Domenica
La
di
DOMENICA 23 OTTOBRE 2005
Repubblica
il reportage
Il culto sfregiato del Raìs
BERNARDO VALLI
l’inchiesta
Nella Mosca malata dei nuovi ricchi
SANDRO VIOLA
VIRUS
FOTO MATTHIAS KULKA/CORBIS
Repubblica Nazionale 31 23/10/2005
In Cina c’è una regione da dove sono partite
le più grandi epidemie della storia,
in Russia c’è un laboratorio che custodisce
i germi più pericolosi. Siamo andati a visitarli
per raccontare la nuova paura: la febbre aviaria
FEDERICO RAMPINI
I
cultura
GIAMPAOLO VISETTI
GUANGZHOU
l vassoio in mezzo a noi trabocca di pezzi di pollo con la pelle gialla spessa e grassa. Testa zampe viscere non si butta
niente. Per il caldo umido soffocante che ancora a ottobre
opprime questa regione, nonostante il ventilatore in pochi
minuti il pollo brulica di mosche. Impossibile sottrarsi al banchetto, dopo il privilegio che mi è stato concesso di penetrare in questo
luogo. Al padrone di casa gli occhi luccicano golosi mentre afferra
cosce, ali e zampe con le sue manone unte e mi riempie il piatto per
cortesia. Mastica rumorosamente, sputa ossicini in mezzo al tavolo e intanto descrive la sua ricetta favorita: questo pollo è lesso ma
prima di addentarlo ogni pezzo deve essere affogato a lungo nella
scodella comune di olio denso allo zenzero che sta in mezzo al tavolo. «La febbre aviaria non spaventa i miei consumatori — biascica tra un morso e l’altro —. Neppure i clienti di Hong Kong che sono i più schizzinosi. Quando le loro autorità sanitarie bloccano le
importazioni di pollame dalla Cina continentale, quelli prendono
il treno e vanno fino a Shenzhen a fare la spesa, tanto gli piacciono
i nostri polli». Il Signor Tan Ju Tian che mi ospita nella sua mensa
aziendale sa di cosa parla. Dirige la Kwangfeng, un maxiallevamento di polli a Baiyun, periferia di Guangzhou (Canton). Trenta
milioni di polli escono da qui ogni anno, vivi o morti. Venduti sulle
bancarelle in Cina o esportati a Hong Kong e nel mondo.
(segue nella pagina successiva)
L
MOSCA
a collezione più blindata dell’ex Urss è invisibile anche ai suoi padroni ed ai loro inconsapevoli guardiani. L’impalpabile tesoro, vegliato da un pugno di
reduci dell’Afghanistan e di agenti segreti in congedo, è custodito in migliaia di provette allineate dentro incubatrici a temperatura controllata. L’arsenale capace di spazzare
via milioni di vite, distinto da sigle in codice note a non più di una
ventina di persone, è contemporaneamente un tempio biologico che in silenzio, ogni anno, ci salva dal delirio delle febbri. Non
possono fuggire, i virus che Mosca isola e conserva dai tempi di
Stalin. Soltanto loro, gli infetti assoluti, possono guarire gli infettati. E solo i terroristi, oltre agli scienziati che consumano i loro giorni al microscopio, sono attratti dai microrganismi che sospendono oggi le previsioni sul futuro dell’umanità. Per questo
il giallastro Istituto Dmitrij Ivanovskij, intestato al padre della virologia mondiale, presenta le difese di una centrale nucleare.
È il più antico e avanzato del pianeta, uno strato di impenetrabile mistero lo circonda nel quartiere di Kurchatov, a nordovest della capitale. Alcune migliaia di virus, il numero esatto
viene mantenuto segreto dal direttore Dmitrij Lvov, da oltre sessant’anni mutano costantemente e si riproducono al riparo di
un doppio sistema di sicurezza.
(segue nella pagina successiva)
Il giro del mondo con Camilleri
FRANCESCO MERLO e ALESSANDRA ROTA
spettacoli
Isabelle Huppert allo specchio
NATALIA ASPESI e LAURA PUTTI
la scienza
Squalo, il predatore più antico
CLAUDIA DI GIORGIO e MARCO LODOLI
le tendenze
Neo-gotico, catturati dal lato oscuro
JACARANDA CARACCIOLO FALCK e PHILIPPE STARCK
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la copertina
Allarme pandemia
DOMENICA 23 OTTOBRE 2005
Qui l’uomo 4500 anni fa addomesticò e allevò per la prima
volta un’anatra, da qui sono partiti i virus di molte malattie
che hanno colpito il mondo: la peste bubbonica, la “spagnola”,
le influenze devastanti e la Sars. Siamo andati nel Guangdong,
regione nel sud della Cina, per raccontare e spiegare
l’ultima paura globale: la febbre aviaria
Nella culla delle grandi epidemie
FEDERICO RAMPINI
(segue dalla copertina)
Repubblica Nazionale 32 23/10/2005
Q
uesta è la provincia meridionale del
Guangdong, la più ricca e una delle più
popolose della Cina con 83 milioni di
abitanti. Secondo gli archeologi è proprio in questa zona del pianeta che
4.500 anni fa l’uomo addomesticò per
la prima volta un bipede pennuto, l’anatra, per allevarla. Secondo i biologi questa culla primordiale dell’agricoltura cinese è anche il più antico brodo di coltura delle epidemie del pianeta, soprattutto influenze. Da quando la medicina moderna
è stata in grado di ricostruire i percorsi dei virus, le
origini di gran parte delle malattie che hanno devastato il mondo sono state individuate qui, nel fertile Guangdong, sotto questa umidità
quasi tropicale, nell’affollamento e nella promiscuità tra uomini e animali nelle fattorie e
nei mercati, nelle
metropoli e nei
porti. Da qui ebbe
inizio nel 1894
l’ultima grande
epidemia di peste bubbonica
che dall’India
alla California
seminò 12
milioni di
morti. Forse
qui nacque il
primo virus
della “spagnola” che
fece più vittime della prima guerra
mondiale.
Con certezza
si sa che partirono
dal
Guangdong le
due ultime pandemie del dopoguerra, le grandi
influenze del 1957 e
del 1968 (tre milioni
di morti). Qui sono apparse per la prima volta
sia la Sars nel 2002, sia la
febbre aviaria che è dilagata nel
Sud-est asiatico e ha raggiunto
l’Europa.
Prima che il signor Tan mi aprisse i cancelli
della Kwangfeng non immaginavo che esistessero così tanti polli ammassati in un unico luogo sulla terra. Soltanto una nazione con un miliardo e
trecento milioni di esseri umani e con addensamenti urbani come Pechino e Shanghai poteva
concepire degli allevamenti di queste
dimensioni. Kwangfeng è la megalopoli
delle galline: in mezzo alla campagna
sorge come una
città-satellite con
schiere di caseggiati
popolari. Sono in
realtà file sterminate
di grandi hangar con
le finestre a rete.
Ogni capannone
contiene lunghi corridoi di gabbie allineate con le mangiatoie. E dentro ogni
gabbia sono pigiate
sterminate folle di
galline, galletti e pulcini, avvolti nell’insopportabile calore umido, circondati dalle mosche, immersi in un fetore onnipresente di escrementi. Il
pigolio è meno assordante del previsto: per evitare che gli uccelli, resi aggressivi dalla convivenza
forzata nelle gabbie, si feriscano tra loro, gli vengono tagliati becchi e creste e sono quasi muti.
Contadini-operai seminudi
In mezzo ai capannoni si aggirano seminudi e in
mutande settecento contadini-operai. Vivono in
simbiosi con le galline, le loro casupole con la biancheria stesa fuori ad asciugare si distinguono a malapena dagli hangar degli animali. Un palazzone al
centro della mega-fattoria contiene la catena di
montaggio del macello. Appesi ai ganci che penzolano da una grande giostra meccanica, i polli sfilano davanti a file di operai che a mani nude li eviscerano delle interiora, poi con coltellacci e punteruoli tagliano e incidono. Le interiora rotolano
nell’acqua di un fiumiciattolo artificiale che le
convoglia lungo la catena di montaggio. Ventimila polli al giorno escono cellofanati e impacchettati. «Questi domani sono già nei supermercati a
Hong Kong» gongola il signor Tan.
Ma è solo una parte del pollame a uscire da qui
defunto. «Noi cantonesi siamo degli intenditori, la
gallina preferiamo comprarla viva al mercato, portarcela a casa e ucciderla con le nostre mani solo
all’ultimo momento prima di metterla in pentola.
In queste
terre umide
ci sono
enormi
allevamenti
di galline
Il sapore si conserva meglio». Dall’allevamento di
Kwangfeng è un viavai di camion che caricano il
pollame vivo. Schiacciate alla rinfusa dentro gabbie metalliche o compresse a forza in ceste di plastica, le galline riescono a stento a muoversi e a respirare. I tir stracarichi partono verso l’autostrada
e i mercati generali di Guangzhou, Shenzhen. La
produttività è alta, i profitti pure: questa marea di
galline frutta 60 milioni di euro all’anno, per ispezionare la proprietà Tan Ju Tian gira su un fuoristrada Mercedes.
I medici considerano con sospetto questi allevamenti intensivi, potenziali fabbriche di infezioni: la densità di animali facilita la trasmissione delle malattie, l’aggiunta di antibiotici nei mangimi
industriali crea assuefazione e fa nascere nuovi virus più resistenti. Eppure la Kwangfeng è un’azienda modello. Le condizioni igieniche sono
molto migliori che nelle piccole fattorie
contadine. Non a caso è alla Kwangfeng che sono stato “ammesso” dopo settimane di trattative con le
autorità del Guangdong. Il
governo cinese, sotto accusa nel 2003 perché
censurò le notizie
sulla Sars per
alme-
Il boom
economico
rende
altissimo
il pericolo
di contagio
ESSERI VIVENTI?
Non tutti classificano
i virus tra i viventi:
non sanno riprodursi
da soli, ma hanno
bisogno di penetrare
in una cellula e
usarne i meccanismi
di divisione
TRENTA MILIONI DI POLLI
L’allevamento Kwanfeng lavora
trenta milioni di polli all’anno
GIAMPAOLO VISETTI
(segue dalla copertina)
a difesa fisica consiste
nella pressione più
bassa che ristagna nei
laboratori, tale da impedire una fuoriuscita
delle particelle. La
protezione fisiologica assicura invece l’inaccessibilità umana agli
agenti di aids, poliomelite, vaiolo,
rabbia, encefalite, influenza, epatite, raffreddore, febbre gialla e
centinaia di altri veleni che nonostante i farmaci, i loro ostili cugini,
uccidono dieci milioni di persone
all’anno. Solo i ricercatori, intabarrati in bianchi camicioni bolliti, dopo estenuanti perquisizioni
accedono alle stanze della collezione, dove si lavora con le sole
mani guantate affondate nelle ve-
L
no sei mesi, non ama che i giornalisti stranieri vengano a curiosare sulla situazione sanitaria.
Malgrado le loro precauzioni, basta lasciarsi alle spalle i cancelli della Kwangfeng e imboccare
l’autostrada Guangzhou-Qingyuan per vedere un
altro tipo di allevamenti. Proprio in parallelo all’autostrada stessa, a pochi metri dal traffico dei tir,
tra fabbriche officine e cantieri si alternano campicelli di contadini con dei bacini artificiali pieni di
anatre e oche imprigionate da reti. Certe casupole
contadine poggiano su palafitte nell’acqua. Altri
piccoli allevatori hanno casa su fazzoletti di terra
dove razzolano galline e maiali. Inquinamento
delle fabbriche, detriti e discariche di immondizia,
fumi tossici: il Guangdong è la fabbrica del pianeta ma la sua nuova industrializzazione convive con
la vecchia agricoltura dove uomini e uccelli, cani e
maiali si contendono una terra sempre più stretta.
Non c’è più un pezzo di suolo libero da queste parti, sicché durante le grandi migrazioni che sorvolano il Guangdong, fra la Siberia e l’Indonesia, gli
uccelli selvatici sono costretti a posarsi negli allevamenti, a contatto con galline e anatre, a scambiarsi malattie da trasportare lontano.
Seguo in autostrada per cinque ore il viaggio dei
polli sui tir fino alla frontiera. L’ultima tappa in territorio cinese è Shenzhen, il grande porto rivale di
Hong Kong sul Delta delle Perle, da dove partono
le navi portacontainer. Shenzhen vent’anni fa era
un villaggio di pescatori, non esisteva sulle carte
geografiche. Adesso è una città più grande di Roma Milano e Napoli messe insieme, con selve di
grattacieli, un aeroporto internazionale e un traffico portuale superiore a Los Angeles. Una bolgia
infernale di tir paralizza la sua tangenziale a tutte
le ore del giorno e della notte. Ma nelle viscere di
Shenzhen i mercati generali offrono ancora lo
spettacolo di una Cina antica. Sono un’altra città
sotterranea, estesa per qualche ettaro nei seminterrati dei grattacieli, che palpita di una vita febbrile, eccitata, tra sporcizie organiche e odori fortissimi, come se lì sotto si stesse agitando e fer-
SCASSINATORI
DEVASTAZIONE
Le proteine che si
trovano alla superficie
del virus si legano
alla membrana
esterna della cellula
La arpionano
e vi inseriscono
il proprio genoma
Alcuni virus (Ebola)
devastano in fretta
gli organismi ospiti
Altri più sornioni
(epatite C) mettono
in atto sfruttamenti
ragionati. Possono
passare vent’anni
prima che la malattia
emerga
PARASSITI
Il virus è un parassita
per eccellenza. Entra
nel nucleo della cellula
e inizia a usare i suoi
strumenti per costruire
nuovi filamenti
di genoma e replicare
tutti i suoi componenti
LA FORMA DEL VIRUS
IL CONTAGIO
I virus hanno forma sferica, poligonale
o a bastone. La struttura è semplice,
con una capsula esterna e il genoma
formato da una catena di Dna o di Rna
Un virus quando incontra
la cellula bersaglio si aggancia
alla sua membrana con gli uncini
che sporgono dalla capsula
Il fortino delle provette
con i killer del passato
trine. Una coltivazione storica di
cellule mortali, un impressionante
allevamento di infezioni, l’unico
sistema per contrastare l’estinzione della specie. Strumenti monouso, sterilizzati da microbarriere ad
alta temperatura, scongiurano il
rischio di un contagio universale.
