in N. Vassallo & F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002,
pp. 297-320, pp. 544-47
Etica
di Carla Bagnoli
I - Introduzione al problema
Che cosa significa giudicare moralmente? Quando formuliamo dei giudizi etici del tipo
“L’odio razziale è moralmente ripugnante” oppure “Nessuna guerra è giusta” non
intendiamo semplicemente esprimere la nostra opinione personale, né intendiamo
descrivere le credenze della società in cui viviamo. Piuttosto, i nostri giudizi morali
aspirano ad essere validi e vincolanti per chiunque. I fenomeni di disaccordo e accordo
morale sono possibili e filosoficamente interessanti proprio in quanto c’è questa pretesa di
oggettività: se fossimo disposti a rinunciarvi, saremmo anche disposti a considerare
irrilevante il disaccordo morale e banale l’accordo.
Lo scettico ritiene che l’oggettività sia una trappola creata dal nostro linguaggio o
impostaci dalla nostre convenzioni sociali, un fenomeno apparente e illusorio: lo scettico
ha l’onere di offrire una spiegazione convincente di questa illusione sistematica e
universale.1 La domanda di fondo, tanto per lo scettico quanto per chi confida
nell’oggettività della morale, è allora: su che cosa si fonda la pretesa di oggettività dei
giudizi etici?
1
La pratica condivisa consiste nel ritenere che i giudizi etici aspirino a qualche forma di oggettività. Si
osservi, però, che ciò non equivale a ritenere che vi siano credenze morali universalmente condivise. Di
conseguenza, l’oggettivista non sostiene necessariamente anche l’universalità delle credenze morali, né è
costretto a negare il disaccordo morale; e analogamente, lo scettico che contesta la pratica condivisa con cui
si attribuisce oggettività ai giudizi etici non necessariamente usa l’argomento del disaccordo.
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In questo saggio cercherò di ricostruire la storia dell’etica analitica attraverso la
storia di questa preoccupazione filosofica. Il problema dell’oggettività in etica è un nodo
centrale della filosofia analitica, intendendo quest’ultima come riflessione filosofica che
muove dall’analisi del linguaggio morale (cfr. cap. I). Il disaccordo in ambito morale, e
dunque le discussioni che ne conseguono, riguardano in questa prospettiva i criteri di
oggettività a cui i giudizi etici possono o debbono aspirare.2
Si deve a G. E. Moore la prima e più importante formulazione della questione.
Nella sua prospettiva, caratterizzabile come realismo anti-naturalista, i giudizi sono
oggettivi solo se vi sono proprietà morali sui generis e irriducibili a proprietà naturali (si
esaminerà questa tesi nella sezione II). Le difficoltà del realismo hanno incoraggiato
l’affermarsi del non-cognitivismo, secondo cui i giudizi etici non sono veicolo di
conoscenza genuina perché non sono proposizioni, ed è perciò inappropriato parlare di
oggettività e di verità come fanno i realisti poiché il linguaggio morale non è assertivo, ma
espressivo o prescrittivo (sezione III). È questa famiglia di teorie a dominare incontrastata
per gran parte del XX secolo, ma sul finire del secolo avanzano delle alternative metaetiche interessanti. In opposizione sia al non-cognitivismo sia al realismo, si fa strada
l’idea che l’oggettività in etica debba esibirsi in reazioni affettive appropriate alle
circostanze, e ciò dà luogo ad un cognitivismo non-realista (sezione IV). Viene poi
riproposto in diverse versioni il naturalismo, secondo le quali i criteri di oggettività in etica
sono analoghi a quelli delle scienze naturali, e perciò si può spiegare la fenomenologia
morale senza ricorrere ad un’ontologia peculiare, (sezione V). Infine, si affermano
2
Alcuni filosofi caratterizzano la questione dell’oggettività come puramente “meta-etica”, e cioè da tale da
essere affrontata attraverso l’analisi del linguaggio morale e lo studio dei concetti morali. Tuttavia, la
distinzione tra meta-etica ed etica normativa è problematica e, come vedremo, per certi altri filosofi analitici
2
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decisamente le teorie del ragionamento morale, secondo le quali l’oggettività deve essere
spiegata senza adottare i criteri delle scienze naturali, ma esplicitando i canoni del
ragionamento morale (sezione VI).
II - Oggettività e autonomia dell’etica: il non-naturalismo di G.E. Moore
La questione dell’oggettività dell’etica è al centro del progetto filosofico di G.E. Moore. In
Principia Ethica (1903), una pietra miliare nella storia della filosofia morale, Moore
sostiene che le pretese di oggettività dei giudizi etici sono legittime in quanto l’etica è un
ambito di conoscenza genuina ed autonoma da altre forme di conoscenza (dalle scienze
naturali, dalla psicologia e dalla metafisica).
Che cosa intendiamo dire quando formuliamo giudizi etici? Il soggettivismo
risponde a questa domanda sostenendo che i giudizi etici sono giudizi sugli atteggiamenti
del valutante. Moore obbietta che se si accetta l’analisi soggettivista, non si può rendere
conto adeguatamente del disaccordo morale. Se il giudizio di Luca “La violenza è ingiusta”
significa “Luca disapprova la violenza” e il giudizio di Sara “La violenza è giusta”
significa “Sara approva la violenza”, è come dire che a Luca piace il gelato e a Sara no:
essi non sono in disaccordo sui criteri con cui valutare il gelato, stanno semplicemente
descrivendo ciascuno la propria preferenza. Ma se è così, allora non stanno davvero
discorrendo della stessa cosa, e non ha più senso parlare di disaccordo.
Per poter rendere conto adeguatamente del fenomeno di disaccordo morale bisogna
poter dire che i giudizi etici vertono su qualcosa che è indipendente dalla mente del
l’oggettività chiama in causa anche considerazioni di carattere normativo sui canoni del ragionamento
pratico. Sulla distinzione tra meta-etica ed etica normativa si veda la Bibliografia Ragionata.
3
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valutante: su proprietà morali. Secondo Moore vi sono verità etiche nella misura in cui vi
sono giudizi etici che descrivono proprietà morali; e sono queste proprietà morali che
rendono i giudizi etici veri. Le proprietà morali sono non-naturali nel senso che dipendono
da proprietà naturali ma non sono riducibili ad esse. Negare che vi siano proprietà nonnaturali è come negare che l’etica sia un dominio autonomo, e irriducibile alle scienze
naturali o alla metafisica. Dicendo che i concetti morali stanno per proprietà morali o nonnaturali si spiega sia il fenomeno morale del disaccordo, sia l’oggettività alla quale
aspirano i giudizi del linguaggio morale ordinario.
1. La Fallacia Naturalistica e il riduttivismo
Moore argomenta che bisogna distinguere due questioni fondamentali dell’etica: “Che cosa
significa buono?” e “Quali sono le cose buone?”. La filosofia morale tradizionale confonde
queste due questioni, e pretende di rispondere alla prima domanda offrendo una lista di
cose buone. Questa confusione incoraggia la pretesa di ridurre proprietà morali a proprietà
naturali. Allo scopo di mostrare inaccettabile qualsiasi forma di riduttivismo, Moore
propone il cosiddetto open question argument. Questo argomento sostiene che per ogni
insieme di proprietà naturali (nei quali termini viene definito il termine “buono”) ha senso
chiedersi se un tale insieme sia buono. La domanda se la proprietà naturale con cui si è
definito il termine “buono” sia buona è una domanda sensata, e rimane aperta proprio
perché “buono” non è una proprietà naturale, e non può essere ridotta ad un’altra proprietà.
Supponiamo che il naturalista sostenga che “buono” significa “piacevole”. Moore incalza:
“E perché ciò che è piacevole è buono?” Questa domanda ha senso perché, evidentemente,
la definizione “piacevole” non ha esaurito il significato di “buono”. Moore argomenta che
questa incompletezza della definizione naturalistica si spiega perché “buono” e “piacevole”
4
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sono due proprietà distinte: “buono” non si può ridurre a “piacevole”. I naturalisti, ma più
in generale i riduttivisti, commettono dunque una fallacia logica in quanto confondono due
proprietà distinte, una delle quali è naturale (definiens) e l’altra non-naturale
(definiendum). In alternativa, Moore sostiene che vi sono delle proposizioni etiche
fondamentali in cui compare il termine “buono” che non sono derivabili da altre
proposizioni, e che sono auto-evidenti e vere senza prova, e la cui verità è intuibile.3
Questo argomento sembra soccombere alle seguenti obiezioni. W. Frankena ha
osservato che se questa fosse davvero una fallacia, dovrebbe colpire tutti i tentativi di
definizione (anche quelli che riguardano due proprietà naturali, o due proprietà nonnaturali), e dovrebbe perciò dirsi fallacia definizionista. Ma la fallacia occorre solo se le
due proprietà in questione sono davvero distinte: e proprio questo è l’oggetto del
contendere; e, comunque, non si tratterebbe di una fallacia logica.4 Più recentemente, H.
