Diego Fabbri
1911 – 1980
a cura di
Benedetta Fabbri
Fabbri una vita per il teatro: nota biografica
Diego Fabbri nasce a Forlì, terra romagnola di fiere passioni politiche tra socialismo,
anarchismo e cattolicesimo, il 2 luglio 1911 da una famiglia di modeste condizioni
economiche. I genitori non hanno alcun titolo di studio, sono operai ma leggono
molto: il padre occupato in una officina di pompe idrauliche, legge in funzione dei
problemi politici sempre accesi in Romagna, la madre, cucitrice, per gusto letterario.
Fabbri frequenta l’Università a Bologna, scegliendo, per ovvi motivi economici
l’indirizzo più pratico. Si iscrive alla Facoltà di Legge, ma segue le lezioni di filosofia
di Saitta e i corsi di letteratura di Papini. I suoi interessi vanno ai francesi Pascal,
Blondel Bergson e a tutta quella corrente spiritualista, si appassiona alla polemica
Croce-Gentile legge Petrarca, Leopardi, Baudelaire, Mauriac, Bernanos, rivive, su
documenti inediti e testi introvabili, la stagione tempestosa del cosiddetto
“modernismo” conoscendo personalmente alcuni dei protagonisti di quel movimento
che riscosse in Romagna molto fervore. Ma soprattutto legge di teatro. Per anni i suoi
esempi furono Pirandello e Ibsen, poi Strindberg e Cecov, per lasciarsi coinvolgere
definitivamente nella lezione, umana e artistica di Dostoevskij che gli diventò
congeniale (quasi un padre) come anche Manzoni.
Lo si vede di frequente nei loggioni dei teatri bolognesi che ospitavano le maggiori
compagnie. La sua vocazione teatrale anche se circoscritta e condizionata
dall’ambiente provinciale, fu subito inequivocabile : a 18 anni scrive e rappresenta,
sia pure nelle filodrammatiche locali, la prima commedia I fiori del dolore, poi
Ritorno nel’33, I loro peccati nel ’35 e nello stesso anno Il fanciullo sconosciuto e
Il Nodo che gli procurò i primi guai con la “censura” che da Roma rifiuta al testo il
visto obbligatorio per la rappresentazione considerando il lavoro “pervaso da un
precoce senso di pessimismo volto a deprimere i giovani”.
Il clima intimista di questi primi testi non nega la centralità della spiritualità e la
tendenza dell’uomo a riconoscersi in un viaggio verso la perfezione, con la
consapevolezza, che i personaggi di Fabbri hanno sempre, della relatività e della
fragilità del cammino comunque ristretto, rispetto ad un Assoluto insondabile che si
può solo intuire. Il giovane drammaturgo nonostante le limitazioni imposte dalla
presenza esclusiva, nelle filodrammatiche cattoliche, di personaggi solo maschili, già
rivela un sicuro domino della materia drammaturgica, una straordinaria abilità nel
dialogo e il gioco abile e sapiente dell’uomo di spettacolo che, umile artigiano della
scena (come amava definirsi), andava apprendendo.
Negli anni di questa maturazione la storia lo mise in una posizione di conflitto con la
realtà civile. Rifiutò fin da ragazzo ogni partecipazione alle organizzazioni di
“regime” (non fu mai né “Ballila”, né dei “Guf” e si laureò in camicia bianca anziché
in camicia nera come era d’uso) sicché ogni occupazione scolastica e qualunque altro
impiego che gli potesse derivare da un concorso pubblico gli venne preclusa. Fa
l’assicuratore e tenta di entrare in un’impresa di costruzioni, fino a quando nel ’39
lascia Forlì per Roma chiamato da un lavoro editoriale presso la casa editrice
cattolica Ave, ma soprattutto nella speranza di attuare la propria vocazione di autore
drammatico. Il lavoro a Roma comincia nel cinema, è nominato subito nel ’40
Segretario generale del Centro Cattolico Cinematografico, carica che ricoprirà fino
al ’50.
Da Forlì nella valigia Fabbri porta con sé tre commedie già compiute : Orbite, data a Quirino
nel novembre del’41, Paludi (rifacimento del combattuto Il Nodo) data al Teatro delle Arti nel
’42 e suscitatrice, anche in questa nuova edizione, di polemiche politiche che la fecero
togliere dal cartellone dopo appena dodici repliche e La Libreria del sole, rappresentata
l’anno successivo. Fabbri ottiene i primi successi rivelando come la sua concezione del mondo,
agostinianamente persuasa della fragilità dell’uomo, delle sue debolezze e dei suoi errori, sia
già illuminata dalla certezza della superiore presenza di Cristo, e come ormai il suo universo
teatrale sia saldamente definito e organizzato, ancorato ad una tecnica scenicodrammaturgiaca di sapiente duttilità.
Occorreranno però sette anni prima che si ripresenti sulle scene, anni di intensi
dibattiti, studi e impegni culturali.