Nato nel 1944 per alleviare le devastanti epidemie che scrollavano
un’Unione sovietica allo stremo
per la guerra, rilanciato da Stalin
per studiare un’ipotetica arma biologica da sbandierare quale presunta «soluzione finale» della
Guerra Fredda, l’Istituto di virologia di Mosca è oggi il laboratorio di
punta nella corsa contro il tempo
per un vaccino anti-H5N1. Nell’era
comunista gli scienziati dell’“Ivanovskij” erano in gran parte dissidenti, ridotti in schiavitù e isolati in
attesa dei gulag. Nella cittadella
della scienza studia invece ora il
meglio della ricerca mondiale, in
contatto con i grandi istituti americani, cinesi, svedesi e francesi. L’originario “Museo dei ceppi virali” si
articola ora in 19 basi scientifiche
regionali e in 6 centri patrocinati
dall’Oms. In 10 dipartimenti operano virologi molecolari e clinici,
immunologi e infettivologi, ingegneri della genetica. Il livello della
ricerca è tale che da un paio d’anni
sembra essersi arrestata la fuga all’estero dei cervelli migliori. La tecnologia consente di lavorare a distanza e di essere pagati in dollari
anche in Russia.
Non si ferma invece la mutazione
dei virus e dunque prospera la loro
quotazione di mercato. Le particelle si moltiplicano e si rinnovano,
adattandosi agli antidoti ad ogni
cambio di stagione. Un esercito
sommerso di spie, faccendieri e
scienziati criminali al soldo delle
multinazionali farmaceutiche, è
così pronto a mettere all’asta l’identità rinnovata dei microrganismi
coltivati. In Asia centrale, in alcune
repubbliche europee dell’ex Unione sovietica, in Africa, il commercio
dei virus è una tragica quanto ignorata realtà. «In questo modo malattie considerate estinte nell’uomo —
dice il professor Lvov, accademico
delle scienze e allievo di Sabin —
tornano a scatenarsi anche in paesi
ritenuti ormai sicuri. Mutano e tornano a diffondersi in forme resistenti agli antidoti esistenti».
Non è il caso della cosiddetta
“influenza aviaria”, sparsa come
ogni altro virus dagli uccelli migratori. Dentro i tre edifici dell’“Ivanovskij” una schiera di studenti,
da 35 anni, alleva con sapienza
contadina un piccolo esercito di
animali da cortile. Galline, oche,
maiali, topi, conigli, ma pure le no-
DOMENICA 23 OTTOBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
GLI INCUBI
ATOMICA
CLIMA
AIDS
SARS
TERRORISMO
Guerra fredda
e paura atomica.
Dopo Hiroshima
il terrore di una
guerra nucleare
permea il mondo
fino agli anni ’90,
con il picco
di Cuba nel ‘62
Effetto serra,
buco dell’ozono,
riscaldamento
globale, ghiacci
che si sciolgono.
Il cataclisma
non avverrà
domani, ma
la paura incombe
Il panico nasce
negli anni ’80
e si alimenta
per tutti i ’90
con la previsione
di milioni di morti.
È la prima
paura globale
legata a un virus
Sindrome
respiratoria acuta.
Il primo caso
in Asia nel 2003.
Nel primo anno
ottomila infettati
in più di venti
paesi. Un malato
su dieci muore
L’11 settembre
fa esplodere
una nuova forma
di psicosi: quella
del terrorismo
islamico. Panico
alimentato dalla
catena di attentati
successivi
PROFILASSI
Manifesti invitano
la popolazione cinese
alla profilassi durante
l’ultimo allarme legato
all’epidemia di Sars
Repubblica Nazionale 33 23/10/2005
FOTO IMAGECHINA/CONTRASTO
mentando tutto ciò che di commestibile si produce in Cina: pesci, carni macellate e sangue rappreso, frutta e verdure tropicali, spezie ed erbe medicinali.
Nella zona degli animali vivi ritrovo a migliaia i
polli, spremuti nelle loro gabbie, sbattuti assieme
a oche e anatre starnazzanti. Il pollo incellofanato
al supermercato costa 14 yuan (1,4 euro) al chilo,
ma la gente si accalca qui e paga fino a 26 yuan al
chilo per portarsi a casa il pennuto vivo. Lunghe file di clienti si soffermano a guardarli uno per uno,
li tastano da tutte le parti prima di scegliere. I venditori afferrano le bestie dalle gabbie, stringono le
zampe e le passano agli acquirenti a gran velocità.
Uomini polli e banconote si incrociano in una
chiassosa confusione. Per un cinese questa è
un’immagine di benessere. «Si ricordi — mi ha
detto il Signor Tan — che vent’anni fa i miei contadini guadagnavano 300 yuan al mese (30 euro, ndr)
e il pollo se lo sognavano. Oggi mangiano pollo anche tutte le sere. Per i cinesi il fast-food preferito,
prima ancora di MacDonald, è Kentucky Fried
Chicken, la catena del pollo fritto all’americana. Il
mio allevamento le sembra grande coi suoi 30 milioni di polli all’anno? In tutto il Guangdong tra galline anatre e oche il consumo è di un miliardo all’anno».
Mezzo miliardo di cinesi in più
Se questa zona da tempi immemorabili è il laboratorio di incubazione delle grandi epidemie planetarie, oggi il boom economico ha ingigantito il pericolo. Per sfamare una popolazione sempre più
numerosa accorsa a lavorare nelle metropoli, si è
creata una concentrazione senza precedenti di
masse umane e animali, un ambiente ideale per lo
scambio di malattie fra “noi” e “loro”. Nella storia
dell’umanità non era mai accaduto che così tante
persone e così tanti animali vivessero assieme in
così poco spazio. All’epoca dell’ultima pandemia
di influenza che partì dal Guangdong, nel 1968, la
Cina aveva 800 milioni di abitanti. Oggi ne ha mezzo miliardo in più. Allora aveva cinque milioni di
maiali, oggi 508 milioni. I polli allevati nel 1968 erano 12,3 milioni. Oggi sono 13 miliardi. Aumenta in
misura esponenziale la probabilità statistica che
in questi grandi numeri nasca il prossimo flagello
epidemico, e che dall’animale passi all’uomo.
Considerati i veri gourmet della Cina, i cantonesi
non si accontentano di divorare anatre e galletti in
ogni salsa e condimento. Da buongustai amano le
carni rare. In tutto il Sud-est asiatico fiorisce il bracconaggio per rifornire i mercati alimentari di
Guangzhou di porcospini e armadilli, zibetti e procioni. Bestiole selvatiche e animali domestici nel
Guangdong finiscono sulle stesse bancarelle dei
mercati, nelle cucine dei ristoranti o nei pranzi familiari delle feste. E i virus viaggiano. La Sars — è stato scoperto di recente — prima di contagiare l’uomo
nacque nel pipistrello, un’altra prelibatezza nei
menù cantonesi. I contadini di qui, quando gli ispettori sanitari decretano distruzioni di bestiame infetto, protestano con un vecchio detto: «Quando il
maiale è malato è il momento di mangiarlo».
Il mio viaggio con i polli del Guangdong si ferma
di fronte al porto di Shenzhen, dove le maestose
navi portacontainer salpano verso l’Europa e l’America. «L’anno scorso — mi ha detto raggiante il
signor Tang — ne abbiamo esportati due milioni,
ed è solo un inizio. I nostri polli sono i più buoni del
mondo. Lei può confermarlo, dopo quel che ha
mangiato».
NELLA CELLULA
MUTAZIONE
La cellula infettata diventa una
fabbrica che lavora a pieno ritmo al
servizio del virus. Tutti i suoi macchinari
vengono sequestrati dal parassita:
dal sistema di trascrizione del genoma
che costruisce copie identiche di Dna
o Rna del virus, fino ai mitocondri.
Solo dopo aver costruito nuove copie
del virus la cellula esausta muore
Una mutazione casuale
del genoma potrebbe
modificare il virus
e cambiarne l’ospite.
H5N1 oggi prospera
nei polli. Una nuova
versione potrebbe
scegliere l’uomo
stre sorelle scimmie: i corridoi sono impregnati di un odore da cascina, fuso ai disinfettanti e al noto
tanfo delle mense russe. Cavie e
molecole, mangime e colture alcoliche, letame e vetrini: è l’intuizione degli scienziati-contadini ad
arginare la forza dei veleni che
consumano la vita.
Così per le sentinelle delle pandemie, nell’indifferenza generale,
l’allarme era scattato già tre anni fa.
I collaboratori di Lidia Fadeeva, direttrice della collezione dei virus,
avevano scoperto in Russia il nuovo ceppo H5N1. I richiami di Lvov,
in un convegno in Giappone e
quindi a San Francisco, sono stati
ignorati. Fino al maggio scorso,
quando i primi contagi hanno mietuto vittime tra i volatili selvatici in
partenza dal lago Tsi-Nghaj, in Cina. Nel giro di cinque giorni l’istituto moscovita aveva già isolato il
ceppo della “peste dei polli” ed era
assediato dagli scienziati di tutto il
mondo. Il premio Nobel David Davenport, l’australiano Gren Lever,
lo statunitense Rod Webster e il cinese Malik Peiris hanno contattato
Lvov. Il Centro di biotecnologia
Vektor, nella regione siberiana di
Novosibirsk, e l’Istituto dell’influenza di San Pietroburgo, su indicazione dei ricercatori di Mosca, si
sono messi al lavoro per individuare un antidoto per l’uomo. «Le sole
a tacere per settimane — dice la
professoressa Fadeeva — sono state le autorità internazionali. I grandi laboratori dipendono degli Stati,
non producono nulla e non creano
consenso: i burocrati considerano
la ricerca uno spreco, più tagliano i
fondi e più fanno carriera. Hanno
cercato di minimizzare il pericolo:
solo ora che il rischio di una pandemia minaccia di far crollare econo-
mie e borse, si ricordano di noi e ci
chiedono di neutralizzare il virus».
Una richiesta insensata, secondo gli scienziati dell’“Ivanovskij”.
Da diecimila anni, periodicamente, la natura si trasforma nel primo
bio-terrorista. Nessun virus, fino
ad oggi, è stato estinto. L’incubatrice globale, attingendo alla dispensa mobile di animali domestici e
selvatici, rifornisce di nuovi veleni
la cucina rappresentata dalla Terra. Le epidemie zootiche si scatenano nell’Asia sud-orientale, dove
nidifica e sverna l’ottanta per cento dei volatili. Nelle paludi si generano virus ibridi e gli uccelli-camerieri servono gli ignoti mostri nei
piatti dei diversi continenti. Per
questo, spiegano i ricercatori russi,
non esistono influenze epidemiche che non siano aviarie e non esiste virus che non venga trasmesso
all’uomo dagli animali. L’influen-
za dei polli, scatenata in Cina, per la
prima volta venne isolata alcuni
anni fa in Italia, vicino a Brescia. «Il
fenomeno — dice Lvov — si chiama infezione naturo-focale e sfugge al nostro dominio. Il problema
dell’H5N1 è l’altissima virulenza.
Fa strage e in fretta. Non può essere trasmesso alle persone dai volatili, ma dai maiali. Se questi prenderanno l’influenza dal pollame, lo
scenario può essere catastrofico. I
suini contraggono anche l’influenza umana e un tale ibrido, in sei mesi, può uccidere un miliardo di uomini. La malattia, così modificata,
sarà trasmissibile da uomo e uomo, la mortalità è stimata nel cinquanta per cento dei contagiati».
Le migrazioni degli uccelli, ma pure i trasferimenti aerei, sono in grado di trasportare l’infezione in un
giorno da Mosca a Roma, a Londra
e a New York. La messa a punto di
un buon vaccino per l’uomo può
richiedere settimane. «Troppo
tardi — sostiene Nikolai Vlasov,
responsabile del controllo veterinario del governo russo — anche
senza considerare i tempi della
produzione industriale e della distribuzione».
Per questo, nella banca dei virus
di Kurchatov, domina oggi un «fiducioso pessimismo». Sette gruppi di scienziati studiano il virus, la
possibilità di una rapida diagnosi,
di una profilassi e di una cura. Nelle provette vengono riattivati i veleni collezionati in mezzo secolo. Virus, cavie, luminari della scienza e
banditi dell’industria escono dalle
tane in cui li avevano cacciati gli
antibiotici. «Ma in fondo si è solo risvegliata la natura — sorride Lvov
—, se l’Occidente è paralizzato dal
panico è perché si era dimenticato
della sua esistenza».
TESTI A CURA DI ELENA DUSI
ILLUSTRAZIONE
MIRCO TANGHERLINI
VIROLOGO
Il professor
Lvov, virologo
moscovita
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 23 OTTOBRE 2005
il reportage
Sotto processo
Nell’aprile 2003, quando gli americani entrarono
nella capitale, una delle loro prime mosse fu quella di abbattere
il monumento di Saddam davanti all’hotel Palestine. Molti
iracheni li imitarono gettando nella spazzatura e danneggiando
i ritratti onnipresenti del dittatore, ma altri si limitarono
solo a nasconderli. Un altro simbolo della transizione difficile
Bagdad, il culto sfregiato del Raìs
BERNARDO VALLI
hi gli ha stretto la
mano, quando era
il Raìs onnipotente, dice che era
«morbida e umida». Era una
strana sensazione. Quel contatto epidermico molle, appiccicaticcio, contrastava con lo sguardo duro, metallico, che uno incrociava stando al cospetto di
Saddam Hussein. Un quarto di
secolo fa, nel luglio 1980, l’inglese Robert Fisk era tra i giornalisti
riuniti in una sala dell’Assemblea nazionale, qui a Bagdad,
per un’interminabile conferenza stampa, protrattasi fino alle
prime ore del mattino. Saddam
era presidente a pieno titolo da
appena un anno, aveva già eliminato (spesso di suo pugno)
molti nemici dichiarati e altrettanti amici sospetti, e aveva tante cose da dire alla stampa internazionale.