Putnam ha obbiettato che l’argomento di Moore regge sulla base di una confusione tra
identità sintetiche e analitiche, tra identità necessarie e contingenti.5
Sebbene Moore non abbia scoperto una vera e propria fallacia logica del naturalismo,
ha comunque indicato una difficoltà importante a cui vanno incontro i progetti riduttivisti:
essi non riescono a spiegare la normatività dei giudizi etici. L’argomento della questione
aperta di Moore ha svolto un ruolo fondamentale nella filosofia morale del XX secolo, e
rimane una risorsa argomentativa importante negli sviluppi più recenti dell’etica,
specialmente riguardo alle rinnovate ambizioni del riduzionismo e alla possibilità di
eliminare i concetti morali, una volta che si sia rinunciato alla possibilità di proprietà
morali non-naturali.
3
4
Moore, 1903, p. X.
Frankena, 1942.
5
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2. La critica di Mackie della stranezza e della ridondanza esplicativa delle proprietà
morali
Secondo J.L. Mackie il merito di Moore sta nell’aver identificato il problema del
naturalismo con l’incapacità di spiegare la capacità dei giudizi etici di motivare all’azione.
Sarebbe allo scopo di render conto di questa capacità motivante che Moore introduce
l’ipotesi del non-naturalismo. Ma questa ipotesi rende la teoria intuizionista vulnerabile ad
un’obiezione analoga a quella che Hume muove contro il razionalismo etico. Se i giudizi
etici sono asserzioni che rappresentano proprietà etiche, come possono essere anche
motivanti? E se si sostiene che sono motivanti (e perciò in grado di eludere qualsiasi
riduzione naturalista) perché considerarli mere asserzioni descrittive? Per essere sia
oggettivi sia motivanti, i giudizi etici dovrebbero essere credenze su proprietà e fatti
piuttosto strani, ovvero, capaci di motivare all’azione (queerness argument). Ma
l’introduzione di queste proprietà viola il principio di economia ontologica perché la
fenomenologia morale si può spiegare anche senza far ricorso ad una misteriosa ontologia.6
Eppoi, come si verrebbero a conoscere tali proprietà non naturali? E quali legami
avrebbero con l’ontologia naturalista? Come potremmo rendere conto di questi legami?
Queste difficoltà, sia di natura ontologica sia di natura epistemologica, sono
sembrate insormontabili ed hanno consegnato l’Intuizionismo al silenzio per tutta la
seconda metà del secolo XX. Ma si consideri che l’argomento di Mackie si basa su quattro
assunti impliciti: 1) che l’Intuizionismo interpreti la normatività dei giudizi etici in termini
di forza motivante; 2) che l’Intuizionismo accolga la tesi Humeana che solo le passioni
sono motivanti, e che le credenze sono inerti; 3) che l’oggettività dei giudizi etici dipenda
5
Putnam, 1981.
6
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dall’esistenza di proprietà morali intrinsecamente motivanti; 4) che la fenomenologia
morale sia spiegabile naturalisticamente.
Se l’Intuizionismo accetti (o debba accettare) questi assunti è questione piuttosto
controversa. Innanzitutto non è corretto dare per scontato una concezione Humeana della
motivazione, poiché un resoconto adeguato della motivazione morale è proprio ciò che si
va cercando. Ma soprattutto, Moore non sembra preoccuparsi della questione
motivazionale quando parla di normatività. Piuttosto, egli vuole rendere conto
dell’oggettività delle valutazioni, e concepisce la normatività come la capacità di offrire
ragioni universali (per la valutazione o per l’azione).7
Moore osserva che la nostra valutazione non varia indipendentemente dalla
descrizione della natura intrinseca di un oggetto. Se si dice che la guerra è ingiusta ci si
impegna con ciò a dire che tutte le guerre che hanno caratteristiche descrittive uguali o
rilevantemente simili, sono ingiuste.8 Supponiamo di indicare X come l’insieme di
caratteristiche descrittive da cui dipende il nostro giudizio che la guerra è ingiusta, allora X
è la ragione per cui la guerra è ingiusta. Vi è dunque una relazione tra descrizione e
valutazione; Moore la chiama consequenzialità. La relazione di consequenzialità spiega la
non-naturalezza delle proprietà morali, ed è il cardine della concezione oggettivista del
valore di Moore.9 Contro il riduttivismo, Moore sostiene che questa relazione non è di
riduzione: le proprietà morali sono consequenziali ma non riducibili a quelle naturali. La
relazione è normativa: a priori e necessaria, e di natura diversa dalle relazioni logiche o
6
Mackie, 1977, pp. 40 e ss. L’argomento della ridondanza è usato anche in Harman, 1977. Contro questo
argomento si veda la replica puntuale ed efficacissima di Sturgeon, 1985.
7
Sono due le relazioni normative: la relazione con cui certe caratteristiche descrittive si presentano come
ragioni per la valutazione (good-making characteristics) e la relazione normativa per cui certe caratteristiche
si presentano come ragioni per l’azione (ought-implying characteristics), cfr. Moore, 1942.
8
Sulla sopravvenienza si veda Kim, 1984.
9
Questo senso di “non-naturale” viene elucidato in Moore, 1942, pp. 588-589.
7
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causali.10 Si osservi che siccome la consequenzialità è una relazione normativa, allora le
proprietà morali come “buono” non sono proprietà intrinseche, cioè, non fanno parte della
natura intrinseca di un oggetto, e dunque quando si predicano di un oggetto non si sta con
ciò facendo una descrizione dell’oggetto.11
Se evita l’obiezione di Mackie della stranezza, questa interpretazione della normatività
solleva la questione ulteriore della natura delle relazioni di consequenzialità. Il vero
problema teorico è dunque come rendere conto della relazione normativa tra giudizi etici e
caratteristiche del mondo, e considerare se tale relazione sussista al livello delle proprietà o
solo al livello dei concetti. Si tratta di un problema che è al centro di un vivacissimo
dibattito. Dunque anche il quarto assunto è problematico: è questione filosofica
controversa se la fenomenologia morale sia spiegabile adeguatamente al modo dei
naturalisti.12 Moore lascia dunque un compito preciso ai teorici dell’etica: l’elaborazione di
una concezione del linguaggio morale e della razionalità morale che renda conto delle
relazioni normative che si intrattengono con il mondo.
III - Il Non-cognitivismo: giudizi, emozioni, prescrizioni
Si è soliti osservare che i veri beneficiari ed eredi dell’argomento anti-naturalista di Moore
sono i non-cognitivisti.13 In questo ambito, il non-naturalismo di Moore viene inteso come
un tentativo confuso di alludere al magnetismo dei giudizi etici, alla loro capacità di
10
Si veda, in particolare, Moore, 1921.
Questa interpretazione evita anche la critica di Hare secondo cui l’intuizionismo è una forma di
descrittivismo, vd Hare, 1963. Al contrario, l’intuizionismo di Moore è una forma di realismo ma non è una
forma di descrittivismo: è proprio per salvaguardare la funzione non-descrittiva del linguaggio morale che
Moore introduce l’ipotesi del non-naturalismo.
12
Contro l’argomento di Mackie, 1977, si vedano Sturgeon, 1986, e Nagel, 1986, tr.it. p. 178 -184.
13
Si veda, per esempio, l’introduzione di Gibbard, Darwall, Railton, 1997. Un esempio di come Moore può
essere accolto dal non-cognitivismo si trova in Vailati, 1957, pp. 185-195.
11
8
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guidare l’azione.14 Il non-cognitivismo porta il non-naturalismo alle sue estreme
conseguenze, negando che il linguaggio morale abbia una funzione descrittiva e
rappresentativa.15 Ma qual è allora la funzione principale del linguaggio morale, e in che
senso i giudizi etici possono dirsi oggettivi se non sono descrittivi? Qui le posizioni dei
non-cognitivisti differiscono significativamente.
