in N. Vassallo & F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 Etica di Carla Bagnoli I - Introduzione al problema Che cosa significa giudicare moralmente? Quando formuliamo dei giudizi etici del tipo “L’odio razziale è moralmente ripugnante” oppure “Nessuna guerra è giusta” non intendiamo semplicemente esprimere la nostra opinione personale, né intendiamo descrivere le credenze della società in cui viviamo. Piuttosto, i nostri giudizi morali aspirano ad essere validi e vincolanti per chiunque. I fenomeni di disaccordo e accordo morale sono possibili e filosoficamente interessanti proprio in quanto c’è questa pretesa di oggettività: se fossimo disposti a rinunciarvi, saremmo anche disposti a considerare irrilevante il disaccordo morale e banale l’accordo. Lo scettico ritiene che l’oggettività sia una trappola creata dal nostro linguaggio o impostaci dalla nostre convenzioni sociali, un fenomeno apparente e illusorio: lo scettico ha l’onere di offrire una spiegazione convincente di questa illusione sistematica e universale.1 La domanda di fondo, tanto per lo scettico quanto per chi confida nell’oggettività della morale, è allora: su che cosa si fonda la pretesa di oggettività dei giudizi etici? 1 La pratica condivisa consiste nel ritenere che i giudizi etici aspirino a qualche forma di oggettività. Si osservi, però, che ciò non equivale a ritenere che vi siano credenze morali universalmente condivise. Di conseguenza, l’oggettivista non sostiene necessariamente anche l’universalità delle credenze morali, né è costretto a negare il disaccordo morale; e analogamente, lo scettico che contesta la pratica condivisa con cui si attribuisce oggettività ai giudizi etici non necessariamente usa l’argomento del disaccordo. Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 In questo saggio cercherò di ricostruire la storia dell’etica analitica attraverso la storia di questa preoccupazione filosofica. Il problema dell’oggettività in etica è un nodo centrale della filosofia analitica, intendendo quest’ultima come riflessione filosofica che muove dall’analisi del linguaggio morale (cfr. cap. I). Il disaccordo in ambito morale, e dunque le discussioni che ne conseguono, riguardano in questa prospettiva i criteri di oggettività a cui i giudizi etici possono o debbono aspirare.2 Si deve a G. E. Moore la prima e più importante formulazione della questione. Nella sua prospettiva, caratterizzabile come realismo anti-naturalista, i giudizi sono oggettivi solo se vi sono proprietà morali sui generis e irriducibili a proprietà naturali (si esaminerà questa tesi nella sezione II). Le difficoltà del realismo hanno incoraggiato l’affermarsi del non-cognitivismo, secondo cui i giudizi etici non sono veicolo di conoscenza genuina perché non sono proposizioni, ed è perciò inappropriato parlare di oggettività e di verità come fanno i realisti poiché il linguaggio morale non è assertivo, ma espressivo o prescrittivo (sezione III). È questa famiglia di teorie a dominare incontrastata per gran parte del XX secolo, ma sul finire del secolo avanzano delle alternative metaetiche interessanti. In opposizione sia al non-cognitivismo sia al realismo, si fa strada l’idea che l’oggettività in etica debba esibirsi in reazioni affettive appropriate alle circostanze, e ciò dà luogo ad un cognitivismo non-realista (sezione IV). Viene poi riproposto in diverse versioni il naturalismo, secondo le quali i criteri di oggettività in etica sono analoghi a quelli delle scienze naturali, e perciò si può spiegare la fenomenologia morale senza ricorrere ad un’ontologia peculiare, (sezione V). Infine, si affermano 2 Alcuni filosofi caratterizzano la questione dell’oggettività come puramente “meta-etica”, e cioè da tale da essere affrontata attraverso l’analisi del linguaggio morale e lo studio dei concetti morali. Tuttavia, la distinzione tra meta-etica ed etica normativa è problematica e, come vedremo, per certi altri filosofi analitici 2 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 decisamente le teorie del ragionamento morale, secondo le quali l’oggettività deve essere spiegata senza adottare i criteri delle scienze naturali, ma esplicitando i canoni del ragionamento morale (sezione VI). II - Oggettività e autonomia dell’etica: il non-naturalismo di G.E. Moore La questione dell’oggettività dell’etica è al centro del progetto filosofico di G.E. Moore. In Principia Ethica (1903), una pietra miliare nella storia della filosofia morale, Moore sostiene che le pretese di oggettività dei giudizi etici sono legittime in quanto l’etica è un ambito di conoscenza genuina ed autonoma da altre forme di conoscenza (dalle scienze naturali, dalla psicologia e dalla metafisica). Che cosa intendiamo dire quando formuliamo giudizi etici? Il soggettivismo risponde a questa domanda sostenendo che i giudizi etici sono giudizi sugli atteggiamenti del valutante. Moore obbietta che se si accetta l’analisi soggettivista, non si può rendere conto adeguatamente del disaccordo morale. Se il giudizio di Luca “La violenza è ingiusta” significa “Luca disapprova la violenza” e il giudizio di Sara “La violenza è giusta” significa “Sara approva la violenza”, è come dire che a Luca piace il gelato e a Sara no: essi non sono in disaccordo sui criteri con cui valutare il gelato, stanno semplicemente descrivendo ciascuno la propria preferenza. Ma se è così, allora non stanno davvero discorrendo della stessa cosa, e non ha più senso parlare di disaccordo. Per poter rendere conto adeguatamente del fenomeno di disaccordo morale bisogna poter dire che i giudizi etici vertono su qualcosa che è indipendente dalla mente del l’oggettività chiama in causa anche considerazioni di carattere normativo sui canoni del ragionamento pratico. Sulla distinzione tra meta-etica ed etica normativa si veda la Bibliografia Ragionata. 3 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 valutante: su proprietà morali. Secondo Moore vi sono verità etiche nella misura in cui vi sono giudizi etici che descrivono proprietà morali; e sono queste proprietà morali che rendono i giudizi etici veri. Le proprietà morali sono non-naturali nel senso che dipendono da proprietà naturali ma non sono riducibili ad esse. Negare che vi siano proprietà nonnaturali è come negare che l’etica sia un dominio autonomo, e irriducibile alle scienze naturali o alla metafisica. Dicendo che i concetti morali stanno per proprietà morali o nonnaturali si spiega sia il fenomeno morale del disaccordo, sia l’oggettività alla quale aspirano i giudizi del linguaggio morale ordinario. 1. La Fallacia Naturalistica e il riduttivismo Moore argomenta che bisogna distinguere due questioni fondamentali dell’etica: “Che cosa significa buono?” e “Quali sono le cose buone?”. La filosofia morale tradizionale confonde queste due questioni, e pretende di rispondere alla prima domanda offrendo una lista di cose buone. Questa confusione incoraggia la pretesa di ridurre proprietà morali a proprietà naturali. Allo scopo di mostrare inaccettabile qualsiasi forma di riduttivismo, Moore propone il cosiddetto open question argument. Questo argomento sostiene che per ogni insieme di proprietà naturali (nei quali termini viene definito il termine “buono”) ha senso chiedersi se un tale insieme sia buono. La domanda se la proprietà naturale con cui si è definito il termine “buono” sia buona è una domanda sensata, e rimane aperta proprio perché “buono” non è una proprietà naturale, e non può essere ridotta ad un’altra proprietà. Supponiamo che il naturalista sostenga che “buono” significa “piacevole”. Moore incalza: “E perché ciò che è piacevole è buono?” Questa domanda ha senso perché, evidentemente, la definizione “piacevole” non ha esaurito il significato di “buono”. Moore argomenta che questa incompletezza della definizione naturalistica si spiega perché “buono” e “piacevole” 4 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 sono due proprietà distinte: “buono” non si può ridurre a “piacevole”. I naturalisti, ma più in generale i riduttivisti, commettono dunque una fallacia logica in quanto confondono due proprietà distinte, una delle quali è naturale (definiens) e l’altra non-naturale (definiendum). In alternativa, Moore sostiene che vi sono delle proposizioni etiche fondamentali in cui compare il termine “buono” che non sono derivabili da altre proposizioni, e che sono auto-evidenti e vere senza prova, e la cui verità