A quell’epoca aveva o pretendeva di avere due ruoli politici di
portata mondiale. Agli occhi degli occidentali appariva in effetti come il “nuovo scià”. Nel vicino Iran, il sovrano, Reza Pahlevi,
alleato dell’Occidente, e in
quanto tale prezioso guardiano
del Golfo ricco di petrolio, era
stato spodestato dall’ayatollah
Khomeini, e il Raìs iracheno,
musulmano laico, era visto come un provvidenziale campione da opporre alla rivoluzione
integralista islamica trionfante
a Teheran. La cosa non dispiaceva affatto a Saddam, il quale
aspirava però ad essere al tempo
stesso una specie di reincarnazione politica di Gamal Abdel
Nasser, vale a dire il nuovo grande leader panarabo.
Questo ed altre cose ancora,
per ore ed ore, disse o fece capire Saddam Hussein ai giornalisti, quel 21 luglio 1980. Nell’abito a doppio petto troppo largo,
con una giacca lucida e una cravatta sgargiante, il Raìs era apparso a prima vista impacciato,
ed anche minuto in quell’enorme sala. Ma quando si accostò al
microfono e cominciò a parlare,
il personaggio si rivelò tutt’altra
cosa. Il volume era stato messo
al massimo e la voce usciva potente, assordante dagli amplificatori. L’oratore la modulava
come se usasse una frusta e l’abbattesse con impeto e sadismo
sull’uditorio, quando affrontava un argomento che gli stava a
cuore.
Robert Fisk trovò più veleno
che passione in quel discorso.
Poi Saddam strinse la mano a
tutti, e Fisk annotò che era
«morbida e umida». (Lo racconta nel suo ultimo, ottimo libro,
The Great War for Civilisation,
2005, Fourth Estate, London).
Morbida e umida era anche la mano
di Stalin. Richard Pim, collaboratore
di Winston Churchill a Downing Street
durante la Seconda Guerra mondiale,
ha usato gli stessi aggettivi di Fisk, descrivendo gli incontri che ebbe con il
capo del Cremlino. Sul quale Saddam
Hussein cercò di modellarsi come
Raìs.
Si sa che leggeva con passione le biografie di Stalin. Tra Gorki, città natale
del georgiano Stalin, e Tikrit città natale del sunnita Saddam, ci sono circa
FOTO ABBAS / MAGNUM PHOTOS
C
BAGDAD
alla cintola stile Arafat; con lancia e scudo, a cavallo, come un
condottiero leggendario.
Voleva essere amato. Ed esigeva che la gente glielo dimostrasse. I suoi ritratti appesi in
tutte le case ne erano per lui la
prova. Aveva l’abitudine di interpellare a caso gli iracheni,
nelle loro abitazioni private,
per sapere se gli volevano bene.
Naturalmente tutti gli esprimevano la più profonda devozione. Tony Clifton, del settimanale Newsweek, gli chiese
durante un’intervista se avesse
paura di essere assassinato.
L’interprete esitò a tradurre,
ma Saddam, che forse conosceva un po’ di inglese, capì la
domanda e scoppiò in una fragorosa risata, dette una pacca
sulla spalla di Clifton, e gli
gridò: «Esci subito da questa
stanza. Vai per la strada e chiedi a chiunque incontri se mi
ama». Tutti i presenti imitarono Saddam, si misero a ridere
anche loro, e continuarono fino a quando lui smise. Così dimostrarono che lo amavano
come tutti gli iracheni, e che
Clifton aveva fatto una domanda sciocca.
Nell’aprile 2003, quando i
marines arrivarono all’hotel
Palestine, dove mi trovavo, la
loro prima iniziativa fu di abbattere la statua di Saddam, al
centro della vicina piazza. Le
televisioni di tutto il mondo
trasmisero le immagini della
demolizione, dando l’impressione che gli iracheni si fossero
affrettati a ripulire il paese dai
ritratti del dittatore. Molti sciiti e curdi in effetti li gettarono
nella spazzatura. Pochi sunniti
fecero altrettanto.
Adesso non li mettono più
tanto in mostra, ma li hanno
conservati. Non sono più appesi nell’ingresso, come una
volta, sono stati relegati in
qualche angolo. Un piccolo
commerciante, con un negozio
a Karradieh, lo tiene in un cassetto. Lo distruggerà, dice,
quando sarà sicuro che Saddam sia morto.
Neppure tra coloro che hanno ancora la fotografia dell’ex
Raìs accanto al letto sono molti
a sperare sul serio in un suo ritorno al potere. Capita che i vari
gruppi dell’insurrezione armata si richiamino a lui, lo considerino ancora il Raìs nei comunicati, ma si tratta di una fedeltà
simbolica. Saddam non ha mai
guidato la guerriglia. Non l’ha
animata, nei mesi precedenti alla sua cattura, avvenuta nel dicembre 2003, non lontano da
Tikrit. L’opposizione armata si è
formata indipendentemente da
lui. Gli omaggi resigli e i ritratti
conservati come reliquie più
che esprimere attaccamento alla persona di Saddam sono segni di protesta contro la presenza delle
truppe straniere, e la loro incapacità di
far ritornare il paese a una vita normale.
La sua comparsa in tribunale, mercoledì scorso, ha acceso le passioni: da un
lato l’odio per il Raìs sanguinario dall’altro il ricordo di un Iraq “ordinato”. Il
nazionalismo conta: non sono in pochi,
anche tra coloro che hanno bruciato le
immagini di Saddam, a rimproverare
agli americani di avere frantumato l’Iraq, che lui, Saddam, teneva unito. Sia
pure col terrore.
ottocento chilometri. Due mondi lontani uno dall’altro, ma nelle vicende
familiari dei due personaggi ci sono alcune somiglianze. I biografi sottolineano che hanno avuto entrambi madri di forte carattere e padri che li maltrattavano. E più tardi entrambi hanno tradito i potenti all’ombra dei quali erano politicamente cresciuti.
Negli anni Settanta, ormai al potere,
Saddam fece un pellegrinaggio nell’Unione Sovietica: visitò con religiosa attenzione le ville sul Mar Nero in cui
Stalin spesso soggiornava e i palazzi
monumentali del regime, alcuni dei
quali dell’epoca zarista. A quei grandiosi edifici si è probabilmente ispirato quando ha fatto costruire i palazzi
imperiali ed inutili sulle rive del Tigri.
Un commerciante
tiene l’immagine
dell’ex dittatore
in un cassetto:
la butterò via solo
quando sarà morto
LE FOTOGRAFIE
Qui e nella pagina accanto una serie di foto
delle icone del Raìs sfregiate dopo la caduta
del regime. Gli scatti sono dei reporter delle
agenzie Abbas, Magnum e Contrasto
Saddam imitò anzitutto il culto della personalità di cui si circondava Stalin. All’inizio si fece osannare come
una nuova versione di Haroun al -Rashid, il califfo dell’epoca d’oro degli
Abbassidi. Lui era venuto a resuscitare la defunta gloria della Bagdad antica. Poi cercò via via di imporsi nella più
inquietante veste di un guerriero arabo. I suoi ritratti hanno invaso il paese:
le banconote, le piazze, gli edifici pubblici, le scuole, le abitazioni private
più lussuose o più umili, esibivano la
figura del Raìs nelle più diverse fogge e
posizioni: vestito da curdo, come un
moderno Saladino; con la kuffiah araba; in doppio petto come un uomo
moderno; in divisa da guerrigliero intento a scavare trincee; con la pistola
NELLA STORIA
NERONE
LUIGI XIV
MUSSOLINI
STALIN
MAO
La gigantesca
statua di Nerone,
detta Colosso,
che per Svetonio
era alta 36 metri
e sorgeva vicino
al Colosseo,
fu abbattuta
dai barbari
Una delle prime
vittime
della Rivoluzione
francese fu la statua
equestre
di Luigi XIV,
simbolo del Re
Sole, distrutta
dalla furia popolare
Tra due ali di folla
in festa, il 25 luglio
1943, un’enorme
testa di Mussolini
viene staccata
da una statua,
che viene abbattuta
e issata
su un camion
Nel 1956,
con la rivoluzione,
una colossale
statua di Stalin
viene tirata giù
a Budapest: la testa
rotola, le scarpe
restano
sul piedistallo
Nel giugno ’89,
durante
una manifestazione
in piazza
Tienanmen,
un barattolo
di vernice blu viene
lanciato contro
il ritratto di Mao
Repubblica Nazionale 35 23/10/2005
FOTO ABBAS / MAGNUM PHOTOS
DOMENICA 23 OTTOBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 23 OTTOBRE 2005
l’inchiesta
I grattacieli più alti d’Europa, tre milioni
di auto in un ingorgo di Bmw, Rolls
e Lamborghini, venti ristoranti inaugurati
ogni mese con marmi e rubinetti d’oro:
è il fiume di denaro che investe la Russia
di Putin. Con un’emergenza malavita
Mosca senza regole
SANDRO VIOLA
col record
di 33 super ricchi
Un inizio secolo da ricordare
Tutto vero. Eppure i russi ricorderanno questo inizio di secolo, gli anni di
Putin. Il mare di soldi che si riversa in
Russia col petrolio oltre i 60 dollari, le
riserve della Banca Centrale vicine a
160 miliardi di dollari, altri 50 miliardi
accumulati in un “fondo di stabilizzazione” per il giorno che i prezzi del petrolio dovessero calare. Durerà? Forse
sì, forse no. Il quadro russo (con 25 milioni di persone sotto la linea di povertà, e 40 in case senza acqua corren-
FOTO LAIF/CONTRASTO
Mai in nessuna
parte del mondo
si erano visti
nascere patrimoni
tanto grandi in
così poco tempo:
a detta di Forbes
la città è in testa
alle classifiche
FOTO MAGNUM /CONTRASTO
Qui a destra,
dall’alto l’apertura
della Fiera
del lusso,
un campo
di polo a Mosca,
un’altra immagine
della Fiera
e la discoteca
“Titanic” durante
una festa. Nella
foto grande,
l’icona di Vladimir
Putin che domina
la cerimonia
di apertura
della Fiera
del lusso
Nell’altra pagina,
l’interno di uno
dei ristoranti
della capitale russa
FOTO AFP
I NUOVI PADRONI
enerdì, le nove di sera.
Siamo seduti in quattro
dentro una Bmw ultimo
modello: io, un amico
italiano che lavora qui da anni, un
suo conoscente russo che ci ha invitati a cena, e al volante l’autista del
russo. Abbiamo lasciato il mio albergo sulla Tverskaya quasi un’ora fa diretti all’Arbat, sì e no quattro chilometri in linea d’aria, e siamo ancora
intrappolati nel traffico. Il traffico di
Mosca è ormai l’inferno in terra. I
moscoviti lo chiamano “probka”, che
significa sughero, immagino per dare l’idea dell’imbottigliamento. Procediamo infatti molto più lenti che a
passo d’uomo, in un continuo strombettìo di clacson, e guai ad aprire il finestrino: l’aria che entra è puzzolente, irrespirabile.
Mattina, pomeriggio e sera è sempre così. Sempre “probka”, sempre
smog. Fiumi d’automobili, quasi tutte grandi automobili straniere, e moltissime di lusso o di gran lusso. Davanti alla nostra auto c’è stasera una
Rolls Royce bianco latte, alta come un
grosso furgone, sulla sinistra arranca
una Porsche Carrera. E infatti tra i tanti che a Mosca stanno facendo affari
d’oro ci sono gli agenti delle grandi case automobilistiche europee. Di Bentley, per esempio, quest’anno ne sono
state già vendute 260 a 230mila euro
l’una. E il nostro ospite russo racconta: «Il rappresentante della Porsche ci
diceva l’altra sera che è come un tempo con i principi sauditi. Quelli che
vanno da lui a comprare un’automobile, non si soffermano
neppure per un attimo
sul prezzo: il tempo di
guardare, scegliere, e già
hanno in mano il libretto
degli assegni…».
Il russo è proprietario
d’una delle maggiori
aziende di pubblicità
della capitale. Molti dei
giganteschi pannelli che
stiamo a poco a poco
fiancheggiando nelle
strade sfavillanti di luci
— cosmetici, elettronica, abbigliamento, birra
— sono usciti dai suoi
studi. Com’è ovvio, dell’ondata di prosperità
che ha investito Mosca
non si lamenta. Ma viaggia molto, ha una casa a
Vienna, e questo lo porta
a guardare le cose con
occhio critico. Così,
mentre procediamo lentissimi nel traffico, mi indica tre o
quattro degli orribili palazzi d’appartamenti che stanno spuntando come
funghi nel centro di Mosca. «Vede?»,
dice il pubblicitario: «È come se i nostri architetti lavorassero ubriachi:
non c’è una linea riconoscibile, una
decorazione accettabile, l’ombra
d’un gusto. Noi lo chiamiamo “realismo capitalista”. Ma Mosca è strapiena di danaro, e nel momento in cui
s’avvia la costruzione d’uno di questi
palazzi di lusso (garage sotterraneo,
palestra, portieri notturni), tutti gli
appartamenti sono già venduti in
partenza ad almeno novemila euro il
metro quadrato…». Una brusca frenata dell’autista, una pausa, poi il nostro ospite conclude: «D’altronde,
parlare di gusto in Russia non ha senso. I settant’anni del comunismo
hanno cancellato, incenerito il senso
estetico dei russi…».
FOTO AFP
MOSCA
te che vanno ad attingere l’acqua nel
laghetto più vicino) è ancora troppo
vacillante per consentire previsioni
attendibili. Ma per ora Mosca è una
specie d’Eldorado. Uno sviluppo urbanistico impetuoso, i grattacieli costruiti a tempo di record (uno dei quali, il Triumph, è l’edificio più alto d’Europa), tre milioni d’automobili in una
città dove cinque anni fa ce n’erano
appena 700mila. Venti nuovi ristoranti inaugurati ogni mese (due o tre
dei quali sfarzosi, con toilettes arredate di marmi, cristalli e rubinetterie
dorate), i negozi del centro aperti sino
alle dieci, le undici di sera.
