione
e dell’orgoglio, e di riflesso nell’adozione di quella ferma e risoluta mitezza, aliena da
qualsiasi violenza, che è stata propria del Servo di JHWH.
Gesù ha portato a termine la sua umiliazione «facendosi obbediente fino alla morte» (v.
8b). L’aggettivo «obbediente» è unito a facendosi, che indica un atteggiamento abituale
e costante, che si caratterizza come fedeltà totale alla volontà di Dio. L’espressione
«fino alla morte» non ha un senso temporale, ma un senso qualitativo: un’obbedienza
che non cede davanti al sacrificio personale, compreso anche quello supremo della
propria vita.
L’autore infine commenta: «e a una morte di croce» (v. 8c). Questa espressione, che
rappresenta il climax dell’inno, può considerarsi come una ripetizione retorica che mette
in rilievo l’estremo grado di umiliazione a cui Gesù è andato incontro. Nel contesto
esortativo in cui l’inno è inserito l’espressione «morte di croce» assume un significato
speciale, in quanto la pena capitale della crocifissione richiamava alla mente dei filippesi,
che vivevano in una città romana, l’umiliazione più degradante e più ignominiosa, il
colmo dell’abiezione: essi potevano così rendersi conto che Gesù aveva raggiunto il
limite estremo dell’umiliazione.
Il Cristo esaltato (vv. 9-11)
Il movimento dell’umiliazione di Cristo, che ha toccato il suo punto più profondo nella
morte sulla croce, subisce un arresto inopinato e decisivo all’inizio del v. 9, dove si apre
uno spiraglio sulla sua esaltazione. Il linguaggio, che nei vv. 6-8 era conciso e lapidario,
diventa ora elaborato. Cambia anche il soggetto dell’azione: mentre finora chi agiva era
Gesù, a partire dal v. 9 è Dio che esalta colui che si è abbassato e gli conferisce la
dignità di Kyrios, mentre il cosmo intero dà lode a colui che aveva preso la condizione
umile di servo.
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Il nuovo brano inizia con la descrizione degli effetti che ha avuto l’umiliazione di Cristo:
«Per questo Dio lo esaltò» (v. 9a). L’espressione «per questo» sottolinea come la
radicalità della svolta che interessa la persona di Gesù ha uno stretto collegamento con
ciò che è capitato precedentemente. Proprio in forza della sua morte egli ha conseguito
un modo di essere immensamente superiore a quello dei semplici mortali. L’esaltazione
che gli è conferita appare come un esempio del modo di agire di Dio, enunciato da Gesù
stesso nei vangeli.
L’intervento divino viene ulteriormente precisato con questa affermazione: Egli «gli
donò il nome che è al di sopra di ogni nome» (v. 9b). Questo è l’unico passo nel NT in
cui si parla di un atto di grazia concesso a Cristo. Dal contesto (cfr. v. 11b) si ricava che
«il nome» attribuito a Gesù è il nome stesso di Dio, JHWH, che in greco è stato tradotto
Kyrios. Il nome significa, alla luce del linguaggio biblico, non un appellativo o un
attributo specifico (in questo caso la divinità), ma piuttosto un ufficio, status, o dignità.
Per iniziativa gratuita di Dio Gesù riceve quindi lo status di Kyrios, che comporta la
suprema dignità e la sovranità assoluta su tutto quello che esiste in cielo e in terra.
Proprio quel Gesù, che durante la sua esistenza terrena non aveva voluto avvalersi a
proprio vantaggio del suo «essere come Dio», viene ora esaltato in sommo grado,
ricevendo in dono da Dio la dignità suprema propria di Dio stesso: ciò a cui aveva
liberamente e volontariamente rinunciato come diritto lo ottiene ora come dono
gratuito.
