I commenti alle letture dal lunedì al giovedì sono a cura di Luigi Nason (Genesi), Gianfranco Barbieri (Proverbi), Rosella Panzeri (Vangelo secondo Matteo). I commenti alle letture del sabato sono a cura di Beppe Ciocca. L’introduzione biblico‐liturgica alla settimana è a cura di Giorgio Guffanti. LUNEDÌ DELLA QUARTA SETTIMANA DI QUARESIMA Lettura del libro della Genesi (25,19-26) L’ouverture del ciclo di Giacobbe (25,19-34) si presenta come un’unità letteraria composta in modo evidente di tre parti: un’informazione sulla genealogia di Isacco e il racconto della nascita dei due gemelli (vv.19-26); una breve informazione sul carattere e sulla rispettiva posizione dei due gemelli all’interno della famiglia (vv.27-28) ; infine il racconto del piatto di lenticchie (vv.29-34). Il narratore offre al lettore una serie di notizie che sono indispensabili per comprendere i racconti che seguono, in particolare il capitolo 27. Si può ritenere che Gen 25,19-34 sia stato pensato come un’introduzione a tutto il ciclo di Giacobbe. In particolare, Gen 25,19-28 corrisponde a 11, 27-32: è probabile che lo stesso redattore abbia composto questi testi per introdurre il ciclo di Abramo e il ciclo di Giacobbe1. Il narratore introduce il racconto sui due fratelli nemici concepiti da Rebecca: nel conflitto che li opporrà sarà il più giovane e i suoi discendenti che avranno il predominio e il più giovane, che attira subito la simpatia del lettore, prevarrà. Il lettore rimane in attesa di sapere come il racconto arriverà a questa conclusione. Sin dal loro concepimento si può capire quale sarà il loro futuro. “Poiché nella narrativa popolare il concepimento e la nascita adombrano il destino del protagonista, essi sono di solito accompagnati da eventi e circostanze straordinari….La mancanza di figli dovuta all’infertilità della moglie corrisponde alla situazione iniziale descritta da Vladimir Jakovlevič Propp2, una mancanza della quale ci si libera tramite la preghiera per un figlio, cui seguono un concepimento e una nascita di natura miracolosa…L’infertilità della moglie, che tuttavia genera un figlio grazie all’aiuto divino, è un topos biblico assai diffuso, 1 WESTERMANN C., Genesis 12-36. A Commentary, translated by J. J. SCULLION, Ausburg, Minneapolis / SPCK, London 1985. (originale tedesco: Genesis. 2. Teilband: Genesis 12-36, BK I/2, Neukirchen-Vluyn 1981), 412. 2 Vladimir Jakovlevič Propp (Владимир Яковлевич Пропп) (1895-1970) è stato un linguista russo. Fu studioso del folklore e dedicò molti suoi studi all'indagine degli elementi delle fiabe popolari. a cominciare dalle matriarche, tutte inizialmente prive di figli (Gen 11,30; 29,31; cf anche Gdc 13,2; 1Sam 1,2; Lc 1,7)….Uno degli elementi costanti di questo genere di episodi è l’attribuzione del nome al bambino che deve nascere”3. Il racconto inizia con l’espressione caratteristica della tradizione sacerdotale [P] (v.19): we’ēlleh tôleḏōṯ jiṣḥāq ben-’aḇrāhām ’aḇrāhām hôlîḏ ’eṯ-jiṣḥāq Questa è la discendenza di Isacco, figlio di Abramo. Abramo aveva generato Isacco. Il matrimonio di Isacco con Rebecca è raccontato ampiamente in modo stupendo in Gen 24. A questo capitolo si riferisce il v.20. Di fronte alla sterilità di Rebecca a Isacco non restano strategie umane per risolvere la situazione. L’impotenza umana si apre allora alla supplica rivolta a JHWH (v.21): Isacco supplicò [wajje‘tar ] il Signore per sua moglie, perché ella era sterile e il Signore lo esaudì [wajjē‘āṯer ], così che sua moglie Rebecca divenne incinta. La supplica di Isacco e la risposta immediata di JHWH sono espresse con la stessa radice verbale ‘tr : questo verbo è usato per esprimere l’intercessione di Mosè in Es 8-10 (il cosiddetto racconto delle “piaghe”). L’immediatezza della risposta può lasciare perplesso il lettore, ma non si deve mai dimenticare che i racconti patriarcali hanno sempre come orizzonte interpretativo degli eventi la confessione di fede in JHWH che scaturisce dall’esperienza riconosciuta della sua azione in favore di Israele, suo popolo4. I due gemelli iniziano ad essere in conflitto tra loro nel grembo della madre: 22Ora i figli si urtavano [wajjiṯrōṣăṣû ] nel suo seno ed ella esclamò: «Se è così, che cosa mi sta accadendo?». Andò a consultare il Signore. 