In nessuna parte del mondo mai
s’era mai visto nascere delle grandi
ricchezze in così poco tempo. Non
nell’Ottocento dei “baron robbers” in
America, e neppure sullo sfondo della
prodigiosa crescita cinese. Secondo la
rivista Forbes, specialista in questo tipo di calcoli, a Mosca ci sono infatti 33
miliardari in dollari, più che in qualsiasi altra metropoli dell’Est o dell’Ovest. E i milionari sono molte migliaia.
Tutti contraddistinti
da un tratto che li rende diversi dai ricchi
del resto del mondo, e
da ogni borghesia in
formazione: l’impulso alla spesa.
Una febbre, una
frenesia dello spendere. Tanto che una
grossa finanziaria internazionale come la
Merril Lynch, ne parla diffusamente in un
suo rapporto del mese scorso: i russi ricchi
sembrano “unwilling
to save”, senza la minima voglia di risparmiare. Certo, i ricchissimi non riescono a spendere tutto
quel che hanno accumulato. Trasferiscono i loro capitali all’estero (oltre 30 miliardi di dollari l’anno
scorso), comprano
palazzi a Londra e ville sul lago Lemano.
Ma i nuovi milionari
gareggiano gli uni con
gli altri nella corsa ai
consumi di lusso, investono in un modo
di vivere: i sigari più
cari, gli orologi di platino, le Bentley e Maserati, le vacanze a
Saint Moritz o a Montecarlo. «Un po’ come
bambini che non
hanno mai avuto un
giocattolo», mi diceva ieri un sociologo
intelligente, Gheorghij Satarov, «e un
giorno vengono fatti
entrare in uno stanzone colmo d’ogni tipo di giocattoli. Vorrebbero prenderli
tutti, non lasciarne
neppure uno…».
Quando finalmente arriviamo al ristorante, do un’occhiata
intorno. Stranieri ne
vedo pochi, due o tre
tavoli in tutto, il resto
sono russi. E il perché
lo capisco guardando
la carta: i prezzi sono
piuttosto alti, anche
se non quelli dei
quattro o cinque ristoranti più costosi
della capitale. Quando l’avevo visto un
paio di giorni fa, il più
autorevole gastronomo moscovita, Serghieij Cernov, me l’aveva preannunciato.
«Gli stranieri stanno
diventando rari, nei
ristoranti alla moda.
Per loro, tolta la trentina di dirigenti delle
compagnie petrolifere internazionali che operano in Russia, sono ormai
troppo cari. Solo i russi, infatti, spendono senza alcun rammarico 200 euro a pasto».
Ma al tavolo di fianco al nostro, mi
fanno notare i miei due commensali,
si sta spendendo forse più di 200 euro
a persona. Al tavolo sono seduti un
uomo e tre donne. L’uomo è robusto,
pletorico, con una camiciola a maniche corte. Le donne sono maltruccate e malvestite, i gesti eccitati, la sigaretta sempre accesa. Stanno spen-
FOTO ITAR-TASS
La fiera dei miliardari
nella capitale malata
V
dendo molto, perché da quando siamo arrivati hanno bevuto due bottiglie d’un famoso vino rosso italiano, e
col dolce, più tardi, ordineranno la
terza. Il mio amico si fa dare la lista dei
vini, scorre i prezzi: quelle bottiglie
costano 270 euro l’una. Miliardari,
milionari? «No, non credo», risponde
il pubblicitario: «Direi piuttosto che
l’uomo è un funzionario provinciale o
regionale, e il gruppo si trova a Mosca
in gita. Di stipendio ufficiale, l’uomo
non avrà più di 5-600 euro al mese. Ma
i suoi introiti possono essere molto
DOMENICA 23 OTTOBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
Repubblica Nazionale 37 23/10/2005
MAGNATI IN ASCESA
Controllano petrolio, banche, materie prime.
Nell’elenco dei paperoni di tutto il mondo,
i giovani leoni russi sono passati da 17 a 33
e continuano a fare miliardi anche in prigione.
Come Mikhail Khodorkovsky, l’uomo più ricco
della Russia, salito al 16esimo posto
nella classifica mondiale. Il fatto che sia stato
arrestato per evasione fiscale e frode non ha
impedito alla compagnia Yukos, nucleo
del suo impero economico, di continuare
la sua ascesa. Intanto, l’eterno numero due,
Roman Abramovich, tenta il sorpasso e,
non contento di aver comprato il Chelsea
e strappato Crespo all’Inter, continua
a investire nel mondo del calcio e non ci pensa
nemmeno a tornare in Russia per non correre
il rischio di finire pure lui in prigione. Ma c’è anche
chi dirotta la ricchezza verso la cultura, come
il magnate dell’alluminio Oleg Deripaska; oppure
l’azionista di maggioranza dell’acciaieria
Novolipetsk, Vladimir Lisin, che tra tutti ha
compiuto il maggior balzo in avanti con i suoi 3,8
miliardi di dollari di fortuna. Il re dei diamanti,
Lev Leviev, vive in Israele, mentre alla larga dalle
guardie di frontiera, in esilio forzato, si tengono
Boris Berezovski e l’ex magnate televisivo Gusinski
(ilaria zaffino)
genti richieste ai piccoli-medi imprenditori russi, e una miriade di esazioni illecite imposte quotidianamente ad ogni angolo del paese. I 23.000 dollari che i funzionari degli organi di controllo (sanità, vigili del fuoco, polizia fiscale) estorcono con la
minaccia d’una denuncia a commercianti, costruttori edili, ristoratori eccetera, i 6-700 dollari che servono a
corrompere i medici d’un ospedale
per ottenere un ricovero, i medici militari per esentare un giovane dagli
obblighi di leva, gli insegnanti per facilitare una promozione.
Nelle classifiche internazionali sui
paesi più corrotti, la Russia figura infatti a fianco del Niger, della Sierra
Leone e dell’Albania. E questo nell’indifferenza non solo dell’uomo della
strada, ma anche di quella borghesia
in formazione, il settore più moderno
e intraprendente oggi sulla scena, ancora incapace di darsi i lineamenti e il
minimo di rigore d’una società civile.
«Il fatto è che la Russia», conclude Satarov, «è così abituata alla corruzione
degli apparati burocratici, che la gente non si rende conto dell’effetto disastroso che essa produce sull’economia. Tanto è vero che quando i nostri
sondaggisti domandano quali siano i
problemi più gravi del paese, la corruzione figura al nono o decimo posto.
Mai più avanti».
alti. E sto parlando, si capisce, d’introiti illeciti…».
Nel suo ufficio all’Indem, il centro
di ricerche sociologiche che dirige,
Gheorghij Satarov m’aveva illustrato
le dimensioni mostruose, la crescita
irrefrenabile della corruzione in Russia. Una sua inchiesta pubblicata due
mesi fa (rimasta senza alcuna smentita da parte del governo e pressoché
ignorata dai maggiori organi d’informazione, che sono sotto tutela del
Cremlino) sostiene infatti che nel
corso del 2004 sono illecitamente
passati di mano 310 miliardi di dollari. Dieci volte di più che nel 2000, l’anno dell’insediamento di Putin.
Questa cifra impressionante comprende ogni tipo e misura di concussione: dalle poche migliaia di rubli pagati per tacitare la polizia stradale nel
caso d’una infrazione, alle tangenti da
100-120mila dollari che un’impresa
straniera deve versare agli alti funzionari della burocrazia statale o regionale per ottenere una concessione,
una licenza, i diritti su un terreno edificabile. In mezzo ci sono poi le tan-
Alla sorgente del lusso
È dunque questa la sorgente d’una
gran parte del tumultuoso fiume di
danaro che scorre ogni giorno a Mosca, e si configura nei ristoranti, per
esempio, in forma di bottiglie di vino
da 270 euro ciascuna, o sulle spiagge
italiane, spagnole e francesi con falangi di piccoli burocrati delle amministrazioni locali e statali i cui stipendi non permetterebbero neppure un
fine settimana a Pietroburgo. Introiti
illeciti, dunque, i frutti d’una corruzione che pervade l’intero corpo sociale in ogni angolo del paese. E contro la quale il potere politico non riesce a reagire, o non ha interesse a farlo. Di quando in quando Putin tuona
contro la burocrazia corrotta, e nel
2002 aveva addirittura varato una
commissione ad hoc. Ma inchieste e
processi esemplari non se ne sono ancora visti, e quanto alla commissione
mi dicono che si sia distinta solo per la
profondità del suo letargo.
Resta da domandarsi quali siano i
motivi che spingono i russi ricchi all’ostentazione continua, come ossessiva, dei loro soldi. Ai modi sfrontati,
al limite dell’inverecondia, con cui li
spendono. E qui la risposta è complessa. C’è un carattere nazionale, la
tendenza alla dissipazione di aristocratici, borghesi e contadini così
com’è descritta in tanta letteratura
russa. Impossibile dimenticare, infatti, che la prodigalità dell’aristocrazia
russa (i Dolgorukin, gli Stroganov, i
Demidov, gli Sheremetvo) sbalordì
tra Ottocento e primissimo Novecento le altre aristocrazie europee.
E poi ci sono i traumi. Unici nella
storia, i russi hanno visto dissolversi
in un solo secolo due imperi, quello
zarista e quello sovietico. E le generazioni di cui stiamo parlando, gli arricchiti d’età tra i quaranta e i cinquanta,
hanno conosciuto lo
sbandamento ideologico e morale prodotto dal
crollo della superpotenza comunista. Così, il ricordo della vita di privazioni, di semi-miseria
condotta sino a quindici
anni fa, mischiato all’improvvisa ricchezza
dell’oggi, si traduce in un
sentimento di precarietà, in un timore del futuro, che li porta, come
dice Satarov, a riempirsi
le braccia di giocattoli.
Purtroppo non l’ho vista, perché l’avevano
chiusa un paio di giorni
prima del mio arrivo a
Mosca. Ma alla fine di
settembre, racconta il
pubblicitario russo
mentre pranziamo, s’era
aperta una Fiera dei milionari in cui si sono accalcate per quattro giorni folle enormi. Non tutti erano lì per acquistare,
beninteso: la maggior parte c’era
andata soltanto per vedere le Bentley
e le Rolls Royce, le Ferrari, le Maserati, le Porsche e le Lamborghini. E oltre
alle automobili, i diamanti, le pellicce, gli elicotteri e le foto delle isole in
vendita. «Ci sono rimasto un’ora», dice il russo, «con un leggero senso di
nausea. Tutto era davvero incredibile. Comprare una Lamborghini in un
paese che ha poche strade su cui si
possa guidarla, e guidarla solo pochi
mesi perché poi le strade si coprono
di neve, è assurdo. Un’idiozia. Ma c’era anche di peggio. Vari completi, da
donna e da uomo, fatti con banconote da 500 rubli cuciti insieme. Se qualcuno li abbia comprati, non lo so. Ma
basta pensare che gli organizzatori
della fiera abbiano avuto l’idea di
esporli, per cogliere la volgarità dell’iniziativa e di tutti quelli che l’hanno
apprezzata».
Questa è la “slivki obshchestva”, la
migliore società, nella Russia d’oggi.
E a volte mi tornano alla memoria le
riviste per famiglia dell’era sovietica,
che sfogliavo sempre per vederne le
fotografie. Rabotnitsa, la donna che
lavora, oppure Krestyanka, la contadina. Inutile dirlo, lo squallore di
quelle riviste era tale da stupire e intristire chi giungeva da Occidente.
Ma è vero che neanche la Fiera dei miliardari dà allegria.
Uno studio
sostiene che
nel 2004 sono
passati di mano
illegalmente
310 miliardi
di dollari,
dieci volte di più
del 2000, l’anno
dell’insediamento
di Putin
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
i luoghi
DOMENICA 23 OTTOBRE 2005
Labirinti d’Oriente
Alla scoperta della capitale siriana con una guida straordinaria:
il più grande poeta arabo vivente che ci accompagna a interrogare
minareti, rovistare mercati, esplorare strade e vicoli, sfogliare
la storia scritta su archi e colonne. Fino a farci travolgere
e spiazzare dai giochi di prestigio di una città dove
“l’immaginario si trasforma in realtà e la realtà in immaginario”
Adonis e la magia di Damasco
ALIX VAN BUREN
N
DAMASCO
Repubblica Nazionale 38 23/10/2005
on si dice no a Adonis, a
quella chioma scompigliata da “poète maudit”,
da Rimbaud siriano. Lui,
poeta errante, panteista mistico, cantore massimo del mondo arabo, non
contempla un rifiuto. Anche quando,
col suo sguardo da sfinge, antico e spericolato, propone di scalare il cielo, perché da lassù — e guarda in alto verso la
mezzaluna sfavillante nel cielo sopra
Damasco — là dove albergano i semidei, Gilgamesh, Venere Ishtar, Ba’al, gli
eroi e la memoria, si osserva con più
chiarezza la sorte dell’uomo.
«Alle quattro del pomeriggio, al Caffé
al-Nawfara, sotto il minareto grande».
Stargli dietro sarà un’impresa. Lui lo
chiama un «gioco edenico». Si tratterà
di interrogare minareti, rovistare mercati, sfogliare vicoli, ribaltare archi e colonne, pietre disperse sull’ombelico di
Damasco come «lettere di un alfabeto
antico». E in ogni piega e fossato rintracciare la presenza dei suoi maestri:
Ibn ‘Arabi, il divino mistico andaluso;
Al-Niffari, il derviscio ramingo; e sui nostri passi sempre lui, Gilgamesh-UlisseAdonis, l’eroe del dubbio, dell’inquietudine universale, che fa svaporare ogni
confine fra Oriente e Occidente.
Inutile porre domande. Lui non conversa: scaglia versi. «Qui spesso l’immaginario si trasforma in realtà, e la
realtà in immaginario», annuncia il
poeta col suo riso argentino e infantile.
«Ma questo lo dice il bambino che è in
me. L’anziano mi ripete da tempo che i
pensieri hanno una vita effimera. Cadono come frutti, senza che alcuno vi
presti attenzione».
Il Caffé al-Nawfara
Per raggiungerlo si costeggiano le mura biancheggianti della Cittadella e siepi di fantasmi: emiri morti per difenderla, crociati e mongoli per conquistarla. Si supera la Grande Moschea,
una meraviglia del mondo dei califfi.