1. L’emotivismo: A.J. Ayer e C. Stevenson
Nella sua forma più radicale e meno raffinata, il non-cognitivismo emotivista sostiene, con
A.J. Ayer, che i giudizi etici servono ad esprimere delle emozioni, non diversamente da
certe esclamazioni o espressioni quali “Evviva!”. In virtù della teoria verificazionista del
significato, in Language, Truth and Logic (1936), Ayer sostiene anche che, nel loro uso
caratteristico, i giudizi etici sono espressioni di stati mentali, privi di alcun contenuto
fattuale verificabile, e quindi non oggetto di conoscenza e di scienza poiché le regole della
logica non si applicano. Altrimenti, i giudizi etici possono essere usati per descrivere degli
stati d’animo del valutante, ma in questo caso sono enunciati psicologici e non
appartengono al dominio dell’etica. Perciò, per i giudizi etici la questione dell’oggettività
semplicemente non si solleva.
In Ethics and Language (1944), C. Stevenson elabora una versione più interessante di
emotivismo, informata dalla teoria causale del significato. Stevenson sostiene che i giudizi
valutativi, sebbene non fattuali e descrittivi, hanno tuttavia un significato emotivo, che
serve ad orientare gli atteggiamenti dell’interlocutore ed esprimere i propri. Il
riconoscimento del significato emotivo, e quindi della funzione espressiva del linguaggio
morale, è di grande importanza per formulare una nuova concezione del disaccordo
14
Stevenson, 1944, p. 109. Hare, 1952, p. 85.
9
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morale. Il disaccordo morale è un fenomeno complesso in parte determinato da un
“disaccordo di credenza” (sui fatti che riteniamo rilevanti) e in parte da un “disaccordo di
atteggiamento”. Supponiamo che Luca e Sara siano in disaccordo rispetto alla questione
della pena di morte: hanno un disaccordo di credenza nella misura in cui sono in
disaccordo sui fatti del caso (Luca crede che sia un deterrente efficace e Sara non lo crede),
e differiscono anche nell’atteggiamento che provano nei confronti della pena di morte
(Luca l’approva, Sara la disapprova). Diversamente dal soggettivismo criticato da Moore,
l’emotivismo non tratta i giudizi di Sara e Luca come se fossero credenze sui loro propri
atteggiamenti, ma espressivi dei loro atteggiamenti. In questo modo l’emotivismo rende
conto del disaccordo morale come di un fenomeno genuino ed evita l’obiezione di Moore.
Secondo Stevenson, il disaccordo di atteggiamento è più fondamentale nel resoconto
del disaccordo etico perché ne determina la natura e i metodi di risoluzione. Quando i
disaccordi morali sono fondati su disaccordi di credenza, possono essere risolti risolvendo
il disaccordo di credenza che ne sta alla base, attraverso l’argomentazione razionale. Per
esempio, Sara può esibire a Luca certi fatti rilevanti a mostrare che la pena di morte in
effetti non è un deterrente efficace. In questo caso il loro disaccordo si risolve
razionalmente tramite l’esibizione di prove e argomentazioni. Ma non tutti i disaccordi
morali possono essere risolti ricorrendo a metodi razionali. I disaccordi morali fondati su
disaccordi di atteggiamento possono essere risolti sono ricorrendo alla persuasione. Per
esempio, se il disaccordo persiste nonostante l’esibizione di prove determinanti, Sara può
tentare di persuadere Luca offrendo delle nuove definizioni suggestive di “sanzione”, che
hanno lo scopo di fargli cambiare atteggiamento. Per l’emotivista qualsiasi fatto può
15
Sul non-cognitivismo italiano si vedano Calderoni, 1924; Juvalta, 1943; Vailati, 1957. Cfr. Pontara, 1988,
15-110.
10
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contare
come
ragione
in
etica,
purché
serva
a
modificare
l’atteggiamento
dell’interlocutore.16 Stevenson conclude che l’etica non può assurgere al tipo di oggettività
che sembra caratterizzare l’impresa scientifica. Lo scopo del moralista è quello di orientare
secondo i suoi propositi gli atteggiamenti degli altri e, per questa via, i loro comportamenti.
Agli argomenti razionali si riconosce dunque un ruolo molto limitato in etica, accanto a
modi non-razionali o persuasivi di condurre gli altri all’accordo.17
2. Il prescrittivismo universalista: R.M. Hare
Per Richard M. Hare la tesi che la funzione del linguaggio morale non è principalmente
descrittiva non conduce affatto alla conclusione che il ragionamento morale ha un ruolo
marginale. Al contrario, Hare sostiene che proprio tramite lo studio delle caratteristiche
logiche dei concetti morali si scoprono i canoni del ragionamento morale. Il linguaggio
morale è prescrittivo e universale: queste due caratteristiche logiche sono sufficienti a
determinare le procedure di ragionamento morale. Impegnarsi a ragionare moralmente
significa sottoporsi ad un esperimento mentale in cui ci si immagina adottare una
prescrizione come universale. Supponiamo che Luca si chieda se la pena di morte sia
giusta. Ponendosi la questione morale, Luca si chiede se la prescrizione “Ammetti la pena
di morte!” sia universalizzabile, se cioè gli è possibile adottare la prescrizione universale
“Tutte le sanzioni con le caratteristiche X sono giuste/Ammettetele!” Universalizzare
significa offrire una ragione: le ragioni sono le caratteristiche descrittive X in virtù delle
quali si può universalizzare la prescrizione singolare “Ammettete la pena di morte!”.
16
Stevenson, 1942, p. 118.
Si presti attenzione alla distinzione tra metodi non-razionali (basati sulla manipolazione degli
atteggiamenti - ma non per questo “irrazionali”) e metodi razionali (basati sulla revisione critica delle
credenze).
17
11
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Quello di fondare i canoni del ragionamento morale sulla logica dei concetti morali
è un progetto filosofico molto ambizioso. Ma quanto è potente il metodo argomentativo
dell’universalizzazione? Quali sono i tipi di disaccordi che riesce a risolvere? Le sue
capacità di risoluzione dipendono solo dalla logica dei concetti morali? Il percorso di Hare
da Il linguaggio della morale, (un primo tentativo pionieristico di fondare il sillogismo
pratico) a Libertà e ragione, (dove l’universalizzazione viene a giustificare una forma di
utilitarismo degli interessi) e poi a Il pensiero morale, (in cui si propone una forma
raffinata di utilitarismo delle preferenze) mostra che l’universalizzazione, per essere
davvero efficace, deve poggiare su altre importanti premesse di natura non logica.18
Sebbene neutrale, la meta-etica si rivela capace di determinare, insieme ad altri ingredienti
non logici, l’etica normativa.
In questo modo, Hare fa emergere una nuova concezione dell’oggettività dell’etica.
Intuizionisti ed emotivisti sono d’accordo nel concepire l’oggettività in modo realista, e
assumono che i giudizi etici possano legittimamente aspirare all’oggettività solo se sono
assertivi, rappresentazioni e descrizioni di proprietà o di fatti morali. Essi sono in
disaccordo solo riguardo alla questione successiva se i giudizi etici siano davvero assertivi.
Riprendendo la tradizione kantiana, Hare sostiene invece che l’oggettività può essere
significativamente compresa e formulata anche in un ambito non-realista in cui si
riconosce che i giudizi etici non sono assertivi ma prescrittivi, sono cioè degli imperativi
universali mascherati. L’etica è oggettiva nel senso che vi sono metodi razionali capaci di
dirimere i conflitti morali, e di mostrare quali concezioni morali sono sostenibili. Questa
nozione di oggettività verrà altrimenti sviluppata dalle teorie del ragionamento morale (sez.
VI).
18
Bagnoli, 1992. Cfr. Vacatello, 1995.
12
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3. La critica di Bernard Williams ai teorici dell’etica
Se l’oggettività si misura con la capacità di risolvere il conflitto morale è perché il conflitto
morale è implicitamente inteso come un difetto della razionalità dell’agente oppure un
difetto di coerenza o determinatezza della teoria etica. Contro questa concezione del
conflitto morale, e l’aspirazione all’oggettività che accomuna i progetti dei teorici
dell’etica, B. Williams sostiene che “lo sforzo di comporre i nostri conflitti e di formulare
leggi atte ad eliminare l’incertezza morale mediante la costruzione di una teoria etica
filosofica è uno sforzo destinato all’insuccesso.”19 Questo insuccesso è, ad un tempo,
inevitabile e auspicabile. La teoria etica, come si afferma in età moderna, è
necessariamente
riduttivista,
e
misconosce
sistematicamente
la
varietà
e
l’incommensurabilità di valori e tradizioni etiche. Proporsi l’oggettività e la costruzione di
una teoria etica è commettere un errore sia filosofico e metodologico, sia morale. Dal
punto di vista metodologico, significa imporre un modello di razionalità teoretica che è
inadeguato per l’ambito pratico. Dal punto di vista morale, significa violare il pluralismo di
valori. Anziché adottare il modello teoretico di razionalità e ridurre la possibilità del
conflitto morale alla contraddizione, dovremmo innanzitutto considerare le ragioni,
personali e sociali ma certo non logiche, per cui vogliamo liberarcene.20 I nostri valori
sono il risultato dell’incontro di culture diverse, frutto di sedimentazione storica, e questo
impedisce che ci si possa ragionevolmente aspettare di dar loro una sistematizzazione
coerente e completa che abbia la forma di una teoria etica. Cozzando con la fenomenologia
morale, la riflessione teorica sistematica ha poi l’effetto di corrodere la conoscenza morale.