23Il Signore le rispose: «Due nazioni sono nel tuo seno e due popoli dal tuo grembo si divideranno; un popolo sarà più forte dell’altro e il maggiore servirà il più piccolo». 3 BLENKINSOPP J., Tesori vecchi e nuovi. Saggi sulla teologia del Pentateuco, Studi biblici 156, Paideia, Brescia 2008 (titolo originale: Treasures Old and New. Essays in the Theology of the Pentateuch. Grand Rapids, Michigan 2004), 199. È certamente utile la lettura di tutto il cap. 9 [Schemi biografici nella narrativa biblica. Folclore e paradigma nella storia di Giacobbe, 187-209]. 4 Cf BORGONOVO G. , Genesi, in PACOMIO L.-DALLA VECCHIA F.–PITTA A. (edd.), La Bibbia Piemme, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1995, 53-180, qui 123. 24Quando 25Uscì poi si compì per lei il tempo di partorire, ecco, due gemelli erano nel suo grembo. il primo, rossiccio e tutto come un mantello di pelo, e fu chiamato Esaù. 26Subito dopo, uscì il fratello e teneva in mano il calcagno di Esaù; fu chiamato Giacobbe. Isacco aveva sessant’anni quando essi nacquero. La decisione di “andare a consultare [liḏrōš, dal verbo dāraš ] JHWH” – questa espressione è decisamente anacronistica nei racconti patriarcali – ottiene una risposta oracolare in forma poetica che va interpretata come un vaticinio ex eventu. “Tuttavia, esso svolge una duplice funzione: narrativamente è una prolessi del futuro, non solo dei due figli, ma anche dei due popoli di cui saranno capostipiti; teologicamente è un riconoscimento che quanto accadrà in seguito rappresenti in ogni caso il misterioso progetto divino (cf Rm 9,10-12)”5. La prima parte del racconto termina con la nascita dei due gemelli: esce per primo dal grembo materno ‘ēśāw [Esaù] seguito da ja‘ăqōḇ [Giacobbe] “che teneva in mano il calcagno di Esaù” (v.26). Se l’etimologia di ja‘ăqōḇ è abbastanza comprensibile – vi è un’assonanza tra ja‘ăqōḇ e ‘āqēḇ, “calcagno” -, non lo è altrettanto quella di ‘ēśāw. La descrizione del gemello nato per primo può far pensare a Edom e alle rosse montagne di Seir, ma non a Esaù: egli è presentato, infatti, come “rossiccio” [’aḏmônî ] e “peloso come un mantello” [śē‘ār ]. Questo versetto crea un legame artificiale tra Esaù e Edom/Seir, rivelando un’intenzione che si ritrova in Gen 36. “La genealogia di Esaù, attribuita allo scrittore sacerdotale,insiste per tre volte su questa identificazione (36,1.8.19; cf 36,9.43), come se occorresse fissare solidamente questa idea nella testa del lettore. Sarebbe necessario insistere tanto se la cosa fosse evidente? In fin dei conti, l’ouverture del ciclo di Giacobbe ha l’aspetto di essere di essere stata composta con lo scopo esplicito di orientare o riorientare la lettura del racconto in un senso preciso: Gen 25-35 deve essere letto come la storia degli antenati dei due popoli rivali e la prefigurazione dei rapporti tra questi due popoli”6. Jean Louis Ska, dopo aver mostrato che i testi che fanno di Esaù l’antenato di un popolo non sono affatto numerosi e che solo i testi profetici tardivi identificano chiaramente Esaù ed Edom, trae la conclusione che Esaù divenne l’antenato degli 5 BORGONOVO G. , 123. 6 SKA J.-L., “Genèse 25,19-34 – Ouverture du cycle de Jacob”, in MACCHI J.-D. – RÖMER T (éd.), Jacob. Commentaire à plusieurs voix de Gen. 25-36. Mélanges offerts à Albert de Pury, Le monde de la Bible 44, Labor et Fides, Genève 2001, 11-21, qui 12-13. Edomiti certamente non prima dell’esilio. “È dunque all’epoca in cui Edom ha sostenuto i Babilonesi e ha approfittato dell’indebolimento di Giuda dopo la caduta di Gerusalemme che l’antica tradizione della rivalità tra Esaù e Giacobbe è diventata il primo episodio paradigmatico di una rivalità tra due popoli. È così più facile comprendere perché il narratore aveva tanto interesse a rendere il personaggio antipatico”7. Lettura del libro dei Proverbi (22,17-19. 