CON MARIO LA CAVA -narrativa di Giuseppe Aprile Mario La Cava è, assieme a Corrado Alvaro, Saverio Strati, Francesco Perri uno degli scrittori più decisamente affermati in campo nazionale, nati nella zona Jonica reggina, la Locride, dentro cui sono compresi i paesi tra le montagne delle propaggini periferiche dell’Aspromonte, di S. Agata del Bianco, S. Luca, Careri e Bovalino. Quattro paesi limitanti tra loro che hanno dato alla letteratura italiana questi nomi di primissimo piano che la letteratura nazionale stenta a riconoscere tutti di stampo nazionale, con eccezione di Corrado Alvaro e Saverio Strati. A costoro andrebbe aggiunto, ad un livello più modesto, Saverio Montalto che lo stesso La Cava aiutò a farsi un nome stimolandolo e aiutandolo alla pubblicazione de La famiglia Montalbano e Il memoriale dal carcere che è di S. Nicola di Ardore, qualche chilometro più il là, dopo averlo fatto conoscere a Leonardo Sciascia, uno dei più importanti testimoni della narrativa siciliana. Questo fatto, che cioè Mario La Cava sia stato determinante per l’affermazione di Saverio Montalto, amico personale suo, viene portato a testimonianza del fatto che Mario La Cava non era per niente invidioso ed amava i valori indiscutibili. “Nessuno” si dice, “avrebbe fatto quello che Mario La Cava ha fatto per Saverio Montalto” il quale, poi, si è affermato con l’altro suo romanzo Matrimonio Clandestino, pubblicato, molti anni prima che a libro, in due puntate di circa trenta pagine per ognuna, sulla rivista Prospettive Culturali diretta di Franco Giacobbe. Solitamente l’ambiente incide abbastanza sulla formazione di una personalità artistica. Non ho dubbi. Ma non è determinante in modo assoluto. Resta, però, che in questi quattro paesi, tutti dell’Aspromonte e della Locride, cuore della Magna Grecia, sono nate molte voci molto importanti della narrativa che indiscutibilmente sono un pezzo ineludibile di tutta la letteratura italiana. E questo fatto assume ulteriore rilievo se si aggiunge che questa terra è la terra di Locri Epizephyri, la grande Metropoli magnogreca, la patria di Nosside che con Saffo è la maggior voce poetica del passato e che è anche la terra di Zaleuco, il primo legislatore del mondo occidentale e dove venne eretto il Santuario di Persefone, il Tempio Jonico di Marasà, le Mura di cinta, il Theatron, le opere idrauliche, il Tempio dei Dioscuri e l’istituzione della Necropoli Arcaica. Vi fu la Scuola Lirica locrese, un centro di fioritura delle Arti e delle Lettere, delle Scienze e dell’Artigianato. Fu celebrata da Poeti e scrittori del tempo tra cui Platone. “Città splendida nelle arti” per Pindaro e “retta dalle migliori leggi” per Platone. Ci sono altri notevoli nomi nel mondo delle Lettere, delle Arti, della Poesia della Locride. Come dimenticare Campanella, il pittore Cozza, in questo lembo di terra che va da Capo Bruzzano a Punta Stilo, con al centro Locri, la Locride tutta, che ha dato a continua a dare alla cultura europea e mondiale artisti della pittura, della scultura, delle lettere, della cultura tutta. Hanno ragione alcuni nostri studiosi che esiste anche un Sud nella cultura. Conseguenza, vale a dire, delle disuguaglianze che la pessima e ingiusta distribuzione territoriale dei poteri e delle ricchezze, ha generato respingendo voci possenti di creatività ed escludendo dalle conoscenze portatori di pensiero, di valori estetici, di intuizione e creazione artistica. Mi fermo ora su quello che conosco di più a me vicino sotto tutti gli aspetti e che, parimenti alla maggior parte delle voci letterarie e poetiche e artistiche, richiede giustizia rispetto a trascuratezze della critica nazionale che ha fin’ora impedito il proiettarsi nel mondo del sapere di quanto nel campo delle lettere questa terra ha espresso e che è da discutere senza reticenze e senza idiozia. Penso proprio a Mario La Cava, nato e cresciuto a Bovalino che respira l’aria ed il profumo della sua e mia terra, che nel rapporto con il suo ambiente, forse come gli altri, ha trovato la sua formazione, la cura e lo sviluppo della sua sensibilità, il potere di dare voce alle sue cose ed alle anime con le quali ha interagito alacremente. Oggi ci sono critici non sempre in linea con le forme approfondite della critica di fondo e retta da sostegni acuti e cementati da verità e profondità di pensiero. Comprendo e capisco anche un po’ di gioco nel campo della critica. E noto che c’è chi tira dalla giacchetta i grandi uomini, animati dal proprio fiuto, non sempre sincero e obiettivo. Troppi, in mancanza di capacità di analisi vera, si liberano in giudizi e sequenze descrittive che lasciano fuori quadro l’obiettività del personaggio e il riconoscimento di ogni aspetto della sua personalità e dei suoi valori. C’è