Marco E.L. Guidi GLI SPILLI DI ADAM SMITH. UNA RASSEGNA SU DIVISIONE DEL LAVORO E SVILUPPO ECONOMICO, CON ALCUNE OSSERVAZIONI Premessa ....................................................................pag. 3 1. Divisione del lavoro e ricchezza delle nazioni ............ “ 4 2. Le determinanti della crescita...................................... “ 14 3. Società commerciale e mano invisibile: i vantaggi sociali e morali di un’economia di mercato................. “ 20 4. Dopo Smith: i teorici dell'innovazione e del progresso tecnico nell'età della rivoluzione industriale ............... “ 26 Riferimenti bibliografici .............................................. “ 29 Elenco abbreviazioni* TMS = A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, a cura di A. Zanini, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma 1991. LRBL = A. Smith, Lezioni di retorica e belle lettere, a cura di R. Salvucci, Quattroventi, Urbino 1985. LJ = A. Smith, Lezioni di Glasgow, a cura di E. Pesciarelli, Giuffré, Milano 1989. LJ(A): trascrizione del 1762-63; LJ(B): trascrizione del 1763-64. WN = A. Smith, Ricchezza delle nazioni, introduzione di A. Roncaglia, Newton Compton, Roma 1995. * I riferimenti nel testo alle opere di Smith si intendono sempre alle traduzioni italiane qui elencate. I riferimenti alla letteratura secondaria di lingua inglese, invece, non sono stati uniformati. Per comodità di accesso ho per taluni saggi utilizzato la versione inglese, per altri quella italiana. La data indicata a fianco al nome indica di quale delle due si tratti. Premessa1 La celebre immagine della manifattura degli spilli, che Adam Smith aveva tratto da un articolo dell'Encyclopédie di Diderot e d'Alembert, è evocata all'inizio del primo capitolo dell'Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni. Perché mai cominciare la trattazione di una scienza l'economia politica - che ben presto Thomas Carlyle avrebbe dispregiativamente chiamato "triste", con la divertente descrizione di quella che, per ammissione dello stesso Smith, era "una manifattura di modestissimo rilievo" [WN: 66]? La risposta si trova nel paragrafo di esordio del capitolo: essa serve a dimostrare con un esempio concreto la prima, fondamentale, tesi teorica dell'opera, vale a dire che "La causa principale del progresso nelle capacità produttive del lavoro, nonché della maggior parte dell'arte, destrezza e intelligenza con cui il lavoro è svolto e diretto, sembra sia stata la divisione del lavoro" [Ibid.]. Rispetto ad altri casi di produzione manifatturiera su scala maggiore, in cui peraltro il principio della divisione del lavoro cominciava a essere applicato in maniera ben più consistente, l'insignificante fabbrica degli spilli aveva il vantaggio della dimensione ridotta, nella quale "gli addetti ai diversi rami del lavoro possono spesso trovarsi riuniti nella stessa casa di lavoro e posti tutti insieme sotto gli sguardi dell'osservatore" [Ibid.]. Una specie di giocattolo dunque - un edificio in miniatura come il palazzo della bella Melusina nella favola di Goethe - che costituiva un ideale laboratorio sperimentale nel quale verificare la validità di una scoperta scientifica. Con il che l'economia politica era presentata da Smith in una veste aggiornata e attraente per il mondo scientifico dell'epoca: quella di una scienza che rispettava i canoni rigorosamente dettati un secolo prima dalla rivoluzione newtoniana2. Vediamo dunque in che consistono i decantati vantaggi della moderna divisione del lavoro, seguendo l'esempio prescelto da Smith, quello del "mestiere dello spillettaio": Un operaio non addestrato a questo compito che la divisione del lavoro ha reso un mestiere distinto, e non abituato a usare le macchine che vi s’impiegano, all'invenzione delle quali è probabile abbia dato spunto la stessa divisione del lavoro, applicandosi al massimo difficilmente riuscirà a fare uno spillo al giorno e certo non arriverà a farne venti. Ma, dato il modo in cui viene svolto oggi questo compito, non solo tale lavoro nel suo complesso è divenuto un mestiere particolare, ma è diviso in 1 Questo saggio nasce con una finalità di alta divulgazione. Come tale è in corso di pubblicazione nel volume A. Castronovo (a cura di), Storia dell'economia mondiale, vol. 3, La rivoluzione industriale e i suoi sviluppi, Laterza, Roma-Bari 1998. Pur conservando l'impianto del saggio citato - quindi con ampie parti didascaliche - la presente versione, arricchita di note e riferimenti bibliografici, si propone di fare il punto sulla letteratura in merito ai temi tra loro connessi della divisione del lavoro e dello sviluppo economico nell'opera di Adam Smith, con alcune osservazioni su certi punti controversi o irrisolti nel dibattito interpretativo in corso. Devo il suggerimento a lavorare su questo tema e l'idea del titolo a Roberto Finzi. 2 Cfr. su questi temi Cremaschi (1984). Gli spilli di Adam Smith 3 un certo numero di specialità, la maggior parte delle quali sono anch'esse mestieri particolari. Un uomo trafila il metallo, un altro raddrizza il filo, un terzo lo taglia, un quarto gli fa la punta, un quinto lo schiaccia all'estremità dove deve inserirsi la capocchia; fare la capocchia richiede due o tre operazioni distinte; inserirla è un'attività distinta, pulire gli spilli è un'altra, e persino il metterli nella carta è un'altra occupazione a sé stante; sicché l'importante attività di fabbricare uno spillo viene divisa, in tal modo, in circa diciotto distinte operazioni [...]. Io ho visto una piccola manifattura di questo tipo dov'erano impiegati soltanto dieci uomini [...]. Quelle dieci persone [...] riuscivano a fabbricare, fra tutti, più di quarantottomila spilli al giorno [WN: 66-67]. Il problema principale della Ricchezza delle nazioni di Smith è dunque quello dello sviluppo economico, delle sue cause, delle sue potenzialità e dei suoi limiti in un contesto basato su un'economia di mercato e sulla specializzazione delle funzioni produttive. Si è molto discusso se le conoscenze di Smith sui progressi tecnologici che proprio in quegli anni spinsero la Gran Bretagna sulla strada della rivoluzione industriale fossero sufficientemente aggiornate da fargli intuire la direzione che avrebbe assunto di lì a poco l'organizzazione industriale della produzione manifatturiera3. Ma più che passare al setaccio questo e quell'esempio scelto da Smith, più che domandarsi fino a che punto avesse saputo analizzare i più moderni ritrovati della tecnica, ci sembra interessante interrogarsi sulla sua capacità di individuare i principi teorici fondamentali del nuovo modo di produzione: quel "nuovo modo" su cui fu possibile costruire uno sviluppo senza precedenti della "ricchezza delle nazioni". 1. Divisione del lavoro e ricchezza delle nazioni Che la divisione del lavoro sia all'origine di importanti guadagni di produttività e stimoli lo sviluppo è dunque la tesi sulla quale si apre non solo la maggiore opera economica di Smith, ma anche la parte delle sue lezioni universitarie degli anni 1762-64 (le Lezioni di Glasgow) dedicata alla Police, cioè ai compiti del governo nei confronti della sussistenza e del benessere della popolazione. Smith sottolinea in particolare come l'aumento di produttività derivante da un'accresciuta divisione del lavoro sia da attribuire a "tre diverse circostanze": primo, all'aumento della destrezza di ogni singolo operaio; secondo, al risparmio del tempo che di solito si perde per passare da una specie di lavoro a un'altra; e infine all'invenzione di un gran numero di macchine che facilitano e abbreviano il lavoro e permettono a un solo uomo di fare il lavoro di molti [WN: 68]. Il primo di questi tre vantaggi è naturalmente legato al fatto che "la divisione del lavoro, riducendo l'attività di ogni uomo a una sola semplice operazione e 3 Cfr. per un giudizio relativamente assolutorio Hollander (1976): 260-65. Per un giudizio, invece, rigidamente negativo, Blaug (1985): 37. Articolata, ma critica, la posizione di Kindleberger (1976). 4 Gli spilli di Adam Smith facendo di quest'operazione l'unica occupazione della sua vita, non può che accrescere di molto la destrezza dell'operaio" [WN: 68-69]. Questo fattore ha una notevole importanza soprattutto all'epoca di Smith, nella quale - come farà notare più tardi Marx - la produzione manifatturiera è basata sulla riunione sotto uno stesso tetto di molti lavoratori manuali, che fanno uso delle braccia come principale forza motrice e impiegano prevalentemente utensili manuali o macchinari rudimentali. Ciascuna funzione produttiva corrisponde in questo caso a un mestiere, per quanto delimitato e "parcellizzato", e l'abilità del lavoratore è requisito di primaria importanza. La tesi di Smith è appunto che l'abilità cresce con la semplificazione e la standardizzazione della funzioni affidate a ognuno. Anche in seguito, tuttavia, quando le macchine conquisteranno il cuore del processo produttivo e l'operaio sarà ridotto a semplici e dequalificate funzioni di controllo e "fluidificazione", i guadagni di produttività legati alla semplificazione dei gesti e all'acquisizione di ritmi di lavoro regolari e incessanti saranno al centro degli studi dei teorici dell'organizzazione industriale. Ne sia prova lo spazio che questo tema assume nell'Organizzazione scientifica del lavoro di Frederick W. Taylor (1911) [1967]. Più ancora di questo primo vantaggio della divisione del lavoro, tuttavia, è il secondo ad avere rivelato in prospettiva maggiori potenzialità di sviluppo: si tratta dell'eliminazione dei tempi morti, degli intervalli di lavoro non direttamente produttivo, che sono ovviamente maggiori quando un semplice artigiano deve svolgere in successione le varie fasi di lavorazione di uno stesso prodotto. Si può anzi dire che questo fattore abbia acquisito maggiore importanza in tempi successivi a quelli di Smith, fino a raggiungere il parossismo nei più recenti modelli di organizzazione industriale. Nella fase manifatturiera e labour intensive avviata ai tempi di Smith, infatti, la riduzione dei tempi morti era un fattore decisivo di crescita della produttività del lavoro, ma incontrava precisi limiti una volta spinta al massimo la suddivisione delle mansioni. È invece con la progettazione di sistemi meccanizzati complessi - il cui modello più noto è la "catena di montaggio" - che la ricerca di un "flusso teso" di produzione, senza intoppi, perfettamente pianificato e sincronizzato in ogni sua fase, darà luogo a innovazioni sempre nuove. Non senza, peraltro, lati oscuri, soprattutto per quel "fattore umano" che si troverà a subire un'organizzazione del lavoro sempre più spersonalizzata e costrittiva. E se, come vedremo, i modelli organizzativi più recenti - cosiddetti "post-fordisti" o "toyotisti" - hanno indotto a ripensamenti a quest'ultimo proposito, non hanno tuttavia fatto altro che accentuare l'esigenza di eliminazione di tempi morti, teorizzando con il cosiddetto just-in-time il principio secondo cui ogni elemento della produzione deve arrivare al luogo in cui serve giusto al momento in cui serve [Ohno (1993)]. Il terzo vantaggio individuato da Smith - il legame esistente tra specializzazione e innovazione - non è di minore complessità e importanza, anzi racchiude forse il contributo più originale del filosofo scozzese alla comprensione della natura dello sviluppo economico. Non a