è intuibile.3 Questo argomento sembra soccombere alle seguenti obiezioni. W. Frankena ha osservato che se questa fosse davvero una fallacia, dovrebbe colpire tutti i tentativi di definizione (anche quelli che riguardano due proprietà naturali, o due proprietà nonnaturali), e dovrebbe perciò dirsi fallacia definizionista. Ma la fallacia occorre solo se le due proprietà in questione sono davvero distinte: e proprio questo è l’oggetto del contendere; e, comunque, non si tratterebbe di una fallacia logica.4 Più recentemente, H. Putnam ha obbiettato che l’argomento di Moore regge sulla base di una confusione tra identità sintetiche e analitiche, tra identità necessarie e contingenti.5 Sebbene Moore non abbia scoperto una vera e propria fallacia logica del naturalismo, ha comunque indicato una difficoltà importante a cui vanno incontro i progetti riduttivisti: essi non riescono a spiegare la normatività dei giudizi etici. L’argomento della questione aperta di Moore ha svolto un ruolo fondamentale nella filosofia morale del XX secolo, e rimane una risorsa argomentativa importante negli sviluppi più recenti dell’etica, specialmente riguardo alle rinnovate ambizioni del riduzionismo e alla possibilità di eliminare i concetti morali, una volta che si sia rinunciato alla possibilità di proprietà morali non-naturali. 3 4 Moore, 1903, p. X. Frankena, 1942. 5 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 2. La critica di Mackie della stranezza e della ridondanza esplicativa delle proprietà morali Secondo J.L. Mackie il merito di Moore sta nell’aver identificato il problema del naturalismo con l’incapacità di spiegare la capacità dei giudizi etici di motivare all’azione. Sarebbe allo scopo di render conto di questa capacità motivante che Moore introduce l’ipotesi del non-naturalismo. Ma questa ipotesi rende la teoria intuizionista vulnerabile ad un’obiezione analoga a quella che Hume muove contro il razionalismo etico. Se i giudizi etici sono asserzioni che rappresentano proprietà etiche, come possono essere anche motivanti? E se si sostiene che sono motivanti (e perciò in grado di eludere qualsiasi riduzione naturalista) perché considerarli mere asserzioni descrittive? Per essere sia oggettivi sia motivanti, i giudizi etici dovrebbero essere credenze su proprietà e fatti piuttosto strani, ovvero, capaci di motivare all’azione (queerness argument). Ma l’introduzione di queste proprietà viola il principio di economia ontologica perché la fenomenologia morale si può spiegare anche senza far ricorso ad una misteriosa ontologia.6 Eppoi, come si verrebbero a conoscere tali proprietà non naturali? E quali legami avrebbero con l’ontologia naturalista? Come potremmo rendere conto di questi legami? Queste difficoltà, sia di natura ontologica sia di natura epistemologica, sono sembrate insormontabili ed hanno consegnato l’Intuizionismo al silenzio per tutta la seconda metà del secolo XX. Ma si consideri che l’argomento di Mackie si basa su quattro assunti impliciti: 1) che l’Intuizionismo interpreti la normatività dei giudizi etici in termini di forza motivante; 2) che l’Intuizionismo accolga la tesi Humeana che solo le passioni sono motivanti, e che le credenze sono inerti; 3) che l’oggettività dei giudizi etici dipenda 5 Putnam, 1981. 6 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 dall’esistenza di proprietà morali intrinsecamente motivanti; 4) che la fenomenologia morale sia spiegabile naturalisticamente. Se l’Intuizionismo accetti (o debba accettare) questi assunti è questione piuttosto controversa. Innanzitutto non è corretto dare per scontato una concezione Humeana della motivazione, poiché un resoconto adeguato della motivazione morale è proprio ciò che si va cercando. Ma soprattutto, Moore non sembra preoccuparsi della questione motivazionale quando parla di normatività. Piuttosto, egli vuole rendere conto dell’oggettività delle valutazioni, e concepisce la normatività come la capacità di offrire ragioni universali (per la valutazione o per l’azione).7 Moore osserva che la nostra valutazione non varia indipendentemente dalla descrizione della natura intrinseca di un oggetto. Se si dice che la guerra è ingiusta ci si impegna con ciò a dire che tutte le guerre che hanno caratteristiche descrittive uguali o rilevantemente simili, sono ingiuste.8 Supponiamo di indicare X come l’insieme di caratteristiche descrittive da cui dipende il nostro giudizio che la guerra è ingiusta, allora X è la ragione per cui la guerra è ingiusta. Vi è dunque una relazione tra descrizione e valutazione; Moore la chiama consequenzialità. La relazione di consequenzialità spiega la non-naturalezza delle proprietà morali, ed è il cardine della concezione oggettivista del valore di Moore.9 Contro il riduttivismo, Moore sostiene che questa relazione non è di riduzione: le proprietà morali sono consequenziali ma non riducibili a quelle naturali. La relazione è normativa: a priori e necessaria, e di natura diversa dalle relazioni logiche o 6 Mackie, 1977, pp. 40 e ss. L’argomento della ridondanza è usato anche in Harman, 1977. Contro questo argomento si veda la replica puntuale ed efficacissima di Sturgeon, 1985. 7 Sono due le relazioni normative: la relazione con cui certe caratteristiche descrittive si presentano come ragioni per la valutazione (good-making characteristics) e la relazione normativa per cui certe caratteristiche si presentano come ragioni per l’azione (ought-implying characteristics), cfr. Moore, 1942. 8 Sulla sopravvenienza si veda Kim, 1984. 9 Questo senso di “non-naturale” viene elucidato in Moore, 1942, pp. 588-589. 7 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 causali.10 Si osservi che siccome la consequenzialità è una relazione normativa, allora le proprietà morali come “buono” non sono proprietà intrinseche, cioè, non fanno parte della natura intrinseca di un oggetto, e dunque quando si predicano di un oggetto non si sta con ciò facendo una descrizione dell’oggetto.11 Se evita l’obiezione di Mackie della stranezza, questa interpretazione della normatività solleva la questione ulteriore della natura delle relazioni di consequenzialità. Il vero problema teorico è dunque come rendere conto della relazione normativa tra giudizi etici e caratteristiche del mondo, e considerare se tale relazione sussista al livello delle proprietà o solo al livello dei concetti. Si tratta di un problema che è al centro di un vivacissimo dibattito. Dunque anche il quarto assunto è problematico: è questione filosofica controversa se la fenomenologia morale sia spiegabile adeguatamente al modo dei naturalisti.12 Moore lascia dunque un compito preciso ai teorici dell’etica: l’elaborazione di una concezione del linguaggio morale e della razionalità morale che renda conto delle relazioni normative che si intrattengono con il mondo. III - Il Non-cognitivismo: giudizi, emozioni, prescrizioni Si è soliti osservare che i veri beneficiari ed eredi dell’argomento anti-naturalista di Moore sono i non-cognitivisti.13 In questo ambito, il non-naturalismo di Moore viene inteso come un tentativo confuso di alludere al magnetismo dei giudizi etici, alla loro capacità di 10 Si veda, in particolare, Moore, 1921. Questa interpretazione evita anche la critica di Hare secondo cui l’intuizionismo è una forma di descrittivismo, vd Hare, 1963. Al contrario, l’intuizionismo di Moore è una forma di realismo ma non è una forma di descrittivismo: è proprio per salvaguardare la funzione non-descrittiva del linguaggio morale che Moore introduce l’ipotesi del non-naturalismo. 12 Contro l’argomento di Mackie, 1977, si vedano Sturgeon, 1986, e Nagel, 1986, tr.it. p. 178 -184. 13 Si veda, per esempio, l’introduzione di Gibbard, Darwall, Railton, 1997. Un esempio di come Moore può essere accolto dal non-cognitivismo si trova in Vailati, 1957, pp. 185-195. 11 8 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 guidare l’azione.14 Il non-cognitivismo porta il non-naturalismo alle sue estreme conseguenze, negando che il linguaggio morale abbia una funzione descrittiva e rappresentativa.15 Ma qual è allora la funzione principale del linguaggio morale, e in che senso i giudizi etici possono dirsi oggettivi se non sono descrittivi? Qui le posizioni dei non-cognitivisti differiscono significativamente. 