Lo scopo dell’esaltazione di Cristo viene poi descritto in questi termini: «perché nel
nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua
proclami» (v. 10). Il «nome di Gesù» è quello che gli appartiene perché gli è stato dato
da Dio, e indica la sua signoria universale. Perciò in esso, cioè in segno di profonda
adorazione nei suoi confronti, «si pieghi ogni ginocchio... e ogni lingua proclami».
L’autore dell’inno aggiunge «nei cieli, sulla terra e sotto terra» per esplicitare il carattere
universale di tale adorazione.
L’inno cristologico raggiunge la sua conclusione quando rivela che tutto il cosmo
proclama che «Gesù Cristo è Signore» (v. 11b). Con questa formula carica di profondo
significato teologico l’autore vuole affermare che Gesù Cristo non è un signore
qualunque, ma il KYRIOS per antonomasia. Gesù, che durante la sua esistenza terrena
ha voluto toccare il fondo dello svuotamento e dell’umiliazione, è stato innalzato alla
suprema dignità.
L’inno termina con l’espressione «a gloria di Dio Padre» (v. 11c). Si afferma che Gesù
non è il sostituto né il concorrente di Dio, in quanto la confessione della sua signoria
torna in ultima analisi a gloria di Dio Padre. A rigore di termini questa frase si riferisce
dunque direttamente all’esaltazione di Gesù. Tuttavia a giudizio di vari studiosi essa
serve come conclusione dossologica per tutto l’inno, in quanto sottolinea che anche
come esaltato egli non fa altro che prolungare quell’atteggiamento di umiltà che lo ha
portato a non usare per il proprio vantaggio personale il suo essere alla pari di Dio.
Nel corso dei secoli l’inno cristologico è stato interpretato in due modi sostanzialmente
diversi. I Padri Greci e quelli Latini fino ad Ambrogio e all’Abrosiaster hanno visto come
soggetto del brano il Verbo nella sua realtà umana concreta, cioè Gesù nella sua vita
terrena. Questa interpretazione è quella a cui si è ispirato Paolo stesso quando l’ha
utilizzato nel contesto della parenesi, e di riflesso non può essere che quella che gli
hanno dato i filippesi. Per combattere l’arianesimo Ambrogio, l’Abrosiaster e i Padri
Latini posteriori hanno invece adottato un’altra interpretazione che vede come
protagonista dell’inno il Verbo preesistente nella sua esistenza presso il Padre e nel
processo che lo ha portato a scendere in questo mondo e a prendere la natura umana.
Questa lettura del brano è diventata tradizionale, in quanto domina tutta l’esegesi
cattolica fino ai tempi moderni. È oggi convinzione abbastanza diffusa che lo schema
teologico alla base di questa interpretazione non possa essere utilizzato per la
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comprensione dell’inno e si sta ritornando progressivamente all’interpretazione
originaria.
Appare così che nell’inno la vicenda di Gesù viene letta sulla falsariga dell’esperienza di
Adamo e del Servo di JHWH. Adamo, creato a immagine di Dio, ha preteso di essere
come Dio, e così ha perso la dignità che gli era stata conferita. Gesù invece, pur essendo
in senso pieno «nella condizione di Dio», non ha fatto valere il suo privilegio in termini
di prestigio e di potere, ma ha assunto la condizione propria del Servo sofferente, dando
la sua vita come espressione della sua fedeltà totale e Dio. Sullo sfondo di questa
profonda umiliazione non bisogna dunque vedere un processo ascetico di
automortificazione, ma un impegno personale e costante per la liberazione di un popolo
ancora lacerato da profonde divisioni e impregnato di violenza. Come il Servo anche
Gesù ha mostrato in tutti i modi l’amore di Dio per i piccoli e gli emarginati, mettendo
in questione i privilegi dei ricchi e dei potenti. E proprio costoro non glielo hanno
perdonato, provocando la sua morte violenta.