caso è stato anche il più discusso e controverso. Una parte della storia, ma solo una parte, è racchiusa Gli spilli di Adam Smith 5 nella spiegazione che Smith dà di questo vantaggio nelle prime pagine della Ricchezza delle nazioni: Quando tutta l'attenzione delle menti è indirizzata verso un unico scopo, è molto più probabile che si scoprano metodi più semplici e rapidi per raggiungerlo, che non quando l'attenzione è dispersa fra una grande varietà di cose. Ora, in conseguenza della divisione del lavoro, l'intera attenzione di ogni uomo viene indirizzata verso un unico oggetto molto semplice. È dunque naturale aspettarsi che, tra coloro che sono impiegati in un singolo ramo di attività, qualcuno possa escogitare metodi più semplici e rapidi per svolgere il suo lavoro, sempre che la natura del compito consenta tali miglioramenti [WN: 70]. Sembrerebbe, dunque, che l'invenzione sia una conseguenza quasi scontata dell'applicazione della mente a un singolo oggetto: un fatto cioè di attenzione. Questa è tuttavia solo una condizione: Smith è consapevole che occorre una motivazione soggettiva per prendersi la pena di suggerire un'innovazione semplicemente immaginata. Ora, come rivela ancor più chiaramente l'analogo passaggio delle Lezioni di Glasgow, il motivo che spinge il singolo lavoratore a introdurre questi miglioramenti è apparentemente altrettanto semplice: "alleviare la fatica" [LJ(A): 441]4. Significativo è l'aneddoto raccontato con simpatia da Smith del ragazzo che era addetto ad aprire e chiudere la valvola tra caldaia e cilindro nelle prime macchine a vapore e che, per fuggire a giocare con i suoi compagni di età, inventò un tirante collegato a un'altra parte della macchina che azionava la valvola automaticamente [WN: 70]. Tuttavia, come la storia successiva della produzione industriale ha ampiamente dimostrato, questa conclusione apparentemente così naturale ha il difetto di non tenere conto del conflitto di interessi che insorge tra lavoratore salariato e datore di lavoro circa l'appropriazione dei potenziali vantaggi dell'innovazione: il risparmio di fatica è infatti massimizzato solo se i lavoratori riescono a mantenere nascosti gli effetti dell'innovazione (creando quelle che sono state definite "zone d'ombra"). Qualora invece l'innovazione venga alla luce, essa si traduce in un’intensificazione del lavoro che, accrescendone la produttività, rende l'impresa competitiva rispetto alle rivali, a tutto vantaggio dei profitti del capitalista. Una volta "sgamato", insomma, il ragazzino dell'apologo è stato certamente spostato ad altra mansione e il duro lavoro ha ripreso per lui il sopravvento. Smith non sembra prendere esplicitamente in considerazione un problema di questo genere, né riflettere sugli eventuali incentivi necessari per portare alla luce le innovazioni risparmiatrici di tempo e fatica. Un singolare cambiamento degli esempi prescelti tra Lezioni di Glasgow e Ricchezza delle nazioni (con l'episodio intermedio del manoscritto contenente un Primo abbozzo [Smith (1971)] di quest'ultima opera) rivela tuttavia il meccanismo che egli ha in mente e che dà quasi per scontato. Nelle Lezioni e nell'Abbozzo, infatti - come ha fatto notare Nathan Rosenberg [(1965): 130-31] - le prime invenzioni come la macina 4 Analogamente in WN: 70, Smith afferma: "Chiunque abbia avuto occasione di visitare frequentemente tali manifatture, deve avere spesso osservato delle bellissime macchine, nate dalle invenzioni degli operai al fine di facilitare e sbrigare più rapidamente la loro singola parte di lavoro". 6 Gli spilli di Adam Smith del mulino sono attribuite ad alcuni schiavi tormentati dalla particolare pena del loro lavoro. Nella Ricchezza delle nazioni questo esempio scompare, e il contesto delle invenzioni appare ora quello dei moderni opifici, nei quali il lavoratore salariato è una persona libera, in grado - con limiti di cui Smith è perfettamente consapevole [WN: 108-9] - di contrattare con il capitalista il proprio salario e magari le proprie condizioni di lavoro. Ma è a salari più elevati che Smith pensa in particolare, se subito dopo ricorda che "la grande moltiplicazione dei prodotti di tutte le varie arti, in conseguenza della divisione del lavoro, è all'origine, in una società ben governata, di una generale prosperità che estende i suoi benefici fino alle classi più basse del popolo. Ogni operaio può disporre di una grande quantità del suo lavoro che supera le sue necessità..." [WN: 70-71]. Il grande segreto di una società dominata dalla divisione del lavoro è infatti che "il prezzo della manodopera aumenta, mentre nello stesso tempo il lavoro è a buon mercato [...] due cose, che agli occhi del profano appaiono assolutamente incompatibili" [LJ(A): 437]. Si spiega così l'eliminazione dell'esempio degli schiavi nella Wealth of Nations: uno schiavo, come Smith sottolinea altrove, lavora sotto l'unica pressione della paura delle punizioni, sicché il suo lavoro non potrà mai essere produttivo come quello di un essere libero [LJ(B): 689]5. Né - sotto il motivo della paura - egli sarà "inventivo", se non raramente [WN: 5686; Rosenberg (1965): 131; Hollander (1976): 231-32, spec. n. 11]. Riassumendo, Smith ha probabilmente in mente un processo di libera contrattazione nel quale i vantaggi delle innovazioni introdotte originariamente dagli operai per ridurre la fatica possono in parte restare ai lavoratori (sotto forma di processi lavorativi comunque meno penosi), e in parte essere trasferite al capitalista dietro adeguata compensazione salariale. Nel suo ottimismo, insomma, questa riflessione ha il pregio di mostrare che riduzione della fatica, elevati profitti ed elevati salari sono compatibili. Un processo di continua crescita come quello garantito dalla divisione del lavoro renderà del resto pressoché automatico questo meccanismo: quando i guadagni dei capitalisti sono alti, viene loro più facile riconoscere ai lavoratori una parte almeno degli incrementi di produttività. Ora, una delle caratteristiche 5 "Il lavoro di uno schiavo non ha altro stimolo se non la paura della punizione e se egli potesse sfuggirle, non lavorerebbe affatto. Se anche si applicasse al lavoro con il massimo impegno, non potrebbe avere la minima aspettativa di una ricompensa e siccome tutto il frutto delle sue fatiche va al padrone, egli non sente alcun incentivo all'attività". Da notare che l'esempio si riferisce al lavoro agricolo nelle piantagioni e che ha come problema focale quello della produttività, non dello spirito inventivo. 6 "...gli schiavi difficilmente dimostrano spirito inventivo; e tutti i più importanti miglioramenti, sia nelle macchine sia nella disposizione e nella distribuzione del lavoro, che facilitano e abbreviano il lavoro stesso, furono scoperte dai liberi cittadini. Se uno schiavo proponesse qualche miglioramento di questo genere, il suo padrone sarebbe portato a considerare la proposta come un suggerimento della pigrizia e del desiderio di risparmiarsi del lavoro a spese del padrone. Il povero schiavo, invece che una ricompensa, andrebbe probabilmente incontro a molti maltrattamenti e forse a una punizione". Gli spilli di Adam Smith 7 della teoria smithiana del progresso tecnico è proprio quella di considerare quest'ultimo come un fenomeno associato soprattutto alle fasi di crescita, anziché a quelle di crisi e di ristrutturazione7. Finora non si è parlato del tipo di innovazione che il suggerimento dei lavoratori sottomessi a divisione del lavoro è in grado di proporre. È chiaro tuttavia dal contesto che Smith pensa soprattutto a innovazioni minori, a continui e graduali perfezionamenti delle tecniche esistenti, frutto più del contributo di una miriade di anonime comparse che del genio di un singolo artefice8: le cosiddette "innovazioni incrementali". Contrariamente a quanto taluno ha sostenuto [Rostow (1990)], tuttavia, queste non sono per Smith né le uniche né le più importanti innovazioni. Egli ammette invece l'esistenza di svolte tecnologiche radicali, dovute ad invenzioni che riguardano in particolare l'applicazione ai processi produttivi di forze motrici diverse da quella manuale e animale. Chi ne sono i protagonisti? La tesi di Smith è che un’ideale gerarchia che va dalle innovazioni incrementali alle invenzioni più importanti è essa stessa il risultato della divisione del lavoro. Bisogna a questo punto introdurre una distinzione non ancora messa in evidenza. Nel parlare di divisione del lavoro Smith fa implicitamente riferimento a due processi diversi, anche se collegati: quello della specializzazione delle mansioni all'interno di un’impresa - la cosiddetta divisione tecnica del lavoro (o "suddivisione del lavoro") - e quello della scomposizione per "disintegrazione verticale" di un unico processo produttivo tra imprese diverse, ciascuna dedicata alla produzione di un singolo prodotto o addirittura di un componente o di un semilavorato - la cosiddetta divisione sociale del lavoro (o "dispersione dei processi tra impianti diversi")9. Ora, affinché si presentino innovazioni più consistenti, è necessario che la produzione di macchine e lo stesso processo di invenzione siano affidati a soggetti specializzati, autonomi rispetto a coloro che sono destinati poi ad applicare i nuovi ritrovati alla produzione di altri beni: gli artigiani e le imprese specializzati nella produzione di macchine, da un lato, e i "filosofi", dall'altro, termine con il quale al tempo di Smith si definivano gli scienziati di qualunque ramo [LJ(A): 441-42; WN: 70]. In altre parole, solo una divisione del lavoro molto avanzata permette la comparsa di un settore autonomo dedicato alla progettazione e produzione di macchinari, nonché di un vero e proprio ceto di scienziati e ricercatori in grado di dedicare tutto il loro tempo all'invenzione di nuovi ritrovati. Non solo: anche quest'ultima attività subisce nel tempo le conseguenze della specializzazione, dando luogo a conoscenze sempre più approfondite e puntuali. Infine, Smith sottolinea anche l'effetto di feedback che viene a instaurarsi tra l'introduzione di innovazioni maggiori e la serie di graduali perfezionamenti cui esse sono 7 Un punto questo sottolineato - a proposito di Smith - sia da Hollander (1976): 232, che da Rostow (1990): 39-42. Occorre arrivare a Marx e alla sua concezione della "crisi come forma di sviluppo", per avere una presa di posizione in senso opposto. 8 Al punto, spiega Smith [LJ(B): 645], che è persino impossibile scrivere una storia completa delle invenzioni. Cfr. Elmslie (1994): 652-53. 9 I termini tra parentesi sono quelli usati da Hollander. 8 Gli spilli di Adam Smith sottoposte nell'applicazione pratica ai processi industriali. Insomma, innovazioni principali e innovazioni incrementali non sono tra loro alternative, anzi si rafforzano reciprocamente [Ibid.]10. 