1. L’emotivismo: A.J. Ayer e C. Stevenson Nella sua forma più radicale e meno raffinata, il non-cognitivismo emotivista sostiene, con A.J. Ayer, che i giudizi etici servono ad esprimere delle emozioni, non diversamente da certe esclamazioni o espressioni quali “Evviva!”. In virtù della teoria verificazionista del significato, in Language, Truth and Logic (1936), Ayer sostiene anche che, nel loro uso caratteristico, i giudizi etici sono espressioni di stati mentali, privi di alcun contenuto fattuale verificabile, e quindi non oggetto di conoscenza e di scienza poiché le regole della logica non si applicano. Altrimenti, i giudizi etici possono essere usati per descrivere degli stati d’animo del valutante, ma in questo caso sono enunciati psicologici e non appartengono al dominio dell’etica. Perciò, per i giudizi etici la questione dell’oggettività semplicemente non si solleva. In Ethics and Language (1944), C. Stevenson elabora una versione più interessante di emotivismo, informata dalla teoria causale del significato. Stevenson sostiene che i giudizi valutativi, sebbene non fattuali e descrittivi, hanno tuttavia un significato emotivo, che serve ad orientare gli atteggiamenti dell’interlocutore ed esprimere i propri. Il riconoscimento del significato emotivo, e quindi della funzione espressiva del linguaggio morale, è di grande importanza per formulare una nuova concezione del disaccordo 14 Stevenson, 1944, p. 109. Hare, 1952, p. 85. 9 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 morale. Il disaccordo morale è un fenomeno complesso in parte determinato da un “disaccordo di credenza” (sui fatti che riteniamo rilevanti) e in parte da un “disaccordo di atteggiamento”. Supponiamo che Luca e Sara siano in disaccordo rispetto alla questione della pena di morte: hanno un disaccordo di credenza nella misura in cui sono in disaccordo sui fatti del caso (Luca crede che sia un deterrente efficace e Sara non lo crede), e differiscono anche nell’atteggiamento che provano nei confronti della pena di morte (Luca l’approva, Sara la disapprova). Diversamente dal soggettivismo criticato da Moore, l’emotivismo non tratta i giudizi di Sara e Luca come se fossero credenze sui loro propri atteggiamenti, ma espressivi dei loro atteggiamenti. In questo modo l’emotivismo rende conto del disaccordo morale come di un fenomeno genuino ed evita l’obiezione di Moore. Secondo Stevenson, il disaccordo di atteggiamento è più fondamentale nel resoconto del disaccordo etico perché ne determina la natura e i metodi di risoluzione. Quando i disaccordi morali sono fondati su disaccordi di credenza, possono essere risolti risolvendo il disaccordo di credenza che ne sta alla base, attraverso l’argomentazione razionale. Per esempio, Sara può esibire a Luca certi fatti rilevanti a mostrare che la pena di morte in effetti non è un deterrente efficace. In questo caso il loro disaccordo si risolve razionalmente tramite l’esibizione di prove e argomentazioni. Ma non tutti i disaccordi morali possono essere risolti ricorrendo a metodi razionali. I disaccordi morali fondati su disaccordi di atteggiamento possono essere risolti sono ricorrendo alla persuasione. Per esempio, se il disaccordo persiste nonostante l’esibizione di prove determinanti, Sara può tentare di persuadere Luca offrendo delle nuove definizioni suggestive di “sanzione”, che hanno lo scopo di fargli cambiare atteggiamento. Per l’emotivista qualsiasi fatto può 15 Sul non-cognitivismo italiano si vedano Calderoni, 1924; Juvalta, 1943; Vailati, 1957. Cfr. Pontara, 1988, 15-110. 10 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 contare come ragione in etica, purché serva a modificare l’atteggiamento dell’interlocutore.16 Stevenson conclude che l’etica non può assurgere al tipo di oggettività che sembra caratterizzare l’impresa scientifica. Lo scopo del moralista è quello di orientare secondo i suoi propositi gli atteggiamenti degli altri e, per questa via, i loro comportamenti. Agli argomenti razionali si riconosce dunque un ruolo molto limitato in etica, accanto a modi non-razionali o persuasivi di condurre gli altri all’accordo.17 2. Il prescrittivismo universalista: R.M. Hare Per Richard M. Hare la tesi che la funzione del linguaggio morale non è principalmente descrittiva non conduce affatto alla conclusione che il ragionamento morale ha un ruolo marginale. Al contrario, Hare sostiene che proprio tramite lo studio delle caratteristiche logiche dei concetti morali si scoprono i canoni del ragionamento morale. Il linguaggio morale è prescrittivo e universale: queste due caratteristiche logiche sono sufficienti a determinare le procedure di ragionamento morale. Impegnarsi a ragionare moralmente significa sottoporsi ad un esperimento mentale in cui ci si immagina adottare una prescrizione come universale. Supponiamo che Luca si chieda se la pena di morte sia giusta. Ponendosi la questione morale, Luca si chiede se la prescrizione “Ammetti la pena di morte!” sia universalizzabile, se cioè gli è possibile adottare la prescrizione universale “Tutte le sanzioni con le caratteristiche X sono giuste/Ammettetele!” Universalizzare significa offrire una ragione: le ragioni sono le caratteristiche descrittive X in virtù delle quali si può universalizzare la prescrizione singolare “Ammettete la pena di morte!”. 16 Stevenson, 1942, p. 118. Si presti attenzione alla distinzione tra metodi non-razionali (basati sulla manipolazione degli atteggiamenti - ma non per questo “irrazionali”) e metodi razionali (basati sulla revisione critica delle credenze). 17 11 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 Quello di fondare i canoni del ragionamento morale sulla logica dei concetti morali è un progetto filosofico molto ambizioso. Ma quanto è potente il metodo argomentativo dell’universalizzazione? Quali sono i tipi di disaccordi che riesce a risolvere? Le sue capacità di risoluzione dipendono solo dalla logica dei concetti morali? Il percorso di Hare da Il linguaggio della morale, (un primo tentativo pionieristico di fondare il sillogismo pratico) a Libertà e ragione, (dove l’universalizzazione viene a giustificare una forma di utilitarismo degli interessi) e poi a Il pensiero morale, (in cui si propone una forma raffinata di utilitarismo delle preferenze) mostra che l’universalizzazione, per essere davvero efficace, deve poggiare su altre importanti premesse di natura non logica.18 Sebbene neutrale, la meta-etica si rivela capace di determinare, insieme ad altri ingredienti non logici, l’etica normativa. In questo modo, Hare fa emergere una nuova concezione dell’oggettività dell’etica. Intuizionisti ed emotivisti sono d’accordo nel concepire l’oggettività in modo realista, e assumono che i giudizi etici possano legittimamente aspirare all’oggettività solo se sono assertivi, rappresentazioni e descrizioni di proprietà o di fatti morali. Essi sono in disaccordo solo riguardo alla questione successiva se i giudizi etici siano davvero assertivi. Riprendendo la tradizione kantiana, Hare sostiene invece che l’oggettività può essere significativamente compresa e formulata anche in un ambito non-realista in cui si riconosce che i giudizi etici non sono assertivi ma prescrittivi, sono cioè degli imperativi universali mascherati. L’etica è oggettiva nel senso che vi sono metodi razionali capaci di dirimere i conflitti morali, e di mostrare quali concezioni morali sono sostenibili. Questa nozione di oggettività verrà altrimenti sviluppata dalle teorie del ragionamento morale (sez. VI). 18 Bagnoli, 1992. Cfr. Vacatello, 1995. 12 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 3. La critica di Bernard Williams ai teorici dell’etica Se l’oggettività si misura con la capacità di risolvere il conflitto morale è perché il conflitto morale è implicitamente inteso come un difetto della razionalità dell’agente oppure un difetto di coerenza o determinatezza della teoria etica. Contro questa concezione del conflitto morale, e l’aspirazione all’oggettività che accomuna i progetti dei teorici dell’etica, B. Williams sostiene che “lo sforzo di comporre i nostri conflitti e di formulare leggi atte ad eliminare l’incertezza morale mediante la costruzione di una teoria etica filosofica è uno sforzo destinato all’insuccesso.”19 Questo insuccesso è, ad un tempo, inevitabile e auspicabile. La teoria etica, come si afferma in età moderna, è necessariamente riduttivista, e misconosce sistematicamente la varietà e l’incommensurabilità di valori e tradizioni etiche. Proporsi l’oggettività e la costruzione di una teoria etica è commettere un errore sia filosofico e metodologico, sia morale. Dal punto di vista metodologico, significa imporre un modello di razionalità teoretica che è inadeguato per l’ambito pratico. Dal punto di vista morale, significa violare il pluralismo di valori. Anziché adottare il modello teoretico di razionalità e ridurre la possibilità del conflitto morale alla contraddizione, dovremmo innanzitutto considerare le ragioni, personali e sociali ma certo non logiche, per cui vogliamo liberarcene.20 I nostri valori sono il risultato dell’incontro di culture diverse, frutto di sedimentazione storica, e questo impedisce che ci si possa ragionevolmente aspettare di dar loro una sistematizzazione coerente e completa che abbia la forma di una teoria etica. Cozzando con la fenomenologia morale, la riflessione teorica sistematica ha poi l’effetto di corrodere la conoscenza morale. 