Su questa linea si scorge nell’inno una percezione profonda dei rapporti unici e irripetibili
che Gesù ha con Dio, al punto di essere fin dall’inizio della sua vita terrena nella stessa
«condizione di Dio». Egli è dunque il nuovo Adamo, il quale dà origine a un’umanità
nuova, liberata dalla sopraffazione e dalla violenza. Ma ciò appare chiaramente solo alla
fine di un lungo itinerario umano in cui egli ha manifestato il suo progetto come esigenza
di fedeltà radicale a Dio e di solidarietà attiva con l’umanità. In altre parole proprio
perché egli, sulla linea del cammino percorso dal Servo di JHWH, ha rinunziato a
interpretare il suo rapporto con Dio in termini di potere e di gloria, appare al credente
come colui che, fin dall’inizio, ha dato origine a un cammino di liberazione. Il suo
abbassamento significa quindi non la perdita ma la piena affermazione del suo essere
nella «condizione di Dio», nella quale coinvolge coloro che credono in lui, dando così
inizio a una nuova umanità. Proprio in forza di questo abbassamento riceve già fin d’ora
l’omaggio escatologico di tutto il cosmo e gli sono riconosciuti i titoli cristologici di
Signore, Cristo, Servo e nuovo Adamo.
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SECONDA LETTURA
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési
(2,6-11)
Cristo Gesù,
pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.
Parola di Dio.
CANTO AL VANGELO
(Cf. Gv 11,25.26)
Lode e onore a te, Signore Gesù!
Per noi Cristo si è fatto obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome.
Lode e onore a te, Signore Gesù!
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Mt 26,14-27.66
La passione del Signore
Il Vangelo della Domenica delle Palme, nei tre anni liturgici, è sempre caratterizzato
dalla narrazione della passione di Gesù secondo i vari Sinottici; essi, con una
rappresentazione dolorosa e drammatica sottolineano, che non solo la Risurrezione del
Figlio, ma anche la passione in ogni sua parte, è componente del piano salvifico di Dio.
Non si tratta, quindi, di una semplice esposizione, più o meno rigorosa, di un
avvenimento storico, ma di una interpretazione o, meglio, dell’annuncio salvifico
dell’evento della Croce; l’interpretazione non è però uniforme nei tre Evangelisti, che
nella loro descrizione amano evidenziare delle proprie peculiarità. Secondo Matteo, ad
esempio, Gesù Cristo non fu assolutamente travolto dagli eventi, ma per essere fedele
al suo Signore, rinunciò di sua volontà ad ogni potere divino, non oppose violenza alla
violenza (chiedere dodici legioni di angeli), e scelse la via del dolore o, meglio, delle
Scritture riconoscendo in questo il volere del Padre (è questo il senso delle numerose
citazioni bibliche nel vangelo di Matteo). Solo dopo aver percorso il cammino dell’umiltà
egli apparirà sulle nubi del cielo dotato di ogni potere in cielo e sulla terra.
Quello che nella sua lettera ai Filippesi (seconda lettura) l’Apostolo delle genti illustra
con immagini e termini molto significativi, Matteo lo descrive in un racconto fremente
di commozione e di sofferta partecipazione, rievocata nei suoi momenti più drammatici,
che non sono meno espressivi della riflessione teologica di Paolo; l’Evangelista non
fornisce una nuda cronaca dei fatti, ma un annuncio di fede che aiuta a penetrare nel
grande mistero della passione di Cristo, dominato dalla “libertà” con cui egli affronta la
morte. Leggendo attentamente la passione secondo Matteo, si rimane colpiti di come
tra Gesù, che con un libero atto di volontà entra nell’ombra del Getsemani e accetta
l’annientamento della Croce, e tutti gli altri personaggi ci sia una netta spaccatura, un
muro di assoluta incomprensione. Giuda, ad esempio, che da tempo aveva deciso di
“venderlo”, solo alla fine comprende veramente il significato del suo tradimento; gli
Apostoli, che avevano assistito a tanti fatti prodigiosi, non riescono a vincere il sonno,
uno strano sonno quasi innaturale, come se su di loro fosse calata l’ombra di un mistero
immenso impossibile da reggere; Pietro, che nonostante il suo amore dichiarato tante
volte, rinnega il suo Maestro per ben tre volte, e solo al canto del gallo si rende conto
del suo peccato, si pente e piange; e infine la folla, che tante volte avevano osannato il
figlio di Davide, ora grida il “crucìfige”.