10 In un ulteriore contributo, Rosenberg (1976) si lascia attrarre da un passo delle Lectures on Rethoric and Belles Lettres (1762-63), lezione 28, nel quale Smith parla dei vantaggi della separazione dei poteri, in particolare del potere giudiziario da quello legislativo ed esecutivo (comprensivo del potere militare). Rosenberg non ha dubbi che si tratti di un'ulteriore riflessione - parallela per data a quella delle Lectures on Jurisprudence [LJ(A)] - sui vantaggi della divisione del lavoro: una riflessione che metterebbe in luce come dalla divisione del lavoro derivi anche una maggiore motivazione a condurre a termine la propria funzione con accuratezza. Infatti, laddove le funzioni sono unite, il magistrato, una volta costruito il proprio prestigio su una delle due (quella militare), trascurerà completamente l'altra. Inoltre Smith sottolineerebbe come sia importante che le mansioni e le responsabilità non siano condivise da un corpo troppo ampio di persone, altrimenti ognuno ha motivo di evaderle (un'anticipazione del principio del free rider?). Una lettura più attenta del testo di Smith, e una più accurata considerazione delle differenti caratteristiche della separazione dei poteri e della divisione del lavoro, portano tuttavia a guardare al parallelismo con maggiore cautela. Con la lezione ventottesima, Smith inizia una serie di tre lezioni (le ultime) dedicate all'eloquenza giudiziaria. Dopo avere parlato dei temi di un'orazione giudiziaria (pp. 454 e segg.), introduce il problema degli "argomenti per dimostrare che qualcosa è legge o meno" (p. 457). Se il diritto è formulato nella legge non c'è dubbio, ma quando non lo è, sono possibili due procedimenti: o lo si deduce da un atto legislativo oppure si prova che ha acquistato forza di legge per consuetudine e per precedenti giudiziari. Ma gli studiosi di retorica greco-romani non fanno menzione di questa secondo tipo di dimostrazione, che compare solo nella prassi moderna. Smith, per spiegare le ragioni di questa assenza, annuncia una digressione, in cui introduce tra l'altro gli argomenti analizzati da Rosenberg. Il suo problema principale non è tuttavia spiegare il minore impegno dei capi militari, ma perché essi non facessero riferimento alle consuetudini e alla giurisprudenza. Egli continua infatti di seguito: "Poiché questa era la parte meno importante della loro carica, essi non tenevano molto conto della condotta dei loro predecessori" (p. 458). Viceversa, prosegue, quando le funzioni saranno separate, poiché il prestigio dei magistrati dipende dall'amministrazione della giustizia, si preoccuperanno di trovare nella giurisprudenza precedente un appoggio per le loro decisioni e per rafforzare il proprio potere: "Cercavano di dare forza alla propria azione con l'autorità dei loro predecessori. I giudici, se ne erano stati nominati pochi, si preoccupavano più che mai di rendere sicura ed efficace la propria azione con ogni mezzo possibile. Di conseguenza, qualunque provvedimento adottato da altri giudici avrebbe ottenuto autorità presso di loro, finendo, col tempo, per essere accettato come legge" (ibid.). La conclusione è quella montesquieuviana della superiorità dell'Inghilterra, paese nel quale è molto considerato il common law, che Smith considera "molto più equo di quello che si fonda unicamente sull'atto legislativo" (ibid.), perché più elastico e adattabile al singolo caso concreto. Si vede dunque che l'argomento della maggiore efficacia dei magistrati è del tutto incidentale rispetto al problema che sta a cuore a Smith, che è quello della libertà dell'Inghilterra, la cui ragione egli, chiaramente sulla scorta di Montesquieu [Winch (1978): 36-37; 96], individua nella separazione dei poteri e nel tentativo di ciascun potere di acquisire forza per bilanciare gli altri poteri. Si è detto efficacia non a caso. Qui infatti il problema di Smith non è affatto quello Gli spilli di Adam Smith 9 Questa parte della riflessione di Smith sui benefici effetti della divisione del lavoro richiede ulteriore approfondimento. In primo luogo, come è stato sottolineato da alcuni contributi recenti - che hanno il vantaggio di leggere Smith alla luce dei temi introdotti nella scienza economica dalla corrente "evoluzionista" e da quella "neo-istituzionalista" [Elmslie (1994); Loasby (1996); Hyum-Ho Song (1995); (1997)] - Smith propone una visione evolutiva ed endogena dell'innovazione: ogni tipo di innovazione è frutto dello sviluppo economico stesso, sospinto dalla forza fondamentale della specializzazione delle funzioni. Le tecniche non sono insomma mai un dato esogeno o un fenomeno la cui dinamica interna segue logiche sue proprie11, ma sono sempre in ultima della efficienza, dell'aumento della "produttività" dei magistrati, ma della ricchezza degli argomenti da essi utilizzati per rafforzare le loro cause. Né tale efficacia deriva causalmente e direttamente per Smith dalla divisione del lavoro nel senso in cui vi derivano gli altri vantaggi (per un effetto cioè di una "concentrazione" su una singola mansione). Essa deriva invece dalla ricerca del prestigio e del potere. Un'ulteriore prova di ciò è proprio il parallelismo tra LRBL e LJ, invocato da Rosenberg. Riflessioni quasi identiche a quelle svolte nella lezione 28 delle LRBL si trovano infatti proprio nella parte delle LJ dedicata alla divisione dei poteri (tra l'altro va notato che le due versioni A e B differiscono notevolmente in proposito, forse per un malinteso del secondo "studente"). Cfr. LJ(A): 248-362; LJ(B): 544-52. Detto questo, il problema sollevato da Rosenberg, sebbene a un livello maggiore di complessità, resta una valida pista di ricerca: ci sono influenze incrociate, nel ragionamento di Smith, tra la tematica di derivazione montesquieuviana della separazione dei poteri e quella di derivazione humeana (v. sotto nota 13) della divisione del lavoro? In fondo, prestigio, rango e potere hanno a che fare per Smith anche con la competizione economica [Cfr. Raffaelli (1996)]. Viceversa, Smith sembra chiaramente collegare la divisione dei poteri a uno sviluppo della società (secondo la sua visione stadiale), che, nel passaggio dalla caccia alla pastorizia, quindi con l'affermarsi della proprietà, accresce il volume delle contese giudiziarie, richiedendo una divisione delle funzioni ("La separazione della competenza di amministrare la giustizia fra gli uomini, da quella della direzione politica degli affari e da quella della guida degli eserciti, costituisce il grande vantaggio che i tempi moderni hanno sugli antichi e la base di quella maggiore sicurezza di cui attualmente godiamo per quanto riguarda sia la libertà sia la proprietà sia la vita. Questa separazione venne introdotta soltanto per caso, per alleggerire il Supremo Magistrato della più faticosa ma meno gloriosa parte del suo potere, e non ha avuto luogo sino al momento in cui la crescita delle raffinatezze e il progresso della società non hanno moltiplicato smisuratamente gli affari": pp. 459-60. Cfr. LJ(A): 249: "In questo sistema di vita esistono molte più opportunità di dispute fra i membri di una tribù o di un popolo che non presso un popolo di cacciatori. È in questo periodo che viene introdotta la proprietà e naturalmente vi sono molte dispute a causa di essa". E ancora p. 252: "Quando l'umanità ha compiuto qualche progresso l'istruzione delle cause diventa una questione più difficile e faticosa. Quando cominciano ad essere coltivate le arti e le attività manifatturiere la gente è più impegnata e ha meno tempo da dedicare per presenziare ai processi. Aumentano inoltre i motivi di disputa"). Il meccanismo è quindi analogo a quello del rapporto tra divisione del lavoro e ampiezza del mercato. Mi ripropongo di discutere più approfonditamente questo problema in un altro lavoro. 11 Su una posizione del genere sembra attestarsi Rashid (1986); (1992). 10 Gli spilli di Adam Smith istanza un effetto del processo economico. Sono dunque inapplicabili all'analisi di Smith sia l'idea che lo sviluppo avvenga "lungo la funzione di produzione" (nel senso che tecnologie più produttive ma più costose, sebbene note in anticipo, sono utilizzabili solo con l'aumento della scala di produzione dovuto allo sviluppo economico), sia quella che sostiene che lo sviluppo consiste in semplici spostamenti o "traslazioni" della funzione di produzione (nel senso che l'introduzione dall'esterno di nuove tecnologie riduce complessivamente i costi di produzione e permette di produrre lo stesso output con quantità minori di input) [Eltis (1984)]12. Si deve notare infatti che l'idea di Smith che il progresso tecnico sia sempre frutto dello sviluppo economico non significa banalmente che con la specializzazione delle funzioni è possibile, per esempio, un maggiore volume o una maggiore accuratezza delle ricerche. Smith sostiene invece che il progresso della divisione del lavoro introduce un vero e proprio mutamento antropologico nella specie umana, che fa emergere potenzialità intellettive sempre nuove e imprevedibili13. Infatti: La differenza tra i talenti naturali degli uomini è in effetti molto minore di quel che si pensa; e, in molti casi, le diversissime inclinazioni che sembrano distinguere in età matura uomini di diverse professioni sono piuttosto effetto che causa della divisione del lavoro. La differenza tra due personaggi tanto diversi come un filosofo e un volgare facchino di strada, per esempio, sembra derivi non tanto dalla natura, quanto dall'abitudine, dal costume e dall'istruzione [WN: 74]. Un secondo punto da sottolineare - sfuggente ma sufficientemente chiaro nel testo smithiano - è il rapporto che viene a crearsi tra scienziato e imprenditore (per Smith strettamente identificabile, come vedremo, con il capitalista), ovvero il rapporto tra quelle che più tardi Schumpeter chiamerà rispettivamente "invenzione" (opera dello scienziato, o chi per lui) e "innovazione" (l'applicazione vantaggiosa dell'invenzione alla produzione, frutto dell'intuizione dell'imprenditore). Questo secondo termine è assente dal discorso smithiano (compare invece, ma con significato peggiorativo, il termine "progetto"). Tuttavia che la distinzione di ruoli sia almeno implicita risulta anche in questo caso - come in quello delle innovazioni incrementali - dalla considerazione delle motivazioni sottostanti, rispettivamente, al lavoro dello scienziato e alle scelte del capitalista. Mentre infatti il primo sembra essere mosso da considerazioni di prestigio o dall'amore per la scienza, è sufficientemente chiaro che, se l'invenzione viene 12 Hollander [(1976): 231] sottolinea come sia difficile spesso distinguere in Smith tra cambiamento delle tecniche strettamente definito e economie di scala (esterne e interne), poiché lo sviluppo di nuove tecnologie è spesso da lui considerato come un fenomeno possibile solo nella grande scala. Quest'ultima infatti fornisce all'imprenditore un incentivo speciale a dedicarsi all'innovazione, in quanto la probabilità di successo cresce col crescere dell'impianto. 