Nel 1950 Fabbri, lontano dalle atmosfere ancora rarefatte di impostazione cecoviana
delle prime opere, porta in scena Inquisizione (del ’46), che resta ancora oggi uno
dei suoi drammi più significativi, considerato dai critici un capolavoro per la sua
architettura serrata e compatta, con il quale l’autore vince il “Premio della
Presidenza del Consiglio” assegnatogli da una giuria composta dai più autorevoli
uomini di teatro. Con la libertà ritrovata la vita teatrale si riaccende e Fabbri vi
partecipa molto attivamente.
Rancore (del’48) con Salvo Randone viene
rappresentata lo stesso anno.
Il Seduttore, dell’anno dopo, è varato al “Festival Internazionale di Teatro”
nell’ambito della Biennale di Venezia. Nella storia di un paradossale esperimento
amoroso tra intrighi, passioni e bugie, Fabbri porta in scena l’amore che, colto nelle
sue molteplici manifestazioni, anche carnali e sensuali, ma comunque veicolo
all’altro più vasto Amore che tutto ingloba, mette in crisi i lettori dell’autore
religioso e depista i critici che lo avevano accusato di essere parrocchiale, spiazzando
comunque tutti per la vertigionosa abilità nell’avvalersi dei meccanismi scenici con
trascinante effervescenza.
Del ’53 è Processo di Famiglia, dramma tutto consumato tra le pareti domestiche in
cui, come in una tragedia moderna, Fabbri affronta il problema dell’adozione con tre
coppie di sposi che si contendono il piccolo Abele.
Il ’55 è l’anno di Processo a Gesù, portato in scena per volontà di Paolo Grassi nel
celebre Piccolo Teatro di Milano con la regia di Orazio Costa. Il dramma in cui, con
un meccanismo processuale anche formalmente corretto, un gruppo di ebrei propone
al pubblico di ripercorrere l’itinerario di condanna di Cristo, considerato il
capolavoro di Fabbri, in pochi mesi inizia una tournée durata anni in giro per il
mondo : Francia, Germania, Austria, Spagna, Portogallo, Turchia, Olanda,
Inghilterra, Svezia, Stati Uniti fino ad arrivare in Giappone e in Australia.
La Bugiarda del ’56 si pone sul terreno del Seduttore, suscitando aspre polemiche
per il tono pungente che Fabbri dedica ad un certo “sottobosco vaticano” pomposo
ormai soltanto della sua colorata coreografia nobiliare. La commedia di Isabella, con
quel suo carattere comico e talvolta irriverente che sembrava smentire qualsiasi
liasion con il resto della produzione, conferma da subito l’impossibilità a costringere
la drammaturgia del commediografo sotto un unico comune denominatore. Fabbri
spazia nei più vari campi e obbedisce ai più disparati motivi ispiratori, praticando i
generi più diversi sempre fedele ad un teatro di rottura o quanto meno
dell’inquietudine sommersa e sommessa, taciuta, ma insopprimibile.
Nel ’56 con Veglia d’armi si ritorna ai temi impegnati affrontando i rapporti tra
cattolicesimo e paesi dell’Est che riprenderà in Ritratto d’Ignoto del ’62 dove
inscena i rapporti tra laicato, Azione cattolica e Chiesa con un testo di grande
attualità politica e di estremo interesse per l’anticipazione preveggente di problemi
che saranno dibattuti dalla chiesa conciliare e post-conciliare. Profetico e
anticipatore dei tempi, sismografo della realtà, Fabbri già lo era stato con Processo a
Gesù dove aveva annunciato, nell’immediato dopoguerra, ancora vivo il dramma
dell’Olocausto, l’importanza per la Chiesa cattolica dell’apertura agli ebrei.
La stagione ’55-56 è anche quella in cui l’autore si impone all’estero a cominciare da
Parigi, dove trascorre buona parte dell’anno e rappresenta Inquisition, Le
Seducteur, Process de Famillle, Process de Jesus, La Coquine. Renato Simoni e
Silvio D’Amico l’avevano segnalato come nuova forza del nostro teatro, ora Robert
Kemp su “Le Monde”, J.J Gautier su “Le Figaro”, Lemarchand su “Figaro Letteraire”
lo presentano come un nuovo nome del teatro europeo. Fabbri è ormai consapevole
del suo ruolo di autore drammatico e di scrittore impegnato.
Nella sua opera si sommano il desiderio di rinnovamento del teatro italiano del
dopoguerra e motivi civili e morali: ricerca della verità prima che della bellezza e
quindi priorità della funzione etica del teatro rispetto a quella estetica. Fabbri
ripone la sua fiducia nella forza seduttiva della parola che consente alla sua innata
teatralità di rendere palpitante ed emotivamente coinvolgente il suo teatro.
