Sylvano Bussotti LACRIME D’EROS IN UN SOGNO DI CELLULOIDE ANNI SESSANTA All’ultima edizione di “MilanOltre” è stato presentato “SYLVANORAMA – RARA (film) 1967-1969, guardato al pianoforte dall’Autore”. Una proiezione con musiche dal vivo, in cui il compositore fiorentino ha riproposto una sua pellicola sperimentale di quarant’anni fa, dove apparivano, tra gli altri, Laura Betti, Dario Bellezza, Dacia Maraini, Luigi Mezzanotte, Franca Valeri, Daria Nicolodi, Giancarlo Nanni, gli attori del Living Theatre guidati da Julian Beck e Cathy Berberian. Un’opera ‘oculare e inguinale’ di raffinato gusto visivo e secondo lo spirito di un ‘fare arte’ totale. ****** di Luca Succhiarelli Eravamo presenti, lo scorso 11 ottobre, al penultimo appuntamento (prima di due contigue serate bussottiane) della ventiduesima edizione (23 settembre-12 ottobre) di MilanOltre, ossia all’anteprima milanese del SYLVANORAMA – RARA (film) 1967-1969, guardato al pianoforte dall’Autore secondo una formula – di gusto e spirito, ci sentiam di dire – coniata all’epoca delle prime proiezioni e così vicina, citiamo dal programma di sala, al «cinema muto quasi preistorico». Nel corso degli anni Bussotti “ha mostrato” con la pellicola anche Solo (1968), Cinque frammenti all’Italia (1970), Apology (1972), Immagine (1976), Pausa (1980), BUSSOTTIOPERABALLET in concerto (1983) e Bussotti par lui-même (1984), ma è Rara (film) a rappresentare il primo contatto davvero materico, compiuto è la parola esatta (?), con quel “sogno di cinema” mai veramente pausato. Se Pattinuccia (progetto di film-fiaba) risale al 1942 e i provini per un film di Arlecchini al biennio 1949-50, lo svezzamento appartiene ancor più alla prima giovinezza o addirittura all’infanzia, quando la copia del David di Michelangelo e il Perseo del Cellini, quasi per un “contratto di baliatico”, guardavano dall’alto il bambino Bussotti («io ero ancora Silvano, lontanissimo dall’essermi mutato in Sylvano») raggiungere, il mattino della domenica e se meritatoselo, i cinematografi della sua città. Firenze appunto, la medicea e rinascimentale, deve aver fortemente sollecitato e forgiato il giovane cherubino (come lo chiamerà Cathy Berberian), l’«annoso fanciullo» (così col Semerano), plasmatosi – vien da credere – in una ipotetica bottega, cresciuto artista e totale fra i più trasversali e in divenire, del cui scribere non a caso Roland Barthes ha notato: «egli costruisce (…) uno spazio omologico la cui superficie – poiché la pagina è condannata ad essere solo una superficie – vuole essere con rabbia, con precisione, un volume, una scena striata di lampi di luce, attraversata da onde, interrotta da figure; o ancora, nello stesso tempo (e qui sta la scommessa), da una parte un libro ermetico di segni molteplici, raffinati, codificati con minuzia infinita, dall’altra una grande composizione analogica, nella quale le linee, gli spazi, le fessure, le zebrature hanno il compito di suggerire, se non di imitare ciò che avviene realmente sulla scena dell’ascolto; è qualcosa nello stesso movimento di segretissimo e di estremamente palese. Un manoscritto di Sylvano Bussotti è già un’opera totale: il teatro (il concerto) incomincia dall’apparato grafico che ha il compito di trasmettere il pentagramma» (La partitura come teatro, in L’opera di Sylvano Bussotti, Electa, Firenze, 1988, p. 19). In Bussotti, insomma, le nove muse (o dieci che dir si voglia, essendosi il cinematografo accodato) ab origine pensano e si muovono contemporaneamente, al massimo dell’autonomia si organizzano “a decalogo”, sì che si potrebbe leggere il Rara (film) con gli occhi di uno storico dell’arte – o addirittura di uno scrittore con il retrogusto dell’artista – e nulla togliere al musicista-compositore, nonché ben dire del suo mèntore 1 pintore quanto sosteneva Giorgio Vasari scrivendo ne Le vite del Signorelli (ispiratore dell’olio su tela “Ritrovamento de L’educazione di Pan da Luca Signorelli”, dipinto da Bussotti nel 1999 ed esposto al Musée d’Orsay di Parigi), ossia che «nell’opere che fece di pittura mostrò il modo di fare gl’ignudi, e che si possono, sì bene con arte e difficultà, far parer vivi». Il “fare l’arte” di Bussotti, in verità, porta in sé un tal sogno di «unificazione totale» che animerebbe invidia in un Giorgio Gemisto Pletone; con le naturalezze simultanee e non convergenti che tanto lo fanno assimigliare ad un ognilinguìloquo, sembra piuttosto credere e anelare spietatamente a quel «volto di tutti i volti» di cui parla Abbagnano riferendosi al pensiero del Cusano. Rara (film) ad ogni “mostra di sé”, ogniqualvolta proiettato, documenta – facendole rivivere con un raccontare contra narrare – e la vita e la vitalità artistica – specie consumatesi nell’area romana – della seconda metà degli anni ’60, la «ricerca associata» che, con un fare – a nostro avviso – inesorabilmente vicino al platonismo, Bussotti (son parole sue del 1987) conduceva con quei pochi – tutti – quanti, estremamente convinti che si sarebbe operato nello spettacolo un bel miracolo; anzi non si credeva affatto in un miracolo, allora, ma piuttosto vagheggiavamo un cammino obbligato, rapido e reale. Non ci sarebbero state più, ben presto, divisioni di genere, l’opera, la prosa, la pantomima, il balletto; il rapporto fra tutte queste componenti dello spettacolo, curiosamente così chiamate, (vengono male simili parole; a me non viene spontaneo separarle) si sarebbe dissolto dentro splendidi eventi; per vie del tutto naturali; assommando tutta l’esperienza nella intera molteplicità dei mondi e delle creature. Stupito ancora di più che gli «attori» (?) non siano musicisti, non cantino, non suonino, non danzino, non sappiano far nulla. Venti anni fa, forse ancor prima per quanto mi riguarda, s’èra convinti che nel giro di pochi «istanti», diciamo metaforicamente, tutti gli «attori» (?) avrebbero cantato, danzato, fatto qualsiasi cosa!!! (Con me con teatroteatro, in L’opera di Sylvano Bussotti, cit., p. 213). Di «quei pochi – tutti – quanti» di cui sopra, in Rara (film) c’è una nutrita rappresentanza, un meticciato a dir poco allettante: presenti Laura Betti, un giovanissimo Dario Bellezza, le opere di Mario Ceroli, Dacia Maraini, Luigi Mezzanotte, Franca Valeri, Daria Nicolodi (nipote di Casella), ma anche, nella prima parte in bianco e nero, gli attori del Living Theatre (ricordiamo Julian Beck alle prese con una sorta di voltolamento) e Cathy Berberian, andrebbero computati tant’altri, interpreti tecnici e operatori, nessuno «che pretendesse il compenso materiale di qualsivoglia natura, vivendo quella rara festività come il gioco reale dell’amicizia». Bussotti sfata soprattutto il mito del “consumismo ad ogni costo”: con un film costato pochissimo e che non ha prezzo, dimostra come, in realtà, l’intelligenza “sponsorizzi” se stessa. Mèntore pintore abbiam scritto, et in itinere, già perché ben presto Bussotti ha cominciato a guardare, e ad accompagnare, con suoni il film originariamente muto, stabilendo con esso, anzitutto, un rapporto dialogico-itinerante, “sinestesico”: la prima di queste proiezioni pare essere avvenuta in un salone del palazzo dei Diamanti di Ferrara. 2 Pellicola lacrimale sulla quale Bussotti sembra aver operato con l’esperienza di un oculario, eppur né lacrimabile né lacrimevole, Rara (film) è anzi opera oculare e inguinale: «ne tibi ieiunus lumina tendat amor» o «ne tibi ieiunus inguina tendat amor»? Imbandirebbero una tavola rotonda i filologi muovendo presumibilmente il riso dell’anonimo poeta dell’Anthologia latina, noi invece preferiamo non curarci di loro e passar oltre. Lachrimae antiquae, Lachrimae antiquae novae, Lachrimae gementes, Lachrimae tristes, Lachrimae coactae, Lachrimae amantis e Lachrimae verae, così Dowland intitolava sue sette pavane, pur rivolgendo alla regina Anna d’Inghilterra queste parole: «Benché il titolo prometta lacrime, ospiti sconvenienti in questi tempi gioiosi, nondimeno le lacrime che piange la musica sono piacevoli, e non sono neanche versate sempre per dolore ma talvolta a causa di gioia e felicità». In Rara (film) la lagrima, sfiatando «le cassate cassandre affeminate», svolgendo una funzione molto simile a quella della cortina di vetro nel Trasparente pensato da Narciso Tomé per la Cattedrale di Toledo, o del velo nelle Madonne di Filippo Lippi e – ancor meglio – del Botticelli, consente di vedere [attraverso] la luce e illumina una galleria di primi piani e mezzibusti, attua ossia