superficialità e invidia nella critica tra l’altro non ufficiale perché se lo Stato è stato ingrato con i suoi territori più volte, questo s’è riflettuto anche con la mancata creazione di scuole universitarie, cattedre di sapienza, acutezza di capacità critica nel capire e proporre. Da noi mancano voci autentiche e verificate di critica senza grinze. Non mancano autodidatti e bravi intenditori, ma il limite del loro lavoro risente di suoni personali, di note che non stanno né in cielo e né in terra. Qualcuno, parlando di Mario La Cava ha detto che nonostante le sue possibilità di stare a Roma, magari sotto la protezione di Papi e di amici introdotti nel vaticano e ancora con maggiori possibilità di affermazione per come hanno fatto altri che se ne sono andati, ha preferito tornare a Bovalino per fare lo scrittore. Non sapendo che ciò dicendo avrebbe fatto un torto e non una ragione allo scrittore. È stato risposto, a questi, che Mario La Cava non è tornato a Bovalino, ma è nato a Bovalino e la sua vita non avrebbe potuto avere altro senso fuori dal suo ambiente e da dove ha tratto tutto quanto lo ha formato e gli rese possibile scrivere e fare i suoi romanzi ed i suoi caratteri. Personalmente ho deciso di stendere la presente nota proprio perché l’analisi dell’opera letteraria ed artistica è la cosa da cui dipende la comprensione di un messaggio. Se non si capisce la letteratura ed il letterato, vuol dire che per certi la scrittura è stata inutile. Io mi sono sacrificato per seguire La Cava, l’ho apprezzato, penso di avere svolto quanto si doveva per capirlo, per seguirlo, da uomo affascinato dalle sue lettere e dai suoi messaggi incancellabili e illimitati. Vorrei suggerire a tutti quelli che lo vogliono seguire e vogliono avvalersi della sua opera, di non attardarsi alle polemiche attorno a lui; non importa se gli hanno dedicato una scuola o una via del paese, o se è vissuto isolato o acclamato nel suo ambiente. Lui, nel suo ambiente, è vissuto e da esso ha tratto motivi artistici e creativi. Così come hanno fatto tutti i grandi. Le conseguenze delle reazioni ambientali non sono catalogabili come fattori di critica o di definizioni comunque sottolineabili. Sono tutte incluse nella sua arte e nelle sue lettere. Il bene ed il male, gli amici ed anche i possibili nemici, gli invidiosi e i sorridenti della strada, il falegname e il contadino, il muratore ed il barbiere, il pescatore ed il banditore, il parente e la madre, lo zio medico e il cugino incolto, il padre operaio e la mamma nullatenente, il sindaco bugiardo e disonesto e il politico imbroglione, sono come pietre di fronte al suo punto di osservazione. Non gioisce, l’artista, di fronte a chi lo aiuta e gli sorride con compiacimento, non si addolora di fronte al male che registra o eventualmente gli viene fatto, non piange e non ride con comuni sentimenti di dispiacere o di gioia. Tutto quanto è attorno a lui è fonte di scrittura, di analisi letteraria, di valutazione che non ha niente a che vedere con quanto una situazione comporta agli occhi ed alle orecchie dei normali. I fatti esterni sono stati, per Mario La Cava, come le note musicali per le corde della sua chitarra. Hanno smosso e mosso i suoi sentimenti ed hanno azionato la sua penna. Il mondo esterno è stato lo spartito della sua musicalità, la tavolozza dei suoi colori, le corde del suo sentimento che s’è mosso come la chitarra per il suo suonatore. Il sindaco, si chiamasse Ciccio e Ntoni, Mario o Mastru Micu, non è stato oggetto del suo agitare i sentimenti. È stato un suono, una nota, un pensiero, un fatto da cui, una volta colto quanto gli faceva parlare e pensare, restava muto e cieco, duro come una pietra e inerte come un pezzo di marmo. Anche la gente di ora ha le sue note per capire o stare lontano mille miglia dal risultato del suo lavoro. Sono altri i parametri da utilizzare per vagliare il senso di un pensare e il motivo di uno scrivere. Personalmente amavo andare a Bovalino ogni qualvolta mi telefonava per leggermi un suo racconto, per conversare con me; diceva che provava un piacere immenso leggermi le sue cose, osservare il mio volto in conseguenza, verificare la musicalità del suo discorre, intonare le note del suo canto davvero letterario ed artistico. E ci andavo con piacere grande anche perché, oltre il suo bisogno di verificare reazioni e sensazioni alle letture delle sue cose, da parte di un suo amico sincero, avevo le mie ragioni che mi animavano, Sentivo che con lui imparavo, lo interrogavo, gli facevo parlare di Alvaro, di politica, di lavoratori, di gente del borgo, del mare che stava davanti al suo balcone, della gente che settimanalmente popolava il mercato di Bovalino con tanti che venivano da Samo, da S. Luca, da Platì, da