19
Williams, 1981, tr.it. pp. 108-109.
Williams, 1963. Williams, 1965. Williams, 1979. Un argomento simile però a favore del non-cognitivismo
si trova in Vailati, 1957, pp. 173-180. Sul conflitto morale e sul ruolo della coerenza etica nella filosofia
analitica si veda Bagnoli, 2000a.
20
13
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Bisogna “vivere in modo riflessivo” e rinunciare alle assurde pretese riduttiviste della
teoria etica.21
4. La teoria dell’errore: J.L. Mackie
La fenomenologia morale sembra suggerire che le nostre valutazioni hanno pretese di
verità. Ma sono legittime queste pretese? In Ethics. Inventing Right and Wrong (1977), J.L.
Mackie sostiene che non lo sono, e si assume così l’onere di spiegare perché invece ci
sembrano tali. Riprendendo Hume, Mackie afferma che i giudizi etici sono semplicemente
proiezioni dei nostri sentimenti e perciò non sono veicolo di conoscenza genuina. Nella
versione proposta da J.L. Mackie, il proiettivismo diventa una teoria dell’errore: i nostri
giudizi sono suscettibili di vero-falsità, ma tutte false in quanto rappresentano proprietà
inesistenti. Quando ci poniamo questioni morali, siamo dunque preda di un errore
sistematico. Mackie non propone però una revisione radicale della pratica etica, né
tantomeno la sua soppressione, bensì pretende di riconoscere una certa indispensabilità del
discorso etico. Sebbene il discorso etico non sia il veicolo di rappresentazioni vere, la sua
falsità non ne compromette l’utilità inferenziale. Ma la consapevolezza di pronunciare dei
giudizi falsi ogni qualvolta si dà una valutazione etica ha l’effetto di corrodere la pratica
stessa della valutazione, e minaccia la stabilità e l’efficacia delle istituzioni morali.22
5. Il quasi-realismo di Simon Blackburn
Per rispondere a questa grave difficoltà S. Blackburn ha proposto un modo alternativo di
difendere il proiettivismo.23 Sostenere che i giudizi etici hanno una genealogia proiettivista
non significa considerarli illusori. Pur se generate dalla nostra sensibilità, le valutazioni
esprimono verità morali, e queste verità non sono né soggettive né dipendenti dalle menti
21
22
Williams,1985, pp. 169-172.
Si veda a questo proposito la critica di Williams, 1985.
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del valutante.24 La sensibilità è creatrice: i valori acquistano una realtà loro che è
sufficientemente robusta da sostenere una forma legittima di realismo, il quasi-realismo. A
differenza del realismo, il quasi-realismo riconosce la natura soggettiva dei valori, e non
presuppone una realtà indipendente dalla propensione che la nostra mente ha di proiettarsi
sul mondo esterno, per questo si è guadagnato il diritto all’uso di nozioni come quelle di
verità, conoscenza, oggettività, che sembravano sola prerogativa del realismo. Perciò il
non-realismo ha maggiore capacità esplicativa di quanto gli sia riconosciuto: la descrizione
e la rappresentazione (insieme alle nozioni di verità, conoscenza, oggettività) sono nozioni
che si guadagnano a poco prezzo, tanto che anche un Humeano può usarli.
Questa proposta ha modificato sostanzialmente i termini del dibattito sull’oggettività e
sul realismo, e ha dato inizio ad un raffinato dibattito sulla logica degli atteggiamenti,
specialmente in risposta alla classica obiezione di P. Geach secondo cui solo il realismo
può spiegare i giudizi etici complessi in contesti indiretti e i condizionali.25
Un tentativo particolarmente interessante in questo senso è quello di A. Gibbard che a
partire da una concezione espressivista sviluppa una logica per il linguaggio normativo,
che deve molto alla logica delle inferenze imperative di Hare. Diversamente da Hare,
tuttavia, Gibbard sostiene che lo scopo di questa logica delle norme è di coordinare azione
e sentimenti, sullo sfondo di una concezione evoluzionista. La nozione di coordinazione, e
di conseguenza la nozione di oggettività, sono interpretate secondo la teoria dei giochi.26
Infine, J. Skorupski ha recentemente elaborato un’alternativa interessante sia al
realismo sia all’espressivismo: l’irrealismo cognitivista. I giudizi morali sono proposizioni
23
Blackburn, 1993, p. 158.
Blackburn, 1984, pp. 217-218. Una posizione simile sull’oggettività etica è sostenuta da Lecaldano, 1998.
25
Geach, 1965.
26
Gibbard, 1990.
24
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normative su ciò che c’è ragione di fare o di sentire (in particolare, ragioni per il biasimo o
senso di colpa). Essendo proposizioni genuine, possono essere corrette o scorrette, e
rendono legittimo l’uso di nozioni come l’oggettività e la conoscenza, ma non c’è un
insieme di fatti ulteriore e separato che le rende vere. Sebbene vi sia una grammatica e una
semantica comune alle proposizioni normative, non vi è una comune ontologia ed
epistemologia. L’epistemologia morale è distinta in quanto dialogica, in un modo che
ricorda le teorie della ragione pratica (sez. VI).27
IV - Etiche cognitiviste e la critica della distinzione tra fatti e valori
Con la pubblicazione nel 1953 delle Investigazioni filosofiche di Wittgenstein, si affaccia
sulla scena dominata dal non-cognitivismo una concezione del linguaggio morale in grado
di mettere in questione lo status logico della fallacia naturalistica. E. Anscombe e P. Foot
hanno contribuito significativamente alla riformulazione del neo-naturalismo,28 ma è Iris
Murdoch ad inaugurare una concezione della moralità che si dimostrerà decisiva per gli
sviluppi più recenti dell’etica contemporanea.
1. Il realismo normativo di Iris Murdoch
Iris Murdoch rappresenta una voce discorde e isolata nella filosofia analitica non solo nel
coro che accoglie unanime l’anti-naturalismo di Moore, ma soprattutto perché di Moore
recupera una nozione da tutti considerata problematica: quella della visione morale. In
Vision and Choice (1957), Murdoch spiega che la metafora della visione illustra meglio la
moralità della metafora prediletta dai non-cognitivisti, quella della scelta e del movimento.
La tesi dello iato logico tra fatti e valori che il non-cognitivismo eredita da Moore invita ad
27
Skorupski, 1997. Skorupski, 1999. Sulla relazione tra irrealismo cognitivista e costruttivismo, si veda
Bagnoli, 2000b.
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una concezione comportamentista della morale, e trascura la dimensione privata e
individuale della deliberazione dell’agente che, sfuggendo all’osservazione, esula dal
dominio della razionalità morale. Ciò che si giudica moralmente è l’azione dell’agente, che
è osservabile esternamente perché pubblicamente esibita.29 Con questa tesi si sancisce la
separazione definitiva della filosofia morale dalla metafisica e dalla filosofia della mente, a
compimento di un percorso di segregazione che è iniziato con la modernità (Metaphysics
and Ethics, 1957).
Murdoch obbietta che il non-cognitivismo si propone come meta-etica neutrale, ma
in realtà è espressione del liberalismo puritano, secondo cui la libertà e la responsabilità
morale equivalgono alla scelta individuale. Analogamente, il naturalismo non compie un
errore logico, ma propone una morale sostanziale. La morale è da intendersi come un
sistema di concetti che articolano una certa visione e comprensione dal mondo
complessiva. In questo senso, parlare di “visione del mondo”, di interpretazione morale del
mondo, esclude che si possa plausibilmente mantenere una scissione logica tra fatti e
valori.
Introduciamo
valore
nel
mondo
attraverso
il
lavoro
costruttivo
dell’immaginazione.30 La realtà è dunque normativa, il realismo è una conquista.31 Se per
un liberale non-cognitivista come Hare, si può essere d’accordo sui fatti eppure adottare
punti di vista morali, interessi, o preferenze differenti, per Murdoch il disaccordo morale è
più radicale e fondamentale e ha origine in come vediamo, interpretiamo e comprendiamo
il mondo.