Gesù è veramente solo, tutti lo hanno abbandonato, anche coloro che fino a quel
momento erano rimasti con lui; perfino il Padre, che sempre lo aveva assistito con la
sua presenza, ora sembra lontano. Con la sua passione Gesù svela l’uomo all’uomo, la
sua solitudine è il dramma dell’intera umanità, l’ultima sua rivelazione della condizione
umana. Leggere o ascoltare la passione è penetrare totalmente in questa verità umana;
una verità che costringe a vedere fino in fondo la meschinità dell’uomo e le sue
debolezze. È possibile allora comprendere cos’è il tradimento e cos’è l’amicizia, cos’è il
potere e cos’è la paura, cos’è la menzogna e cos’è il pentimento. Nell’impersonare fino
allo spasimo le sofferenze del Servo, dal fondo della sua abiezione Gesù avverte
l’estrema solitudine (Dio mio perché mi hai abbandonato?). È l’amore per l’uomo che lo
conduce a questo apparente cedimento, perché chi più ama più sente la falsità di ogni
sia pur minima mancanza di verità. Gesù, chiuso nella sua solitudine tace, non risponde
nemmeno a chi lo interroga, soprattutto al “potere”, causa di ogni solitudine umana;
sulla passione di Gesù incombe la coalizione suprema dei potenti: Caifa, Pilato ed Erode
la personificazione della menzogna nel mondo, ed egli dinanzi a questo potere, con il
suo silenzio esprime la più grande delle condanne.
Essere condannato alla pena capitale è la massima violenza che si possa fare a un uomo,
non esiste una condanna a morte più o meno dignitosa o infamante. Oltre duemila anni
di cristianesimo hanno insegnato a rispettare la vita, ma ai tempi di Gesù essa era priva
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di valore e spesso paragonata a quella degli animali; è quindi difficile capire oggi il vero
significato della morte in croce, sia per il condannato, sia per il suo significato sociale.
La croce era la sofferenza destinata agli schiavi, alle persone prive di ogni diritto, un
supplizio che portava a una morte lenta, atroce, disumana, e Gesù è morto di questa
morte. Lui che tante volte aveva lottato con il “signore delle tenebre” e sempre aveva
vinto, ora sembra soccombere al “male” alleato con il “potere” degli uomini; ora, sulla
Croce, egli rappresenta la vittima di ogni sopruso. Ma proprio nel silenzio della morte,
nel momento più doloroso, un centurione romano, un barbaro, pronuncia la grande
verità (Veramente costui era Figlio di Dio!). Una stupenda confessione di fede a Gesù
crocifisso detta da un pagano, una affermazione senza possibilità di equivoco, senza
rischio di inganno, perché solo un Dio fatto uomo, un uomo abbandonato da tutti che
non possiede più nulla, che è nudo, che ha le mani vuote e offre solamente le braccia
aperte a chi vuole accostarsi a lui, poteva morire così. “Braccia spalancate per
abbracciare ogni dolore, per raggiungere ogni regione di solitudine e di morte” come
dice san Cirillo, vescovo di Gerusalemme, uno dei principali rappresentanti
dell’ortodossia cattolica. Solo la Croce è la giusta manifestazione dell’onnipotenza di
Dio, della grandezza del suo amore, che prende su di sé la morte infamante dello
schiavo, per manifestare ancora una volta il suo “beati gli ultimi, i piccoli, i deboli e
coloro che soffrono per la giustizia nel mio nome”; un Dio che non è geloso della sua
vita divina, ma la sacrifica per i fratelli, e spoglia se stesso fino alla condizione di servo.