19 Williams, 1981, tr.it. pp. 108-109. Williams, 1963. Williams, 1965. Williams, 1979. Un argomento simile però a favore del non-cognitivismo si trova in Vailati, 1957, pp. 173-180. Sul conflitto morale e sul ruolo della coerenza etica nella filosofia analitica si veda Bagnoli, 2000a. 20 13 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 Bisogna “vivere in modo riflessivo” e rinunciare alle assurde pretese riduttiviste della teoria etica.21 4. La teoria dell’errore: J.L. Mackie La fenomenologia morale sembra suggerire che le nostre valutazioni hanno pretese di verità. Ma sono legittime queste pretese? In Ethics. Inventing Right and Wrong (1977), J.L. Mackie sostiene che non lo sono, e si assume così l’onere di spiegare perché invece ci sembrano tali. Riprendendo Hume, Mackie afferma che i giudizi etici sono semplicemente proiezioni dei nostri sentimenti e perciò non sono veicolo di conoscenza genuina. Nella versione proposta da J.L. Mackie, il proiettivismo diventa una teoria dell’errore: i nostri giudizi sono suscettibili di vero-falsità, ma tutte false in quanto rappresentano proprietà inesistenti. Quando ci poniamo questioni morali, siamo dunque preda di un errore sistematico. Mackie non propone però una revisione radicale della pratica etica, né tantomeno la sua soppressione, bensì pretende di riconoscere una certa indispensabilità del discorso etico. Sebbene il discorso etico non sia il veicolo di rappresentazioni vere, la sua falsità non ne compromette l’utilità inferenziale. Ma la consapevolezza di pronunciare dei giudizi falsi ogni qualvolta si dà una valutazione etica ha l’effetto di corrodere la pratica stessa della valutazione, e minaccia la stabilità e l’efficacia delle istituzioni morali.22 5. Il quasi-realismo di Simon Blackburn Per rispondere a questa grave difficoltà S. Blackburn ha proposto un modo alternativo di difendere il proiettivismo.23 Sostenere che i giudizi etici hanno una genealogia proiettivista non significa considerarli illusori. Pur se generate dalla nostra sensibilità, le valutazioni esprimono verità morali, e queste verità non sono né soggettive né dipendenti dalle menti 21 22 Williams,1985, pp. 169-172. Si veda a questo proposito la critica di Williams, 1985. 14 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 del valutante.24 La sensibilità è creatrice: i valori acquistano una realtà loro che è sufficientemente robusta da sostenere una forma legittima di realismo, il quasi-realismo. A differenza del realismo, il quasi-realismo riconosce la natura soggettiva dei valori, e non presuppone una realtà indipendente dalla propensione che la nostra mente ha di proiettarsi sul mondo esterno, per questo si è guadagnato il diritto all’uso di nozioni come quelle di verità, conoscenza, oggettività, che sembravano sola prerogativa del realismo. Perciò il non-realismo ha maggiore capacità esplicativa di quanto gli sia riconosciuto: la descrizione e la rappresentazione (insieme alle nozioni di verità, conoscenza, oggettività) sono nozioni che si guadagnano a poco prezzo, tanto che anche un Humeano può usarli. Questa proposta ha modificato sostanzialmente i termini del dibattito sull’oggettività e sul realismo, e ha dato inizio ad un raffinato dibattito sulla logica degli atteggiamenti, specialmente in risposta alla classica obiezione di P. Geach secondo cui solo il realismo può spiegare i giudizi etici complessi in contesti indiretti e i condizionali.25 Un tentativo particolarmente interessante in questo senso è quello di A. Gibbard che a partire da una concezione espressivista sviluppa una logica per il linguaggio normativo, che deve molto alla logica delle inferenze imperative di Hare. Diversamente da Hare, tuttavia, Gibbard sostiene che lo scopo di questa logica delle norme è di coordinare azione e sentimenti, sullo sfondo di una concezione evoluzionista. La nozione di coordinazione, e di conseguenza la nozione di oggettività, sono interpretate secondo la teoria dei giochi.26 Infine, J. Skorupski ha recentemente elaborato un’alternativa interessante sia al realismo sia all’espressivismo: l’irrealismo cognitivista. I giudizi morali sono proposizioni 23 Blackburn, 1993, p. 158. Blackburn, 1984, pp. 217-218. Una posizione simile sull’oggettività etica è sostenuta da Lecaldano, 1998. 25 Geach, 1965. 26 Gibbard, 1990. 24 15 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 normative su ciò che c’è ragione di fare o di sentire (in particolare, ragioni per il biasimo o senso di colpa). Essendo proposizioni genuine, possono essere corrette o scorrette, e rendono legittimo l’uso di nozioni come l’oggettività e la conoscenza, ma non c’è un insieme di fatti ulteriore e separato che le rende vere. Sebbene vi sia una grammatica e una semantica comune alle proposizioni normative, non vi è una comune ontologia ed epistemologia. L’epistemologia morale è distinta in quanto dialogica, in un modo che ricorda le teorie della ragione pratica (sez. VI).27 IV - Etiche cognitiviste e la critica della distinzione tra fatti e valori Con la pubblicazione nel 1953 delle Investigazioni filosofiche di Wittgenstein, si affaccia sulla scena dominata dal non-cognitivismo una concezione del linguaggio morale in grado di mettere in questione lo status logico della fallacia naturalistica. E. Anscombe e P. Foot hanno contribuito significativamente alla riformulazione del neo-naturalismo,28 ma è Iris Murdoch ad inaugurare una concezione della moralità che si dimostrerà decisiva per gli sviluppi più recenti dell’etica contemporanea. 1. Il realismo normativo di Iris Murdoch Iris Murdoch rappresenta una voce discorde e isolata nella filosofia analitica non solo nel coro che accoglie unanime l’anti-naturalismo di Moore, ma soprattutto perché di Moore recupera una nozione da tutti considerata problematica: quella della visione morale. In Vision and Choice (1957), Murdoch spiega che la metafora della visione illustra meglio la moralità della metafora prediletta dai non-cognitivisti, quella della scelta e del movimento. La tesi dello iato logico tra fatti e valori che il non-cognitivismo eredita da Moore invita ad 27 Skorupski, 1997. Skorupski, 1999. Sulla relazione tra irrealismo cognitivista e costruttivismo, si veda Bagnoli, 2000b. 16 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 una concezione comportamentista della morale, e trascura la dimensione privata e individuale della deliberazione dell’agente che, sfuggendo all’osservazione, esula dal dominio della razionalità morale. Ciò che si giudica moralmente è l’azione dell’agente, che è osservabile esternamente perché pubblicamente esibita.29 Con questa tesi si sancisce la separazione definitiva della filosofia morale dalla metafisica e dalla filosofia della mente, a compimento di un percorso di segregazione che è iniziato con la modernità (Metaphysics and Ethics, 1957). Murdoch obbietta che il non-cognitivismo si propone come meta-etica neutrale, ma in realtà è espressione del liberalismo puritano, secondo cui la libertà e la responsabilità morale equivalgono alla scelta individuale. Analogamente, il naturalismo non compie un errore logico, ma propone una morale sostanziale. La morale è da intendersi come un sistema di concetti che articolano una certa visione e comprensione dal mondo complessiva. In questo senso, parlare di “visione del mondo”, di interpretazione morale del mondo, esclude che si possa plausibilmente mantenere una scissione logica tra fatti e valori. Introduciamo valore nel mondo attraverso il lavoro costruttivo dell’immaginazione.30 La realtà è dunque normativa, il realismo è una conquista.31 Se per un liberale non-cognitivista come Hare, si può essere d’accordo sui fatti eppure adottare punti di vista morali, interessi, o preferenze differenti, per Murdoch il disaccordo morale è più radicale e fondamentale e ha origine in come vediamo, interpretiamo e comprendiamo il mondo. 