22-25) Con le seguenti esortazioni inizia la terza sezione del libro dei Proverbi, nelle cui pagine l’Autore sacro propone una raccolta ricca di orientamenti professionali atti a guidare i giovani – ma non solo loro – ad apprendere l’arte di vivere in maniera tale da trovare piacevole la propria esistenza. A differenza di Pr 1-9, in cui si ha uno sviluppo logico del pensiero, la presente sezione è costituita da una serie di comandi, proibizioni, suggerimenti e detti condotti con lo stile del parallelismo sinonimico. La raccolta pare essere debitrice alla sapienza egiziana ed, in particolare al libretto delle Istruzioni di Amenemope, del quale a tratti sembra una vera e propria copia. Caratteristica di questi insegnamenti è quella di far seguire a ciascuno di essi anche una motivazione che li renda ragionevoli, quasi a voler convincere il cuore e la mente. 17 Porgi l’orecchio e ascolta le parole dei sapienti, applica la tua mente alla mia istruzione: 18 ti saranno piacevoli se le custodirai nel tuo intimo, se le terrai pronte sulle tue labbra. 19 Perché sia riposta nel Signore la tua fiducia, oggi le faccio conoscere a te. […] 22 Non depredare il povero perché egli è povero, e non affliggere il misero in tribunale, 23 perché il Signore difenderà la loro causa e spoglierà della vita coloro che li hanno spogliati. 24 Non ti associare a un collerico 7 SKA J.-L., 21. e non praticare un uomo iracondo, 25 per non abituarti alle sue maniere e procurarti una trappola per la tua vita. I versetti contengono un'esortazione simile a quella di 3,1-3; 4,1-3; 7,1-3 e, come ricordato in precedenza al prologo di Istruzioni di Amenemope. Troviamo un invito ad ascoltare le parole del maestro sapiente e a conservarle nel cuore (a memorizzarle), perché diventino una guida. Non deve sfuggire che in questa sezione l’atteggiamento fondamentale per poter apprendere è quello di porgere l’orecchio, cioè di saper distinguere, nelle parole dei saggi, l’eco degli insegnamenti divini: si progredisce, quindi, nell’arte di vivere, crescendo nella fiducia in Dio. Concentriamoci ora sui vv 22-23: 22 Non depredare il povero perché egli è povero, e non affliggere il misero in tribunale, 23 perché il Signore difenderà la loro causa e spoglierà della vita coloro che li hanno spogliati. Il riferimento è ai poveri, oggetto di oppressione da parte dei prepotenti e di protezione da parte di Dio. La ‘porta’ della città era il luogo dove si trattavano gli affari privati e pubblici, compreso l'esercizio del potere giudiziario nel tribunale (ad esempio, Dt 21,19; Am 5,12; Pro 24,7). Il termine ‘causa’ (rîb) è infatti, di uso legale, come in Es 23,2.3.6; Dt 21,5. L'ammonimento del v 22, rivolto al discepolo, riguarda il giudice che, per favorire il potente contro il povero, condanna l’indifeso pur sapendolo innocente, privandolo con la sua sentenza di quel poco che possiede; ma interessa anche direttamente qualunque ricco, che approfittando della propria condizione sociale, opprime, spoglia, affligge i poveri, portandoli davanti ai giudici che corrompe con donativi. Se è proibito commettere ingiustizie contro chiunque, questo vale anzitutto verso i poveri, i quali, se al cospetto degli uomini sembrano inermi, hanno invece per difensore lo stesso Dio. Egli li protegge contro tutti gli oppressori perché, essendo abbandonati, non hanno altro tutore che Lui, del quale il salmista dice: “A te si affida il debole, dell'orfano tu sei l'aiuto” (Sal 10,14; cfr. Pr 23,11; Es 22,21-4; 23,6; Sal 67,6; 145,9). I prepotenti spogliano i poveri dei loro diritti, ma Dio toglie loro la stessa vita, facendoli morire prematuramente. Il