Aderendo allo schema processuale, che i suoi testi contengono anche quando non lo
ricalcano formalmente, Fabbri opta per un teatro collettivo, comunitario in questo
senso liturgico, dove il palcoscenico si fa luogo di un’interrogazione collettiva che
restituisce al teatro la sua natura assembleare in cui la riunione di spettatori e attori
impegnati in una ricerca comune ripristina l’antica ecclesia dei cristiani. Le inchieste
fabbriane lasciano spesso il posto, nell’attesa di un miracolo che è sempre
individuale e che rimanda oltre la sala, alla preghiera corale in cui si svela la radice
prima di un processo la cui vera finalità è, dietro l’indagine sulla verità, la seduzione
alla Verità : Dio, nell’infinita gamma delle ripulse e dei consensi. Sempre di lui parla
Fabbri, del Dio cristiano: Cristo sola risposta alle ansie dell’uomo, risposta storica ed
eterna al tempo stesso, perché data all’uomo dal Figlio dell’uomo. La drammaturgia
di Fabbri è percorsa allora dall’inquietante interrogativo “perché la storia non si è
fatta ancora cristiana ?”. Fabbri scruta gli animi, scuote gli spiriti assopiti, ridestando
il dubbio, un interrogativo che interrompe lo stallo del quieto vivere, che risuona nel
vuoto della solitudine dove il soffrire dell’uomo nasce dal silenzio del Cielo. Il motivo
religioso non è mai dato primo e finale della sua ispirazione, ma un quadro di
riferimento in cui si muove la coscienza in un’ansia costante di liberazione. Come fa
notare Dante Cappelletti la fede, sentita negli aspetti di discussione, fa ravvisare il
bisogno di verifica di ogni dato della conoscenza.
Teatro che grida la propria scontentezza per una vita mediocre senza amore e teatro
al tempo stesso del disperato bisogno della speranza nella forza dell’amore. Speranza
nella preghiera di un avvenire migliore e scontentezza che a volte porta alla rivolta
per un presente sempre più disamorato dell’uomo. Il teatro di Fabbri si sostanzia
nell’utopia dell’amore universale, che spesso in lui si evolve dalla sua articolazione
nel privato alla sua necessità nel sociale : amore come garanzia di un evento
trasformativo che investe l’uomo a tutti i livelli.
Fabbri coglie spesso i suoi personaggi in rivolta come nel caso di Edmondo de
Cavanis, Lo Scoiattolo del ’61 ribelle alle regole che circoscrivono il mistero
sottoponendolo alle sterili leggi della ragione e imbrigliano il libero dispiegarsi della
fantasia, garanzia di fede, che per l’autore appartiene sempre alle ragioni del cuore.
Attratto dal significato profetico di Dostoevskji Fabbri prima nel ‘ 59 con I Demoni, poi nel ’60
con Processo Karamazov, di cui riprone La leggenda del ritorno nel ’64 come libretto
d’opera per Renzo Rossellini, fa del grande maestro russo una presenza costante. Del ’59
anche Figli d’arte, dove la tematica è invece prevalentemente di ordine poetico e strutturale
e la tecnica del “teatro nel teatro” serve a dibattere il rapporto tra la realtà e la finzione
scenica ad affermare il valore moralmente esemplare dell’azione teatrale, della scena come
forma di illuminazione, di autovisione dell’esistenza che prende coscienza di sé. I
procedimenti metatetali e della recita a soggetto già usati in Processo a Gesù e in Figli d’arte,
dove il problema tanto dibattuto dei rapporti con Pirandello mette in luce non solo la
vicinanza di Fabbri, ma anche il superamento e il rovesciamento antifrastico operato sulle
innegabili ascendenze pirandelliane, tornano nel Confidente del ’64 in cui Fabbri espone la
sua teoria dell’attore, di cui, come ogni teorico del ‘900, ha fatto il fulcro della sua
rivoluzione. All’attore che attraverso l’interpretazione del personaggio invera se stesso come
Persona, Fabbri dedica splendide pagine : dal Confidente Al Dio Ignoto ultimo dramma
dell’80.
Nel ’67 la Compagnia stabile di Genova porta in scena L’Avvenimento, che
provocando aspre polemiche con quella banda di violenti che, chiusi in uno
scantinato dopo il “grosso colpo” sacrilego in una chiesa, in attesa del Capo che non
torna, diventano il corrispettivo dei discepoli nei giorni che seguirono la morte di
Gesù : paure, debolezze, timori di un’umanità incapace di capovolgere il mondo (la
rivoluzione) perché privata del coraggio della fede. Un testo di denuncia con cui
Fabbri rivendica polemicamente l’attualità di un cristianesimo attivo, combattivo.