28 Anscombe, 1958. Foot, 1958. Murdoch, 1956. Murdoch, 1957. 30 Murdoch, 1966, p. 201. 31 Murdoch, 2000, pp. 329, 352. 29 17 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 In The Sovereignty of the Good (1970) Murdoch sostiene che il bene, che è concetto sovrano tra i concetti etici, è oggetto di conoscenza, e non una funzione del volere. Poiché l’attività morale è un’attività interpretativa, concettuale e cognitiva, ha senso parlare di oggettività in etica. Ma l’oggettività non è da intendersi né come il rispecchiamento fedele di una realtà indipendente, né come il risultato di una procedura argomentativa infallibile. Piuttosto, l’oggettività è un ideale regolativo dell’agente che si sforza di prestare attenzione a ciò che ha intorno, e in particolare, agli altri. La visione morale ci rende gli altri così come sono in realtà, cioè, indipendentemente da come sono per noi (attraverso la trama dei nostri interessi). Perciò lo sforzo di essere oggettivi ed attenti non è che un modo di essere virtuosi.32 2. La percezione morale: John McDowell e David Wiggins Murdoch individua un compito importante della teoria morale: c’è bisogno di una nuova concezione dei concetti morali che renda intelligibile la fenomenologia morale. Realismo e non-cognitivismo assumono, erroneamente, che sia possibile isolare gli aspetti proposizionali dei concetti morali da quelli soggettivi e disposizionali. Per combattere questa pretesa, e illustrare una concezione alternativa dei concetti morali, McDowell e Wiggins propongono di impiegare l’analogia con le qualità secondarie.33 Così come le qualità secondarie, i valori sono inintelligibili se non come modificazioni di sensibilità come la nostra. Sebbene dipendenti dalla nostra sensibilità, i valori sono proprietà genuine e oggettive. Concepiamo il mondo in termini di classificazioni etiche perché abbiamo sensibilità e disposizioni tali che possiamo essere educati ad usare appropriatamente tali 32 Murdoch, 1970. Wiggins, 1976. McDowell, 1985. Ciò che accomuna McDowell e Wiggins è una teoria della sensibilità morale che viene illustrata attraverso l’analogia con le qualità secondarie. Un esame delle differenze 33 18 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 classificazioni; ed usarli appropriatamente significa essere motivati in un certo modo.34 La competenza morale prevede la partecipazione ad una certa serie di pratiche condivise che riguardano l’interpretazione e l’applicazione di concetti, e il giudizio di casi particolari, e un certo tipo di sensibilità. Non è possibile comprendere e usare appropriatamente un concetto morale senza condividere certi interessi, certi bisogni, certi sentimenti e una certa pratica entro cui tale concetto è stato originato, e senza avere quegli stati soggettivi che gli si devono accompagnare. Per esempio, non si può dire di conoscere il significato di “giusto” se non rispettivamente ad una certa pratica, e senza provare un certo sentimento di ammirazione e approvazione. Valutare è dunque un’attività concettuale che ha senso entro una certa forma di vita. Ma questa non è una concessione allo scettico. Piuttosto, si tratta di una spiegazione alternativa della natura delle reazioni e delle aspettative che si hanno quando si adoperano concetti morali. L’oggettività della valutazione si fonda su niente di più e niente di meno che la nostra umanità: la nostra sensibilità e il nostro bisogno di pratiche condivise. V - Le varietà del Naturalismo Nel tentativo di narrare le sorti del naturalismo nell’etica analitica, bisogna tenere conto che questo termine viene usato in diverse accezioni. Prima di Principia ethica, il termine naturalismo caratterizza i tentativi di fondare l’etica indipendentemente dalla metafisica o dall’ipotesi di realtà soprannaturali.35 Con Moore, il naturalismo viene ad identificare le dovrebbe partire dal contrasto tra la concezione Humeana della sensibilità di Wiggins, e quella aristotelica di McDowell. 34 McDowell, 1985, p. 142. McDowell, 1979, pp. 332-333. 35 Frankena, 1957, p. 37. 19 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 teorie etiche che concepiscono il termine “buono” come un predicato, tale da designare una proprietà naturale. In reazione agli argomenti anti-naturalisti di Moore e poi dei non-cognitivisti, il naturalismo risorge in tre versioni distinte. Una prima forma di neo-naturalismo parte dall’idea che il termine “buono” non è predicativo, ma attributivo, e procede esaminando il linguaggio normativo in modo teleologico: sono le funzioni specifiche degli individui che spiegano e determinano il linguaggio normativo.36 In una seconda forma, il naturalismo non propone un’analisi dei concetti morali, e perciò non si impegna al riduttivismo. Ma anche nelle forme riduttiviste, il naturalismo non esce dalla scena con l’obiezione di Moore, e si ritrova in certe versioni della teoria dell’osservatore ideale oppure nei tentativi di offrire definizione analitiche non ovvie. Infine, in un’accezione ancora diversa, si dicono naturaliste le teorie che non ricorrono all’esistenza di proprietà morali sui generis, ma rinunciano a qualsiasi ontologia e tesi metafisica, e si collocano in una concezione scientifica del mondo, e anzi partono dall’idea che la morale è un’impresa tipica di certi animali con capacità e disposizioni particolari. In quest’ultima accezione si dicono naturaliste non solo le teorie di Blackburn e Gibbard, che adottano una teoria evoluzionista delle origini della morale, ma anche le teorie della ragionamento pratico (sezione VI). 1. Il naturalismo aristotelico di Philippa Foot Nel dibattito tra intuizionisti e non cognitivisti si assume che il termine “buono” sia un predicato che sta per una proprietà. Ma con P. Geach si afferma l’idea, congeniale ai 36 Si osservi che qui il concetto di funzione non è inteso come nella biologia evolutiva, cioè identificato con la funzione che ha nel determinare il successo (l’adattamento) o l’insuccesso (l’estinzione) della specie. Le funzioni di cui parlano questi naturalisti aristotelici sono simili ai categorici aristotelici, cioè indicano che una certa caratteristica ha un certo ruolo nella vita degli individui di una certa specie e precisano come questo ruolo viene svolto, si veda Foot, 2001, p. 32n, e anche pp. 31-37, pp. 46-47. La formulazione più lucida si trova in Thompson, 1995. 20 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 naturalisti, che sia invece attributivo: non ha senso scomporre “Luca è buono” in “Luca è x” e “Luca è buono”. Per comprendere che cosa significa “Luca è buono” bisogna far riferimento a certe attività e disposizioni naturali che sono costitutive di esseri viventi come Luca. In Virtues and Vices (1983), Foot sostiene che il riferimento a questi elementi naturali vincola necessariamente il contenuto delle valutazioni morali.37 Le valutazioni devono essere intese in relazione ad una funzione (come quella di condurre una vita buona) che devono essere ancorate descrittivamente. Il non-cognitivista ha ragione a dire che non vi sono limiti logici a ciò che conta come considerazione morale, ma ciò non significa che ciò che conta come ragione in etica sia tale in virtù di un atto di volontà o di una decisione. Vi sono limiti e vincoli imposti dalla nostra natura, dal tipo di esseri viventi che siamo. Il vizio è un difetto naturale, un modo inadeguato di esercitare le nostre capacità; viceversa, la virtù è l’esercizio di capacità che promuovono ciò che ci è vantaggioso o che aiutano ad espletare le nostre funzioni. Vi sono dunque criteri oggettivi con cui si valuta se queste capacità sono esercitate appropriatamente. Il resoconto naturalista di questi criteri parte dall’idea che la vita possa spiegarsi adeguatamente in termini teleologici. Si osserva che in un ciclo di vita certi animali, quali noi siamo, hanno certe caratteristiche. Poi si offre una spiegazione del ruolo di queste caratteristiche: certe proposizioni spiegano come tali animali espletano la loro funzione. Attraverso questa spiegazione si determina il contenuto delle norme e si fonda la possibilità stessa di un linguaggio normativo. Per esempio, “Bisogna evitare la violenza. Bisogna cercare il dialogo” sono norme di cooperazione. Applicate a casi individuali, queste norme sono il criterio con cui valutare se certi individui specifici sono buoni o difettosi.38 37 38 Foot, 1983. Questa tesi viene ampiamente argomentata e discussa in Foot, 2001. Foot, 2001, cap. 2, specialmente pp. 33-34. 