13 Come sottolinea Loasby (1996): "the division of labour is to be thought of, not as a model of the efficient allocation of a given array of skills, but as a method of fostering the development of skills, and indeed generating other kinds of knowledge. It is a discovery process; and what is to be discovered cannot be known in advance..." (p. 301). Gli spilli di Adam Smith 11 applicata alla produzione è perché essa frutta al capitalista un profitto aggiuntivo [Hollander (1976): 236-38]. In terzo luogo, merita discutere ancora nel dettaglio la natura di processi mentali associati ai diversi gradi di innovazione analizzati da Smith. Nel caso dei miglioramenti suggeriti dai lavoratori, Smith sottolinea l'importanza dell'attenzione costante rivolta a una singola operazione, associata al desiderio di rimuovere la fatica. Nel caso delle invenzioni escogitate dai "filosofi", invece, egli chiama in causa un processo in qualche misura opposto. La loro professione, infatti, consiste "nell'osservare ogni cosa, sicché proprio per questo sono in grado di combinare e unificare le possibilità insite negli oggetti più dissimili e lontani fra loro" [WN: 70]. In altre parole, la capacità inventiva dei filosofi consiste proprio nella scarsa specializzazione cui è sottoposta la loro conoscenza, nella "apertura mentale" grazie alla quale riescono a "collegare le cose sì che producano effetti ai quali esse non sembrano affatto destinate" [LJ(A): 442; Cfr. Finzi (1996): 122-14]. Smith, come rivela il contesto, pensa in particolare alle invenzioni che consistono nel sostituire l'energia animale a quella inanimata. Ma in generale la conclusione è che per invenzioni maggiori, che richiedano applicazione di conoscenze scientifiche, è essenziale la capacità di collegare conoscenze diverse, utilizzando il potere essenziale della comparazione e dell'analogia. Nonostante quindi gli sforzi che sono stati fatti da alcuni per mostrare la coerenza interna del ragionamento di Smith sull'innovazione, non si può sfuggire alla conclusione che esista almeno un elemento di radicale discontinuità tra grandi e piccole innovazioni e che la loro presenza simultanea in un unico discorso, se non contraddittoria, sia fortemente problematica. La questione è resa ancora più ingarbugliata da un notissimo passaggio della Wealth of Nations, nel quale Smith - probabilmente riprendendo un tema sviluppato da Adam Ferguson nel suo An Essay on the History of Civil Society (1767)14 - sottolinea gli effetti deleteri sui lavoratori della divisione del lavoro: 14 12 Ferguson (1966): 186. "In una nota del Capitale, Marx [(1975): 149-50n.], Marx nota come Smith, dopo avere esaltato nel primo libro della Ricchezza la divisione del lavoro, "nell'ultimo libro, a proposito delle fonti delle entrate dello Stato, riproduce incidentalmente la denuncia di A. Ferguson, il suo maestro, contro la divisione del lavoro". Rosenberg [(1965: 135n.] osserva sbrigativamente che Marx non ha potuto tenere conto delle Lectures, che precedono l'Essay, e dunque che Smith merita la precedenza su Ferguson. Mizuta, in un saggio poco noto e ancor meno citato (1980), mostra però che la questione è più complicata, perché l'elaborazione dell'Essay era iniziata già negli anni cinquanta e Hume ne parla come di un lavoro quasi finito in una lettera a Smith del 1759 (quindi precedente le Lectures!). Inoltre l'idea era già abbozzata in un pamphlet pubblicato anonimo da Ferguson nel 1756, le Reflections Previous to the Establishment of a Militia. Salvucci [(1990): 23-27], pur ignorando il saggio di Mizuta, ma in compenso citando Oncken (1909) e altri, sembra di nuovo propendere per la priorità di Smith. Ma egli confonde tra la questione della priorità circa i vantaggi della divisione del lavoro e quella circa i suoi svantaggi. Inoltre le sue evidenze sono piuttosto vaghe, perché di seconda mano (una testimonianza del rev. A. Carlyle del 1860, i ricordi di J. Millar) e comunque superate dalle prove di Mizuta. Gli spilli di Adam Smith Con lo sviluppo della divisione del lavoro, l'occupazione della stragrande maggioranza di coloro che vivono di lavoro, cioè della gran massa del popolo, risulta limitata a poche semplicissime operazioni, spesso una o due. Ma ciò che forma l'intelligenza della maggioranza degli uomini è necessariamente la loro occupazione ordinaria. Un uomo che spende tutta la sua vita compiendo poche semplici operazioni, i cui effetti oltretutto sono forse sempre gli stessi o quasi, non ha nessuna occasione di applicare la sua intelligenza o di esercitare la sua inventiva a scoprire nuovi espedienti per superare difficoltà che non incontra mai. Costui perde quindi naturalmente l'abitudine a questa applicazione, e in genere diviene tanto stupido e ignorante quanto può esserlo una creatura umana [WN: 637-38]. Per rimediare almeno parzialmente a questo stato di cose, Smith propone un'istruzione elementare largamente finanziata dallo Stato e garantita a tutti i membri delle classi popolari. Di fronte a un passo di questo genere vi è stato chi, Marx per primo, ha fatto notare l'onestà intellettuale di Smith, e chi non ha esitato a dichiarare aperta una vera e propria contraddizione [West (1964); (1996)]. Rosenberg (1965), che pure ha riconosciuto la gravità del problema sollevato da Smith e la pochezza del rimedio proposto [Cfr. Rosenberg (1990): 15], ha tentato di ritrovare una coerenza interna nel discorso smithiano insistendo da un lato sulla divergenza temporale tra uno stadio relativamente arretrato nel quale la divisione del lavoro è bassa e i lavoratori stessi sono in grado di introdurre innovazioni, e uno stadio più evoluto in cui il testimone dell'invenzione passa agli scienziati specializzati, e dall'altro sul fatto che maggiore è lo sviluppo economico e più elevata è la capacità complessiva della società di produrre invenzioni, grazie proprio all'emergere di professionalità tecniche e scientifiche separate. Restano tuttavia aperti almeno due problemi: anzitutto, continua a sembrare contraddittoria l'ammissione di un crescente "ilotismo" (per riprendere l'espressione di Ferguson) della classe lavoratrice - che implica proprio la riduzione della capacità inventiva - con la precedente immagine di una costante presenza simultanea e di una reciproca integrazione tra applicazione di invenzioni maggiori e innovazioni incrementali suggerite dai lavoratori. In secondo luogo, il passo appena citato di Smith punta il dito sul punto più debole del ragionamento di Smith sulle innovazioni suggerite dai lavoratori. Sembra difficile poter sostenere al contempo che il concentrarsi su operazioni sempre più semplici e monotone accresce e riduce la capacità inventiva. E viene spontaneo concordare con la seconda versione della storia: in altre parole, ciò che mina la capacità di Egli tuttavia, concludendo con buonsenso che il tema era largamente diffuso nel dibattito illuminista, specie in ambiente scozzese, riporta un'interessante passo del Treatise of Human Nature (1739) di Hume [(1978): 485], nel quale sono chiaramente adombrati i vantaggi della divisione del lavoro. Ricorda inoltre il possibile contributo di Hutcheson. Si può forse inferire da tutto ciò che se Smith, parlando dei vantaggi della divisione del lavoro, riprende e sviluppa intuizioni di Hutcheson e Smith, quando invece fa riferimento agli svantaggi fa riferimento a una riflessione che ha trovato in Ferguson? Da notare che Marx, nella Miseria della filosofia [Marx (1976): 110-11], ricorda come il tema delle conseguenze deleterie della divisione del lavoro sarà poi ripreso da Lemontey, Say e Sismondi. Gli spilli di Adam Smith 13 escogitare, quando la specializzazione delle operazioni è troppo spinta, è proprio la mancanza di "apertura mentale", la capacità di usare quel potere dell'analogia su cui di lì a poco Jeremy Bentham baserà la propria teoria dell'invenzione. Oppure si deve ammettere l'opposto: che anche il lavoratore "parcellizzato" è capace di escogitare nuove combinazioni perché gli resta qualche residua capacità di comparare e associare esperienze diverse15. Tra innovazioni maggiori e minori non vi può essere disparità di principio conoscitivo, ma solo differenza di intensità. Non è casuale che uno dei "ripensamenti" più sottolineati nel passaggio dal modello taylorista di organizzazione del lavoro a quello "toyotista" sia consistito proprio nella riduzione della specializzazione delle funzioni all'interno della fabbrica, con il recupero di una figura di operaio polivalente non solo perché addetto a diverse fasi del processo lavorativo, ma anche perché capace di svolgere una prima manutenzione dei macchinari e perché coinvolto a vario livello nella progettazione dei prodotti. 2. Le determinanti della crescita Che alla divisione del lavoro e al progresso tecnico da essa ingenerato sia per Smith ampiamente dovuta la crescita della ricchezza delle nazioni è tesi che non può essere contestata. Altrettanto certo, però, analizzando i testi smithiani, è che la divisione del lavoro non è un principio originario, ma deriva dalla naturale propensione a scambiare degli individui. Smith insiste su quest'ordine di priorità, asserendo esplicitamente che non sono gli scambi a dipendere dalla specializzazione delle funzioni economiche, ma viceversa è quest'ultima a dipendere dagli scambi e a essere limitata dall'ampiezza stessa del mercato, cioè del volume degli scambi [WN: 72]. Ma da che dipende a sua volta l'ampiezza del mercato: è vero che esiste un "circolo virtuoso" tra divisione del lavoro e ampiezza del mercato, nel senso che la divisione del lavoro, accrescendo la produttività, accresce la massa dei redditi distribuiti e dei beni scambiati, ampliando perciò le dimensioni del mercato e consentendo una più ampia divisione del lavoro. Tuttavia nel capitolo III del secondo libro della Ricchezza delle nazioni, Smith è formale nel sostenere che il motore primo della crescita economica è l'accumulazione del capitale, cioè la "parsimonia" e la "frugalità" dei capitalisti, che risparmiano i loro profitti e li reinvestono in una produzione sempre più allargata. È a questo punto che Smith introduce la famosa distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo, che Mark Blaug ha giudicato, con uno dei suoi consueti giudizi apodittici, "the most maligned concept in the history of economic doctrines" [Blaug (1985): 54]. È 15 14 Per un'interpretazione più generosa del "learning by job" nel pensiero di Smith, cfr. Pagano (1991). Per Pagano, al contrario di Babbage, Smith sottolineava i processi di apprendimento determinati dalla divisione del lavoro, e quindi è legittimo, su basi smithiane, non auspicare una divisione troppo spinta, che elimini questo vantaggio. Cfr. e contra Schefold (1996). Gli spilli di Adam Smith produttivo il lavoro che da un lato genera profitti per il capitalista che lo impiega (profitti che, sappiamo, saranno puntualmente reinvestiti, poiché Smith non ritiene logico trattenere moneta in forma liquida e quindi afferma che tutto ciò che è incassato viene puntualmente speso), dall'altro si concreta nella produzione di merci materiali, "che durano per qualche tempo almeno dopo che il lavoro dell'operaio è terminato" [WN: 304]. In questo senso, ogni attività di puro servizio - ogni attività cioè che produce "beni immateriali" - appartiene al novero del lavoro improduttivo, quel genere di lavoro che non produce né beni tangibili né un valore maggiore dei costi (in salario, in particolare) che sono stati necessari per produrlo. Smith pensa in particolare alle schiere di servitori di cui si circondava l'aristocrazia del suo tempo;. Ma anche il "sovrano [...] con tutti gli ufficiali civili e militari che sono a lui sottoposti, tutto l'esercito e la marina, sono lavoratori improduttivi" [Ibid.], sebbene nessuno si sogni di farne a meno per le necessità dell'amministrazione della giustizia e della sicurezza dei cittadini. Sulla distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo si è molto dibattuto per gli oltre due secoli che ci separano dalla pubblicazione della Ricchezza delle nazioni. In breve, la controversia potrebbe essere così riassunta: chi giudica il ragionamento di Smith dal punto di vista dell'equilibrio economico non può che giudicare