28
Anscombe, 1958. Foot, 1958.
Murdoch, 1956. Murdoch, 1957.
30
Murdoch, 1966, p. 201.
31
Murdoch, 2000, pp. 329, 352.
29
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In The Sovereignty of the Good (1970) Murdoch sostiene che il bene, che è
concetto sovrano tra i concetti etici, è oggetto di conoscenza, e non una funzione del
volere. Poiché l’attività morale è un’attività interpretativa, concettuale e cognitiva, ha
senso parlare di oggettività in etica. Ma l’oggettività non è da intendersi né come il
rispecchiamento fedele di una realtà indipendente, né come il risultato di una procedura
argomentativa infallibile. Piuttosto, l’oggettività è un ideale regolativo dell’agente che si
sforza di prestare attenzione a ciò che ha intorno, e in particolare, agli altri. La visione
morale ci rende gli altri così come sono in realtà, cioè, indipendentemente da come sono
per noi (attraverso la trama dei nostri interessi). Perciò lo sforzo di essere oggettivi ed
attenti non è che un modo di essere virtuosi.32
2. La percezione morale: John McDowell e David Wiggins
Murdoch individua un compito importante della teoria morale: c’è bisogno di una nuova
concezione dei concetti morali che renda intelligibile la fenomenologia morale. Realismo e
non-cognitivismo assumono, erroneamente, che sia possibile isolare gli aspetti
proposizionali dei concetti morali da quelli soggettivi e disposizionali. Per combattere
questa pretesa, e illustrare una concezione alternativa dei concetti morali, McDowell e
Wiggins propongono di impiegare l’analogia con le qualità secondarie.33 Così come le
qualità secondarie, i valori sono inintelligibili se non come modificazioni di sensibilità
come la nostra. Sebbene dipendenti dalla nostra sensibilità, i valori sono proprietà genuine
e oggettive. Concepiamo il mondo in termini di classificazioni etiche perché abbiamo
sensibilità e disposizioni tali che possiamo essere educati ad usare appropriatamente tali
32
Murdoch, 1970.
Wiggins, 1976. McDowell, 1985. Ciò che accomuna McDowell e Wiggins è una teoria della sensibilità
morale che viene illustrata attraverso l’analogia con le qualità secondarie. Un esame delle differenze
33
18
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classificazioni; ed usarli appropriatamente significa essere motivati in un certo modo.34 La
competenza morale prevede la partecipazione ad una certa serie di pratiche condivise che
riguardano l’interpretazione e l’applicazione di concetti, e il giudizio di casi particolari, e
un certo tipo di sensibilità. Non è possibile comprendere e usare appropriatamente un
concetto morale senza condividere certi interessi, certi bisogni, certi sentimenti e una certa
pratica entro cui tale concetto è stato originato, e senza avere quegli stati soggettivi che gli
si devono accompagnare. Per esempio, non si può dire di conoscere il significato di
“giusto” se non rispettivamente ad una certa pratica, e senza provare un certo sentimento di
ammirazione e approvazione. Valutare è dunque un’attività concettuale che ha senso entro
una certa forma di vita. Ma questa non è una concessione allo scettico. Piuttosto, si tratta di
una spiegazione alternativa della natura delle reazioni e delle aspettative che si hanno
quando si adoperano concetti morali. L’oggettività della valutazione si fonda su niente di
più e niente di meno che la nostra umanità: la nostra sensibilità e il nostro bisogno di
pratiche condivise.
V - Le varietà del Naturalismo
Nel tentativo di narrare le sorti del naturalismo nell’etica analitica, bisogna tenere conto
che questo termine viene usato in diverse accezioni. Prima di Principia ethica, il termine
naturalismo caratterizza i tentativi di fondare l’etica indipendentemente dalla metafisica o
dall’ipotesi di realtà soprannaturali.35 Con Moore, il naturalismo viene ad identificare le
dovrebbe partire dal contrasto tra la concezione Humeana della sensibilità di Wiggins, e quella aristotelica di
McDowell.
34
McDowell, 1985, p. 142. McDowell, 1979, pp. 332-333.
35
Frankena, 1957, p. 37.
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teorie etiche che concepiscono il termine “buono” come un predicato, tale da designare una
proprietà naturale.
In reazione agli argomenti anti-naturalisti di Moore e poi dei non-cognitivisti, il
naturalismo risorge in tre versioni distinte. Una prima forma di neo-naturalismo parte
dall’idea che il termine “buono” non è predicativo, ma attributivo, e procede esaminando il
linguaggio normativo in modo teleologico: sono le funzioni specifiche degli individui che
spiegano e determinano il linguaggio normativo.36 In una seconda forma, il naturalismo
non propone un’analisi dei concetti morali, e perciò non si impegna al riduttivismo. Ma
anche nelle forme riduttiviste, il naturalismo non esce dalla scena con l’obiezione di
Moore, e si ritrova in certe versioni della teoria dell’osservatore ideale oppure nei tentativi
di offrire definizione analitiche non ovvie. Infine, in un’accezione ancora diversa, si dicono
naturaliste le teorie che non ricorrono all’esistenza di proprietà morali sui generis, ma
rinunciano a qualsiasi ontologia e tesi metafisica, e si collocano in una concezione
scientifica del mondo, e anzi partono dall’idea che la morale è un’impresa tipica di certi
animali con capacità e disposizioni particolari. In quest’ultima accezione si dicono
naturaliste non solo le teorie di Blackburn e Gibbard, che adottano una teoria evoluzionista
delle origini della morale, ma anche le teorie della ragionamento pratico (sezione VI).
1. Il naturalismo aristotelico di Philippa Foot
Nel dibattito tra intuizionisti e non cognitivisti si assume che il termine “buono” sia un
predicato che sta per una proprietà. Ma con P. Geach si afferma l’idea, congeniale ai
36
Si osservi che qui il concetto di funzione non è inteso come nella biologia evolutiva, cioè identificato con
la funzione che ha nel determinare il successo (l’adattamento) o l’insuccesso (l’estinzione) della specie. Le
funzioni di cui parlano questi naturalisti aristotelici sono simili ai categorici aristotelici, cioè indicano che
una certa caratteristica ha un certo ruolo nella vita degli individui di una certa specie e precisano come questo
ruolo viene svolto, si veda Foot, 2001, p. 32n, e anche pp. 31-37, pp. 46-47. La formulazione più lucida si
trova in Thompson, 1995.
20
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naturalisti, che sia invece attributivo: non ha senso scomporre “Luca è buono” in “Luca è
x” e “Luca è buono”. Per comprendere che cosa significa “Luca è buono” bisogna far
riferimento a certe attività e disposizioni naturali che sono costitutive di esseri viventi
come Luca. In Virtues and Vices (1983), Foot sostiene che il riferimento a questi elementi
naturali vincola necessariamente il contenuto delle valutazioni morali.37 Le valutazioni
devono essere intese in relazione ad una funzione (come quella di condurre una vita buona)
che devono essere ancorate descrittivamente. Il non-cognitivista ha ragione a dire che non
vi sono limiti logici a ciò che conta come considerazione morale, ma ciò non significa che
ciò che conta come ragione in etica sia tale in virtù di un atto di volontà o di una decisione.
Vi sono limiti e vincoli imposti dalla nostra natura, dal tipo di esseri viventi che siamo. Il
vizio è un difetto naturale, un modo inadeguato di esercitare le nostre capacità; viceversa,
la virtù è l’esercizio di capacità che promuovono ciò che ci è vantaggioso o che aiutano ad
espletare le nostre funzioni. Vi sono dunque criteri oggettivi con cui si valuta se queste
capacità sono esercitate appropriatamente. Il resoconto naturalista di questi criteri parte
dall’idea che la vita possa spiegarsi adeguatamente in termini teleologici. Si osserva che in
un ciclo di vita certi animali, quali noi siamo, hanno certe caratteristiche. Poi si offre una
spiegazione del ruolo di queste caratteristiche: certe proposizioni spiegano come tali
animali espletano la loro funzione. Attraverso questa spiegazione si determina il contenuto
delle norme e si fonda la possibilità stessa di un linguaggio normativo. Per esempio,
“Bisogna evitare la violenza. Bisogna cercare il dialogo” sono norme di cooperazione.
Applicate a casi individuali, queste norme sono il criterio con cui valutare se certi individui
specifici sono buoni o difettosi.38
37
38
Foot, 1983. Questa tesi viene ampiamente argomentata e discussa in Foot, 2001.
Foot, 2001, cap. 2, specialmente pp. 33-34.