Nel ’70 nasce il fecondo sodalizio con Davide Lajolo che dà inizio ad un’amicizia schietta e ad
un’opera di grande rilievo come fu Il vizio assurdo, sulla vita di Cesare Pavese. A cui si può
avvicinare Il Commdione di Giuseppe Gioacchino Belli, poeta e impiegato pontificio,
entrambe straordinarie parabole di grande forza drammaturgica attraverso cui Fabbri
ripercorre, in una duplice autobiografia che ha la forma della biografia (Belli e Pavese), il
senso della sua stessa vocazione alla scrittura, di una vita di cui aveva fatto “il mestiere di
scrivere”.
Tra i testi degli anni’70 Non è per scherzo che ti ho amato e Area fabbricabile che insieme
a Lascio alle mie donne del ‘69 Fabbri riunisce sotto il titolo “Tre commedie d’amore”.
Nel ’77 il nome di Fabbri si lega al Premio Feltrinelli assegnatogli dall’Accademia dei Lincei per
il teatro e nel ’79 torna sulle scene italiane ancora con una novità L’hai mai vista in scena.
Postuma è la messa in scena di Incontro al parco delle Terme a cui Fabbri aveva lavorato tra
il ’75 e il ’78, un testo a metà strada tra processo alla Chiesa di Veglia d’armi e il cristianesimo
rivoluzionario dei padri gesuiti degli anni ’50 e l’eversione rivoluzionaria dei cristiani “violenti”
de L’Avvenimento pronti a prendere le armi per testimoniare la fede ritrovata. Al Dio Ignoto
andato in scena con la regia di Orazio Costa nel luglio dell’80, e rappresenta il testamento
spirituale oltre che teatrale dell’autore ad un mese dalla morte, la sublime riaffermazione di
sé, di una vita che acquista valore alla luce della parola recitata.
Fabbri operatore culturale
Fabbri saggista, scrittore occasionale, collaboratore di riviste e testate nazionali:
uomo di cultura.
Non è più possibile circoscrivere il discorso su Diego Fabbri ai temi e alle strutture
del suo teatro, dopo vent’anni dalla sua morte è necessario allargarlo all’intensa
attività che ha accompagnato l’opera del drammaturgo, individuare le linee direttive
di questo impegno che inizia, Fabbri appena ventenne, nella città di Forlì dove scrive
sulla rivista “Il Momento” firmandosi con lo pseudonimo Pagi.
Da allora confrontarsi con le problematiche più urgenti della società è stata per
Fabbri un’esigenza imprescindibile, persuaso che la cultura fosse la manifestazione
consapevole di tutti gli aspetti vitali, creativi di una società in cui deve fungere da
principio guida, Fabbri, non ancora crollato il regime fascista, rifiuta qualsiasi forma
di libertà libera, astratta ed emblematica, e domanda che la libertà si trasformi in
un’autentica realtà morale, in una libertà finalmente impegnata. Ossessionato dalle
conseguenza prodotte dal caso Croce, convinto che abbia prodotto un grande
equivoco morale per la letteratura italiana, Fabbri rifiuta da subito il disimpegno
letterario. L’aver stabilito che “all’arte sarebbe riservato un campo diverso da
quello della ricerca, della scoperta e della rivelazione di ciò che è vero - cioè la
verità - per credere a quel che sembra essere vero (...) ha inaugurato la noia, ha ed è ben peggio - relegato l’arte ai margini delle cose importanti, l’ha fatta
considerare sempre più come un gioco”. Autore del “vero”, che in tetro rifiuta
qualsiasi forma di psicologismo intimistico, Fabbri tenta un rinnovamento dell’arte su
un piano più alto in cui attraverso la rappresentazione della realtà si approdi alla
verità.
Gli anni Quaranta, tra la caduta del regime e quel periodo di tormentosa transizione
che porta poi ai fervidi anni della ricostruzione, vedono Fabbri attivissimo. Sono gli
anni dei suoi interventi su “La Fiera Letteraria” con cui comincia a collaborare
prima ancora di diventarne condirettore, nel 1949 con Vincenzo Cardarelli,
assumendone poi la direzione che terrà fino al 1968. Gli anni dei suoi primi saggi
letterari, con particolare attenzione alla letteratura teatrale (La drammatica di Ugo
Betti, Teatro di Cesare Ludovici, Il teatro di Rosso di San Secondo, il Teatro di Sergio
Pugliese, Da Brecht a Pirandello, A casa di Claudel, Ricordo di Aldo de Benedetti) e
ai problemi di un teatro che deve rinascere dalle macerie della guerra, (Teatro come
confessione pubblica, Vocazione al dramma, Per un tetro del miracolo, Verso una
nuova sacra rappresentazione), di cui continuerà ad occuparsi, non solo come
drammaturgo, dalle pagine della storica rivista “Il Dramma” (Il teatro è un servizio
pubblico, Il Risorgimento teatrale, Teatro per il teatro, Il vizio assurdo dei teatri
stabili). Ma soprattutto gli anni in cui pubblica, alla spicciolata, gli articoli che
andranno a costituire Ambiguità cristiana, raccolta di saggi, edita nell’54
dall’editore Capelli, riedita nel ’94 da Studium.