Lasciandosi a destra l’imboccatura del
sûq al-Hamîdiyya — i budelli dei mercati coperti da una volta di metallo
traforata dai proiettili della rivolta del
1925 contro i francesi — si curva a sinistra fra mercanti di tappeti, di antichi
quadranti e astrolabi, facendosi largo
fra bottegai accovacciati su sgabelli di
cuoio e infervorati nel gioco del tric
trac, il backgammon siriano. Ed eccolo:
incorniciato dall’arco di Giove compare lui, Adonis, sigaro cubano, jeans e
giacca blu. Lo possiede la stessa flemma con cui riceve a Parigi al Flore o ai
Deux Magots, esule da quarant’anni
coccolato dalla Senna: il suo rifugio
dalle tirannidi del mondo arabo.
Soffia il khamassin, lo scirocco, rabbuffa gli alberi, fa volare palloncini e
preghiere, e alza muri di sabbia fino a
trenta metri. Però l’oasi del Ghouta, che
fa da corona alla città coi suoi frutteti, li
ferma. Il khamassin vela il cielo, bigio.
«Il cielo non è né azzurro né grigio. Non
ha colore. Il cielo ha un odore», s’accosta lui, serafico. Sopra al Nawfara il cielo ha l’odore del tabacco di Lattakya
bruciato dai narghilè, o del massel speziato alla mela (una moda, lui s’imbroncia, importata dall’Egitto) e degli
infusi di fiori. Sa delle pietre millenarie
di calcare che troneggiano dai muri della moschea, dei tappeti beduini rossi e
neri cotti dal sole, e del kaak bisoumson,
i pani tondi al sesamo, caldi di forno,
impilati sul vassoio di un garzone che
caracolla fra matrone, barbieri e bottegai. Si mescola agli effluvi delle carovane, che dalla Cina, dall’India, dalla Persia arrivavano al Caravanserraglio, dietro l’angolo, per distribuire il carico fino
a Venezia. Il rumore dei loro passi, «tenda l’orecchio», fa Adonis, «continua a risuonare nella polvere del sole».
«Oggi il cielo, se vuole, è un nettare. È
dolce. Indolente come il tempo, come
l’eternità: ha una bocca che non smette di sbadigliare».
«Ma ora sediamoci qui, sieda anche
lei. Guardi: s’è seduto anche il sole.
Qui, sul bordo delle tazze, sul tavolino
di ferro scrostato dalle braci, sul narghilè. E lassù, guardi: s’è seduto anche
in cima al minareto». Già, il minareto,
quella «parola verticale» che s’innalza
nello spazio sopra di noi, a creare il primo spaesamento. Infatti è il minareto
di Issâ, cioè di Gesù. Qui, secondo l’Islam, avrà luogo la battaglia apocalittica: Gesù, giunto il Giorno del Giudizio,
ridiscenderà da questa torre per combattere l’Anticristo.
Adonis, cantore dell’amore assoluto
e testardamente laico, fa spallucce: «Il
sacro si mescola al profano», indirizza
lo sguardo verso la soglia del ristorante
all’ombra della santa cuspide: «Dio è un
affare e la religione un grande mercato».
Sussurra: «Noi crediamo tutti in un
solo Dio, e però ciascuno pretende che il
proprio è migliore, e proclama guerre
per difenderlo. Siamo precipitati tutti
assieme, musulmani ebrei e cristiani,
nei tempi più bui dell’umanità: incolonnati dietro un dio armato, che scaglia
missili nel mondo. Questa è una guerra
fra dei; anzi, in seno al monoteismo».
Si scalda: «Noi poeti, noi pensatori,
noi filosofi abbiamo un compito urgente: immaginare una nuova spiritualità per il terzo millennio. Dobbiamo partire da lontano: da Abramo. Interrogarci se il monoteismo sia stato
storicamente un progresso rispetto all’uomo — in termini di pensiero, di filosofia, di arte — o piuttosto una regressione, portatrice di violenza».
Conclude: «Fa tremare quel dio che,
in senso religioso, non ha più nulla da
dire perché la verità è stata rivelata una
volta per tutte, e resta nulla da scoprire. Un mondo sbarrato per sempre. Infatti, dov’è l’uomo? Eccolo, guardi, il
capo prostrato a terra. Nel misticismo
invece l’invisibile continua a parlare,
all’infinito...».
Dal balcone del minareto i muezzin
chiamano alla preghiera dell’Asr, del
pomeriggio; il coro piomba sul Caffè,
dilaga fra i tavolini: «Andiamo, su venga. Prima che s’alzi la sera corriamo a
salutare Muawiyah. Poi torneremo, per
ascoltare il cantastorie».
‘‘
Adonis
Il rito della bellezza,
solo, fonda
la voluttà
su questa terra.
A Damasco la casa
è stata costruita
perché il paradiso
scenda sulla Terra
e vi resti,
e la consideri
un altro paradiso
Da ALEP
Imprimerie Nationale Editions
IN LIZZA PER L’ULTIMO NOBEL
Ali Ahmad Said Esber, più noto come
Adonis, è considerato tra i maggiori poeti
contemporanei di lingua araba ed è stato
tra i favoriti all’ultimo premio Nobel. Nato
a Qassabin in Siria nel 1930, nel 1957
pubblica la prima raccolta di poesie.
Attivissimo nel dibattito culturale, fonda
il gruppo Tammez. I suoi ultimi libri
pubblicati in Italia sono Cento poesie
d'amore, Guanda, Libro delle metamorfosi
e della migrazione nelle regioni
del giorno e della notte, Mondadori
Il segreto del Califfo
Muawiyah ibn Abu Sufyan era un califfo; anzi, il primo degli Omayyadi, il
quinto dell’Islam, nel 661. Fece Damasco grande e bella, qui fondò il primo
Stato arabo, e ne riversò le glorie, la
scienza, la poesia, oltre la catena del
Tauro, lungo le sponde
del Mediterraneo, fino
a Cordoba e Siviglia, e a
est fino all’India e all’Asia centrale. «Però, vedrà che sorpresa la sua
tomba». Con quel mistero ci infiliamo nei vicoli di Haraj Anna Kachate. Fra mura cieche
d’argilla, esplodono le
risa dei bambini scalzi.
Qui avrà camminato
Muawiyah. Beveva vino, come i siriani oggi,
delle uve dolci di Hawran e di Saidnaya.
Riempiva le coppe di
nettare al tempo in cui
le coppe dell’Islam già
si colmavano del fiele
dottrinario. Divise l’Islam della vita dall’Islam della morte, in
questa città che da più
di mille anni oppone al
fondamentalismo i
versi dei suoi poeti.
Ma cos’è il tempo?
«Cosa sono le parole?
Non chieda: imiti la rosa, e se deve parlare,
pronunci soltanto il
profumo». L’oggi si rispecchia tal quale nel
passato. Infatti, superata un’ansa, dalla calle affiora una cupola
pallida. È la tomba di
Muawiyah, solitaria e
disadorna. Si direbbe
dimenticata. Dietro un
cancelletto scardinato
mostra promossa e realizzata da
sbuca una famigliola
che fa da guardia al califfo. «Mamnouo! Vietato!», si scalmana la
donna per sbarrare il
passo. Cinque bambinelle le sgusciano di
sotto le vesti, dai triangoli d’ombra che
il sole disegna all’interno della soglia.
Le monelle alzano un tale incomprensibile baccano, uno stormo di uccelli
starnazzanti, che presto ripieghiamo
sui nostri passi. Svanisce il viso ambrato della donna, una Balkis, una regina di Saba. «A Salomone-Suleiman
lei domandò: “Di che colore è Dio? ”.
Lui restò confuso».
«Voilà, ha visto anche lei», commenta Adonis: «Così giace il padre dell’impero: inviso ai tiranni». In realtà attorno alle lastre sconnesse del sepolcro
divampa ancora, dopo 1350 anni, l’inconciliabile inimicizia fra sciiti e sunniti: da quando Muawiyah fu nominato califfo al posto di Ali, il genero del
Profeta, il quale riparò a Kufa, in Iraq,
dove fu assassinato e viene ancora
pianto martire. L’autorità nel mondo
islamico fu per sempre divisa fra le corti secolari dei califfi-monarchi, e la severa teocrazia degli imam sciiti. Sicché
capita che i pellegrini sciiti si rechino a
questo misero tumulo per scagliarvi
sassi e manciate di terra.
Ora Adonis tuona: «Sì, la mia società
è tutta da rifare, dalla A alla Z. Si dice
confessionalismo, ma sotto il manto
dell’Islam si camuffano le tribù. Il padre tribale e il dio si sono fusi in uno.
Tutti i leader arabi sono cattivi padri,
piccoli dei: è un dispotismo antichissimo. Però l’Occidente è complice: ama
avere di fronte a sé un despota, un oscurantista arabo. Si sente a disagio di
fronte a un interlocutore al suo livello.
Quasi volesse che il mondo arabo vegeti, al di fuori della Storia».
L’oceano dei sûq
Tra il brontolio di un camion e i richiami
dei contadini che vendono pistacchi,
sfociamo nel sûq al-Hamîdiyya, tra i più
antichi al mondo. Poco distante c’è il
sûq Madhat Bâchâ e più in là quello della lana, delle spezie, delle donne coi
mercanti d’ambra, e poi ancora dei flauti, delle sete... Camminiamo fra strade,
«campi di piante carnivore». I visi, «farfalle senza ali». La faccia di una beduina,
«ben più che un giardino da guardare».
Un negozio dove propongono piante
medicinali, unguenti, fortificanti e stimolanti, sciroppi di saggezza per la testa, sciroppi d’amore per il cuore... «Qui
si apprende la saggezza dell’eternità».
Adonis appare e scompare. Si dilegua nelle ombre, la sua voce chiama dal
fresco di un antro profumato di gigli.
Eccolo, beato, porge il lembo di un tessuto. «È un abito ricamato dalle mani di
una donna di Sarakeb, nel nord». Dal
lampo che gli attraversa gli occhi si capisce che in quell’arabesco il poeta ha indovinato l’essere umano:
«Nessuno parla mai
della grandeur della
mano araba, che ha
creato capolavori meravigliosi. Si parla di
cervello creativo, ma la
mente ha binari rigidi.
Negli arabi la testa è imprigionata, ma la mano
è libera. Tutte le ideologie detestano il corpo,
ignorano il piacere di
quell’essere straordinario che è l’uomo». Ci
siamo, si rivela il Sufi: «I
mistici arabi dicevano
che lo spirito è il corpo,
e il corpo è la libertà totale. In particolare, il
corpo femminile. Solo
attraverso di esso si accede all’invisibile».
william congdon
1912-1998
analogia
dell’icona
un cammino
nell’espressionismo
astratto
Vicenza, contra’ Santa Corona 25
3 settembre - 13 novembre 2005
da martedì a domenica dalle 10 alle 18
L’atelier del pittore
La ricerca dell’“uomo
universale” esige un ultimo saluto: qui dietro è
nascosto lo studio di
Moudarres, pittore,
musicista e poeta, astro
nell’olimpo dell’espressionismo mondiale, complice di Adonis da sempre. Lo cerchiamo dietro mura in
mattoni crudi seccati al
sole, fra case aperte verso l’interno su giardini
dove fioriscono il limone, l’arancio amaro, il
gelsomino d’Arabia.
Oltre gli usci tutto è fresco, silenzio e piacere
degli occhi: quadrati di
basalto e marmi, fontane fruscianti, il canto
degli uccelli. «In queste
case dubiti del nulla», è soave Adonis:
«Quasi che l’uomo sia capace d’abitare
i suoi sogni».
E qua e là, lungo la corsa, si schiudono hammâm coi bagni dai nomi profumati: bagno al muschio, alle rose, della
bellezza, della porcellana, della regina... unguenti di zenzero e cannella...
Naeeman, «che la pienezza del paradiso sia su di te», ti dicono i siriani quando esci dal bagno, anche dalla vasca di
casa. Quanto è lontano l’Occidente.
Ed ecco, svicolando in un budello, si
apre su via al-Marioud l’atelier di Moudarres. Sulla porta di legno sono scomparsi i foglietti spillati coi suoi aforismi:
«L’uomo è più bello della ragione».
Qualcuno li ha raccolti per comporne
una summa letteraria. Via le fotografie
di Sartre e di Moravia, lui cresciuto alla
Scuola romana, tornato a Damasco a
elaborare la sua corrente di “espressionismo musicale”.
Non s’odono più le musiche sufi.
Moudarres da cinque anni è sepolto a
Bab Assahir. Ma le sue opere, Il Derviscio e i Gitani, I profughi, sono esposte
in città alla Galleria Atassi (e a Parigi,
Berlino, New York). «Allunghi la mano,
tocchi gli spettri che si alzano nel suo
spazio»: dalla tela vengono incontro
sguardi di sacerdoti, oranti, turiferari,
antichi copricapi, i colori della terra di
Aleppo. «Da questo si riconosce un capolavoro: quando, appena posati gli
occhi, i colori cominciano a cantare».
Si naufraga nell’immensa memoria siriana: l’uomo ridiventa assiro, babilonese, mesopotamico, discepolo di
Ba’al e Bèl, Ashtar e Adonis, Gilgamesh
e Goudèa.
Il cantastorie
S’alza il crepuscolo e dal cielo arriva il
coro del Maghrib. Di corsa. Abu Shad,
l’ultimo hakawati, il cantastorie pubblico, sta per salire sulla pedana del
Nawfara. «Non cerchi di capire: osservi». La sala è calda delle braci dei narghilé. Sotto le lucerne arabe, inizia la
lettura delle notti del passato. È un’epopea l’anno divisa in 365 libretti, ogni
notte un libretto. Quest’anno, per ironia, è la saga di Saladino e i Crociati.
Abu Shad si calca il tarbush in testa, si
aggiusta il corpetto e il séroual, poi
prende a recitare gli appellativi di Dio.