21
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La difficoltà di questi tentativi naturalistici è quella di offrire una formulazione
plausibile delle funzioni naturali che costituiscono un modello di vita buona, e soprattutto
di offrire un resoconto soddisfacente del perché questi modelli dovrebbero essere anche
normativi.
2. Il naturalismo non-riduzionista: Richard Boyd
L’argomento di Moore colpisce le forme riduttiviste di naturalismo. Ma naturalisti come R.
Boyd e N. Sturgeon non intendono offrire analisi riduttiviste del valore.39 Essi sostengono
che in etica valgono gli stessi metodi e criteri di oggettività delle scienze naturali. In
entrambi i casi, si ricorre al metodo dell’equilibrio riflessivo che mira al raggiungimento di
uno stato di equilibrio (spesso, ma non sempre, inteso come coerenza) tra giudizi morali
intuitivi e ben ponderati di vari livelli di generalità, teorie sostantive, ed osservazioni
empiriche.40 In questo senso, le proprietà morale sono ineliminabili allo stesso modo dei
generi naturali: cioè in quanto conservano un ruolo importante nelle inferenze di ciò che
conta come la miglior spiegazione. In questo modo i naturalisti non-riduttivisti
mantengono l’insostituibilità e irriducibilità non solo del linguaggio morale, ma anche di
proprietà morali. La questione che si solleva è in che senso questa forma di naturalismo,
che si propone al livello ontologico delle proprietà, riesca davvero ad evitare il
riduzionismo, e possa offrire un resoconto plausibile della normatività. Si potrebbe infatti
obbiettare che la miglior spiegazione dei fenomeni della moralità può fare a meno delle
proprietà morali o sopravvenienti poiché il lavoro esplicativo reale è a carico delle
proprietà naturali o subvenienti.
39
Boyd, 1988. Sturgeon, 1986.
Il metodo dell’equilibrio riflessivo elaborato in ambito epistemologico da Goodman, 1965, pp. 63-64,
viene ripreso in etica da Rawls, 1971, pp. 19-21, pp. 48-51, cfr. anche Daniels, 1996. Sebbene sia un metodo
40
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3. Il naturalismo riduzionista
Nelle forme riduttiviste, il naturalismo non esce dalla scena con l’obiezione di Moore, ma
si ripropone con definizioni analitiche non ovvie, oppure con definizioni propositive o
sintetiche di identità. Alcuni di questi tentativi riduttivisti hanno risultati relativistici, come
per G. Harman e R. Brandt, secondo i quali il fenomeno della moralità si spiega senza
ricorrere ad un’ontologia ed epistemologia morale specifica.41 Per altri, come per P.
Railton, invece, la riduzione giustifica una forma di assolutismo morale.42
La forma più interessante di riduttivismo si dà nella forma di una procedura di
idealizzazione anticipata da R. Firth (1952), e consiste nella giustificazione di giudizi etici
che un osservatore ideale e simpatetico adotterebbe in condizioni epistemiche ideali.43 Ma
anche a questo proposito si solleva la questione della normatività: in che senso i giudizi
etici validi per un osservatore ideale possono dirsi vincolanti e motivanti per un agente
imperfetto che opera in condizioni di razionalità limitata?
VI - Le teorie del ragionamento pratico
Le teorie del ragionamento morale costituiscono il tentativo teorico sistematico più
imponente di conciliare le esigenze di oggettività e di normatività dei giudizi etici. Si tratta
di una famiglia piuttosto eterogenea di teorie razionaliste che condividono con Moore la
critica al riduttivismo e con Kant la divaricazione tra ambito teoretico e ambito pratico
della razionalità. Contrariamente agli intuizionisti, i teorici della ragione pratica insistono
che l’oggettività in etica si dà nella forma di vincoli sul ragionamento morale. Una folta
di solito interpretato come coerentista, se ne danno anche interpretazioni fondazionaliste, si veda, per
esempio, DePaul, 1986.
41
Harman, 1977. Brandt, 1979. Cfr. Vacatello, 1991.
42
Railton, 1986.
23
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schiera di razionalisti aderisce al contrattualismo, in forme che si richiamano sia alla
tradizione hobbesiana, che giustifica la morale partendo dal punto di vista dell’interesse
individuale (K. Baier e D. Gauthier),44 sia alla tradizione kantiana, secondo la quale la
giustificazione della morale si basa sulla interpretazione dell’oggettività come imparzialità
(T. Scanlon, A. Gewirth, S. Darwall e T. Nagel).45
1. La possibilità dell’altruismo: Thomas Nagel
Che cosa costituisce una ragione morale genuina? In The possibility of altruism, (1978), T.
Nagel sostiene che le ragioni morali genuine sono del tipo “Si deve ridurre la sofferenza
del mondo”.46 Queste ragioni sono neutrali rispetto all’agente, ovvero imparziali, ma hanno
comunque forza normativa e motivante. Se un agente ignorasse questo imperativo sarebbe
un agente irrazionale. L’agente razionale dovrebbe essere motivato ad adottare una
condotta che promuove uno stato di cose che è neutrale rispetto ai suoi interessi particolari.
In questa prospettiva, allora, la questione dell’oggettività si ripropone nei termini di
imparzialità, e costringe a riflettere sulla possibilità di mediare i doveri imparziali della
morale con le istanze più parziali e particolari dei progetti individuali. Le ragioni neutrali
rispetto all’agente, come quella della soppressione della sofferenza, esibiscono
un’oggettività e un’autorità indipendenti dalla deliberazione dell’agente. Proprio per questa
ragione il razionalismo kantiano di Nagel condivide con il razionalismo etico intuizionista
le stesse difficoltà di spiegare la normatività e la motivazione morale.47
2. Il costruttivismo kantiano e la questione normativa: da John Rawls a Christine
Korsgaard
43
Firth, 1952.
Baier, 1958. Gauthier, 1986.
45
Nagel, 1978. Gewirth, 1978. Darwall, 1983. Scanlon, 1999.
46
Nagel, 1978. Nagel ha poi rivisto le pretese di questa teoria, cfr. Nagel, 1986.
44
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Riformulando l’argomento della questione aperta di Moore, in The Sources of Normativity
(1996), Korsgaard sostiene che il naturalismo e il razionalismo ignorano la questione
normativa poiché postulano l’esistenza di ragioni morali indubitabili, mentre
l’espressivismo la fraintende perché non considera l’autorità dell’obbligo morale. La
questione normativa sorge quando l’agente si interroga sulle ragioni che ha di accettare i
desideri ed i vincoli che gli si presentano. Secondo Korsgaard il costruttivismo kantiano
elaborato da J. Rawls per illustrare le radici storiche della sua teoria della giustizia offre le
risorse necessarie per affrontare adeguatamente la questione normativa. Invece di supporre
l’esistenza di fatti o ragioni morali, il costruttivismo sostiene che ciò che conta come fatto
o ragione morale è il risultato di una procedura deliberativa. Vi sono diversi modi di
concepire una procedura deliberativa e modi diversi di rendere conto dei vincoli che deve
rispettare, e quindi vi sono diversi tipi di costruttivismo.48 Il costruttivismo kantiano si
distingue per la centralità che attribuisce ad una concezione morale della persona come
libera ed uguale.49 La questione normativa è una questione che solo un agente autonomo
può porsi. Preoccupati della nostra integrità ed identità di agenti, sottoponiamo al vaglio
della riflessione critica i nostri vincoli e desideri contingenti e, attraverso questo processo
deliberativo, costruiamo ragioni morali e fondiamo obblighi genuini. La condizione di
possibilità di questo fondamento è la nostra capacità di riflessione critica attraverso la
quale ci auto-imponiamo delle leggi e quindi ci mostriamo sorgenti di normatività e autori
di noi stessi. L’oggettività etica è intesa come pubblicità o condivisibilità delle ragioni.50
Allo scettico si risponde che le ragioni morali sono condivisibili perché siamo obbligati, se
47
Nagel, 1986, tr.it. p. 179.
Si veda l’introduzione di Cullity, Gaut, 1997.
49
Rawls, 1980.
50
Korsgaard, 1996, p.135. Cfr. Bagnoli 2000b.
48
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vogliamo dar senso alla nostra identità pratica, a dar valore a noi stessi come agli altri: lo
scetticismo è una posizione filosofica incoerente.