Vero e proprio vademecum per comprendere la problematica estetica del teatro di
Fabbri Ambiguità cristiana testimonia la ricerca delle proprie ragioni teatrali ed
etiche e ricostruisce il tipo di dialogo culturale attraverso cui Fabbri arriva ad una
matura presa di coscienza del proprio ruolo di intellettuale. C’è tutto il suo
retroterra : le origini e gli anni della formazione, i maestri d’oltre alpe. Fabbri legge
Gide e Claudel, Peguy, Maritain, Mauriac, Blondel, Bernanos, Marcel. Legge
soprattutto “Esprit”, quando durante l’autarchia culturale accostarsi alla rivista in
cui Mounier e
Domenach
dibattevano di socializzazione del capitale,
evangelizzazione del mondo operaio, rapporti tra laici e gerarchie cattoliche,
significava esporsi apertamente al rischio.
I saggi di questi anni (L’ambiguità male del secolo, Agire senza credere, Difficoltà
dell’impegno, La paura di vivere, Render conto, Insufficienza della buona fede,
Necessità delle intenzioni) rivelano uno scenario culturale non restrittivamente
nazionale, ma europeo, in cui Fabbri va inserito a pieno diritto, liberandolo dai limiti
confessionali e angusti di una certa cultura cattolica italiana, a cui è stato avvicinato
sottovalutando quale ampio respiro abbiano invece gli interrogativi e le risposte che
il suo teatro cerca.
Nella pubblicistica di Fabbri Cristo tradito è un saggio fondamentale per
comprendere le radici dell’inquieto cristianesimo di Processo a Gesù, la genesi di un
teatro di rottura che ha fatto dell’inquietudine la ragione del suo stesso dibattere.
Nato come una pubblica e coraggiosa conferenza programmatica, che il giovane
Fabbri tiene nell’aprile del ’44, in una Roma, “città aperta” in piena guerra, Cristo
tradito contiene tutto il suo teatro futuro. Perché come intellettuale Fabbri ha fatto
di ogni mezzo di spettacolo e di comunicazione uno strumento per poter
comunicativamente partecipare ad altri quelle idee e quei messaggi, quelle profezie
e generose utopie che ha saputo drammatizzare con straordinaria forza visiva.
Fabbri definisce e sostanzia la sua idea di impegno culturale in un’Italia, appena
uscita dalla guerra, che sembra voler abbattere le barriere più evidentemente
ideologiche per unire in un dibattito e in un confronto costruttivo le varie voci della
cultura.
Lo scrittore engagé, resterà fedele a questo ruolo di intellettuale anche negli anni in
cui è d’obbligo schierarsi e, per chi come lui ha sempre cercato il dialogo e l’incontro
nella pluralità delle voci, vive il dramma dell’intellettuale che cerca una modalità
per impegnarsi politicamente restando “libero”. Negli anni ’60 ripensando a quel
periodo continua a dichiarare in un intervento pubblico che resta un'appassionata
dichiarazione d’intenti :
‘Ho sostenuto, e non da oggi, e con tenacia, per quanto riguarda la cultura, e
dunque anche il teatro, l’idea che si potrebbe chiamare dell’orticello riservato. Mi
sono sempre illuso - e ho cercato, con nessun successo, di illudere anche gli altri che in un mondo come il nostro, aperto alle intemperie sempre più invadenti della
politica, gli uomini di cultura avrebbero dovuto con ogni mezzo e a prezzo di
qualche momentaneo, personale sacrificio, riservarsi, custodirsi un loro orticello in
cui dibattere da padroni e in cui risolvere con quell’autentica apertura e soprattutto
con quel profondo riconoscimento dei valori personali - da qualunque parte essi
provengano e di qualunque colore si tingano - che dovrebbe essere l’abito di ogni
uomo di cultura, i loro problemi, i fatti loro. Ciò non voleva dire che la cultura
dovesse essere disimpegnata e tanto meno che lo dovessero essere i singoli uomini;
voleva semplicemente dire che in tutti, i superiori e più vasti e, vorrei dire, più
durevoli interessi della cultura, si sarebbe dovuta affermare la realtà di una sola
cultura autonoma capace di riconoscere e consacrare, nel suo interno, la
molteplicità dei suoi valori. E imporli, poi, conseguentemente agli altri, cioè al
pubblico, dunque, in un certo senso, anche ai politici. Speravo che il libero gioco
delle voci culturalmente più qualificate potesse poi influire liberamente sui gusti e
le idee della società, e non accadesse, invece, il contrario.
Tutti gli articoli che periodicamente pubblica su “La Fiera Letteraria” sono un
intensa, accorata interrogazione sulle possibilità della “letteratura”.