«D’un sol colpo di spada spiccò cinquanta teste». È il duello fra il crociato
Sama’an e l’emiro Assaid. L’emiro si lancia al galoppo, rotea la spada, e andaha...
e a quel punto... Abu Shad impugna la
sciabola di latta, la rotea, la sbatte con
gran frastuono sul piano di metallo.
«Com’è ostinato il sogno della vittoria!», bisbiglia Adonis. Il cantastorie,
aggrappato a quel sogno, dice: «Damasco non è mai caduta in mano ai Crociati. Se verranno, mi farò calpestare
per fermarli. Meglio un oppressore di
casa, che uno straniero». Ma anche il
sogno fatuo del cantastorie, come dice
Adonis, resta appeso a queste pareti.
Dalla Moschea sta per piombare il canto dell’’Isha con il profumo della notte.
«La notte, Damasco non dorme», è sereno Adonis. «Si dice: “quando dorme,
il suo sonno è leggero come il sogno”».
Arrivederci, as-Salaamu ‘alaykum,
Monsieur Adonis, uomo del Mediterraneo, della Senna e dell’Eufrate. «Ci rivedremo, ci rincontreremo. Mi aspettano a Berlino, poi a Madrid, Parigi, Siena e Beirut. Prima o poi tornerò. Ma
non so se è così. Quando credi di farti
incontro a Cham, Damasco, è lei ad
avanzare verso di te, dopo una lunga
traversata dei secoli».
«Però si volti, presto»: dalla moltitudine escono due occhi roventi su una
giovane faccia a triangolo e un sorriso
smagliante. «Visto? Era Gilgamesh anche lui». Il ragazzo guizza via sulla bicicletta, una cesta traboccante di erbe
agganciata al sellino. Sulla scia s’alza
una sbuffata di menta. E le eterne domande di Gilgamesh/Adonis: cos’è l’universo, c’è ancora spazio in questo
mondo per la poesia?
FOTO REUTERS
DOMENICA 23 OTTOBRE 2005
FOTO CORBIS / CONTRASTO
IL PALAZZO. Nella foto sopra, l’interno di un antico albergo del centro di Damasco
FOTO CORBIS
Repubblica Nazionale 39 23/10/2005
LA MOSCHEA. Qui sopra il cortile della stupenda moschea Umayyad di Damasco
FOTO GRAZIA NERI
IL MERCATO. Qui sopra, il sûq al Hamidiye. Sotto, la preghiera nella moschea Umayyad
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 23 OTTOBRE 2005
Lo scrittore siciliano ha compiuto ottant’anni e Sellerio
Editore gli ha regalato un piccolo, prezioso libro
con la collezione di tutte le sue copertine: trecento,
stampate in venticinque paesi. Un’occasione per smontare i meccanismi
di uno straordinario successo editoriale e per mettere in discussione
l’immagine dell’isola che questi romanzi hanno diffuso ovunque
Il giro
del mondo
ndrea Camilleri ha maritato i suoi figli, ma certamente non ha scelto le
loro mogli. Per ogni libro-figlio c’è
una copertina-nuora che Camilleri
si ritrova in casa o, se volete scambiare i generi, per ogni pubblicazione-figlia c’è una copertina-genero. Ma Camilleri
non è le sue copertine. Ad esempio, la bella copertina turca della Gita a Tindari, Tindari Gezisi, giocata soprattutto sul bianco e nero con l’aggiunta
del rosso del sangue, non rimanda certo a Camilleri, ma alle gerarchie dei colori che, in ogni Paese, sono diverse. Per noi il bianco significa l’eccellenza,
il candore e la purezza mentre il nero è l’oscurità.
Per i turchi è esattamente il contrario, forse perché
era Nero il mare attorno al quale svilupparono la loro potenza ed era invece con disprezzo liquidato
come “Mare Bianco” quel Mediterraneo che fu la
nostra apertura, la nostra fantasia, la nostra vita.
Così gli antichi greci non conoscevano l’azzurro
perché, spiegava Nietzsche, mancava loro la
profondità dell’infinito e neppure nel mare e nel
cielo riuscivano a vedere il blu.
Perdersi dunque nei codici di queste belle trecento copertine, che Sellerio ha raccolto in un volume omaggio agli ottanta anni di Andrea Camilleri e ai suoi 35 romanzi, significa imbarcare gli occhi
e dimenticarsi dei libri che spesso i grafici neppure leggono. Sempre le copertine sono un’altra cosa
rispetto ai libri. Le copertine seducono il lettore
con le linee, con i colori e con la tattilità. Sono come i vestiti che da tempo non sono più sudditi del
corpo che li indossa, ma rimandano agli stilisti e al
loro linguaggio. In copertina, lo stesso autore diventa estraneo al suo libro, la copertina non è la
droga che ne potenzia la lettura. È come la pubblicità: ci sono straordinari spot di prodotti che nessuno poi verifica, e si può giustamente dire che il
prodotto è un pretesto per la pubblicità come il libro è un pretesto per la copertina.
Capita dunque di sentirsi sedotto da un intimo
femminile, ma di non sopportare il corpo della
donna, — la moglie, un’amica, una detestabile zia
— che lo indossa. Con Camilleri la faccenda si complica, perché non solo ci piacciono queste copertine, prova fisica dello straordinario successo internazionale di un autore tradotto in ben 25 lingue.
Ma ci piace anche lui. Ci piace tutto di Camilleri,
tranne la sua scrittura. Intanto ha la voce calda e pastosa, il felicissimo tormentone del Fiorello radiofonico. Ed è un uomo all’antica, un incrocio arabo-normanno che ha reso la Sicilia più incomprensibile ma più popolare. Di Camilleri sono simpatici anche il suo essere di sinistra come un ragazzino, la sua ironia, e soprattutto l’intramontabilità del talento, la disgiunzione tra il talento e
l’anagrafe, quell’esser diventato in tarda età lo
scrittore italiano più prolifico, più venduto e più
letto in Italia e nel mondo; quell’essere un ottantenne bravo nell’inventare trame e nel produrre
gialli a ritmo industriale, nel farsi “tragediatore”
delle anime perse.
Camilleri insomma è l’anziano che tutti vorremmo essere. Ci piace, dunque. Ma come ci piacevano i nostri nonni dei quali detestavamo la “nonnità”: la loro fede politica monarchica per esempio, la devozione ai santi e ai miracoli, i proverbi, i
malocchi, i pregiudizi... Insomma, di Camilleri
non ci piace la sua Sicilia che è dialetto finto, è marginalità, è caricatura, è surrogato, è l’eco di una voce, è l’ombra di una terra. Agli stranieri Camilleri
piace perché è poeticamente pittoresco, e perché
grazie a lui misurano la distanza tra la loro presunta “Übermensch” e l’umanità lenta, antica, attardata, bloccata, implosa. E molti siciliani sono contenti di essere descritti come un’umanità a statuto
speciale, amano la cortina che li nasconde, li protegge e li tiene fuori dalla storia che, purtroppo, è
pesante. Il siciliano adora ricoverarsi nella “cameretta” descritta da Brancati. C’è insomma una
complicità più o meno dichiarata tra il genio di Camilleri e gli ignavi di Sicilia, perché è molto comodo stare dentro un cliché definito una volta per tutte, cittadini di una isolatissima isola arcaica senza
ponti, isolani per caratteristiche biologiche e per
qualità del liquido seminale, titolari di una separatezza che ovviamente non esiste se non come ste-
Repubblica Nazionale 40 23/10/2005
A
Camilleri
di
C’è complicità tra
il genio dell’autore
e gli ignavi di Sicilia,
perché è molto comodo
stare dentro un cliché,
in una isolatissima
isola senza ponti
Lo strano caso
delle Due Sicilie
‘‘
Andrea Camilleri
La Sicilia per me è il villaggio
di Tolstoj, quando diceva:
“Descrivi bene il tuo villaggio
e avrai descritto il mondo”
‘‘
FRANCESCO MERLO
reotipo, come pregiudizio che raccoglie, in disordine, malanni personali e banalità di ogni genere.
In Sicilia una finestra chiusa significa paura, un
uomo che ride è Liolà, un cittadino che vuol farsi i
fatti propri è omertoso, il vestito nero di una donna non è un segnale sexy come a Parigi, ma è un sospetto di lutto, un indizio di reato, l’allegoria di una
lupara. E il velo sulla testa di una signora è il segno
ancestrale di una cultura araba. Un uomo che si appisola nel pomeriggio è don Giovanni in Sicilia. Un
pranzo è una mangiata. Un amico è un complice.
Un amore è una tragedia. Un bacio è un tradimento. Uno sguardo è un ingravidamento. E non c’è
fondo senza sottofondo, non c’è salsa di pomodoro che non sia unica, inimitabile, irripetibile. Il tutto descritto con la lascivia sentimentale di certe orrende cose di noi stessi che ci piacciono tanto, quasi fossero anacronistiche virtù, elisir da paradiso
perduto.
Attenzione: è vero che la Sicilia è anche delirio,
patacca, finzione, dialetto masticato, mafia e orrore. Ma non è questa la Sicilia delle professioni moderne, delle università, dei licei, e neppure dei famosi mercati, la Vucciria di Palermo e la Fera o luni di Catania, che ormai sono mercati internazionali. I venditori sono senegalesi, arabi, cinesi... E gli
acquirenti sono maltesi, brasiliani, marocchini,
tunisini, dello Sri Lanka, indiani, mauriziani... Chi
pensa di trovare la cosiddetta “autenticità” della
Sicilia di Camilleri nei mercati-simbolo di Palermo
e di Catania, rimane subito spiazzato perché vi trova invece la globalizzazione e la babele. Così le università siciliane nulla hanno di diverso da quelle
francesi o londinesi, senza ovviamente misurarle
con i punti di eccellenza, ma con l’umanità che le
frequenta: gli insegnanti, gli studenti, i bidelli.
Chi parla oggi il dialetto di Camilleri in Sicilia?
Dov’è la Sicilia di Camilleri in Sicilia? Certo, Camilleri non è il responsabile di quest’idea di separatezza che ha trovato già confezionata nella cultura
sicilianista, e alla quale persino Sciascia ha fornito
il suo contributo. Camilleri eredita la sua Sicilia
dalla letteratura sulla Sicilia, ed è vero che la letteratura è sempre ficiton. Nessuno pensa di conoscere la verità dei comites palatii di Carlo Magno attraverso l’Orlando furioso, che è un documento,
ma non è un manuale di storia e di sociologia. Nessuno vuole applicare alla letteratura il criterio zda-
DOMENICA 23 OTTOBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
Parla Niccolò Ammaniti
“Una melodia
che conquista”
ALESSANDRA ROTA
ho conosciuto nel’99.
Eravamo a Catania,
lui e Fausto Bertinotti
dovevano presentare il mio libro
Ti prendo e ti porto via. In quell’occasione ho scoperto due cose:
che il leader di Rifondazione Comunista è un vero critico letterario e che Camilleri è un narratore
da tavola, nel senso che ha un
pensiero narrativo, sempre».
Niccolò Ammaniti è anche l’autore di Branchie (Ediesse, poi Einaudi), di Io non ho paura (Einaudi), dal quale è stato tratto il
film di Gabriele Salvatores. Ora il
popolo dei suoi fan (121mila siti
in rete) è in attesa dell’annunciato romanzo dal titolo provvisorio
Meno 273 (Mondadori) che dovrebbe uscire nei primi mesi del
2006.
Ammaniti che tipo è Andrea
Camilleri?
«Affettuoso, come può esserlo
un lettore. Quella prima volta in
cui ci siamo incontrati mi ha molto colpito».
Come mai?
«Ha un modo di fare speciale e
poi entra nel vivo del tema, senza
preamboli. È schivo, apparentemente introverso ma è anche diretto, disponibile. Vive in un
mondo suo, molto forte, che può
sembrare inaccessibile, ma la sua
capacità di raccontare apre ogni
porta. È un uomo che ha sempre
espresso i suoi pensieri, ha scontato la sua sincerità, basta ripensare alla vicenda della Rai. Quelli
come lui sono davvero pochi».
Ha anche una fantasia infinita.
«È vero, anno dopo anno scrive
storie. In questo assomiglia ad un
altro grande affabulatore, Georges Simenon. Dentro di lui c’è un
fatto narrativo che non si spegne.
In genere, dopo una certa età ci si
ripete, ma Camilleri è all’interno
di una corrente di narrazione. Fa
lo scrittore con tranquillità. Gli
studenti dell’Accademia di arte
drammatica ricordano che quando insegnava riusciva a “prendere” le persone e a portarle fino dove voleva».
Se dovesse scegliere: meglio il
commissario Montalbano o i romanzi?
«Preferisco la sua parte immaginativa, io faccio parte di quelli
che non amano seguire le trame
che si dipanano lungo il filo di
un’indagine».
E il linguaggio di Camilleri?
«Per me non è stato facilissimo
seguirlo. Anzi, ho dovuto fare i
conti con quella lingua, addirittura ogni tanto saltando qualche
parola incomprensibile. È una
strana melodia, puoi non capirla
a fondo, ma ne sei catturato; è un
suono aspro, quasi cacofonico».
Come si spiega tanto successo,
nonostante la difficoltà?
«L’ho detto prima: Camilleri
racconta storie semplici alle quali è facili appassionarsi: costruisce con le parole l’affresco di un
mondo apparentemente immobile che ti cattura».
Repubblica Nazionale 41 23/10/2005
«L’
noviano del realismo. Sempre la letteratura inventa, deforma, aggiunge, amplifica. Ma
Camilleri riduce. Il segreto del suo
grande successo è nella ripresa facile,
nella volgarizzazione e nell’offerta di tutti i
vecchi cliché, di tutti i vecchi luoghi comuni presentati con la semplicità compiaciuta del realismo,
quasi fosse il Simenon della piccola gente di Sicilia.
La letteratura postgiudizio diventa con lui letteratura pregiudizio. Se la buona letteratura è sempre
surreale la sua è “sottoreale”.