Sotto la Croce Dio convoca ogni credente per rivelare il suo vero volto, per ascoltare il
suo nome; tutti sono chiamati al silenzio e all’ascolto, a seguire la sua via, perché solo
in lui è possibile scoprire la propria verità più profonda, il perché della propria vita e
della propria presenza nella storia dell’umanità. Il corpo senza vita che cala dalla Croce
per essere deposto nel sepolcro, deve insegnare che non può esserci vita senza amore;
se l’uomo non riesce a comprendere il vero significato dell’amore di fronte alla tomba
aperta per accogliere le spoglie divine, si perderà per sempre nel buio del proprio
orgoglio e del proprio egoismo.
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PASSIONE DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO
SECONDO MATTEO
(26,14 - 27,66)
Indicazioni per la lettura dialogata:
 = Gesù; C = Cronista; A = Discepoli e amici, Folla, Altri personaggi
Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?
C In quel tempo, uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota, andò dai
capi dei sacerdoti e disse: A «Quanto volete darmi perché io ve lo
consegni?». C E quelli gli fissarono trenta monete d’argento. Da quel
momento cercava l’occasione propizia per consegnare Gesù.
Dove vuoi che prepariamo per te, perché tu possa mangiare la Pasqua?
Il primo giorno degli Ázzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli
dissero: A «Dove vuoi che prepariamo per te, perché tu possa
mangiare la Pasqua?». C Ed egli rispose:  «Andate in città da un
tale e ditegli: “Il Maestro dice: Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua
da te con i miei discepoli”». C I discepoli fecero come aveva loro
ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua.
Uno di voi mi tradirà
Venuta la sera, si mise a tavola con i Dodici. Mentre mangiavano,
disse:  «In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà». C Ed essi,
profondamente rattristati, cominciarono ciascuno a domandargli: A
«Sono forse io, Signore?». C Ed egli rispose:  «Colui che ha messo
con me la mano nel piatto, è quello che mi tradirà. Il Figlio dell’uomo
se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo dal quale il
Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai
nato!». C Giuda, il traditore, disse: A «Rabbì, sono forse io?». C Gli
rispose:  «Tu l’hai detto».
Questo è il mio corpo; questo è il mio sangue
C Ora, mentre mangiavano, Gesù prese il pane, recitò la benedizione,
lo spezzò e, mentre lo dava ai discepoli, disse:  «Prendete,
mangiate: questo è il mio corpo». C Poi prese il calice, rese grazie e
lo diede loro, dicendo:  «Bevetene tutti, perché questo è il mio
sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei
peccati. Io vi dico che d’ora in poi non berrò di questo frutto della
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vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi, nel regno del Padre
mio». C Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.
Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge
Allora Gesù disse loro:  «Questa notte per tutti voi sarò motivo di
scandalo. Sta scritto infatti: “Percuoterò il pastore e saranno disperse
le pecore del gregge”. Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in
Galilea».
C Pietro gli disse: A «Se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi
scandalizzerò mai». C Gli disse Gesù:  «In verità io ti dico: questa
notte, prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte». C Pietro
gli rispose: A «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò».
C Lo stesso dissero tutti i discepoli.
Cominciò a provare tristezza e angoscia
Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsèmani, e disse
ai discepoli:  «Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare». C E, presi
con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e
angoscia. E disse loro:  «La mia anima è triste fino alla morte;
restate qui e vegliate con me». C Andò un poco più avanti, cadde
faccia a terra e pregava, dicendo:  «Padre mio, se è possibile, passi
via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!».