un vero e proprio voltolamento, conturbante virata! Tralasciando un poco confacente vólto-lamento – come potrebbe essere quello della Maddalena affrescato da Ercole de’ Roberti nella cappella Garganelli (San Petronio) a Bologna – e passando per una più “compiacente” fissità simile a quella del Cristo alla colonna di Donato Bramante, Bussotti giunge più tosto ad un vòlta-lamento, con le lacrime che – quasi contrappasso per contrasto – tornano nelle ghiandole. Già nel libretto de La Passion selon Sade, composto su un sonetto (O beaus yeus bruns, ô regars destournez) di Louise Labé, egli sembrava mondare i versi lontanando – a mo’ d’imperativo un «sarà bene tacere» – parole come larmes, noires nuits e morts. 3 Nel film è altresì possibile avvertire le tentazioni di un’arte a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento, per lo più fiorentina: così, nell’insistere su particolari pubici, la pellicola pubescente rievoca ai nostri occhi, nelle pose e nelle epifanie filiformi, Il battesimo di Cristo di Andrea del Verrocchio e Leonardo da Vinci, (in certe pose e sieste) il Marte che Botticelli dipinse assieme a quattro piccoli satiri che giocano e una Venere che sembra non guardarlo e, soprattutto, il Cristo morto di Rosso Fiorentino. Si ha la sensazione che in Rara (film) l’obiettivo, “rimandando” dall’urbe alle selve, disegnando siffatti – intermittenti – itinerari silvani con un voyeurismo tutto artistico che a noi ricorda versi di Luigi Bartolini dalla poesia Orme («Forse i due amanti sono scomparsi, / che io disegnai in una sera d’agosto / al limitare del Bosco del Lorenese. / Inavvertita ad essi li seguì la mia punta d’acciaio / lungo una nera lastra di rame cosparsa di cera»), sia alla costante ricerca, come già da noi suggerito, di «un tipo di faccia molto, molto antico», di quell’inafferrabile «fauno che fugge dal chiuso della città, ben più diffidente ed evanescente di qualunque vergine cristiana», con «sotto le lunghe ciglia occhi gialli piuttosto sospettosi, ma capaci a volte di brillare di uno strano bagliore; e labbra mobili, che avevano uno strano modo di scoprire i denti parlando, denti candidi e scintillanti» che David H. Lawrence crede di riconoscere – tracciando i suoi itinerari etruschi – nel «pastore con gli speroni» che incontra a Cerveteri. Vien da credere che Bussotti non abbia mai cessato di cercare una possibile liaison centaurica, simile a quella tra soprano e onde Martenot, quasi «reminiscenza manieristica di un mediocre dipinto del Botticelli, Minerva e il Centauro», che nell’infanzia – ricorda nell’Autoritratto di Sylvano Bussotti 1958-1967 – gli aveva «lasciato sognare incontri tanto favolosi». C’è una pagina del nietzschiano Crepuscolo degli idoli (Scorribande di un inattuale, 23), che sembra scritta per il Rara (film); con essa vogliam concludere questo nostro “tentativo”: Platone va più lontano. Con un’innocenza per la quale si deve essere Greci e non «cristiani», dice che non ci sarebbe una filosofia platonica se non ci fossero in Atene giovinetti così belli: il loro semplice aspetto è ciò che getta l’anima del filosofo in una ebbrezza erotica e non le dà tregua fintantoché essa non abbia affondato i semi di tutte le cose alte in così bel regno terrestre. Ecco un altro tipo di santo! – non si crede alle proprie orecchie, anche supposto che si creda a Platone. Si indovina, per lo meno, che in Atene si faceva filosofia diversamente, prima di tutto in maniera pubblica. Niente è meno greco che la ragnatela concettuale di un solitario, amor intellectualis Dei al modo di Spinoza. Filosofia, al modo di Platone, sarebbe piuttosto da definire come una competizione erotica, come un perfezionamento formativo e un’interiorizzazione dell’antica ginnastica agonale e dei suoi presupposti… Che cosa si sviluppò, infine, da questo erotismo filosofico di Platone? Una nuova 4 forma artistica dell’agone greco, la dialettica. – Ricordo ancora, contro Schopenhauer e a onore di Platone, che anche tutta quanta la superiore cultura e letteratura della Francia classica si è sviluppata sul terreno dell’interesse sessuale. Si può cercare ovunque in essa la galanteria, i sensi, la competizione erotica, la «donna» – non si cercherà mai invano… 5