21 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 La difficoltà di questi tentativi naturalistici è quella di offrire una formulazione plausibile delle funzioni naturali che costituiscono un modello di vita buona, e soprattutto di offrire un resoconto soddisfacente del perché questi modelli dovrebbero essere anche normativi. 2. Il naturalismo non-riduzionista: Richard Boyd L’argomento di Moore colpisce le forme riduttiviste di naturalismo. Ma naturalisti come R. Boyd e N. Sturgeon non intendono offrire analisi riduttiviste del valore.39 Essi sostengono che in etica valgono gli stessi metodi e criteri di oggettività delle scienze naturali. In entrambi i casi, si ricorre al metodo dell’equilibrio riflessivo che mira al raggiungimento di uno stato di equilibrio (spesso, ma non sempre, inteso come coerenza) tra giudizi morali intuitivi e ben ponderati di vari livelli di generalità, teorie sostantive, ed osservazioni empiriche.40 In questo senso, le proprietà morale sono ineliminabili allo stesso modo dei generi naturali: cioè in quanto conservano un ruolo importante nelle inferenze di ciò che conta come la miglior spiegazione. In questo modo i naturalisti non-riduttivisti mantengono l’insostituibilità e irriducibilità non solo del linguaggio morale, ma anche di proprietà morali. La questione che si solleva è in che senso questa forma di naturalismo, che si propone al livello ontologico delle proprietà, riesca davvero ad evitare il riduzionismo, e possa offrire un resoconto plausibile della normatività. Si potrebbe infatti obbiettare che la miglior spiegazione dei fenomeni della moralità può fare a meno delle proprietà morali o sopravvenienti poiché il lavoro esplicativo reale è a carico delle proprietà naturali o subvenienti. 39 Boyd, 1988. Sturgeon, 1986. Il metodo dell’equilibrio riflessivo elaborato in ambito epistemologico da Goodman, 1965, pp. 63-64, viene ripreso in etica da Rawls, 1971, pp. 19-21, pp. 48-51, cfr. anche Daniels, 1996. Sebbene sia un metodo 40 22 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 3. Il naturalismo riduzionista Nelle forme riduttiviste, il naturalismo non esce dalla scena con l’obiezione di Moore, ma si ripropone con definizioni analitiche non ovvie, oppure con definizioni propositive o sintetiche di identità. Alcuni di questi tentativi riduttivisti hanno risultati relativistici, come per G. Harman e R. Brandt, secondo i quali il fenomeno della moralità si spiega senza ricorrere ad un’ontologia ed epistemologia morale specifica.41 Per altri, come per P. Railton, invece, la riduzione giustifica una forma di assolutismo morale.42 La forma più interessante di riduttivismo si dà nella forma di una procedura di idealizzazione anticipata da R. Firth (1952), e consiste nella giustificazione di giudizi etici che un osservatore ideale e simpatetico adotterebbe in condizioni epistemiche ideali.43 Ma anche a questo proposito si solleva la questione della normatività: in che senso i giudizi etici validi per un osservatore ideale possono dirsi vincolanti e motivanti per un agente imperfetto che opera in condizioni di razionalità limitata? VI - Le teorie del ragionamento pratico Le teorie del ragionamento morale costituiscono il tentativo teorico sistematico più imponente di conciliare le esigenze di oggettività e di normatività dei giudizi etici. Si tratta di una famiglia piuttosto eterogenea di teorie razionaliste che condividono con Moore la critica al riduttivismo e con Kant la divaricazione tra ambito teoretico e ambito pratico della razionalità. Contrariamente agli intuizionisti, i teorici della ragione pratica insistono che l’oggettività in etica si dà nella forma di vincoli sul ragionamento morale. Una folta di solito interpretato come coerentista, se ne danno anche interpretazioni fondazionaliste, si veda, per esempio, DePaul, 1986. 41 Harman, 1977. Brandt, 1979. Cfr. Vacatello, 1991. 42 Railton, 1986. 23 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 schiera di razionalisti aderisce al contrattualismo, in forme che si richiamano sia alla tradizione hobbesiana, che giustifica la morale partendo dal punto di vista dell’interesse individuale (K. Baier e D. Gauthier),44 sia alla tradizione kantiana, secondo la quale la giustificazione della morale si basa sulla interpretazione dell’oggettività come imparzialità (T. Scanlon, A. Gewirth, S. Darwall e T. Nagel).45 1. La possibilità dell’altruismo: Thomas Nagel Che cosa costituisce una ragione morale genuina? In The possibility of altruism, (1978), T. Nagel sostiene che le ragioni morali genuine sono del tipo “Si deve ridurre la sofferenza del mondo”.46 Queste ragioni sono neutrali rispetto all’agente, ovvero imparziali, ma hanno comunque forza normativa e motivante. Se un agente ignorasse questo imperativo sarebbe un agente irrazionale. L’agente razionale dovrebbe essere motivato ad adottare una condotta che promuove uno stato di cose che è neutrale rispetto ai suoi interessi particolari. In questa prospettiva, allora, la questione dell’oggettività si ripropone nei termini di imparzialità, e costringe a riflettere sulla possibilità di mediare i doveri imparziali della morale con le istanze più parziali e particolari dei progetti individuali. Le ragioni neutrali rispetto all’agente, come quella della soppressione della sofferenza, esibiscono un’oggettività e un’autorità indipendenti dalla deliberazione dell’agente. Proprio per questa ragione il razionalismo kantiano di Nagel condivide con il razionalismo etico intuizionista le stesse difficoltà di spiegare la normatività e la motivazione morale.47 2. Il costruttivismo kantiano e la questione normativa: da John Rawls a Christine Korsgaard 43 Firth, 1952. Baier, 1958. Gauthier, 1986. 45 Nagel, 1978. Gewirth, 1978. Darwall, 1983. Scanlon, 1999. 46 Nagel, 1978. Nagel ha poi rivisto le pretese di questa teoria, cfr. Nagel, 1986. 44 24 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 Riformulando l’argomento della questione aperta di Moore, in The Sources of Normativity (1996), Korsgaard sostiene che il naturalismo e il razionalismo ignorano la questione normativa poiché postulano l’esistenza di ragioni morali indubitabili, mentre l’espressivismo la fraintende perché non considera l’autorità dell’obbligo morale. La questione normativa sorge quando l’agente si interroga sulle ragioni che ha di accettare i desideri ed i vincoli che gli si presentano. Secondo Korsgaard il costruttivismo kantiano elaborato da J. Rawls per illustrare le radici storiche della sua teoria della giustizia offre le risorse necessarie per affrontare adeguatamente la questione normativa. Invece di supporre l’esistenza di fatti o ragioni morali, il costruttivismo sostiene che ciò che conta come fatto o ragione morale è il risultato di una procedura deliberativa. Vi sono diversi modi di concepire una procedura deliberativa e modi diversi di rendere conto dei vincoli che deve rispettare, e quindi vi sono diversi tipi di costruttivismo.48 Il costruttivismo kantiano si distingue per la centralità che attribuisce ad una concezione morale della persona come libera ed uguale.49 La questione normativa è una questione che solo un agente autonomo può porsi. Preoccupati della nostra integrità ed identità di agenti, sottoponiamo al vaglio della riflessione critica i nostri vincoli e desideri contingenti e, attraverso questo processo deliberativo, costruiamo ragioni morali e fondiamo obblighi genuini. La condizione di possibilità di questo fondamento è la nostra capacità di riflessione critica attraverso la quale ci auto-imponiamo delle leggi e quindi ci mostriamo sorgenti di normatività e autori di noi stessi. L’oggettività etica è intesa come pubblicità o condivisibilità delle ragioni.50 Allo scettico si risponde che le ragioni morali sono condivisibili perché siamo obbligati, se 47 Nagel, 1986, tr.it. p. 179. Si veda l’introduzione di Cullity, Gaut, 1997. 49 Rawls, 1980. 