Mi è persino accaduto, a me che sono siciliano,
di incontrare dei tedeschi che
erano stati in Sicilia dopo avere letto Camilleri. «Ma voi non siete così»
dicevano, felicemente sorpresi di
non avere trovato i siciliani camillerianeschi. Erano contenti che non ci fosse
corrispondenza tra la scimmia e la gabbia. E a loro volta i siciliani erano felici di
riaccreditarsi, di liberarsi della scimmia,
della separatezza e della diversità, ma ciascuno rifugiandosi ancora una volta nel più vieto dei
luoghi comuni della separatezza, così rinchiudendosi di nuovo nella gabbia: «Eh sì, anche io sono siciliano. Siciliano sì, ma diverso».
LE IMMAGINI
Le copertine
dei romanzi
dello scrittore
siciliano (foto sopra)
riprodotte in queste
pagine sono tratte
dal volume “I libri
di Andrea Camilleri”
di Sellerio Editore,
in cui sono raccolte
circa 300 copertine
pubblicate
in 25 differenti paesi
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 23 OTTOBRE 2005
Con i capelli lunghi, corti, ricci. Il viso sorridente, imbronciato,
sexy. Il corpo rimasto quasi infantile, fragile e nascosto oppure
mostrato come punizione e rinuncia: sono i ritratti dedicati
alla Huppert dai più grandi fotografi in trent’anni di carriera. Scatti d’autore raccolti
in un libro, che racconta - senza riuscire a svelarlo - il fascino enigmatico
di una delle più brave e intriganti attrici del cinema contemporaneo
NATALIA ASPESI
areva quasi sconveniente
darle il premio come miglior
attrice, all’ultima Mostra del
Cinema di Venezia, dove del
resto in passato lo aveva già
vinto tre volte; a parte il fatto
che bisognava assolutamente onorare
un’attrice italiana per non creare guai (e
infatti fu scelta Giovanna Mezzogiorno), che senso aveva dichiarare per l’ennesima volta che lei è la più brava, quando la sua bravura è imparagonabile e
forse non è neanche bravura, ma un suo
segreto maleficio che mette a disagio lo
spettatore, lo relega in un angolo, se ne
impossessa, lo trafigge, lo svuota, lo incanta? Così con somma condiscendenza Isabelle Huppert ritirò il premio appositamente inventato per lei in quel
momento, il Leone Speciale all’insieme
dell’opera: un insieme quasi inumano,
oggi che le attrici arrancano in una manciata di film e appena la luce della giovinezza si annebbia e il sedere non ha più
quella opprimente spavalderia, vengono scansate come la peste, a meno che
si adattino a ruoli horror o comici, in cui
come donne vengono irrise e maltrattate. Gabrielle di Patrice Chéreau, il film
presentato a Venezia, è per la Huppert il
suo settantesimo, e nel frattempo ne
aveva già girato un altro e altri registi
questuanti erano in fila ad aspettare la
sua generosa disponibilità.
Non è solo il cinema francese a non
poter fare a meno di questa cinquantenne piccolina e incorporea, esangue e
severa: e infatti si è appena aperta (sino
al 23 novembre) al MoMA di New York
una retrospettiva del suo cinema, e i curatori hanno dato spazio soprattutto ai
film in cui è diretta da grandi registi internazionali, dal polacco Wajda all’italiano Ferreri, dall’americano Cimino al
tedesco Schroeter, dall’ungherese Meszaros all’austriaco Haneke. Lei è per gli
autori una calamita, un’attrazione fatale, una icona salvifica, quasi un vizio, in
fondo una mancanza di fantasia: appena uno immagina un personaggio femminile travagliato, oscuro, maledetto,
eppure rubacuori, pensa subito a lei, e
questo ormai da trent’anni, da quando
cioè lo svizzero Claude Goretta la volle
protagonista di La merlettaia, nel ruolo
drammatico di una giovanissima parrucchiera anoressica avviata alla follia.
Da allora, Huppert, prostituta, ha avvelenato i genitori (Violette Noziére);
cortigiana, è morta di consunzione (La
storia vera della signora delle camelie);
abortista clandestina nella Francia occupata dai nazisti, è stata condannata a
morte (Un affare di donne); scrittrice
nevrotica, si è data fuoco (Malina);
adultera, si è suicidata col veleno (Madame Bovary); è stata una postina infanticida e pluriassassina (Il buio nella
mente); un’imprenditrice omicida
(Grazie per la cioccolata); una sadomasochista efferata (La pianista); una madre incestuosa (Ma mere). Ha molto turbato ma mai scandalizzato, perché il
suo talento straziante riscatta ogni orrore e ogni nequizia, come se i suoi personaggi feroci o dal destino crudele, avessero comunque diritto alla comprensione, alla pietà, al perdono, perché l’umanità è anche questa, fatta di errori,
orrori, strazio, violenza, tragedia.
Attorno al mistero del suo viso si sono
accaniti anche i fotografi, alla vana ricerca della sua verità: e adesso Contrastopubblica in Italia (in Francia lo ha fatto Editions du Seuil) una raccolta di suoi
ritratti tentati da grandi artisti che vanno da maestri come Cartier-Bresson e
Jacques-Henri Lartigue, a star della fotografia di moda come Richard Avedon
o Helmut Newton, agli esponenti del ritratto contemporaneo come Ange Leccia ed Antoine d’Agata. Il libro è curato
da Ronald Chammah, produttore e regista cinematografico, fotografo amatoriale, libanese d’origine, italiano d’adozione, parigino di vita: tra l’altro marito di Isabelle che ha diretto in un film
del 1987, Milan Noir, mai arrivato in Italia. Pare non esistere un filo conduttore,
né cronologico né alfabetico dei foto-
P
Isabelle
allo specchio
grafi, nella successione dei ritratti, che
invece deve esistere, segreto, nel modo
di guardarsi e pensarsi, di condividere
memorie e pensieri, della coppia. Ma è
questa apparente casualità e addirittura caos, che rivela la capacità mimetica
e sorprendente di un viso e di un corpo
continuamente mutevole eppure immutabile.
Nelle fotografie come nei film, Huppert è sempre se stessa e sempre un’altra, è lei e il personaggio che sta incarnando: di sé non vuole si sappia nulla,
del ruolo che offre tutto. In questo alternarsi di ritratti di fotografi diversi e in
anni diversi, c’è il segreto della sua bellezza inquietante, incompleta, che si fa
più magica quando sfiora la desolazione, il brutto. A trent’anni pare ancora
un’adolescente, imbronciata e chiusa,
e in Una donna pericolosa di Christine
Pascal è già stata violentata dal poliziotto Richard Berry; a quaranta la sua
sapienza erotica sboccia irresistibile e
in Rien ne va plus di Chabrol è una ladruncola che seduce e addormenta le
sue vittime. E intanto le sue guance rotonde si sono affinate, la sua bocca piena si è assottigliata, i suoi occhi azzurri
si sono oscurati, il suo corpo quasi infantile è rimasto tale, fragile e nascosto,
oppure esposto come punizione, come
rinuncia, come offesa. La carnagione
candida delle rosse è diventata più fragile, ogni piccola ruga, mai nascosta, un
mistero in più, il disegno delle efelidi è
ancora oggi un labirinto in cui chi la
guarda si turba e si perde. I capelli si accorciano, si allungano, si appiattiscono, si arricciano, la rendono sexy, la imbruttiscono, incorniciano la sua rabbia
e la sua dolcezza, la sua desolazione e la
sua cocciutaggine.
Docile, l’attrice espone il suo viso nudo all’occhio della macchina fotografica: non ride mai, talvolta sorride, quasi
sempre offre nel suo apparente rifiuto di
ogni espressione tutte le possibili interpretazioni: basta un po’ di trucco e diventa Greta Garbo o Renée Falconetti,
Rita Hayworth o Kate Moss. Era più bella nel ‘78, a ventitrè anni, quando vinse il
premio di miglior attrice al Festival di
Cannes con Violette Noziéredi Chabrol o
lo è ora, a cinquanta, dopo il Leone d’Oro veneziano? Adesso, certamente, perché il suo talento l’ha spogliata da ogni fisicità, dalla prigione implacabile della
giovinezza perduta che avvelena la maturità di tante donne ma non la sua.
Quando in Gabrielle si materializza
dal buio e dal silenzio, in una casa patrizia Belle Epoque, il viso celato da una veletta sotto un grande cappello nero, fa
DOMENICA 23 OTTOBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
IL LIBRO
Le immagini in queste pagine sono
tratte dal volume “Isabelle Huppert,
la donna dei ritratti”, edito
da Contrasto e in uscita in Italia a fine
mese, con prefazione di Serge
Toubiana e testi di Elfriede Jelinek,
Patrice Chéreau, Susan Sontag
(168 pp, 35 euro). La foto grande
è di Sylvia Plachy (1986). A sinistra,
uno scatto di Henri Cartier-Bresson
(1994). Qui sotto i ritratti di Leonard
Freed (1992), Nan Goldin (2004)
e Jeanloup Sieff (1985)
Parla l’attrice francese
FOTO NAN GOLDIN/CONTRASTO
FOTO LEONARD FREED/CONTRASTO
FOTO HENRI CARTIER BRESSON/CONTRASTO
“Io e le mie mille verità
come dentro un film”
intuire al marito, allo spettatore, la tragedia femminile che
sta attraversando, senza uno
sguardo, senza una parola. È
una donna sposata da dieci anni con un uomo che l’ama come un prezioso oggetto; lei se
ne è andata lasciando una lettera al marito incredulo e disperato, ma poco dopo ritorna,
e non sa dire perché. Nel lungo,
spietato scontro verbale tra i
due, in cui lei scende nel fondo
della loro ipocrisia e lontananza, offre il suo corpo senza carnalità nella desolazione più umiliante per lui; e sono una prova sconvolgente di attrice la
violenza trattenuta che anima la sua elegante compostezza, le emozioni e i sentimenti che raggelano e infiammano il
suo viso immobile, spento.
Sulla televisione satellitare hanno riproposto in questi giorni La pianista, regia di Haneke, tratto dal romanzo del
premio Nobel Elfriede Jelinek, che con
Patrice Chéreau e Susan Sontag ha scritto i saggi di Isabelle Huppert, la donna
dei ritratti. Pluripremiata per il ruolo
più sgradevole della sua carriera in un
film di erotismo umiliato e soffocante, la
Huppert trasmette agli spettatori un
malessere autentico, che il cinema, or-
FOTO JEANLOUP SIEFF/CONTRASTO
FOTO SYLVIA PLACHY/CONTRASTO
Repubblica Nazionale 43 23/10/2005
La donna del mistero
che cattura l’arte
In queste fotografie, lei è
sempre sé stessa e sempre
un’altra, come nei ruoli
che interpreta sul grande
schermo. Lei è sempre il suo
personaggio, la vita privata
rimane al riparo protetta
da un muro invalicabile
mai confezionato soprattutto per le famiglie e per i passaggi sulle televisioni
generaliste, non osa più affrontare.
Malvestita, spettinata, brutta, nevrotica, spenta, furente, masochista, disperata, violenta, malata, vendicativa, autolesionista, giustifica con i suoi silenzi
cocciuti, il suo viso raggelato, quel corpicino monacale, gli sguardi imperiosi,
i gesti sconnessi e bruschi, l’amore appassionato di un suo allievo giovane,
bello, sincero cui chiede, disgustandolo
e perdendolo, di essere picchiata, umiliata, annientata.
Parrebbe che il lavoro di attrice sia
tutta la vita di questa donna che accumula film su film e in più gira i palcoscenici del mondo, portando in scena personaggi drammatici e testi tragici, come
la Medea di Euripide, l’Orlando di Virgina Woolf, la Maria Stuarda di Schiller, la
Hedda Gabler di Ibsen, e il monologo
Psicosi delle 4,48 di Sarah Kane, suicida
nel ‘99 a 28 anni, che sta recitando adesso a New York e porterà al teatro Strehler di Milano in dicembre. Invece Isabelle ha una sua vita privata, un marito,
tre figli, di cui la maggiore già attrice. Un
muro impenetrabile la difende, non esistono sue foto di famiglia, giornalisti di
tutto il mondo non le hanno cavato una
sola parola che non riguardi il suo lavoro. E questo ormai da quando, appena
sedicenne, la sua grazia infantile e altera incominciò a interessare il mondo del
cinema non solo francese.
Certo oggi il suo atteggiamento di intransigente segretezza può apparire
una bizzarria, un eccesso di snobismo.
Non si sa quindi se la compiangono, o
forse la invidiano, certe nostre donnine
arrivate alla celebrità perché senza mutande negli show televisivi, certe nostre
bellissime star impietrite da chirughi
estetici ostili alle donne, che si innamorano, litigano, annunciano concepimenti, si separano, fanno le corna, divorziano, piangono, tra le fauci di conduttori-corruttori televisivi. Il privato
viene confuso con il peggiore dei mali,
l’anonimato: e l’esibizionismo dei sentimenti e del corpo diventa una professione, anzi la sola accessibile per chi non
sa cosa siano il talento e la passione che
hanno fatto grande Isabelle Huppert.
LAURA PUTTI
D
PARIGI
a dove nasce questo libro, signora Huppert?
«Dalla voglia di rendere omaggio ai fotografi
con i quali ho lavorato. Poi dal lavoro di Ronald
Chammah e di Jeanne Fouchet che hanno scelto
e riordinato le fotografie senza che neanche me
ne accorgessi».
Però ora le vede (e da oggi le vedranno anche
al Moma del Queen, poi dopo New York, Parigi,
Berlino, Londra e Tokyo la mostra arriverà a Roma in settembre). E che cosa pensa?
«Che è, come si dice per l’arte moderna, una
performance di ottanta persone che guardano lo
stesso soggetto. Che, alla fine, è un lavoro d’attrice».
Ma un’immagine fissa non è cinema, non è
teatro. In tre ritratti (Scianna, Freed, Vanden
Eeckhoudt) lei si riflette addirittura in uno specchio: non è una foto anche uno specchio?
«Non direi. Per un’attrice è una cosa naturale
la capacità di moltiplicarsi, di trasformarsi. In
tutte queste trasformazioni può esserci qualcosa
di vertiginoso, perché più ci si trasforma e meno
si afferra la verità. Il libro gioca con questo paradosso, e così i film. A forza di essere multipli, non
si è».