C Poi venne dai discepoli e li trovò addormentati. E disse a Pietro: 
«Così, non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora? Vegliate
e pregate, per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la
carne è debole». C Si allontanò una seconda volta e pregò dicendo:
 «Padre mio, se questo calice non può passare via senza che io lo
beva, si compia la tua volontà». C Poi venne e li trovò di nuovo
addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti. Li lasciò, si
allontanò di nuovo e pregò per la terza volta, ripetendo le stesse
parole. Poi si avvicinò ai discepoli e disse loro:  «Dormite pure e
riposatevi! Ecco, l’ora è vicina e il Figlio dell’uomo viene consegnato
in mano ai peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce
è vicino».
Misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono
C Mentre ancora egli parlava, ecco arrivare Giuda, uno dei Dodici, e
con lui una grande folla con spade e bastoni, mandata dai capi dei
sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore aveva dato loro un
segno, dicendo: A «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo!». C Subito
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si avvicinò a Gesù e disse: A «Salve, Rabbì!». C E lo baciò. E Gesù
gli disse:  «Amico, per questo sei qui!». C Allora si fecero avanti,
misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono. Ed ecco, uno di
quelli che erano con Gesù impugnò la spada, la estrasse e colpì il
servo del sommo sacerdote, staccandogli un orecchio. Allora Gesù gli
disse:  «Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che
prendono la spada, di spada moriranno. O credi che io non possa
pregare il Padre mio, che metterebbe subito a mia disposizione più
di dodici legioni di angeli? Ma allora come si compirebbero le
Scritture, secondo le quali così deve avvenire?». C In quello stesso
momento Gesù disse alla folla:  «Come se fossi un ladro siete venuti
a prendermi con spade e bastoni. Ogni giorno sedevo nel tempio a
insegnare, e non mi avete arrestato. Ma tutto questo è avvenuto
perché si compissero le Scritture dei profeti». C Allora tutti i discepoli
lo abbandonarono e fuggirono.
Vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza
Quelli che avevano arrestato Gesù lo condussero dal sommo
sacerdote Caifa, presso il quale si erano riuniti gli scribi e gli anziani.
Pietro intanto lo aveva seguito, da lontano, fino al palazzo del sommo
sacerdote; entrò e stava seduto fra i servi, per vedere come sarebbe
andata a finire.
I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una falsa
testimonianza contro Gesù, per metterlo a morte; ma non la
trovarono, sebbene si fossero presentati molti falsi testimoni.
Finalmente se ne presentarono due, che affermarono: A «Costui ha
dichiarato: “Posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre
giorni”». C Il sommo sacerdote si alzò e gli disse: A «Non rispondi
nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?». C Ma Gesù
taceva. Allora il sommo sacerdote gli disse: A «Ti scongiuro, per il
Dio vivente, di dirci se sei tu il Cristo, il Figlio di Dio». C Gli rispose
Gesù:  «Tu l’hai detto; anzi io vi dico: d’ora innanzi vedrete il Figlio
dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire sulle nubi del
cielo».
C Allora il sommo sacerdote si stracciò le vesti dicendo: A «Ha
bestemmiato! Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Ecco, ora
avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». C E quelli risposero: A
«È reo di morte!». C Allora gli sputarono in faccia e lo percossero;
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altri lo schiaffeggiarono, dicendo: A «Fa’ il profeta per noi, Cristo! Chi
è che ti ha colpito?».
Prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte
C Pietro intanto se ne stava seduto fuori, nel cortile. Una giovane
serva gli si avvicinò e disse: A «Anche tu eri con Gesù, il Galileo!». C
Ma egli negò davanti a tutti dicendo: A «Non capisco che cosa dici».
C Mentre usciva verso l’atrio, lo vide un’altra serva e disse ai
presenti: A «Costui era con Gesù, il Nazareno». C Ma egli negò di
nuovo, giurando: A «Non conosco quell’uomo!». C Dopo un poco, i
presenti si avvicinarono e dissero a Pietro: A «È vero, anche tu sei
uno di loro: infatti il tuo accento ti tradisce». C Allora egli cominciò a
imprecare e a giurare: A «Non conosco quell’uomo!». C E subito un
gallo cantò. E Pietro si ricordò della parola di Gesù, che aveva detto:
«Prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte». E, uscito fuori,
pianse amaramente.