Titoli troppo presto dimenticati da una critica da troppo tempo ferma ad una visione
di parte. Illuminanti per tornare alla vivacità di un certo dibattito culturale che ha
caratterizzato la storia della cultura italiana del dopoguerra. Come molti intellettuali
degli anni ’50 anche Fabbri nei suoi articoli dibatte sul senso della responsabilità
dello scrittore e sul valore politico dell’impegno, per chi decide di scegliere l’azione
meta-politica, azione politica indiretta, del teatro e dell’arte tout court. (Strada
difficile per la Letteratura, Moralistica senza morale, Libertà libera libertà
impegnata, Consolazione della poesia, Processo alla Letteratura, Scrittori e società,
Politica e cultura, L’utopia come salvezza).
Fabbri, che fa della cultura la coscienza della politica, perché “non c’è possibilità di
fare vera politica senza tenere conto della cultura” vuole offrire all’uomo una
conoscenza che lo motivi nella Storia, colto nel suo eterno dibattersi tra cielo e
terra, Fabbri lo pone al centro di quell’insondabile mistero, che lo avvolge, lo
angustia, lo prostra talvolta fino agli estremi della sopravvivenza, per offrirgli una
speranza che gli consenta di uscire dalla disperazione. L’utopia realistica del suo
cristianesimo è la vera sostanza dell’infaticabile impegno, che negli anni ’60 e poi
sempre più intensamente negli anni ’70, lo vede tra le principali firme su “Paese
sera”, su “Il Messaggero”, su “Il Tempo”, su “Il Popolo” e “Il Resto del Carlino”.
Il cristianesimo diventa la chiave di lettura attraverso cui compiere una diagnosi cristiana dei
tempi. La sua riflessione muove sempre da una precisa realtà storica, dai bisogni e dalle
aspirazioni presenti, che di volta in volta sono stati il desiderio di pace, di giustizia, la ricerca
del dialogo tra Est e Ovest,(La fede dei padri) tra mondo cattolico e mondo comunista (Perché
i figli dei liberali diventano comunisti, E’ ancora possibile il dialogo con i comunisti ?, Un
sequestro giudizioso, Il momento di impegnarsi, Liberare la cultura per garantire la libertà ,
democrazia in esilio, Dc : il sostantivo e l’attributo) il bisogno di sciogliere i nodi di
un’esistenza esposta costantemente al dubbio (Il quarto astronauta, il quinto punto cardinale)
al dolore, alla sofferenza, alla violenza. Ancora di grande interesse la sua lettura cristiana del
terrorismo sulla scorta di Dostoevskij e della sua idea del male (Dostoevskij nostro fratello, La
leggenda del ritorno, Un urrà per Karamazov, Dostoevskij e Garibaldi, L’impazienza di
Alioscia, Le profezie di Dostoevskij) e dopo il Concilio Vaticano II la critica all’opera di un
aggiornamento che spesso si fa tradimento, nella spasmodica attenzione alle esigenze della
modernità, spingendosi fino all’abiura di quell’unica certezza, la Resurrezione, su cui per
Fabbri si fonda la fede cristiana (Dio si è nascosto, La mia Resurrezione, Lo scandalo della
Resurrezione, Oltre la vita, Il momento del Regno).
Fabbri giornalista e scrittore con i suoi molteplici interventi pubblici fuori dallo schermo della
finzione drammaturgica, conferma il ruolo di sismografo della società, che senza mai temere
di esporsi in prima persona, affronta tematiche scottanti, le stesse che pulsano sotterranee nel
suo teatro. Perché le molteplici anime di questo intellettuale versatile hanno sempre
convissuto in una sola “identità” spesso influenzandosi a vicenda.
Rileggere questa produzione (più di trecento articoli, saggi, interventi occasionali, interviste)
consente quindi alla critica di restituire Fabbri in una veste nuova, lontano da una lettura
viziata da eccessivi pregiudizi teologici, incapace di cogliere come l’autore in tanto dibattere
delle tensioni del mondo cristiano e della Chiesa, sempre oggetto di una critica feroce, abbia
affrontato le lacerazioni della società tout court, rivelando una straordinaria modernità nella
costante percezione, nella esplorazione e messa a nudo delle sofferenze dell’intero corpo
sociale.
Fabbri e il pubblico
Fabbri drammaturgo, ma anche Fabbri che affronta i problemi di fondo della scena e
della drammaturgia italiane. Durante tutta la sua attività di autore, a vari livelli
della sua riflessione, Fabbri ha affrontato i problemi del teatro e del teatro italiano,
in veste di studioso e teorico, ma soprattutto come i maggiori pensatori del ‘900, da
attivo operatore ed organizzatore, senza perdere di vista che il teatro per farsi deve
incontrare il pubblico, dovendo assolvere ad una “necessità” consustanziale che è
quella di parlare “a molti delle cose di tutti”, strumento di elevazione spirituale e di
crescita civile, ma soprattutto “evento che si compie insieme”.