artificiosa la distinzione, in quanto ogni bene o servizio, nella misura in cui viene venduto al suo prezzo di mercato, è di per sé "utile" e si traduce in altrettanto reddito, il quale a sua volta può venire speso in beni materiali o immateriali, in un circolo senza fine. Chi invece ragiona dal punto di vista dello sviluppo economico, ritiene il ragionamento di Smith perfettamente sensato e coerente [Rostow (1990): 38]. Per un paese che deve fuggire la miseria, è auspicabile pensare prima di tutto a produrre beni di sussistenza, alloggi, infrastrutture, e investire in lavoro e beni capitali che servono a produrre altri beni. Acquista significato, in questa sorta di "contabilità" dello sviluppo, anche la preferenza attribuita da Smith, tra i beni di consumo, a quelli durevoli rispetto a quelli non durevoli [Hollander (1976): 206-11; Rostow (1990): 40]: Il reddito di un individuo può essere speso o in cose che vengono consumate immediatamente, e nelle quali la spesa di un giorno non può né alleviare né sostenere quella di un altro giorno, oppure in beni più durevoli, che possono perciò essere accantonati, e nei quali la spesa di un giorno può, a seconda della scelta fatta, alleggerire oppure sostenere e accrescere l'effetto di quella del giorno seguente. Ad esempio, un uomo ricco può spendere il suo reddito per pasti lauti e sontuosi e per mantenere un gran numero di domestici e una moltitudine di cani e di cavalli, oppure può contentarsi di pasti frugali e di pochi domestici e impiegare così la maggior parte del suo reddito per adornare la sua casa o la sua villa di campagna con costruzioni utili od ornamentali, con mobili utili od ornamentali, con collezioni di gingilli ingegnosi di vario genere, oppure, nel modo più frivolo di tutti, ammassando un gran guardaroba di bei vestiti, come faceva il favorito e ministro di un gran principe che è morto pochi anni fa. Se due uomini ugualmente ricchi spendessero i loro redditi l'uno prevalentemente nel primo modo, e l'altro nel secondo [...], il primo sarebbe, alla fine del periodo, il più ricco dei due. Egli avrebbe un fondo di oggetti, di qualsiasi tipo, che, sebbene possano non valere quanto sono costati, varrebbero sempre qualche cosa. Della spesa del secondo non rimarrebbe invece nessuna traccia... [WN: 316-17]. Gli spilli di Adam Smith 15 L'eroe della storia è insomma, il capitalista che risparmia e investe, e persino il consumatore che risparmia o accumula beni durevoli, mentre il villano è il prodigo, colui che spreca le ricchezze del paese in frivoli ed effimeri consumi. Un'altra controversia interpretativa che è durata fino ai giorni nostri è quella che riguarda la causa principale (o, per alcuni, addirittura unica) dello sviluppo: è il progresso tecnico innescato dalla divisione del lavoro, o la parsimonia e l'accumulazione del capitale16? Alla luce di quanto abbiamo visto sopra, l'alternativa appare in larga misura artificiosa. Non c'è nessun bisogno di attribuire a un unico fattore la teoria smithiana dello sviluppo. Il progresso tecnico è un fenomeno complesso e centrale, che si alimenta da sé solo in una spirale espansiva. Tuttavia l'investimento è decisivo sia per allargare la base produttiva, sia per ampliare le dimensioni del mercato e fornire nuove opportunità di divisione del lavoro. Un'ideale "funzione di crescita" smithiana contiene dunque entrambi gli argomenti, così come ne contiene diversi altri: è stato sottolineato, per esempio, il ruolo fondamentale che Smith attribuisce alle istituzioni e ai costumi - che possono essere più o meno favorevoli allo spirito di frugalità e di accumulazione - così come a un adeguato sistema di istruzione [Rostow (1990): 37-38]. Il quadro istituzionale è decisivo, tra l'altro, anche nei riguardi del limiti dello sviluppo: per Smith, infatti, la possibilità di crescita di una nazione non è infinita. L'accumulazione di capitale, secondo lui, finirà per ridurre le opportunità di profitto accrescendo la concorrenza tra i produttori, fino a quando si arriverà a un livello di profitto tanto basso da non incentivare più l'investimento. È la cosiddetta teoria della "caduta tendenziale del saggio di profitto", che sarà successivamente ripresa da Ricardo, Malthus e Marx, sia pure con argomentazioni diverse. Ora, sostiene il filosofo scozzese, questo momento finale in cui la crescita si arresterà può essere più o meno lontano a seconda del contesto di istituzioni che circonda l'agire degli individui sul mercato. L'esempio della Cina è in proposito significativo: Sembra che la Cina sia rimasta lungamente stazionaria e che da molto tempo abbia probabilmente raggiunto quella pienezza di ricchezza compatibile con la natura delle sue leggi e delle sue istituzioni. Ma tale pienezza di ricchezze può darsi sia di molto inferiore a quanto, con altre leggi e con altre istituzioni, la natura del suo suolo e del suo clima e la sua posizione potrebbero consentire [WN: 129]. Ci dobbiamo a questo punto porre un'ulteriore domanda. Perché la crescita è così importante nell'ordine di priorità di Smith? Non si può rispondere sostenendo che si trattasse di una generica preferenza per uno dei tanti temi della scienza economica, come quella che porterebbe un economista di oggi a scegliere questa branca di studio invece di un'altra, magari dietro la spinta di orientamenti ideologici o religiosi che restano comunque al di qua del lavoro propriamente scientifico. Per Smith, infatti, l'economia politica doveva essere prima di tutto una scienza che spieghi la natura e le cause della ricchezza delle nazioni: una scienza che, se non si esaurisce certo in una precettistica di ordine pratico, 16 Cfr. Brewer (1991); Elmslie (1994); Ahmad (1996). 16 Gli spilli di Adam Smith tuttavia, "considerata come ramo della scienza dello statista e del legislatore, si propone due fini distinti: primo, quello di provvedere di un abbondante reddito e di abbondanti mezzi di sussistenza la popolazione o più esattamente di metterla in grado di provvedere se stessa di tale reddito e di tali mezzi di sussistenza; secondo, quello di fornire allo stato o alla repubblica un reddito sufficiente ai servizi pubblici" [WN: 371]. Come ha sottolineato Donald Winch in un contributo del 1978 che ha segnato una pietra miliare nella storiografia su Smith, questa definizione dell'economia politica ci riconduce al clima culturale del Settecento, l'età dei Lumi e delle riforme, l'età dei grandi trattati di scienza della legislazione, nei quali, appunto, al sovrano e al legislatore è attribuito il compito di vegliare sulla sussistenza e l'opulenza della propria popolazione. Smith, tuttavia, da filosofo morale quale era, non si contenta di assumere come scontata una simile definizione dell'economia politica. Si domanda invece su quali fondamenti possano essere giustificati i fini della sussistenza e dell'abbondanza e che cosa si richieda al sovrano di fare per assicurarli. Ora, come rivela un'attenta lettura comparata della Ricchezza delle nazioni e delle Lezioni di Glasgow, Smith affronta il problema utilizzando gli strumenti interpretativi della tradizione giusnaturalista, in particolare la distinzione tra giustizia generale, giustizia distributiva e giustizia commutativa [Haakonssen (1981): 99]: la prima, la general justice, riguarda gli obblighi degli individui verso la comunità; la seconda, la distributive justice, investe gli obblighi della comunità verso gli individui, infine la commutative justice definisce gli obblighi degli individui tra di loro. È dunque la seconda a dover ispirare il legislatore nel suo lavoro e il sovrano nelle sue deliberazioni. Ora, per lo "spettatore imparziale" che, nella sua teoria morale, Smith immagina esistere "nel nostro petto", il quale giudica della correttezza dei nostri e degli altrui comportamenti, e quindi anche di quelli del sovrano, può essere accettabile solo un ordine sociale nel quale non esistano eccessive diseguaglianze, e soprattutto dove le diseguaglianze impediscano ad alcuni di ottenere una degna sussistenza. Gli individui, infatti, nascono uguali non solo nei diritti, ma perfino, some si è visto, nelle intelligenze e nei talenti. L'interesse di un'economia in sviluppo, quando essa sia basata sulla propensione a scambiare e sulla divisione del lavoro, risiede a questo proposito nel fatto che essa risolve per via naturale il problema della giustizia distributiva. È vero infatti che le ineguaglianze non vengono eliminate né probabilmente ridotte nel processo di crescita, ma è vero anche che ai più poveri sono garantite possibilità di impiego e redditi crescenti, sicché l'operaio moderno "gode di comodità molto maggiori di un principe indiano, sebbene inferiori in verità a quelle dei principi e dei nobili d'Europa, ma di gran lunga superiori a quelle degli altri. E forse il divario fra la condizione ed il tenore di vita di un principe e quello di un operaio è di gran lunga inferiore alla differenza che esiste fra l'operaio e il principe selvaggio" [LJ(A): 432]. Per questo, in una "società commerciale" nella quale lo scambio abbia libero corso e non sia impedito da vincoli inutili, al governo conviene concentrare la propria attenzione non tanto su "azioni positive" per assicurare la giustizia distributiva, quanto su quell'insieme di strumenti che Gli spilli di Adam Smith 17 assicurino la giustizia commutativa, cioè la sicurezza dei cittadini e delle proprietà, la certezza del diritto, l'esecuzione dei contratti [Hont-Ignatieff (1983); Pesciarelli (1988)]17. Questa accurata ridefinizione della natura dell'economia politica smithiana e della centralità che in essa assume la tematica della crescita economica ha permesso di superare un malinteso che durava fin dal primo Ottocento, secondo il quale Smith sarebbe stato da un lato il teorico di una meccanica armonia naturale degli interessi, e dall'altro avrebbe basato la sua visione della società e della politica su un'impostazione utilitarista, basata cioè sul principio benthamiano della "massima felicità per il maggior numero" [Halévy (1901-4)]. Va detto però che se l'equivoco è nato vi erano, come sempre accade, ragioni che potevano suggerirlo. Anzitutto a chi, come per esempio Heinrich Storch (1823), leggeva Smith con gli occhi della tradizione cameralistica tedesca del Settecento, appariva quasi naturale associare l'ottica del sovrano smithiano, preoccupato del benessere dei suoi sudditi, a quella della "felicità pubblica" propria dei filosofi illuministi. Inoltre, Smith era pronto a ritenere che in alcuni casi la libertà dei singoli debba essere limitata se essa contrasta con l'obiettivo della crescita e del benessere della società. Così ammetteva precise restrizioni alla libertà delle banche di emettere strumenti di pagamento (per esempio il divieto di stampare banconote di tagli inferiore a cinque lire sterline, o l'opposizione alle cosiddette "clausole opzionali", secondo cui la banca in difficoltà - in cambio di una promessa di pagamento - poteva congelare la liquidazione di un deposito impegnandosi a versare solo gli interessi), sostenendo che altrimenti esse si sarebbero esposte con un volume troppo elevato di crediti, producendo i due mali congiunti dell'inflazione e del rischio di bancarotta [West (1997)]. Si potrebbe dire - sostiene Smith a favore della sua posizione - [...] che proibire ai privati di ricevere in pagamento i