Consegnarono Gesù al governatore Pilato
Venuto il mattino, tutti i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo
tennero consiglio contro Gesù per farlo morire. Poi lo misero in
catene, lo condussero via e lo consegnarono al governatore Pilato.
Allora Giuda – colui che lo tradì –, vedendo che Gesù era stato
condannato, preso dal rimorso, riportò le trenta monete d’argento ai
capi dei sacerdoti e agli anziani, dicendo: A «Ho peccato, perché ho
tradito sangue innocente». C Ma quelli dissero: A «A noi che importa?
Pensaci tu!». C Egli allora, gettate le monete d’argento nel tempio,
si allontanò e andò a impiccarsi. I capi dei sacerdoti, raccolte le
monete, dissero: A «Non è lecito metterle nel tesoro, perché sono
prezzo di sangue». C Tenuto consiglio, comprarono con esse il
“Campo del vasaio” per la sepoltura degli stranieri. Perciò quel campo
fu chiamato “Campo di sangue” fino al giorno d’oggi. Allora si compì
quanto era stato detto per mezzo del profeta Geremia: «E presero
trenta monete d’argento, il prezzo di colui che a tal prezzo fu valutato
dai figli d’Israele, e le diedero per il campo del vasaio, come mi aveva
ordinato il Signore».
Sei tu il re dei Giudei?
[ Gesù intanto comparve davanti al governatore, e il governatore lo
interrogò dicendo: A «Sei tu il re dei Giudei?». C Gesù rispose:  «Tu
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lo dici». C E mentre i capi dei sacerdoti e gli anziani lo accusavano,
non rispose nulla.
Allora Pilato gli disse: A «Non senti quante testimonianze portano
contro di te?». C Ma non gli rispose neanche una parola, tanto che il
governatore rimase assai stupito. A ogni festa, il governatore era
solito rimettere in libertà per la folla un carcerato, a loro scelta. In
quel momento avevano un carcerato famoso, di nome Barabba.
Perciò, alla gente che si era radunata, Pilato disse: A «Chi volete che
io rimetta in libertà per voi: Barabba o Gesù, chiamato Cristo?». C
Sapeva bene infatti che glielo avevano consegnato per invidia.
Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: A «Non
avere a che fare con quel giusto, perché oggi, in sogno, sono stata
molto turbata per causa sua». C Ma i capi dei sacerdoti e gli anziani
persuasero la folla a chiedere Barabba e a far morire Gesù. Allora il
governatore domandò loro: A «Di questi due, chi volete che io
rimetta in libertà per voi?». C Quelli risposero: A «Barabba!». C
Chiese loro Pilato: A «Ma allora, che farò di Gesù, chiamato Cristo?».
C Tutti risposero: A «Sia crocifisso!». C Ed egli disse: A «Ma che male
ha fatto?». C Essi allora gridavano più forte: A «Sia crocifisso!».
C Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto aumentava,
prese dell’acqua e si lavò le mani davanti alla folla, dicendo: A «Non
sono responsabile di questo sangue. Pensateci voi!». C E tutto il
popolo rispose: A «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli». C
Allora rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare
Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso.
Salve, re dei Giudei!
Allora i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e gli
radunarono attorno tutta la truppa. Lo spogliarono, gli fecero
indossare un mantello scarlatto, intrecciarono una corona di spine,
gliela posero sul capo e gli misero una canna nella mano destra. Poi,
inginocchiandosi davanti a lui, lo deridevano: A «Salve, re dei
Giudei!». C Sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna e lo
percuotevano sul capo. Dopo averlo deriso, lo spogliarono del
mantello e gli rimisero le sue vesti, poi lo condussero via per
crocifiggerlo.