50 Korsgaard, 1996, p.135. Cfr. Bagnoli 2000b. 48 25 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 vogliamo dar senso alla nostra identità pratica, a dar valore a noi stessi come agli altri: lo scetticismo è una posizione filosofica incoerente. VII - Un bilancio Come si è visto, fin dalle investigazioni filosofiche di Moore i filosofi analitici si scontrano con il problema di conciliare le aspirazioni all’oggettività dei giudizi etici con la loro capacità di guidare l’azione.51 Tali caratteristiche sembrano suggerire soluzioni meta-etiche opposte. Da una parte, l’oggettività della morale sembra richiedere l’esistenza di fatti o proprietà morali, ma ciò rende problematico o addirittura inintelligibile il fenomeno della motivazione morale. D’altra parte, la capacità dei giudizi etici di guidare la condotta sembra indicare che i giudizi sono espressioni di desideri o prescrizioni, ma ciò non spiega il fenomeno dell’oggettività e dell’autorità dell’obbligo morale. La filosofia morale più recente si è confrontata con questo problema, e i suoi esiti più interessanti consistono nei tentativi di sganciare le nozioni di oggettività, conoscenza e verità da una metafisica realista, e di riformulare in modo più complesso le questioni della normatività, dell’autorità, e della capacità motivazionale dei giudizi etici. VIII - Riferimenti bibliografici ANSCOMBE G.E.M. (1958), On Brute Facts, “Analysis”, 18, pp. 69-72. AYER A.J. (1936), Language, truth and logic, London. Tr.It. De Toni (1961) Linguaggio, verità e etica, Feltrinelli, Milano. BAGNOLI C. (1992), Ragioni imparziali. “Annali del Dipartimento di Filosofia di Firenze”, 51 Wiggins, 1990. Smith, 1994, pp. 4-13 ff. 26 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 1992, 8, pp. 86-133. BAGNOLI C. (2000a), Il dilemma morale e i limiti della teoria etica, LED, Milano. BAGNOLI C. 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Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 Bibliografia ragionata di Carla Bagnoli I filosofi analitici si sono interessati sia di problemi di meta-etica, proponendo analisi del linguaggio morale, dei concetti morali e della loro logica, o esaminando le condizioni di possibilità della teoria etica e i suoi criteri di adeguatezza, sia di questioni normative, ossia di problemi concernenti i canoni del ragionamento morale. Come si è visto, la questione dell’oggettività può essere affrontata sia a partire dall’analisi del linguaggio e dei concetti morali, sia a partire da una certa concezione della razionalità morale. Se i filosofi analitici di prima maniera tenevano ben separate le indagini sul linguaggio morale e quelle normative, questa pretesa separazione si è andata progressivamente indebolendo. Questa breve bibliografia, ovviamente non esaustiva, si propone di suggerire una panoramica delle letture utili non soltanto per formarsi un’idea complessiva delle teorie analitiche in etica, ma anche per comprendere come e perché certe teorie normative hanno trovato spazio e voce entro specifiche concezioni meta-etiche. Per quanto riguarda le introduzioni all’etica, si consiglia Le analisi del linguaggio della morale, di E. Lecaldano, (Ateneo, Roma, 1970), che rimane un’ottima introduzione all’etica analitica degli esordi; sugli inizi dell’etica analitica si veda anche l’agile libretto di G. Warnock, Contemporary Moral Philosophy, (Macmillan, London, 1967. Tr. It. D. Antiseri, Filosofia morale contemporanea, Armando, Roma, 1967). Sugli sviluppi più recenti dell’etica si consiglia l’illuminante e ricco saggio di A. Gibbard, S. Darwall, P. Railton, Toward a Fin de Siècle Ethics: Some Trends, in A. Gibbard, S. Darwall, P. Railton, Moral Discourse and Practice, (Oxford University Press, Oxford, 1997). Questo 33 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 volume include, oltre alla citata introduzione, una sezione dedicata ai problemi morali individuati alle origini della filosofia analitica, una sezione di meta-etica in cui si trovano i più significativi contributi recenti di realisti, anti-realisti, disposizionalisti e costruttivisti, e infine una sezione dedicata alla relazione tra giudizi etici e motivazione, con i saggi seminali di Williams e Korsgaard che hanno riaperto il dibattito sull’internalismo. Strumento utilissimo è il dizionario a cura di M. Canto-Sperber, Dictionnaire d’etique et de philosophie morale, (Presses Universitaire de France, 1996), e anche A Companion to ethics di P. Singer (Blackwell, Oxford, 1991). Ugualmente preziosi per avvicinarci all’etica analitica sono: Il dovere, di Luca Fonnesu, (La Nuova Italia, Firenze, 1998), e La philosophie morale britannique, a cura di M. Canto-Sperber, (Presses Universitaire de France, 1994). Si tenga presente che le introduzioni all’etica sono motivate da precise tesi filosofiche sulla natura dell’etica. Vi sono dunque approcci alternativi a questo proposito. Ormai classica, sebbene per certi versi superata, è l’introduzione di W. Frankena, Ethics, (Prentice Hall, Englewood Cliff, 1967. Tr. It., Etica. Edizioni Comunità, Milano, 1981). G. Harman, The Nature of Morality, (Princeton, Princeton University Press, 1977), sostiene che i giudizi etici non hanno nessun ruolo epistemologico nella spiegazione delle nostre esperienze ordinarie, e difende una forma di relativismo meta-etico. J.L. Mackie, Ethics. Inventing Right and Wrong, (Penguin Books, London, 1977), propone la teoria dell’errore. D. McNaughton, The moral vision, (Blackwell, Oxford, 1988), che offre una difesa realista dell’etica. Una critica alla possibilità stessa del teorizzare in etica è elaborata da B. Williams, Ethics and the Limits of Philosophy, (Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1985. Trad. it. R. Rini, Etica e i limiti della filosofia, Bari, Laterza, 1987); e 34 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 Morality: An Introduction to Ethics, (Cambridge University Press, Cambridge, 1972, tr. It. La morale. Un’introduzione all’etica, Einaudi, Torino, 2000). Invece, C. Korsgaard, The Sources of Normativity, (Cambridge, Cambridge University Press, 1996) offre una brillante ricostruzione della storia dell’etica seguendo l’evoluzione del problema delle sorgenti della normatività e propone una difesa del costruttivismo kantiano. Incentrato sulla questione della motivazione morale è The Moral Problem di M. Smith (Oxford University Press, Oxford, 1994). Ma forse la più equilibrata introduzione all’etica, capace di combinare approccio metodologico analitico e storico, è di S. Darwall, Philosophical ethics, (Westview Press, Boulder, Co, 1998). Per chi volesse avvicinarsi alla filosofia analitica attraverso lo studio di problemi e paradossi morali, si consigliano vivamente i saggi di B. Williams: pur se non introduttivi, questi saggi sono scritti in uno stile avvincente e brillante, ed hanno in molti casi determinato le sorti del dibattito analitico. In particolare, si veda B. Williams, Moral Luck, Cambridge University Press, Cambridge, 1981. Tr.It. R. Rini, Sorte Morale, Il Saggiatore, Milano, 1985), Problems of the self, (Cambridge University Press, 1973. Tr. It. R. Rini, Problemi dell’io, Il Saggiatore, Milano, 1990), e Making Sense of Humanity, (Cambridge, Cambridge University Press, 1995). La letteratura sulla natura dei giudizi etici, sulla plausibilità del realismo morale, sulla relazione tra giudizi etici e azione, tra giudizi etici e motivazione, è sterminata. Antologie ormai classiche che si avvalgono di utili introduzioni sono: Essays on Moral Realism, a cura di G. Sayre-McCord, (Cornell University Press, Ithaca, NY, 1988); J. Rachels ha curato l’ottimo volume The Question of Qbjectivity, (Oxford University Press, 1988); D. Copp David, D. Zimmerman, a cura di, Morality, Reason, and Truth. New Essays on the 35 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 Foundation of ethics, (Totowa, N.J. Rowan and Allanheld, 1985); T. Honderich, Morality and Objectivity, (Routledge and Kegan Paul, 1985). Sui dibattiti più recenti, si vedano l’eccellente volume a cura di C. Haldane e C. Wright, Reality, Representation and Projection, (New York, Oxford University Press, 1993), e Truth in ethics, a cura di B. Hooker (“Ratio”, 1998, 8). Sulle medesime questioni della verità e giustificazione in etica, raccomando vivamente la prima parte di Filosofia Pratica (Il Saggiatore, Milano, 1988) di G. Pontara, che offre una disamina critica del non-cognitivismo e una lucida ricostruzione dei presupposti teorici del razionalismo etico; oltre