pagherò di un banchiere per una somma grande o piccola, quando essi siano disposti ad accettarli, oppure impedire a un banchiere di emettere tali biglietti, quando tutti i suoi clienti sono disposti ad accettarli, è una manifesta violazione di quella libertà naturale che è specifico compito della legge proteggere e non impedire. Senza dubbio, tali regolamentazioni possono essere considerate, sotto un certo aspetto, come una violazione della libertà naturale. ma un esercizio delle libertà naturali di pochi individui che potrebbe danneggiare la sicurezza dell'intera società è, e deve essere, limitato da tutti i governi, dai più liberi come dai più dispotici. L'obbligo di costruire muri divisori per impedire il propagarsi degli incendi è una violazione della libertà naturale, esattamente dello stesso genere delle regolamentazioni dell'attività bancaria che sono qui in discussione [WN: 299]. Smith tende dunque a difendere la sua posizione assimilando tali limitazioni a quelle che servono a evitare agli individui di danneggiare altri individui. Tuttavia questa posizione sconfina facilmente in un'altra, non esattamente coincidente: quello che deve essere impedito di fare a banche e clienti, che pure si sottomettano a contratti volontari (e quindi assumendosi i rischi del caso), è 17 18 Young e Gordon (1996) mettono tuttavia in evidenza come questo argomento "dinamico" a favore della giustizia commutativa non elimini del tutto per Smith la necessità di un genuino concern del legislatore per i problemi della giustizia distributiva, soprattutto quando si tratti di rapporti tra ineguali. Gli spilli di Adam Smith mettere in gioco non tanto la reciproca sicurezza o quella di terzi, quanto quello stock di ricchezze da cui dipende la crescita del benessere della popolazione. Una posizione simile sottende anche il favore con cui Smith guardava alle leggi che limitavano il tasso massimo di interesse al cinque per cento (le cosiddette usury laws). Consentire ai prestatori di denaro di elevare gli interessi al di sopra di quella soglia, che secondo Smith non superava di molto il tasso minimo di mercato (l'odierno prime rate), avrebbe fatto sì che essi potessero finanziare sia i prodighi, pronti a pagare qualunque cifra pur di fare fronte alle loro spese improduttive, sia i cosiddetti projectors, termine con il quale egli identificava coloro che investivano in imprese innovative, promettenti dal punto di vista del profitto, ma eccessivamente rischiose quanto ai risultati. Solo coprendosi adeguatamente di questo rischio con elevati tassi di interesse, le banche avrebbero accettato di erogare il finanziamento. Ma in tal modo, "Gran parte del capitale del paese sarebbe così tolta dalle mani di coloro che con maggiore probabilità potrebbero farne un uso redditizio e vantaggioso, per essere data a quelli che probabilmente la dissiperebbero e la distruggerebbero" [WN: 324]. Insomma, anche in questo caso la libertà di contrattare dei singoli va limitata perché minaccia il capitale sociale di una nazione. Alla luce di queste considerazioni e di questi esempi, si può dire quindi che la distanza tra la filosofia politica di Smith e quella utilitarista debba essere almeno in un punto ridimensionata. A volere leggere onestamente Smith, si deve ammettere che uno degli argomenti con il quale difende le limitazioni della libertà individuale - pur se non molto frequenti - non è semplicemente quello della difesa di una pari libertà degli altri, ma quello della necessaria subordinazione del singolo ai superiori interessi della società, agli interessi della crescita della ricchezza. 3. Società commerciale e mano invisibile: i vantaggi sociali e morali di un'economia di mercato Comunque questa divisione del lavoro non è effetto di un qualche consapevole disegno umano, ma è la conseguenza necessaria di una disposizione naturale affatto peculiare dell'uomo, e cioè la predisposizione a trafficare, barattare, scambiare; e poiché questa inclinazione è caratteristica peculiare dell'uomo, tale è anche la sua conseguenza, la divisione del lavoro fra persone diverse che agiscono in concerto [LJ(A): 442]. La disposizione a scambiare è dunque un fenomeno naturale e primario, cioè connaturato alla specie umana fin dalla sua origine, mentre la divisione del lavoro è un fenomeno derivato. Peraltro, una società in cui la specializzazione delle funzioni abbia raggiunto uno stadio avanzato è evidentemente una società nella quale a tale propensione naturale si è lasciato libero corso: questo invece non è affatto un fenomeno scontato. Solo nell'epoca moderna una società basata sullo scambio, la "società commerciale", si è potuta affermare sulle rovine del sistema Gli spilli di Adam Smith 19 feudale. E solo al futuro è affidato il dispiegamento delle potenzialità ancora latenti in questa organizzazione sociale, quando i residui dell'organizzazione feudale, da un lato, e gli errori del "sistema mercantile" (le politiche protezionistiche degli Stati moderni), dall'altro, saranno completamente superati e ci si avvierà lungo la strada di quel "sistema semplice e ovvio della libertà naturale", nel quale ognuno, "nella misura in cui non viola le leggi della giustizia, è lasciato perfettamente libero di perseguire il suo interesse a modo suo, e di mettere in concorrenza sia la sua attività che il suo capitale con quelli di chiunque altro o di qualsiasi ordine sociale". Di conseguenza, "Il sovrano è completamente dispensato da un compito, nel tentativo di attuare il quale sarà sempre esposto a innumerevoli delusioni, e per la cui giusta attuazione nessuna saggezza o conoscenza umana potrà mai essere sufficiente: il compito di sovrintendere all'attività produttiva dei privati e di indirizzarla verso gli impieghi più confacenti all'interesse della società" [WN: 570-71]. In positivo, al sovrano resteranno allora da svolgere solo tre funzioni: proteggere la società dagli attacchi esterni; proteggere la sicurezza dei cittadini e delle loro proprietà; dare corso a quelle opere pubbliche e a quelle istituzioni pubbliche per le quali il concorso spontaneo dei cittadini non sarebbe sufficiente, anche se vanno a vantaggio di tutti. Se poi ci si domanda su che cosa sia fondata la costanza e l'efficacia di questa naturale propensione a scambiare, ci troviamo di fronte a un complesso di temi della massima importanza per la filosofia sociale di Smith. Viene in prima posizione la forza dei bisogni, che conducono gli esseri umani a richiedere la collaborazione altrui per soddisfare le proprie esigenze basilari. Questa prima esigenza è subito associata alla scoperta che il mezzo più efficace per procurarsi tale collaborazione consiste nel fare appello all'interesse personale dell'altro: L'uomo, che ha continuamente bisogno della collaborazione altrui, deve trovare qualche sistema per procurarsi il loro aiuto. Egli non raggiunge lo scopo solo molcendo o adulando. Egli non si aspetta alcun aiuto, a meno che non riesca a trasformarlo in un vantaggio per l'altro e farlo apparire tale. L'amore puro e semplice non è sufficiente, a meno che non si faccia appello in qualche modo all'amore di sé. Il sistema più semplice per raggiungere questo scopo è la prospettiva di un buon affare. Quando ci si rivolge ad un birraio o ad un macellaio per la birra o il manzo, non gli si spiega che ne abbiamo tanto bisogno, ma piuttosto che sarebbe nel suo interesse permetterci di averli ad un certo prezzo. Non si fa appello alla sua umanità, ma al suo amore di sé [LJ(A): 443]. Smith fa i conti qui con uno dei temi che, se non è certo stato da lui scoperto, ha ricevuto nella sua opera consacrazione e sviluppo: l'idea di una possibile e benefica divergenza tra fini o intenzioni individuali (l'interesse personale) e risultati sociali (il benessere e la soddisfazione dei reciproci bisogni). Certi esiti sociali hanno dunque carattere non intenzionale o involontario, nel senso che non era nelle intenzioni del birraio o del macellaio fare del bene al suo prossimo, ma il risultato del loro agire è stato proprio questo. A ciò si aggiunge una conseguenza ancor più fondamentale di una società basata sullo scambio e sulla divisione del lavoro: essa dà luogo anche a una divisione delle conoscenze, che moltiplica le potenzialità di sviluppo economico, che permette a ciascuno di specializzarsi, ma che ha anche l'effetto di rendere impossibile a una sola persona 20 Gli spilli di Adam Smith di conoscere abbastanza per sostituirsi agli altri nelle decisioni e pianificare i destini della società18. Come si è visto in una precedente citazione, ciò ha conseguenze importanti per il governo, in quanto rende il "sistema di perfetta libertà" l'unico accettabile per una società moderna. Su queste conclusioni si innesta la celebre metafora smithiana della Mano Invisibile che governa le cose umane, quando le istituzioni non si frappongano con "sistemi" errati o favorevoli solo all'egoismo di pochi. Quando [un individuo] preferisce il sostegno dell'attività produttiva del suo paese invece di quella straniera19, egli mira solo alla propria sicurezza e, quando dirige tale attività in modo tale che il suo prodotto sia il massimo possibile, egli mira solo al suo proprio guadagno ed è condotto da una mano invisibile [...] a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni [WN: 391]20. L'analisi dei fattori su cui è fondata la naturale propensione a scambiare degli individui non è tuttavia ancora esaurita. "Se dovessimo analizzare il principio della ragione umana su cui si basa questa inclinazione a trafficare - leggiamo nelle Lezioni di Glasgow -, dovremmo affermare che si tratta chiaramente dell'inclinazione naturale e comune a tutti di persuadere. L'offerta di uno scellino, che ci appare dotata di un significato così evidente e semplice, in realtà costituisce l'offerta di un argomento per convincere qualcuno che agire in questo o quest'altro modo è nel suo interesse. Gli uomini cercano sempre di persuadere gli altri a condividere la loro opinione anche quando la questione non riveste per loro alcuna importanza" [LJ(A): 449]. Come è stato sottolineato [Fiori (1994)], per questa via l'analisi smithiana dei benefici dello scambio si distacca da una banale esaltazione dei meccanismi autoregolatori del mercato, per connettersi a una funzione morale più profonda. Rispondendo ai caratteri più naturali che spingono gli esseri umani a entrare in contatto con i propri simili, il commercio può svolgere una funzione educatrice e civilizzatrice, accrescendo - per riprendere un'espressione di Rosenberg (1990) - lo "stock di capitale morale" di una società. Qui è lo Smith filosofo morale che si rivolge alla società commerciale con un interrogativo di natura propriamente etica: si tratta di un assetto istituzionale che migliora o danneggia la moralità degli individui, è un sistema che viene approvato o disapprovato dallo "spettatore imparziale" che è in noi? 18 Questo, come noto, è il tema sviluppato da Hayek (1949) e ripreso da molti interpreti con riferimento a Smith. Cfr. Loasby (1996): 303-5. 19 Come mi sembra abbia mostrato persuasivamente David Levy (1987), in un saggio le cui conclusioni non sono tutte egualmente condivisibili, Smith fa riferimento qui alla "gerarchia" di impieghi del capitale di cui in WN: 325-38, a seconda della quantità di lavoro che mettono in moto e della diversa profittabilità e rischio dell'investimento. L'investimento nelle attività produttive e nel commercio interno è appunto più sicuro di quello nel commercio estero. 