Insieme a lui vennero crocifissi due ladroni
Mentre uscivano, incontrarono un uomo di Cirene, chiamato Simone,
e lo costrinsero a portare la sua croce. Giunti al luogo detto Gòlgota,
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che significa «Luogo del cranio», gli diedero da bere vino mescolato
con fiele. Egli lo assaggiò, ma non ne volle bere. Dopo averlo
crocifisso, si divisero le sue vesti, tirandole a sorte. Poi, seduti, gli
facevano la guardia. Al di sopra del suo capo posero il motivo scritto
della sua condanna: «Costui è Gesù, il re dei Giudei».
Insieme a lui vennero crocifissi due ladroni, uno a destra e uno a
sinistra.
Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!
Quelli che passavano di lì lo insultavano, scuotendo il capo e dicendo:
A «Tu, che distruggi il tempio e in tre giorni lo ricostruisci, salva te
stesso, se tu sei Figlio di Dio, e scendi dalla croce!». C Così anche i
capi dei sacerdoti, con gli scribi e gli anziani, facendosi beffe di lui
dicevano: A «Ha salvato altri e non può salvare se stesso! È il re
d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Ha confidato in
Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: “Sono Figlio
di Dio”!». C Anche i ladroni crocifissi con lui lo insultavano allo stesso
modo.
Elì, Elì, lemà sabactàni?
A mezzogiorno si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del
pomeriggio. Verso le tre, Gesù gridò a gran voce:  «Elì, Elì, lemà
sabactàni?», C che significa:  «Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?». C Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: A
«Costui chiama Elia». C E subito uno di loro corse a prendere una
spugna, la inzuppò di aceto, la fissò su una canna e gli dava da bere.
Gli altri dicevano: A «Lascia! Vediamo se viene Elia a salvarlo!». C
Ma Gesù di nuovo gridò a gran voce ed emise lo spirito.
(Qui si genuflette e si fa una breve pausa)
Ed ecco, il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo, la
terra tremò, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi
di santi, che erano morti, risuscitarono. Uscendo dai sepolcri, dopo
la sua risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti.
Il centurione, e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, alla
vista del terremoto e di quello che succedeva, furono presi da grande
timore e dicevano: A «Davvero costui era Figlio di Dio!». ]
C Vi erano là anche molte donne, che osservavano da lontano; esse
avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo. Tra queste c’erano
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Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre
dei figli di Zebedèo.
Giuseppe prese il corpo di Gesù e lo depose nel suo sepolcro nuovo
Venuta la sera, giunse un uomo ricco, di Arimatèa, chiamato
Giuseppe; anche lui era diventato discepolo di Gesù. Questi si
presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. Pilato allora ordinò che gli
fosse consegnato. Giuseppe prese il corpo, lo avvolse in un lenzuolo
pulito e lo depose nel suo sepolcro nuovo, che si era fatto scavare
nella roccia; rotolata poi una grande pietra all’entrata del sepolcro,
se ne andò. Lì, sedute di fronte alla tomba, c’erano Maria di Màgdala
e l’altra Maria.
Avete le guardie: andate e assicurate la sorveglianza come meglio credete
Il giorno seguente, quello dopo la Parascève, si riunirono presso
Pilato i capi dei sacerdoti e i farisei, dicendo: A «Signore, ci siamo
ricordati che quell’impostore, mentre era vivo, disse: “Dopo tre giorni
risorgerò”. Ordina dunque che la tomba venga vigilata fino al terzo
giorno, perché non arrivino i suoi discepoli, lo rubino e poi dicano al
popolo: “È risorto dai morti”. Così quest’ultima impostura sarebbe
peggiore della prima!». C Pilato disse loro: A «Avete le guardie:
andate e assicurate la sorveglianza come meglio credete». C Essi
andarono e, per rendere sicura la tomba, sigillarono la pietra e vi
lasciarono le guardie.
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domenica delle palme: passione del signore