VII - Un bilancio
Come si è visto, fin dalle investigazioni filosofiche di Moore i filosofi analitici si scontrano
con il problema di conciliare le aspirazioni all’oggettività dei giudizi etici con la loro
capacità di guidare l’azione.51 Tali caratteristiche sembrano suggerire soluzioni meta-etiche
opposte. Da una parte, l’oggettività della morale sembra richiedere l’esistenza di fatti o
proprietà morali, ma ciò rende problematico o addirittura inintelligibile il fenomeno della
motivazione morale. D’altra parte, la capacità dei giudizi etici di guidare la condotta
sembra indicare che i giudizi sono espressioni di desideri o prescrizioni, ma ciò non spiega
il fenomeno dell’oggettività e dell’autorità dell’obbligo morale. La filosofia morale più
recente si è confrontata con questo problema, e i suoi esiti più interessanti consistono nei
tentativi di sganciare le nozioni di oggettività, conoscenza e verità da una metafisica
realista, e di riformulare in modo più complesso le questioni della normatività,
dell’autorità, e della capacità motivazionale dei giudizi etici.
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Bibliografia ragionata
di Carla Bagnoli
I filosofi analitici si sono interessati sia di problemi di meta-etica, proponendo analisi del
linguaggio morale, dei concetti morali e della loro logica, o esaminando le condizioni di
possibilità della teoria etica e i suoi criteri di adeguatezza, sia di questioni normative, ossia
di problemi concernenti i canoni del ragionamento morale. Come si è visto, la questione
dell’oggettività può essere affrontata sia a partire dall’analisi del linguaggio e dei concetti
morali, sia a partire da una certa concezione della razionalità morale. Se i filosofi analitici
di prima maniera tenevano ben separate le indagini sul linguaggio morale e quelle
normative, questa pretesa separazione si è andata progressivamente indebolendo. Questa
breve bibliografia, ovviamente non esaustiva, si propone di suggerire una panoramica delle
letture utili non soltanto per formarsi un’idea complessiva delle teorie analitiche in etica,
ma anche per comprendere come e perché certe teorie normative hanno trovato spazio e
voce entro specifiche concezioni meta-etiche.
Per quanto riguarda le introduzioni all’etica, si consiglia Le analisi del linguaggio della
morale, di E. Lecaldano, (Ateneo, Roma, 1970), che rimane un’ottima introduzione
all’etica analitica degli esordi; sugli inizi dell’etica analitica si veda anche l’agile libretto di
G. Warnock, Contemporary Moral Philosophy, (Macmillan, London, 1967. Tr. It. D.
Antiseri, Filosofia morale contemporanea, Armando, Roma, 1967). Sugli sviluppi più
recenti dell’etica si consiglia l’illuminante e ricco saggio di A. Gibbard, S. Darwall, P.
Railton, Toward a Fin de Siècle Ethics: Some Trends, in A. Gibbard, S. Darwall, P.
Railton, Moral Discourse and Practice, (Oxford University Press, Oxford, 1997). Questo
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volume include, oltre alla citata introduzione, una sezione dedicata ai problemi morali
individuati alle origini della filosofia analitica, una sezione di meta-etica in cui si trovano i
più significativi contributi recenti di realisti, anti-realisti, disposizionalisti e costruttivisti, e
infine una sezione dedicata alla relazione tra giudizi etici e motivazione, con i saggi
seminali di Williams e Korsgaard che hanno riaperto il dibattito sull’internalismo.
Strumento utilissimo è il dizionario a cura di M. Canto-Sperber, Dictionnaire d’etique et
de philosophie morale, (Presses Universitaire de France, 1996), e anche A Companion to
ethics di P. Singer (Blackwell, Oxford, 1991). Ugualmente preziosi per avvicinarci
all’etica analitica sono: Il dovere, di Luca Fonnesu, (La Nuova Italia, Firenze, 1998), e La
philosophie morale britannique, a cura di M. Canto-Sperber, (Presses Universitaire de
France, 1994).
Si tenga presente che le introduzioni all’etica sono motivate da precise tesi filosofiche sulla
natura dell’etica. Vi sono dunque approcci alternativi a questo proposito. Ormai classica,
sebbene per certi versi superata, è l’introduzione di W. Frankena, Ethics, (Prentice Hall,
Englewood Cliff, 1967. Tr. It., Etica. Edizioni Comunità, Milano, 1981). G. Harman, The
Nature of Morality, (Princeton, Princeton University Press, 1977), sostiene che i giudizi
etici non hanno nessun ruolo epistemologico nella spiegazione delle nostre esperienze
ordinarie, e difende una forma di relativismo meta-etico. J.L. Mackie, Ethics. Inventing
Right and Wrong, (Penguin Books, London, 1977), propone la teoria dell’errore. D.
McNaughton, The moral vision, (Blackwell, Oxford, 1988), che offre una difesa realista
dell’etica. Una critica alla possibilità stessa del teorizzare in etica è elaborata da B.
Williams, Ethics and the Limits of Philosophy, (Cambridge (Mass.), Harvard University
Press, 1985. Trad. it. R. Rini, Etica e i limiti della filosofia, Bari, Laterza, 1987); e
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Morality: An Introduction to Ethics, (Cambridge University Press, Cambridge, 1972, tr. It.
La morale. Un’introduzione all’etica, Einaudi, Torino, 2000). Invece, C. Korsgaard, The
Sources of Normativity, (Cambridge, Cambridge University Press, 1996) offre una brillante
ricostruzione della storia dell’etica seguendo l’evoluzione del problema delle sorgenti della
normatività e propone una difesa del costruttivismo kantiano. Incentrato sulla questione
della motivazione morale è The Moral Problem di M. Smith (Oxford University Press,
Oxford, 1994). Ma forse la più equilibrata introduzione all’etica, capace di combinare
approccio metodologico analitico e storico, è di S. Darwall, Philosophical ethics,
(Westview Press, Boulder, Co, 1998).
Per chi volesse avvicinarsi alla filosofia analitica attraverso lo studio di problemi e
paradossi morali, si consigliano vivamente i saggi di B. Williams: pur se non introduttivi,
questi saggi sono scritti in uno stile avvincente e brillante, ed hanno in molti casi
determinato le sorti del dibattito analitico. In particolare, si veda B. Williams, Moral Luck,
Cambridge University Press, Cambridge, 1981. Tr.It. R. Rini, Sorte Morale, Il Saggiatore,
Milano, 1985), Problems of the self, (Cambridge University Press, 1973. Tr. It. R. Rini,
Problemi dell’io, Il Saggiatore, Milano, 1990), e Making Sense of Humanity, (Cambridge,
Cambridge University Press, 1995).
La letteratura sulla natura dei giudizi etici, sulla plausibilità del realismo morale, sulla
relazione tra giudizi etici e azione, tra giudizi etici e motivazione, è sterminata. Antologie
ormai classiche che si avvalgono di utili introduzioni sono: Essays on Moral Realism, a
cura di G. Sayre-McCord, (Cornell University Press, Ithaca, NY, 1988); J. Rachels ha
curato l’ottimo volume The Question of Qbjectivity, (Oxford University Press, 1988); D.
Copp David, D. Zimmerman, a cura di, Morality, Reason, and Truth. New Essays on the
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Foundation of ethics, (Totowa, N.J. Rowan and Allanheld, 1985); T. Honderich, Morality
and Objectivity, (Routledge and Kegan Paul, 1985). Sui dibattiti più recenti, si vedano
l’eccellente volume a cura di C. Haldane e C. Wright, Reality, Representation and
Projection, (New York, Oxford University Press, 1993), e Truth in ethics, a cura di B.
Hooker (“Ratio”, 1998, 8). Sulle medesime questioni della verità e giustificazione in etica,
raccomando vivamente la prima parte di Filosofia Pratica (Il Saggiatore, Milano, 1988) di
G. Pontara, che offre una disamina critica del non-cognitivismo e una lucida ricostruzione
dei presupposti teorici del razionalismo etico; oltre ad offrire una proposta originale ed
innovativa, questo lavoro rappresenta un esempio raro di precisione nell’analisi concettuale
e rigore nell’argomentazione. In questo ambito, i classici in lingua italiana sono: I limiti del
razionalismo etico, di E. Juvalta, (Einaudi, Torino, 1945), di G. Preti Praxis ed empirismo,
(Einaudi, Torino, 1957), e Morale e meta-morale. Saggi filosofici inediti, (Franco Angeli,
1989), e di U. Scarpelli, L’etica senza verità, (Il Mulino, Bologna, 1982). Sulla questione
della giustificazione in etica si veda Etica e Diritto, a cura di E. Lecaldano e L.
Gianformaggio, (Laterza, Bari, 1986).