20 È stata ripetutamente attirata l'attenzione sulle differenze tra questo riferimento alla mano invisibile e quello che si trova nelle Theory of Moral Sentiments (pp. 248-49), dove l'accento è messo sugli aspetti distributivi del rapporto tra ricchi e poveri, più che sulle conseguenze dell'investimento e dello scambio. Gli spilli di Adam Smith 21 La risposta di Smith è a questo proposito equilibrata, tutt'altro che apologetica, ma pur sempre positiva. Gli individui infatti, spiega nella Theory of Moral Sentiments (1759), per loro natura sono in grado di mettersi nei panni degli altri, di "sentire" con le loro passioni e i loro desideri, e di giudicare la convenienza (propriety) dei loro comportamenti rispetto ai fini preventivati. È questo il meccanismo conoscitivo che Smith definisce "simpatia". Ben presto però, ciascuno scopre di essere per questa ragione continuamente giudicato dagli altri. Il suo amore di sé interviene a questo punto facendogli desiderare sopra ogni cosa l'approvazione del prossimo, cioè di fare buona figura in ogni suo comportamento socialmente visibile. I vantaggi morali della società commerciale sono da questo punto di vista evidenti. Il "ben figurare", la soddisfazione della naturale vanità, non dipendono dalla pompa, dalla gerarchia, dalla capacità di opprimere gli altri, ma dall'onestà e dalla regolarità del comportamento, dal rispetto degli impegni e delle scadenze, senza i quali manca quella fiducia che è alimento essenziale di un commercio regolare [Hirschman (1979): 75-83; Peyrefitte (1995); Rosenberg (1990): 11-12]. La società commerciale, inoltre, proprio per il prevalere delle attività incentrate sull'acquisizione e l'accumulazione delle ricchezze, fornisce all'ansia di riconoscimento sociale degli individui un metro di valutazione molto vantaggioso: la ricchezza individuale. Questa rappresenta infatti un metro tangibile, oggettivo, misurabile dall'esterno. A differenza di altri parametri immateriali, come il talento, il coraggio o altro, non può dare luogo ad ambigue interpretazioni, a controversie e conflitti. Una gerarchia sociale basata sulla ricchezza, dunque, mentre risponde a un desiderio naturale di successo e distinzione, stimola tuttavia la concorrenza e l'emulazione, cioè forme relativamente pacifiche di competizione, riducendo invece lo spazio del conflitto sociale, della lotta di fazione. Alle passioni violente delle antiche società di ordini si sostituiscono allora le passioni più calme di una società che non è meno inegualitaria, ma le cui posizioni vengono continuamente rimescolate dalla concorrenza [Raffaelli (1996)]. Ma vi sono altre virtù sulle quali l'avvento di relazioni sociali basate sullo scambio ha un effetto benefico. A queste non appartiene quasi certamente la benevolenza, che per Smith (come per l'amico David Hume) resta pur sempre una virtù superiore, anche se di limitata estensione nei rapporti umani. Tuttavia la società può sopravvivere anche senza di essa. Ciò che invece le è assolutamente indispensabile è che prevalga tra la gente il senso di giustizia: se gli individui sono sempre disposti a danneggiarsi reciprocamente, il vincolo sociale si disgrega [Raffaelli (1996): 17]. La questione è allora se la società commerciale accresca o diminuisca il senso di giustizia. La risposta di Smith è incondizionatamente positiva; in questo tipo di società prevale lo stato di diritto e la sicurezza della proprietà e della persona è assicurata meglio che nelle società precommerciali. Nella società feudale, per esempio, il livello e la durata degli affitti pagati dai contadini erano alla mercé del proprietario fondiario, mentre gli stessi mercanti erano oppressi e insicuri. La caduta del "governo feudale" sblocca perciò la possibilità della crescita e della divisione del lavoro [Rosenberg (1990): 6-9]. Inoltre, lo stesso interesse personale ha per Smith diverse conseguenze a seconda del contesto socio-istituzionale in cui opera. Nelle società feudali e di 22 Gli spilli di Adam Smith corte, perseguire il proprio interesse porta alla corruzione, alla falsità e all'adulazione nei confronti dei "grandi", da cui dipendono grazie e favori. Di contro, la società commerciale riduce il ruolo sociale delle classi aristocratiche e accresce quello dei ranghi medi e inferiori. Ciò ha vantaggi rilevanti dal punto di vista morale: Nei ceti intermedi e inferiori, la strada che conduce alla virtù e quella che conduce alla fortuna [...] nella maggior parte dei casi sono fortunatamente quasi la stessa strada. In tutte le professioni inferiori e intermedie, capacità professionali solide e reali, unite a una condotta ferma e temperante, molto raramente possono non riuscire a conseguire il successo [...]. Uomini di ceto inferiore o intermedio, inoltre, non possono essere mai abbastanza grandi da essere al di sopra della legge, che deve in generale incutere loro un qualche rispetto almeno per le più importanti regole della giustizia. Il successo di tali persone, poi, dipende quasi sempre dal favore e dalla buona opinione che i loro simili nutrono nei loro riguardi [...]. Il buon vecchio proverbio, quindi, secondo cui l'onestà è la migliore politica, è in queste situazioni quasi perfettamente vero [TMS: 81]. Per di più, Smith sottolinea l'importanza della concorrenza anche dal punto di vista morale. Essa, infatti, impedisce profitti facili, cioè facili ascese sociali, che sono inerentemente corruttrici, perché privano gli individui di virtù quali prudenza, parsimonia, industriosità [Rosenberg (1990): 15-17]. La comprensione di questa problematica etica con la quale il filosofo scozzese affronta l'analisi della società di mercato è allora di primaria importanza per comprendere che i vari difetti che egli vede in questa organizzazione sociale, così come i numerosi interventi legislativi che propone per porvi limite, non sono affatto contraddittori in linea di principio con la sua concezione della Mano Invisibile, anche se possono esserlo con singole argomentazioni. La società commerciale è infatti sotto l'occhio vigile dello spettatore imparziale, e per essere approvata deve passare simultaneamente diversi test: quello della funzionalità dei comportamenti e dei meccanismi all'obiettivo dello sviluppo, quello della giustizia distributiva, quello della capacità delle istituzioni di mercato di stimolare comportamenti virtuosi. Non sempre, ad esempio, l'interesse delle classi medie porta a comportamenti onesti e ispirati al senso di giustizia. In questo caso, l'amore di sé si trasforma in selfishness, in egoismo puro e semplice. I capitalisti, per esempio, puntano spesso a creare situazioni di monopolio dalle quali trarre profitto a danno dei consumatori. Nei rapporti con i lavoratori, inoltre, essi sono in grado di spuntare vantaggi considerevoli perché riescono ad accordarsi tacitamente tra loro per resistere alle richieste di aumenti salariali. "Si può dunque dire - ha scritto Riccardo Faucci - che il primo grande cantore del capitalismo come sistema sia stato anche uno dei più decisi critici dei capitalisti" [Faucci (1996): 56]. A conclusione di questo paragrafo è opportuno soffermarsi su una delle virtù che Smith più volte annovera tra quelle che vengono rafforzate dall'avvento della società commerciale: la prudenza. Sulla scia di un'approfondita analisi di A. L. Macfie (1967), si sono ricostruite le radici stoiche del ragionamento smithiano sulla prudenza e si è compreso il largo spazio che essa ha non solo nella filosofia morale di Smith, ma anche nelle sue opere economiche. Come fa osservare Tiziano Raffaelli (1996), tuttavia, Macfie, ha in sostanza assimilato il significato Gli spilli di Adam Smith 23 di "prudenza" a quello di "temperanza", sostenendo che essa svolge per Smith la funzione di moderare le passioni individuali, e in particolare di tenere a freno gli istinti egoistici, rendendoli così compatibili con l'ordine sociale. Di recente Vivienne Brown (1994) ha costruito su questa base la drastica conclusione che l'etica stoica di Smith era in radicale opposizione con i valori e le istituzioni più tipiche della nascente società commerciale e industriale. Raffaelli (1996) ha reagito a questa tendenza interpretativa sostenendo che "prudenza" non significa per Smith moderazione, ma piuttosto - come nell'originario significato latino di prudentia - saggia ponderazione dei mezzi in vista di determinati fini. Autocontrollo, frugalità, sacrificio, se associati alla prudenza, non sono mai fine a sé stessi, ma hanno come obiettivo quello di aumentare le possibilità di raggiungere un risultato desiderato. Raffaelli ne conclude che la funzione della prudenza non è quella di moderare gli istinti acquisitivi degli individui, ma anzi di rafforzarli. Da questo punto di vista, si potrebbe andare avanti, l'individuo prudente di Smith non è tanto diverso (se non per la quantità di conoscenze di cui dispone) dall'homo oeconomicus tipico dell'economia neoclassica. Anche questa reinterpretazione del ruolo della prudenza non è tuttavia interamente soddisfacente. Dopo tutto, Vivienne Brown non è stata la prima a mettere in evidenza il nesso tra l'enfasi data da Smith al tema della prudenza e una certa sua preferenza per un ordine sociale che, se accetta la società commerciale come sostanziale passo avanti nella storia della civiltà, guarda con preoccupazione a certe sue tendenze dinamiche che gli appaiono eccessive e potenzialmente distruttive. Riconsideriamo una serie di elementi già evocati nelle pagine che precedono. In primo luogo, dietro il favore con cui Smith guarda alle leggi sull'usura c'è l'avversione per un tipo di imprenditore che, sebbene motivato dal profitto, appare assumere su di sé troppi rischi: il projector. Qui il favore di Smith per l'imprenditore prudente coincide con una preferenza per gli investimenti più "solidi" e per un'accumulazione del capitale basata soprattutto sull'autofinanziamento, cioè sul risparmio e l'accantonamento dei profitti [Pesciarelli (1989)]. Qualcuno si è spinto a collegare questa visione anche con la priorità da Smith accordata all'impiego domestico dei capitali rispetto a quello, più rischioso, nel commercio estero [Levy (1987)]. Non era andato quindi molto lontano dal vero J.J. Spengler, nel sostenere che l'imprenditore smithiano è "una persona cauta e prudente e non esageratemente immaginativa, che si acconcia alle circostanze più che produrne la modificazione" [Spengler (1959): II, 8-9, cit. in Hollander (1976): 233]. Si è visto anche come i limiti posti da Smith all'attività bancaria corrispondano al timore di un'economia fondata essenzialmente sul finanziamento bancario della produzione [West (1997)]. Va osservato come questa posizione si associ a una teoria creditizia particolarmente restrittiva, la cosiddetta "dottrina delle cambiali reali", secondo la quale la cartamoneta emessa dalle banche per finanziare l'economia doveva essere limitata allo sconto delle tratte sulle transazioni commerciali effettivamente negoziate (con l'esclusione cioè delle cosiddette "cambiali fittizie") [Blaug (1985): 54]. Infine, è forse troppo vedere nell'avversione di Smith per le forme troppo rapide di arricchimento un tardo riflesso della classica ostilità verso una mobilità sociale che fosse frutto del 24 Gli spilli di Adam Smith prevalere degli istinti acquisitivi (quella che Aristotele chiamava "crematistica innaturale") e che avesse come conseguenza il rapido rimescolamento delle gerarchie sociali? In sostanza, è vero quanto afferma Raffaelli quando sostiene che la prudenza per Smith non contrasta di per sé con le passioni acquisitive. Ciò però non significa che, alla luce delle caratteristiche che andava assumendo l'economia capitalistica, la prudenza non assuma di fatto i connotati della moderazione. Smith sembra talvolta volere uno sviluppo basato sul commercio, sulla manifattura, sull'accumulazione del capitale, sul profitto, ma senza le caratteristiche attività rischiose e speculative che di un simile sviluppo sono ingredienti necessari: l'atto imprenditoriale innovativo, la creazione bancaria di moneta, l'intermediazione finanziaria speculativa. In un certo senso si può affermare che è stata la "forza delle cose" a imporre al termine prudenza il significato oggi corrente di "avversione al rischio" e che Smith è stato involontario testimone di questa trasformazione semantica. Quella forza delle cose che è rappresentata dal ruolo primario che il rischio ha giocato nello sviluppo capitalistico. 