Teatro assembleare, comunitario, liturgico, in questo senso religioso, senza più
distinzioni tra la sala e il palco, tra l’autore e gli attori da una parte e il pubblico
dall’altra, per Fabbri il teatro è sempre stato problema d’arte e di organizzazione.
L’attività per la realizzazione di questa sua ‘arte necessaria’ lo ha accompagnato
lungo il percorso di tutta la vita, obbligandolo in molte circostanze, a non sottrarsi
all’impegno concreto, a militare attivamente per la vita del teatro perché, come non
si stancava mai di ripetere : “il teatro perde concretezza tutte le volte che perde
contatto con lo strato sociale che lo giustifica” . La grande responsabilità che sta
dietro la “parola recitata” nasce dalla sincera persuasione che l’autore ha di poter
interagire, come scrittore, con la società che lo circonda. Proprio perché il teatro
appartiene alla fase attiva, espansiva eroica della vita dell’uomo, fiduciosa sempre in
qualcosa di nuovo, Fabbri fa del teatro un luogo di dibattito, in cui mostrando la
realtà come essa è, persuadere l’uomo a ciò che dovrebbe essere.
Teatro della speranza, che si tenne sempre lontano da un certo teatro della disfatta
e del disfacimento, prima che da un'esperienza poetica il teatro di Fabbri ha origine
“da una preoccupazione e da un impegno civile” e ciò perché “Il teatro assolve la
sua funzione di servizio di pubblica utilità, di servizio culturale di attività pubblica
se la sua proposta è una proposta di autentica poesia, è una proposta di pensiero
civico e interiore che consista in qualche cosa che può fare progredire l’uomo”.
Teatro come esigenza pubblica e come elevazione popolare, sono i binari lungo cui
scorre la riflessione di Fabbri. Dal lontano 1943 quando firma insieme a Orazio
Costa, Gerardo Guerrieri, Vito Pandolfi, Tullio Pinelli il Manifesto per un teatro del
popolo, dove i firmatari si ponevano problemi come “prezzi” e “uniformità dei
posti” o ancora negli anni ‘50 quando firma insieme a De Filippo, Costa, Gassman,
Grassi e Strelher un progetto di Legge per il Teatro, Fabbri dimostra come occuparsi
di un teatro che sia parte attiva della civiltà culturale del paese significa anche,
necessariamente, occuparsi del problema del “come” e quindi del pubblico, della
destinazione dei testi che scrive, del problema del proprio uditorio su cui vuole
lasciare un segno e da cui, per questo, non poté mai prescindere.
E’ proprio in questa prospettiva che nelle stagioni ‘60- ’61 e ‘62-’63 assume la
direzione del Teatro della Cometa ritagliandosi un proprio palcoscenico, dove vivere
con gli attori le ore di preparazione e di prove e proporre un repertorio coerente alle
sue più profonde convinzioni. Fabbri che accetta la responsabilità di un idea di teatro
di cui assume anche i rischi della produzione fa della Cometa un’occasione per
sperimentare, per applicare finalmente una politica dei prezzi e degli orari che
consentisse a “tutti” di avere l’opportunità di andare a teatro. Un esperimento che
ebbe poca vita ma in cui seppe dimostrare l’importanza di avere un assunto estetico
ed operativo. Una sfida oggi piuttosto ovvia, ma che si collocava in un panorama
teatrale in cui il teatro privato aveva ben pochi precedenti.
L’esperienza della Cometa, dove si rappresentavano e si leggevano autori nuovi, e
registi del prestigio di Sequi e Costa si impegnavano su testi di giovani drammaturghi,
rappresentò per Fabbri l’occasione di portare avanti la propria battaglia in favore
dell’autore italiano che, dopo avere fondato nel ‘43 il Sindacato Nazionale degli
Autori Drammatici continuò a sostenere anche con progetti di legge, membro del
consiglio d’Amministrazione della SIAE, poi nel 1974 presidente della CISAC (Società
Internazionale degli Autori).
Il teatro di Fabbri è sempre stato teatro d’autore, di un pensiero che legge e
interpreta il mondo. Gli altri, l’attore, il regista lo incarnano e lo organizzano, lo
esprimono, anch’essi per un attimo pubblico, lo mediano, realizzando quell’incontro
tra realtà e rappresentazione, tra sala e palcoscenico che è il fulcro di tutte le
rivoluzioni teatrali del ‘900.
Gli anni ’60 sono anche il momento dei Teatri stabili che Fabbri, persuaso che il
teatro debba essere un servizio pubblico appoggia, schierandosi dalla loro parte al
momento della nascita, per poi restarne profondamente deluso, quando quel sistema
marcherà momenti di stanchezza e di personalismo artistico.
Gli anni ’70 lo vedono, fino alla sua morte, strenuamente impegnato in questa
battaglia, (che continua a sostenere sul piano teorico con la direzione de “Il
Dramma”), come Presidente dell’Eti, (carica assunta nell’68) dove cercò di seguire il
pensiero politico ed organizzativo che lo aveva sempre contraddistinto in favore di un
teatro “popolare”.