I volumi seguenti offrono un’ampia gamma di prospettive contemporanee sulle questioni
relative alla epistemologia morale: M. Timmons, a cura di, Spindel Conference 1990:
Moral Epistemology, (“Southern Journal of Philosophy”, 29, 1990); che contiene anche
una bibliografia sull’epistemologia morale dal 1971 al 1991. Per contributi più recenti sul
tema della conoscenza morale, e una bibliografia aggiornata al 1996, si veda Moral
Knowledge? a cura di M. Timmons, W. Sinnott Armstrong, (Oxford University Press,
Oxford, 1996). Per una difesa radicale del riduttivismo, si vedano: P. Churchland, Moral
Facts and Moral Knowledge, (in A Neurocomputational perspective, Cambridge, Mass.,
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Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino,
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MIT Press 1979), e E. Wilson, Sociobiology. The New Synthesis, (Oxford, Oxford
University Press, 1975). Sulla relazione tra scienze cognitive e morale, si veda Mind and
Morals, a cura di A. Clark, M. Friedman, (Cambridge Mass., MIT Press, 1995). Contro le
pretese e le ambizioni del riduttivismo, mi preme segnalare di R. Nozick la parte dedicata
al valore di Philosophical Explanations, (Harvard University Press, Cambridge, 1981. Tr.
it. G. Rigamonti, Spiegazioni Filosofiche, Milano, Il Saggiatore, 1989), che offre un
resoconto originale del valore come unità organica, insieme ad una delle repliche
contemporanee più raffinate allo scetticismo morale. Con l’originalità e la capacità
argomentativa che lo contraddistingono, Nozick difende l’oggettività in etica in
Invariances: the structure of objective world (Harvard University Press, 2001).
Sulla relazione tra meta-etica ed etica normativa si veda On the relevance of metaethics, a cura di J. Couture e K. Nielsen, (University of Calgary Press, 1995). Sulle teorie
del ragionamento pratico si veda l’eccellente raccolta a cura di E. Millgram, Varieties of
Practical Reasoning, (MIT Press, Cambridge, Mass., 2001). Si consiglia caldamente anche
il volume a cura di G. Cullity e B. Gaut, Ethics and Practical Reason, (Clarendon Press,
Oxford, 1997), che vanta un’ottima introduzione ed una selezione oculata di saggi
importanti sulla relazione tra ragioni e motivazione. Per una facile introduzione ai tre
metodi di ragionamento morale che hanno avuto più fortuna in ambito analitico si veda
Three methods of ethics, di M. Baron, P. Pettit, M. Slote, (Blackwell, Oxford, 1997). In
traduzione italiana, si possono consultare i saggi raccolti in Etica analitica. Analisi, teorie
e metodi, a cura di E. Lecaldano e P. Donatelli, (LED, Milano, 1996). Sulla rilevanza della
meta-etica per l’etica normativa, sono di grande importanza i saggi di R. M. Hare,
Freedom and Reason, (Oxford University Press, Oxford. Trad. it. M. Borioni - F. Palladini
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Carla Bagnoli “Etica” in N. Vassallo e F. Dagostini, (eds.) Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino,
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(1971), Libertà e ragione, Il Saggiatore, Milano, 1971), e soprattutto Moral Thinking,
(Oxford University Press, Oxford, 1981. Tr. It. di Sabattini, Il pensiero morale, Il Mulino,
Bologna, 1989), un tentativo di fondare l’utilitarismo a partire dallo studio dei concetti
morali. Di ispirazione humeana, sono: S. Blackburn, Ruling Passions, (Oxford University
Press, Oxford, 1998); di A. Baier Postures of the mind, (Metheun, London, 1985), e anche
il suo Moral Prejudices, (Harvard University Press, Cambridge, 1991). Sull’approccio
neo-aristotelico, si veda Virtues and Reason, a cura di R. Hursthouse, G. Lawrence, W.
Quinn, (Clarendon Press, Oxford, 1995). Una difesa intelligente e chiara del naturalismo
aristotelico si trova in P. Foot, Natural Goodness, (Oxford University Press, 2001), e
Virtues and Vices, (Oxford, Blackwell, 1978). Segnalo, in particolare, i saggi lucidi e
raffinati di W. Quinn, Morality in action, (Cambridge University Press, Cambridge, 1993).
Sulle teorie delle virtù e il loro recente affermarsi nell’etica analitica, consiglio l’antologia
a cura di R. Crisp, How Should One Live, (Oxford University Press, Oxford, 1996). In
traduzione italiana, si veda il volume a cura di M. Mangini, L’etica delle virtù e i suoi
critici, (La città del sole, Napoli, 1996), che raccoglie i saggi più rappresentativi e
importanti, a partire dal saggio seminale Modern Moral Philosophy di E. Anscombe
(“Philosophy”, 1958, 98, pp. 1-19), che ha segnato la ripresa delle teorie delle virtù. Per
comprendere appieno l’importanza dell’etica delle virtù, sia di tipo humeano sia di tipo
aristotelico, e l’ambito meta-etico in cui si colloca, bisogna leggere i saggi di D. Wiggins,
Needs, Values, Truth, Blackwell, Oxford, 1987. Sulla critica della teoria etica così come è
concepita in età moderna, si vedano, oltre ai lavori citati di Williams e Baier, A. McIntyre,
After Virtue, (Notre Dame University Press, 1981. Tr.It. P. Capriolo, Dopo la virtù, Il
Saggiatore, Milano, 1989), G. Clarke, E. Simpson, Anti-Theory and moral conservativism,
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(Albany Press, NY, 1989), R. Louden, Morality and Moral Theory, (Oxford University
Press, Oxford, 1991). Per una difesa dell’universalizzazione kantiana come metodo di
ragionamento morale si veda C. Korsgaard, Creating the Kingdom of Ends, (Harvard
University Press, Cambridge, 1996), e poi di T. Scanlon, What We Owe to Each Other,
(Harvard University Press, Cambridge, 1998), che propone una forma nuova di
contrattualismo kantiano e una difesa intelligente e precisa della teoria etica contro gli
attacchi di Williams, McIntyre e Harman. In alternativa allo scetticismo degli anti-teorici e
alle ambizioni del monismo, C. Bagnoli, Il dilemma morale e i limiti della teoria etica,
(LED, Milano, 2000) propone di ridefinire l’ambito e gli scopi della teoria etica, attraverso
una disamina critica dettagliata della letteratura sul dilemma morale come test di
adeguatezza della teoria etica. Sul confronto tra razionalismo kantiano e naturalismo
aristotelico, si veda Aristotle, Kant, and the Stoics a cura di S. Engstrom, J. Whiting,
(Cambridge University Press, 1996), e sul ruolo dello studio della storia dell’etica in
ambito analitico si veda Reclaiming the history of ethics, a cura di A. Reath, B. Herman, C.
Korsgaard (Cambridge University Press, 1997).
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2002, pp. 297-320, pp. 544-47
Carla Bagnoli (Fucecchio, 5 marzo 1966) è Assistant Professor of Philosophy alla
University of Wisconsin dal 1998, dove insegna filosofia morale. Ha conseguito il
dottorato in Filosofia all’Università degli Studi di Milano con Andrea Bonomi nel 1996.
Dal 1993 al 1997 ha condotto la sua ricerca a Harvard University come Visiting Fellow
sotto la direzione di Robert Nozick e Christine Korsgaard, nominata Fellow al Program in
ethics and the professions di Harvard University, ha poi continuato come Post-doctoral
fellow alla Universiteit van Amsterdam nel 1997. Si occupa di meta-etica, di psicologia
morale, di teorie neo-kantiane e neo-aristoteliche. È autrice di diversi saggi di filosofia tra i
quali: Moral Constructivism: a phenomenological argument, (“Topoi”, 2002), On the
objectivity of practical reason, (Croatian Journal of Philosophy, 2001), Il dilemma morale
e i limiti della teoria etica (LED, Milano, 2000), Value in the guise of regret,
(“Philosophical Explorations”, 2000, 7-22), Il realismo procedurale, (“Notizie di Politeia”,
2000, 16, pp. 45-59), La pretesa di oggettività in etica, (in G. Usberti, a cura di, Modelli di
oggettività, Bompiani, 2000), Il dilemma morale e l’integrità (“Iride”, 1999), Obblighi
speciali in una prospettiva kantiana, (“Filosofia e questioni pubbliche”, 1998), Ragioni
imparziali (“Annali del Dipartimento di Filosofia di Firenze, 1992). Ha curato insieme a G.
Usberti Meaning, Justification, and Reasons (“Topoi”, 2002, 1), ed insieme a E. Baccarini,
John Rawls, (“Croatian Journal of Philosophy”, 2001, 3).
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