4. Dopo Smith: i teorici dell'innovazione e del progresso tecnico nell'età della rivoluzione industriale Sarebbe troppo lungo elencare gli sviluppi cui dette luogo la teoria smithiana della divisione del lavoro, del progresso tecnico e dell'accumulazione del capitale, fin dagli anni successivi alla pubblicazione della Ricchezza delle nazioni. Può essere tuttavia utile accennare ad alcuni autori che, polemizzando con singoli aspetti della riflessione dello Scozzese, ne misero in evidenza pregi e limiti e aprirono la strada a ulteriori fecondi sviluppi. In ordine di tempo, viene per primo Jeremy Bentham (1748-1832), il quale in un libretto polemico del 1787, intitolato A Defence of Usury [Bentham (1996)], polemizzò con la posizione di Smith su questo delicato problema. Bentham fu anche il primo di una lunga lista di economisti che, per oltre due secoli, hanno criticato Smith per sue presunte incoerenze con i principi del liberismo economico da lui stesso affermati e difesi. La visione quasi romantica e faustiana che Bentham ha degli imprenditori, veri e propri eroi dell'innovazione che con il sacrificio di sé aprono la strada al futuro progresso, serve a misurare la distanza con l'ideale smithiano del prudent man, anticipando quel nesso stretto che oltre un secolo più tardi Schumpeter stabilirà tra attività imprenditoriale e sviluppo economico. Bentham sottolinea inoltre con forza che il progresso tecnico può bensì scaturire da mille rivoli e da differenti motivazioni, ma senza un imprenditore capace di assumere su di sé il rischio di tradurre in innovazioni le Gli spilli di Adam Smith 25 scoperte, in vista dei profitti straordinari che ne attende, non vi sarà effettivo sviluppo. Per questo, infine, egli pensa che chi possiede denaro o è in grado di crearlo, deve avere un ben maggiore spazio di azione. Su una linea di attacco per qualche verso parallela si mossero anche, cinquant'anni dopo Bentham, le critiche a Smith di John Rae (1796-1871). Nei suoi Statements of Some New Principles on the Subject of Political Economy (Boston 1834), Rae sostiene, in esplicita polemica con Smith, la tesi che l'accumulazione del capitale non possa ottenersi attraverso la sola parsimonia dei capitalisti, se non intervengono nuove opportunità di investimento create dall'"invenzione". Rae ritiene che l'accumulazione del capitale, con risorse naturali date e tecniche date, porti alla lunga a profitti decrescenti, fino al punto di scoraggiare l'ulteriore investimento. Perché si creino nuove opportunità di profitto, è necessaria l'introduzione di invenzioni (anche a parità di investimenti) nei processi produttivi. Tuttavia gli investimenti incoraggiati da tali profitti elevati portano di nuovo a rendimenti decrescenti e annullano dunque gli effetti temporanei dell'invenzione. Nuove invenzioni sono a questo punto necessarie per creare nuove opportunità profittevoli. Come quella di Bentham, dunque, la posizione di Rae ha il vantaggio di rivendicare il ruolo decisivo dell'innovazione nello sviluppo capitalistico [Brewer (1991); Ahmad (1996)]. È stata di recente data grande enfasi alla riscoperta di Charles Babbage (17911871), pioniere dell'informatica in quanto inventore del primo calcolatore perfettamente funzionante, nonché autore di un'opera, On the Economy of Machinery and Manufactures (London 1833), che in realtà già Marx conosceva bene e che citò ripetutamente nel Capitale a sostegno delle proprie tesi sull'evoluzione del capitalismo industriale [Rosenberg (1994); Schefold (1996)]. Più che un critico, Babbage dovrebbe essere definito un continuatore dell'analisi smithiana dei vantaggi della divisione del lavoro, analisi che egli sviluppò soprattutto per acquisire informazioni utili alla progettazione della sua "macchina calcolatrice". Potendosi collocare, cinquant'anni dopo Smith, nel pieno della trasformazione industriale dell'Inghilterra e da attento visitatore di complessi industriali quale egli fu, egli poté ovviamente beneficiare di un'esperienza che a Smith era mancata. Nel capitolo 19 della seconda sezione della sua opera, intitolato On the Division of Labour, Babbage sostenne che Smith aveva trascurato un quarto vantaggio della specializzazione: con una divisione del lavoro limitata, infatti, ogni lavoratore esercita una serie di compiti diversi non solo per qualità, ma anche per grado di specializzazione e caratteristiche psicologiche (per esempio chi è assunto per montare orologi svolge di fatto anche funzioni di manovale e di facchino). Il datore di lavoro cioè, ogni volta che assume un lavoratore per fargli svolgere diverse funzioni, compera "pacchetti" di lavoro di tipo diverso. Ma se tra questi ve ne è uno che richiede particolari specializzazioni, il lavoratore dovrà essere pagato in funzione di questo, anche se passa la maggior parte del suo tempo a fare lavori meno qualificati, che potrebbero essere remunerati molto meno. La piena divisione del lavoro, perciò, "spacchetta" le specializzazioni e permette al datore di lavoro di pagare ciascuna di esse al livello minimo di mercato, determinando una notevole 26 Gli spilli di Adam Smith riduzione dei costi. Inoltre, maggiore è la divisione del lavoro, minori sono i costi di addestramento delle singole mansioni e minore è dunque il tempo che passa tra il momento in cui il lavoratore viene assunto dall'impresa e quello in cui svolge funzioni direttamente produttive [Rosenberg (1994): 28-30; Schefold (1996): 28]. Babbage, dunque, collega strettamente i vantaggi della divisione del lavoro a quelli della grande scala di produzione. Questo fu un punto che influenzò molto John Stuart Mill e Marx. Dal ragionamento di Babbage deriva infatti che, per ottimizzare i vantaggi della divisione del lavoro, bisogna lavorare su una scala che occupi pienamente ognuna delle specializzazioni richieste da ciascun processo produttivo. Questa è la dimensione ottima minima21. Per procedere al di là di essa, ovviamente, occorre scegliere un multiplo esatto, per esempio due o tre volte la scala minima. Tra gli ulteriori vantaggi della grande dimensione produttiva, vi è la ripartizione su un volume maggiore di prodotto dei costi cosiddetti indivisibili (impianti, terreni ecc.). Infine, le imprese a larga scala possono permettersi il lusso di sperimentare al loro interno nuove tecnologie, diventando, come più tardi ribadirà Schumpeter, le vere protagoniste dell'innovazione nella fase del capitalismo industriale avanzato [Rosenberg (1994): 41-42]. Un ultimo punto importante della riflessione di Babbage - quello che più da vicino interesserà Marx - è la comprensione del ruolo del progresso tecnologico nel passaggio dalla fase manifatturiera alla grande industria meccanizzata. L'esasperazione della divisione del lavoro all'interno della manifattura porta ciascun operaio a compiere un gesto sempre più semplice, meccanico e ripetitivo (gesto che consiste nell'utilizzo di un utensile semplice, per esempio un cacciavite). L'analisi di questo semplice gesto permette di trasferirlo a una macchina, sostituendo così una serie di braccia animate con un unico meccanismo dotato di bracci meccanici. La macchina, insomma, nasce dalla scomposizione e dalla semplificazione del lavoro umano22 [Rosenberg (1994): 43-44]. Babbage sottolineava l'importanza di una rigorosa pianificazione d'impresa per cogliere i vantaggi della divisione del lavoro, e per questa via può essere considerato uno degli iniziatori della teoria dell'organizzazione aziendale. Su questo piano occorre ricordare il ruolo che giocarono all'epoca i lavori di Bentham e quelli - poco noti fuori d'Italia - di Melchiorre Gioia dedicati alle pene e alle ricompense, considerate non solo quali strumenti in mano al legislatore, ma anche quali meccanismi incentivanti necessari al governo di imprese e amministrazioni. Le loro riflessioni sui differenti tipi di incentivo (monetario, di potere, simbolico), sulle diverse forme di salario (salario elevato collegato con la minaccia di licenziamento, salario a cottimo ecc.), sui modi per assicurare la responsabilità dei subordinati ed evitare la corruzione, possono essere considerate le fonti originarie di una letteratura manageriale specializzata che assumerà, nel 21 22 O "scala efficiente minima". È da notare come questa analisi interessasse a Babbage proprio in vista della costruzione del suo calculating engine. Ogni gesto umano può essere ridotto a un algoritmo semplice. Cfr. Schefold (1996): 27-28. Gli spilli di Adam Smith 27 nostro secolo, dimensioni impressionanti [Guidi (1996); (1997)]. Né va infine dimenticato che Bentham suggerì di applicare il famigerato Panopticon - la struttura architettonica multiuso originariamente da lui progettata come prigione che consentisse ai sorveglianti la piena visibilità dei carcerati e obbligasse questi ultimi a interiorizzare i comandi loro impartiti - al layout delle manifatture: una grande intuizione, del resto ricordata fino ai giorni odierni dai sociologi dell'organizzazione che hanno visto nella fabbrica tayloristica, e ancor più in quella organizzata secondo il modello giapponese, un'applicazione del principio benthamiano della "trasparenza totale". Quello che importa notare è che queste riflessioni si avviano a colmare una delle lacune della teoria smithiana dell'innovazione: solo adeguati incentivi oppure una sorveglianza spinta - possono evitare azioni nascoste da parte dei lavoratori e portare alla luce i vantaggi delle innovazioni da essi stessi introdotte o suggerite per risparmiare la fatica. 28 Gli spilli di Adam Smith Riferimenti bibliografici Ahmad, S. (1996) “Smith's Division of Labor and Rae's Invention: A Study of the Second Dicothomy, with an Evaluation of the First”, History of Political Economy, 28, 3, pp. 441-58. Bentham, J. (1996) Difesa dell'usura, a cura di N. Buccilli e M.E.L. Guidi, Liberilibri, Macerata. Blaug, M. (1985) Economic Theory in Retrospect, Cambridge University Press, Cambridge 4a ed. [tr. it. sulla 2a ed. Storia e critica della teoria economica, Boringhieri, Torino 1977] Brewer, A. 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