In questi anni, ormai affermato e autore di successo, Fabbri non rinuncia al suo
impegno per lo sviluppo e la continua crescita del teatro, e come rappresentante di
un ente pubblico si pone quale obiettivo quello di portare il teatro dove ancora non
c’è, entusiasta ogni volta che qualcosa sembrava dare nuova linfa al teatro italiano.
La presidenza dell’Eti lo ha visto infatti sempre schierato, in alcuni casi con posizioni
pionieristiche, a favore del nuovo e dei “giovani”. L’istituzione di un “circuito” per il
Teatro di Ricerca che in quegli anni andava assumendo una sua prima fisionomia, il
famoso “Circuito della Speranza”, una delle sue prime iniziative, inaugura un assiduo
a appassionato lavoro decennale in cui Fabbri, si schiera in prima fila, trepidante,
come fu ogni volta in cui le sorti del Teatro Nazionale sembrarono essere basate sul
dialogo, l’apertura, la collaborazione, l’incontro dialettico tra le voci più diverse.
Il progetto di un grande Teatro Nazionale lo accompagnerà fino alla fine attraverso la
promozione di una vita teatrale stabilizzata e duratura che il drammaturgo ha
sempre creduto possibile in una drammaturgia che facesse del legame con la
“contemporaneità” il proprio punto di forza. Perché nel teatro, per Fabbri, questa è
la vera soluzione in grado di rendere durevole ciò che si propone dal palcoscenico,
indipendentemente dalle più diverse forme di drammaturgia, individuali o collettive
non ha importanza, purché espressione dell’intera comunità.
E’ con la convinzione dell’utilità dei mezzi di comunicazione come “ponti” per
raggiungere il pubblico che Fabbri prima collabora per la radio, per la quale scrive
testi originali (Ricordo del 1940 Il Prato radiofavola del ’41, Contemplazione del
’49, Trasmissione interrotta del ’51) e adattamenti drammatici, poi saluta la
nascita della televisione, con la quale collaborerà costantemente. La sua adesione al
mondo televisivo è profonda : finalmente può raggiungere una moltitudine, entrare
nelle case , essere dentro la vita del suo pubblico, orientandone il gusto. Le sue
riduzioni televisive vogliono rendere accessibili opere complesse grandi romanzi e
classici della letteratura : la televisione come tramite testimoniale a continui eventi
narrativi. Fabbri racconta televisivamente quanto altri hanno raccontato sulla pagina
scritta. Pirandello e Mauriac, Simenon con le grandi Inchieste del commisario
Maigret, il Silone de Il segreto di Luca, Graham Greene e La fine dell’avventura e
l’amato Dostoevskji prima con I fratelli Karamazov poi con I Demoni. Si aggiungono
i teledrammai originali il suo Qualcuno tra voi e gli altri scritti a quattro mani Un
attimo meno ancora, Processo ad un atto di valore, Di fronte alla legge, La notte
della speranza, Tommaso D’Aquino, Un certo Marconi. Autore quindi ancora
decisamente popolare nel significato migliore della parola, non a caso una delle
infiniti occasioni di collaborazione con la televisione fu appunto nel “Ciclo del teatro
popolare”.
Anche le sue primissime esperienze cinematografiche per la Costellazione Film
durante gli anni del neorealismo in cui contribuisce alla rinascita del cinema
italiano, lo vedono in prima linea schierato ogni qual volta la “nuova tecnologia” gli
consente di raggiungere un altro pubblico. Fabbri, che dimostra di conoscere le
potenzialità e le diversità del mezzo cinematografico, gli ha dedicato una specifica
produzione. Non solo è soggettista e sceneggiatore, ma molti dei film per cui ha
lavorato sono stati da lui fortemente voluti, come direttore del Centro
Cinematografico Cattolico prima, come direttore artistico all’Universal poi La sua
attività comincia con Roma ancora occupata con il film La porta del cielo regia
Vittorio De Sica. Da questo momento in poi l’elenco è lungo : Il testimone di Pietro
Germi, Guerra alla guerra di Romolo Morcellini, Un giorno nella vita e Fabiola
regia di Alessandro Blasetti, Daniele Cortis di Mario Soldati, Il mondo la condanna
di Gianni Franciolini I vinti di Michelangelo Antonioni, Il generale della Rovere, Era
notte a Roma, Viva l’Italia, Vanina Vanini di Rossellini, La diga sul pacifico regia
di Rene Clement, E’ più facile che un cammello e Processo alla città regia di Luigi
Zampa, Barabba di Richard Fleischer L’ape regina di Marco Ferreri, Il viaggio di De
Sica e altri titoli ancora sufficienti per valutare l’impegno e il contributo di Fabbri
alla cultura italiana ben oltre il palcoscenico.
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