Benestere, da Careri, da Casignana, da Locri, da S. Ilario, da Portigliola. E tutti gli portavano un sorriso, uno stato di rancore, una storia, una fase di vita, un atto di conoscenza che gli davano la stura per scrivere un carattere, o un racconto, per fissare sulla carta un suo pensiero in minitesto. Un giorno, su colloquio tra me e lui, definì l’esigenza di andare a trovarlo dal mio paese con un giovane mio paesano, tale Cosimo Panetta che aveva trascorso tanta parte della sua giovinezza come figlio di un falegname, nel Nord ed aveva passato di tutti i colori per trovarsi da vivere e per aiutare il padre, mastro Mimì, a portare avanti il suo lavoro e la sua famiglia. Fece più di un racconto dopo due ore di conversazione tra noi. E fece pure un racconto che lesse alla radio svizzera ma del quale non abbiamo più traccia. Nelle carte di Mario c’era e c’è sicuramente. Tuttora quando Cosimo Panetta mi vede, ora che mi vede molto raramente per via che io vivo a Reggio e lui vive al paesello nostro, S. Ilario, mi domanda di Mario La Cava, ricorda la loro conversazione e mi spinge a chiedere ai famigliari se posseggono il testo dei racconti scritti e, segnatamente, di quello che lo scrittore scrisse e lesse alla radio svizzera per come era stato assicurato. Cosimo vive sperando che in qualche pubblicazione di libro qualche editore farà uscire tale racconto che, sicuramente l’ottimo Rocco, il figlio dello scrittore che con amore e dedizione cura le sue cose, forse non conosce. Non ricordo che alcuno gli avesse parlato; a meno che non lo abbia fatto suo padre stesso. Ricordo Mario all’Ospedale di Locri, quando è stato ricoverato e, vedendomi pianse con notevole disperazione, confidandosi con me e dicendomi: “..amico Aprile non mi sento di tirare avanti per molto, ma voglio confidarvi il rammarico verso lo Stato che non mi ha trattato bene. Non meritavo il trattamento di trascuratezza e quasi di assenza nei miei confronti. Ma i miei scritti non risentono di questo, come ben sapete. Lo dico a voi e resta tra noi. Non vorrei che qualcuno pensasse che ci sia mai stata influenza del comportamento di altri nella mia arte. Ho sempre interpretato serenamente e obiettivamente la realtà della mia quotidianità”. E, soffermandosi nel ricordare, mi confermava che considerava come suo autentico capolavoro, il romanzo mai dato alle stampe con il titolo L’amica. Io questo l’ho scritto in un mio lavoro su Mario La Cava. Pensavo che il dirlo potesse suscitare un interesse da parte di editori. Ma non mi sembra se a distanza di tempo quel romanzo resta inedito e delle mani del figlio Rocco che lo metterebbe a disposizione per la pubblicazione immediatamente. Ma evidentemente gli editori che vanno per la maggiore non sentono se non sentono odore di mercato. Anche l’editoria che una volta era autorevole e giusta, ora è diventata un tassello degli interessi di mercato. Ho più volte accompagnato La Cava per suoi servizi per il giornale Il Giorno, sul quale più volte mi ha citato. Non so se tra le mie distratte carte c’è traccia di questi episodi. Mi farebbe piacere che spuntassero da qualche parte. Ogni tanto Bianca, che tanto ha cura delle mie scritture, mi assicura che nulla è perso delle mie carte nonostante il mio proverbiale disordine, e che prima o poi verranno fuori anche questi documenti a cui ci tengo tanto, ovviamente. Un suo scritto per me, lo ha scritto e voluto per la prefazione ad un mio libretto sindacale dal titolo Uil Calabria: contributo per un miglioramento. Ora voglio finire questa riflessione immediata e di getto, proprio ricordando quello scritto per due ragioni. Per l’affetto e la stima che nutro sempre per questo immenso scrittore, autentico narratore mai secondo ad alcuno come tale e perché la dice lunga su tante valutazioni che molti fanno senza sapere che La Cava era molto legato ai lavoratori, aveva buona idea del sindacato e confermava sempre di essere un autentico liberalsocialista. Ed a chi si ostina a portare verso il suo mulino il pensiero dello scrittore, ricordo che egli è stato intanto un socialista, poi che come quasi tutti gli esseri umani hanno avuto la loro religione, ma non le religione come intesa da interessati, ma come libertà creativa, libertà di pensiero, amore per la sua gente, per il suo popolo, per le sue tradizioni, per quanto ha costituito materia da cui ha tratto ispirazione per il suo lavoro di scrittore, per sua moglie, la fedelissima moglie e i suoi amatissimi figli, i suoi amici, i suoi paesani. Mario La Cava resta sempre un esempio da seguire. I suoi romanzi sono lo specchio della nostra vita, la voce della sua e nostra gente, lo scrittore che ha tradotto la vita della gente dei campi e del paese in fatto letterario ed artistico. Giuseppe Aprile