ad offrire una proposta originale ed innovativa, questo lavoro rappresenta un esempio raro di precisione nell’analisi concettuale e rigore nell’argomentazione. In questo ambito, i classici in lingua italiana sono: I limiti del razionalismo etico, di E. Juvalta, (Einaudi, Torino, 1945), di G. Preti Praxis ed empirismo, (Einaudi, Torino, 1957), e Morale e meta-morale. Saggi filosofici inediti, (Franco Angeli, 1989), e di U. Scarpelli, L’etica senza verità, (Il Mulino, Bologna, 1982). Sulla questione della giustificazione in etica si veda Etica e Diritto, a cura di E. Lecaldano e L. Gianformaggio, (Laterza, Bari, 1986). I volumi seguenti offrono un’ampia gamma di prospettive contemporanee sulle questioni relative alla epistemologia morale: M. Timmons, a cura di, Spindel Conference 1990: Moral Epistemology, (“Southern Journal of Philosophy”, 29, 1990); che contiene anche una bibliografia sull’epistemologia morale dal 1971 al 1991. Per contributi più recenti sul tema della conoscenza morale, e una bibliografia aggiornata al 1996, si veda Moral Knowledge? a cura di M. Timmons, W. Sinnott Armstrong, (Oxford University Press, Oxford, 1996). Per una difesa radicale del riduttivismo, si vedano: P. Churchland, Moral Facts and Moral Knowledge, (in A Neurocomputational perspective, Cambridge, Mass., 36 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 MIT Press 1979), e E. Wilson, Sociobiology. The New Synthesis, (Oxford, Oxford University Press, 1975). Sulla relazione tra scienze cognitive e morale, si veda Mind and Morals, a cura di A. Clark, M. Friedman, (Cambridge Mass., MIT Press, 1995). Contro le pretese e le ambizioni del riduttivismo, mi preme segnalare di R. Nozick la parte dedicata al valore di Philosophical Explanations, (Harvard University Press, Cambridge, 1981. Tr. it. G. Rigamonti, Spiegazioni Filosofiche, Milano, Il Saggiatore, 1989), che offre un resoconto originale del valore come unità organica, insieme ad una delle repliche contemporanee più raffinate allo scetticismo morale. Con l’originalità e la capacità argomentativa che lo contraddistingono, Nozick difende l’oggettività in etica in Invariances: the structure of objective world (Harvard University Press, 2001). Sulla relazione tra meta-etica ed etica normativa si veda On the relevance of metaethics, a cura di J. Couture e K. Nielsen, (University of Calgary Press, 1995). Sulle teorie del ragionamento pratico si veda l’eccellente raccolta a cura di E. Millgram, Varieties of Practical Reasoning, (MIT Press, Cambridge, Mass., 2001). Si consiglia caldamente anche il volume a cura di G. Cullity e B. Gaut, Ethics and Practical Reason, (Clarendon Press, Oxford, 1997), che vanta un’ottima introduzione ed una selezione oculata di saggi importanti sulla relazione tra ragioni e motivazione. Per una facile introduzione ai tre metodi di ragionamento morale che hanno avuto più fortuna in ambito analitico si veda Three methods of ethics, di M. Baron, P. Pettit, M. Slote, (Blackwell, Oxford, 1997). In traduzione italiana, si possono consultare i saggi raccolti in Etica analitica. Analisi, teorie e metodi, a cura di E. Lecaldano e P. Donatelli, (LED, Milano, 1996). Sulla rilevanza della meta-etica per l’etica normativa, sono di grande importanza i saggi di R. M. Hare, Freedom and Reason, (Oxford University Press, Oxford. Trad. it. M. Borioni - F. Palladini 37 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 (1971), Libertà e ragione, Il Saggiatore, Milano, 1971), e soprattutto Moral Thinking, (Oxford University Press, Oxford, 1981. Tr. It. di Sabattini, Il pensiero morale, Il Mulino, Bologna, 1989), un tentativo di fondare l’utilitarismo a partire dallo studio dei concetti morali. Di ispirazione humeana, sono: S. Blackburn, Ruling Passions, (Oxford University Press, Oxford, 1998); di A. Baier Postures of the mind, (Metheun, London, 1985), e anche il suo Moral Prejudices, (Harvard University Press, Cambridge, 1991). Sull’approccio neo-aristotelico, si veda Virtues and Reason, a cura di R. Hursthouse, G. Lawrence, W. Quinn, (Clarendon Press, Oxford, 1995). Una difesa intelligente e chiara del naturalismo aristotelico si trova in P. Foot, Natural Goodness, (Oxford University Press, 2001), e Virtues and Vices, (Oxford, Blackwell, 1978). Segnalo, in particolare, i saggi lucidi e raffinati di W. Quinn, Morality in action, (Cambridge University Press, Cambridge, 1993). Sulle teorie delle virtù e il loro recente affermarsi nell’etica analitica, consiglio l’antologia a cura di R. Crisp, How Should One Live, (Oxford University Press, Oxford, 1996). In traduzione italiana, si veda il volume a cura di M. Mangini, L’etica delle virtù e i suoi critici, (La città del sole, Napoli, 1996), che raccoglie i saggi più rappresentativi e importanti, a partire dal saggio seminale Modern Moral Philosophy di E. Anscombe (“Philosophy”, 1958, 98, pp. 1-19), che ha segnato la ripresa delle teorie delle virtù. Per comprendere appieno l’importanza dell’etica delle virtù, sia di tipo humeano sia di tipo aristotelico, e l’ambito meta-etico in cui si colloca, bisogna leggere i saggi di D. Wiggins, Needs, Values, Truth, Blackwell, Oxford, 1987. Sulla critica della teoria etica così come è concepita in età moderna, si vedano, oltre ai lavori citati di Williams e Baier, A. McIntyre, After Virtue, (Notre Dame University Press, 1981. Tr.It. P. Capriolo, Dopo la virtù, Il Saggiatore, Milano, 1989), G. Clarke, E. Simpson, Anti-Theory and moral conservativism, 38 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 (Albany Press, NY, 1989), R. Louden, Morality and Moral Theory, (Oxford University Press, Oxford, 1991). Per una difesa dell’universalizzazione kantiana come metodo di ragionamento morale si veda C. Korsgaard, Creating the Kingdom of Ends, (Harvard University Press, Cambridge, 1996), e poi di T. Scanlon, What We Owe to Each Other, (Harvard University Press, Cambridge, 1998), che propone una forma nuova di contrattualismo kantiano e una difesa intelligente e precisa della teoria etica contro gli attacchi di Williams, McIntyre e Harman. In alternativa allo scetticismo degli anti-teorici e alle ambizioni del monismo, C. Bagnoli, Il dilemma morale e i limiti della teoria etica, (LED, Milano, 2000) propone di ridefinire l’ambito e gli scopi della teoria etica, attraverso una disamina critica dettagliata della letteratura sul dilemma morale come test di adeguatezza della teoria etica. Sul confronto tra razionalismo kantiano e naturalismo aristotelico, si veda Aristotle, Kant, and the Stoics a cura di S. Engstrom, J. Whiting, (Cambridge University Press, 1996), e sul ruolo dello studio della storia dell’etica in ambito analitico si veda Reclaiming the history of ethics, a cura di A. Reath, B. Herman, C. Korsgaard (Cambridge University Press, 1997). 39 Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 297-320, pp. 544-47 Carla Bagnoli (Fucecchio, 5 marzo 1966) è Assistant Professor of Philosophy alla University of Wisconsin dal 1998, dove insegna filosofia morale. Ha conseguito il dottorato in Filosofia all’Università degli Studi di Milano con Andrea Bonomi nel 1996. Dal 1993 al 1997 ha condotto la sua ricerca a Harvard University come Visiting Fellow sotto la direzione di Robert Nozick e Christine Korsgaard, nominata Fellow al Program in ethics and the professions di Harvard University, ha poi continuato come Post-doctoral fellow alla Universiteit van Amsterdam nel 1997. Si occupa di meta-etica, di psicologia morale, di teorie neo-kantiane e neo-aristoteliche. È autrice di diversi saggi di filosofia tra i quali: Moral Constructivism: a phenomenological argument, (“Topoi”, 2002), On the objectivity of practical reason, (Croatian Journal of Philosophy, 2001), Il dilemma morale e i limiti della teoria etica (LED, Milano, 2000), Value in the guise of regret, (“Philosophical Explorations”, 2000, 7-22), Il realismo procedurale, (“Notizie di Politeia”, 2000, 16, pp. 45-59), La pretesa di oggettività in etica, (in G. Usberti, a cura di, Modelli di oggettività, Bompiani, 2000), Il dilemma morale e l’integrità (“Iride”, 1999), Obblighi speciali in una prospettiva kantiana, (“Filosofia e questioni pubbliche”, 1998), Ragioni imparziali (“Annali del Dipartimento di Filosofia di Firenze, 1992). Ha curato insieme a G. Usberti Meaning, Justification, and Reasons (“Topoi”, 2002, 1), ed insieme a E. Baccarini, John Rawls, (“Croatian Journal of Philosophy”, 2001, 3). 40