v. 24 sconsiglia l'amicizia con un collerico, il v. 25 ne dà la ragione. Il collerico provoca liti e dalle parole passa facilmente ai fatti, cioè alle mani (cfr. Sir 8,18-20); chi gli si fa amico corre il rischio, per la vicinanza che ha con lui, di imitarne l'esempio. Egli, infatti, quasi inconsciamente, comunica all'amico le proprie abitudini, così che diventa difficile conservare la pazienza o la calma in chi fa comunella spesso con un iracondo. La familiarità con un collerico può inoltre causare danno alla propria vita fisica e spirituale. Dunque, anzitutto il giovane viene esortato ad apprendere la vera giustizia e a saper riflettere prima di agire, perché il collerico è persona che si lascia guidare dall’ira e non dalla riflessione, dall’ascolto dell’altro e delle sue ragioni. Inoltre, si può intravedere di riflesso l’insegnamento dell’orante, che affronta la vita con la calma e la stessa pazienza che invoca da Dio. Lettura del Vangelo secondo Matteo (7,1-5) Nella pericope odierna il tema cambia in modo radicale rispetto ai brani precedenti e l’insegnamento di Gesù non riguarda più il nostro rapporto con le cose, con le ricchezze, le preoccupazioni o gli affanni ma il nostro rapporto con gli altri. “Non giudicate per non essere giudicati; perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi” (vv.1-2). L’invito a non giudicare apre in modo chiaro l’insegnamento di Gesù: chi giudica i fratelli si arroga un diritto su di loro, si considera superiore e migliore di loro. Il vocabolo greco usato κρίνω può avere in effetti diverse interpretazioni - decidere, giudicare, pronunciare giudizi, condannare, valutare – ma il contesto ci porta a scegliere senza esitazioni il significato di condannare. Condannare, ma anche solo giudicare, è compito esclusivo di Dio e di questo deve ricordarsi ogni uomo che, a sua volta, dovrà poi comparire davanti al tribunale di Dio. “Nel categorico rifiuto opposto al giudicare il detto si distingue da analoghe espressioni rabbiniche, che pure si collocano su un elevato piano morale. Esse raccomandano che la valutazione dell’uomo che si giudica sia basata sui suoi meriti e non sulle sua colpe, oppure consigliano di aspettare a giudicare fino a che non ci si trovi nella stessa situazione. Quest’ultimo è un detto del rabbi Hillel, un contemporaneo di Gesù, e potrebbe in pratica finire anche in un divieto di giudicare”8. Chi tiene ben presente infatti che Dio userà nei suoi confronti lo stesso metro che egli usa nei confronti del prossimo dovrebbe avvertire in sé una tale trepidazione, un tale timore da rinunciare a qualsiasi giudizio. Verremo trattati infatti con la stessa misura ci dice Gesù, ma cosa si intende con questo? Nei contratti di compravendita registrati su vari papiri di epoca precristiana è possibile trovare una formula commerciale di questo tipo: “con la misura con la quale hai misurato per me”. Questa espressione vuole significare che per la merce ricevuta sono stati utilizzati l’identica bilancia o l’identico metro adoperati per la merce consegnata in cambio, quindi misura per misura. Questa clausola contrattuale, che anche i rabbini erano soliti riferire al giudizio finale, serve a Gesù per sottolineare l’importanza del suo ammonimento. Gesù spiega infatti con chiarezza che cosa questo principio potrà significare: dal momento che tutti noi un giorno saremo davanti al tribunale di Dio, in quel giorno saranno applicati per noi i metri di giudizio che noi applichiamo per gli altri. Ma per la giustizia superiore a quella degli scribi e dei farisei, che Gesù pretende dai suoi discepoli, è necessario andare ancora oltre: è necessario non giudicare mai, sentendoci a nostra volta bisognosi di giudizio e quindi di perdono. E questo va allora ben oltre le massime rabbiniche che, ancora qui volta, qui Gesù radicalizza. Gesù dice con chiarezza a tutti coloro che vogliono cercare di essere alla sua sequela che non devono e non possono mai far valere le categorie del misurare, del valutare, del giudicare ma solo quelle dell’amare e del perdonare. “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? O come dirai al tuo fratello: «Lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio», mentre nel tuo occhio c’è la trave? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello” (vv.3-5). “La forza di questi versetti sta nel considerare l’io del giudicante sotto una luce nuova: da giudicante diventa giudicato. Impressionante è la forza incalzante delle metafore. Le iperboli della scheggia e della trave sono un colpo al cuore dell’uomo che conosce il bene e il male. Chi ascolta viene messo in discussione e si spaventa. L’allocuzione diretta col «tu» accresce questo effetto”9. Si tratta davvero di una richiesta 8 GNILKA J., Il Vangelo di Matteo, 2 voll., Paideia, Brescia 1990-1991, 380. 9 LUZ U., Vangelo di Matteo. Vol. 1: Introduzione. Commento ai capp. 1-7, Paideia, Brescia 2006, 556-557. senza sconti: scoprire la trave nel nostro occhio è “conditio sine qua non” per poter “vedere”, per avere un occhio semplice, non invidioso del fratello e quindi capace di sopportare e quasi non notare le sue imperfezioni che sono comunque una pagliuzza se confrontate con le nostre. Per comprendere ancora meglio quanto Matteo vuole dire alla sua comunità, cui è in primo luogo indirizzato il Vangelo e come del resto è dimostrato anche dall’uso ripetuto della parola “fratelli”, è bene tenere presente che nell’antichità un osso appuntito o una spatola di metallo erano di norma gli strumenti utilizzati per rimuovere oggetti estranei dall’occhio, azione che poteva risultare comunque dolorosa per il malcapitato. Rimuovere un piccolo impedimento alla vista degli altri, come potrebbe essere una pagliuzza, è però impossibile se il proprio campo visivo è ostacolato dalla incapacità di vedere provocata addirittura da una trave nel proprio occhio. È quindi prioritario togliere l’ostacolo dal proprio occhio, un ostacolo di proporzioni inaudite quale una trave, per poter pensare di aiutare il fratello togliendo dal suo occhio la pagliuzza. Chi ha una trave nel proprio occhio è del tutto cieco e quindi non può davvero vedere, e tanto meno giudicare, della scheggia nell’occhio del fratello. Chi si rifiuta di rendersi conto della propria trave è un ipocrita, è un attore, è solo uno alla ricerca di applausi da ottenere magari mettendo alla berlina il fratello e la sua pagliuzza. L’ammonimento a pensare prima alla trave nel proprio occhio è quindi una illustrazione esemplare del principio che abbiamo trovato all’inizio di questa pericope: “Non giudicate per non essere giudicati” (v. 1). L’unico giudizio legittimo è infatti la misura divina che è amore e misericordia, che è perdono, che è possibilità di ricominciare sempre da capo. Ecco il filo rosso che lega tutte queste sezioni, dall’atteggiamento verso le cose all’atteggiamento verso i fratelli: l’amore per i fratelli diventa infatti il luogo della manifestazione dell’amore che si ha per Dio; nell’amore per Dio si scopre la sua misericordia per noi. Non giudicare l’altro, ma scoprire il proprio peccato, che Dio copre con la sua misericordia, diventa quindi l’espressione più evidente di come si sta davanti a Dio, di come si tenta di essere giusti davanti a Lui con una giustizia superiore, con la giustizia che Gesù ci ha spiegato essere indispensabile per stare alla sua sequela. Fin troppo evidente la provocazione per tutti noi spesso tentati, almeno nel nostro cuore, di crederci migliori degli altri, più giusti, più accoglienti, più capaci di perdonare, più “cristiani”, tentati, insomma, di usare due misure, una per noi e una per gli altri: faticosamente, lentamente, ma con coraggio dobbiamo ogni giorno imparare invece ad usare la misura che Dio usa con noi che è quella di una accoglienza e di un perdono senza misura.