Nella sua prefazione, Patrice Chereau lo spiega bene: definisce le fotografie «manifestazioni
di un io multiplo, carnivoro e irriducibile», e il libro «di un narcisismo sfrenato e necessario».
«E allo stesso tempo è anche il contrario, è anche annullarsi. Essere attrice è partecipare a un
gioco; è come un gioco questa capacità di trasformazione che io so di avere».
La femme aux portraits inizia con un close up
sfocato (anonimo, 1968) e termina con lei di
spalle, una piccola testa lontana davanti a un
enorme schermo bianco (Hiroshi Sugimoto,
2005). Perché, alla fine, un annientamento di
sè?
«Non lo so. Questo è il lavoro di Chammah e
Fouchet, sono loro che hanno scelto l’ordine delle foto».
È facile per lei essere fotografata?
«Mi piace molto».
Ogni ritratto le ricorda i sentimenti con i quali si è mostrata al fotografo?
«Non credo che si provino sentimenti durante
una seduta fotografica. Io, almeno, non ne provo».
Neanche quando, a poco più di vent’anni, ci si
trova davanti a Cartier-Bresson, Ritts, Lartigue,
Avedon, Kudelka, Doisneau, Newton?
«Assolutamente no. Però certe volte davanti a
fotografi come Cartier-Bresson o Newton ho
provato lo stesso sentimento di fiducia che ho davanti a un grande regista. Il fatto di essere diretta
da Godard incide in maniera misteriosa e sotterranea nella mia maniera di essere. La personalità
del regista agisce in modo inconscio su di me.
Non c’è pensiero, al contrario: c’è un’assenza di
pensiero».
Si sente al suo posto davanti all’obbiettivo di
un fotografo?
«Mi sento più rilassata, senza paura, forte».
Il pudore?
«È una parola che mi fa orrore. Non vuol dire
niente. Non posso neanche pronunciarla, tanto
la detesto».
Qual è la Isabelle che preferisce? La ragazzina
con il gatto di Boubat? Quella di Kudelka, che
passa attraverso la vita? O la femme fatale di
Lindbergh e Newton?
«Non riesco a scegliere. C’è talmente di tutto in
queste fotografie. In alcune mi cancello; altre
hanno più verità; altre ancora sono molto posate
come quella di Nick Knight o quella con il cappello di Len Prince. C’è di tutto perché con un viso e un corpo si può fare di tutto: restituirlo nella
sua verità o travestirlo, trasformarlo».
Soprattutto quando si scivola in universi molto personali come quelli di Lise Sarfati, Nan Goldin o Philip-Lorca DiCorcia...
«Loro immaginano qualcosa che li riguarda,
qualcosa che è la loro storia e io sprofondo nello
spazio immaginario che vogliono raccontare.
Anch’io con il mio immaginario. Per esempio
Lorca DiCorcia ha messo su una finzione che è
durata tre giorni e io ci sono entrata senza problemi. Quando si entra nell’universo dell’altro si
ha più libertà di essere se stessi».
E chi invece l’ha mostrata cruda, dolente,
quasi senza trucco? Roni Horn e Patrick Faigenbaum, per esempio?
«È la stessa cosa. È sempre incontrando l’altro
che posso incontrare me stessa».
C’è un’unica foto rubata, non posata. Lei sta
scendendo le scale…
«A Cannes. È una foto di Jérome Brézillon. Una
bella foto ha anche qualcosa di invisibile, di incosciente che traspare. Ha un suo mistero. E in quel
caso, scattando da lontano, il fotografo ha catturato un’atmosfera, un’armonia tra la vita, la scala, l’abito. La fotografia è questione di fortuna e di
momenti rubati. È un incidente. Come in tutte le
forme di espressione c’è il calcolo, la preparazione e allo stesso tempo qualcosa che sfugge a ogni
previsione».
DOMENICA 23 OTTOBRE 2005
spettacoli
Arte e politica
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
Da sempre in America tra film e potere c’è un rapporto
strettissimo, che però anche nei momenti di maggior crisi
non ha influito sul valore artistico delle pellicole
Dopo l’11 settembre due libri raccontano i retroscena
di una storia ricca di sorprese: la caccia alle streghe
e i summit tra consiglieri della Casa Bianca e produttori
Hollywood segreta da Mc Carthy a Bush
L’
ANTONIO MONDA
NEW YORK
Repubblica Nazionale 45 23/10/2005
annuncio che dietro il finanziamento di 150 milioni di dollari di un film dall’esplicito messaggio cristiano come Le Cronache di Narnia si nasconde il miliardario Philip Anschutz,
conservatore sia nelle scelte politiche
che nel modo di vivere la sua fede presbiteriana, ha riaperto il dibattito sulla
coloritura politica di Hollywood e su come artisti, agenti, produttori e mogul riescano a conciliare incasso e ideali. Nella
città degli angeli il rapporto cinema-politica esiste dagli albori, ma negli ultimi
vent’anni, in particolare con George W
Bush presidente, ha acquisito elementi
inediti e contraddittori.
Nella storia del cinema americano accanto a una larga predominanza liberal
c’è sempre stata una significativa presenza conservatrice che ha assunto ripetutamente accenti reazionari. L’uscita parallela di due testi sul rapporto cinema-politica ci accompagna in un
viaggio appassionante, e rivela che questo intreccio non ha limitato i risultati di
un’arte dagli imprescindibili aspetti industriali. Sia Red Star over Hollywood di
Ronald e Allis Radosh, che Hollywood il
Pentagono e Washington, pubblicato in
Italia dalla Fazi, chiariscono che non esiste film hollywoodiano, di qualunque
idea politica o convinzione religiosa,
che sia stato messo in cantiere senza una
accurata valutazione di marketing.
Il tycoon Louis B. Mayer spiegava che
per inviare messaggi lui utilizzava i telegrammi, ma il messaggio forte dei suoi
film stava proprio nell’atmosfera escapista e priva di messaggi evidenti. La sua
casa di produzione fu identificata più di
ogni altra con la destra hollywoodiana
ma, al di là di un approccio che invita al
disimpegno e al lieto fine sin dai titoli (da
Cantando sotto la pioggia a È sempre bel
tempo), l’analisi dei film offre poco di
identificabile con un’ideologia conser-
vatrice.
Speculare il discorso sui film
della Warner Bros, che prima
del crollo dello studio system e
l’avvento degli indipendenti è
stata considerata la casa di punta della sinistra hollywoodiana:
tra i film ce ne sono molti sensibili alle istanze sociali, ma parlare di
sinistra è un’esagerazione. Un
film impegnato come Il sale della
terradi Herbert J. Biberman fu realizzato solo grazie all’intervento di
due case di produzione indipendenti (una aveva il nome eloquente
di International Union of Mine, Mill
and Smelter Workers), mentre a poche settimane di distanza una major
come la Columbia lanciava Fronte
del porto, dove Elia Kazan ribadiva
l’esigenza di denunciare chi corrompeva le fondamenta dello stato sociale americano.
L’anno era il 1954, e si era all’apogeo
dell’era maccartista. Fu il teatro più del
cinema a raccontare con sdegno e passione quel periodo (in particolare
Arthur Miller con Uno sguardo del ponte e Il Crogiuolo), ma quegli anni segnarono il momento in cui Hollywood scoprì di non avere mai avuto l’età dell’innocenza, e cominciò a formarsi una coscienza che portò alla rivoluzione fine
anni Sessanta. Ciò che distinse la generazione che ha dominato il cinema americano fino ai nostri giorni è un approccio naturalmente liberal, senza tuttavia
alcuna colorazione ideologica.
Ma anche in questo caso è errato generalizzare. È ad esempio uomo dichiaratamente di destra un protagonista di
quella generazione come John Milius, a
cui si deve la regia di Un mercoledì da
leoni e la sceneggiatura di due classici
come L’uomo dai sette capestri e Apocalypse Now. Per chi ama l’aneddotica
hollywoodiana, è ispirato a lui il personaggio interpretato da John Goodman
in The Big Lebowski, film diretto da cineasti di sinistra come i fratelli Coen, che
di Milius sono amici.
GLI ALIENI
A sinistra, la Casa
Bianca distrutta
dagli alieni
di “Independence
Day”. Sopra,
il produttore Louis
B. Mayer e l’attore
Harrison Ford
nella parte
del presidente Usa
in “Air Force One”
Ugualmente complesso il rapporto
con il mondo politico e con il Pentagono. Da sempre Hollywood va fiera della
sua indipendenza, ma nello stesso tempo ascolta le indicazioni di Washington.
Questa ingerenza non si è limitata alle
censure o al famoso Codice di decenza
Hays, che dal 1934 al 1967 decise cosa
fosse lecito proiettare sugli schermi, ma
a volte ha prodotto vere pressioni sulla
linea editoriale. Ci sono almeno due
momenti in cui il potere politico e militare si è rivolto direttamente ad Hol-
lywood: allo scoppio della Seconda
guerra mondiale, quando Roosevelt si
affidò al talento di maestri quali John
Ford e Frank Capra per una serie di film
di propaganda; e due mesi dopo l’11 settembre quando si svolse a Hollywood
una riunione tra Karl Rove, Jack Valenti
e i principali dirigenti degli studios per
coordinare la guerra al terrorismo lanciata da Bush con le produzioni in cantiere all’epoca. Rove ribadì la richiesta
della Casa Bianca: evitare lo schemaHuntington dello scontro di civiltà e
promuovere una buona immagine della integrazione dei musulmani d’America. Così dall’11 settembre i film che hanno trattato il tema-terrorismo sono diminuiti radicalmente, ed è innegabile
che sia prevalso un atteggiamento politically correct nella descrizione del
mondo musulmano, anche se le motivazioni sono da trovare, ancora una volta, piuttosto nella volontà di conquistare un pubblico più largo. Oggi sarebbe
accolto con fastidio il personaggio
di un presidente
eroico che combatte in prima persona chi minaccia
il mondo (ma avveniva nel 1996 in Independence Day
dopo una spettacolare distruzione
della Casa Bianca);
e susciterebbe sarcasmo la sua vittoria personale su una banda di terroristi
sanguinari pronti a rapirlo (Air Force
One, 1997). La maggiore vicinanza al pericolo reale e il rifiuto della dottrina Bush da parte della maggioranza dell’establishment hollywoodiano ha paradossalmente annullato la possibilità di un
approccio mitico e celebrativo. Se si va
indietro nel tempo si ritrova invece questo tipo d’approccio: il “pericolo rosso”
era trattato costantemente sia in maniera esplicita che metaforica; e lo stesso si
può dire riguardo al nazismo.
Con rare eccezioni — segnate anche
da grande successo come ad esempio
Farenheit 9/11 — la Hollywood odierna
sembra orientata su scelte di correttezza
politica. Tuttavia è sintomatico quanto è
avvenuto negli ultimi anni nella rappresentazione della Francia: se in Independence Day viene completamente dimenticata, in Armageddon viene distrutta da un asteroide, mentre i francesi risultano complici dei neonazisti in Al
vertice della tensione o campioni di doppiezza e inaffidabilità in The Patriot.
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 23 OTTOBRE 2005
la scienza
Le ultime ricerche dicono che sta “imparando” a mangiare carne
umana eppure i morti non sono più di quindici all’anno. Basta
una pinna per rovinare una stagione turistica anche se è quasi sempre
inoffensivo. Perché lo squalo incarna le nostre paure ataviche,
ricordando agli uomini che fanno ancora parte della natura
e quindi nella lotta per la sopravvivenza possono anche soccombere
Padroni del mare
SQUALO ELEFANTE
PALOMBO
Arriva a 12 metri, vive
in acque temperate e artiche
Lungo un metro e mezzo,
è comune nel Mediterraneo
SQUALO VOLPE
SQUALO GRIGIO
Vive nell’Adriatico e nello Ionio,
è lungo da 2 a 5 metri
Fino a 2,5 metri, vive
in acque tropicali e temperate
Il predatore venuto dalla preistoria
F
CLAUDIA DI GIORGIO
FOTO CORBIS/CONTRASTO
orse sono i denti, affilati come rasoi. Forse è lo sguardo vitreo e maligno, oppure le
fauci, che si spalancano all’indietro fino a
contenere un uomo intero. Fatto sta che,
pur essendo mille volte meno micidiali
del “placido” ippopotamo, gli squali sono
ancora una delle grandi paure dell’umanità, ed esiste persino una forma di panico, l’elasmofobia, che
riguarda solo loro. Ma forse, la ragione principale per
cui basta l’avvistamento di una pinna a rovinare
un’intera stagione turistica è che lo squalo è il più misterioso tra quella manciata di grandi carnivori che
compongono il club esclusivo dei “predatori alfa”.
Non si tratta di una classificazione scientifica, ma
dell’invenzione di David Quammen, giornalista e
scrittore americano, che ad essi ha dedicato un libro
intero, intitolato per l’appunto Alla ricerca del predatore alfa, e pubblicato da poco in Italia da Adelphi.
Al club appartengono quei pochi predatori abbastanza grossi, feroci e famelici da nutrirsi, di tanto in
tanto, di esseri umani. Un elenco oggi ormai molto
breve (ne fanno parte tigri, coccodrilli, orsi e leoni) di
belve selvagge, aggressive e imponenti quel che basta per farci regredire di millenni, riportandoci a
quando eravamo soltanto una preda, e la paura di
essere mangiati dominava la nostra esistenza.
I predatori alfa, secondo Quammen, ci ricordano
che facciamo ancora parte del mondo naturale, che
siamo anche cibo. Hanno lasciato una traccia nel
mito, nell’arte e nella nostra psiche, segnando con
la loro presenza la nostra evoluzione, e accompagnando il formarsi della nostra identità di specie.
Sono, insomma, un archetipo psicologico, la cui
sintesi ideale è il mostruoso e implacabile Leviatano della Bibbia: che emerge dalle profondità del
mare e, oltre a vomitare fiamme, ha lunghi denti e
pelle corazzata. E da cui è impossibile difendersi.
Con qualche aggiustamento, non è difficile applicare il ritratto del Leviatano a Charcarodon carcharias, il grande squalo bianco, il meno noto e il più
cattivo di tutti, quello che, assieme allo squalo tigre,
allo squalo toro e al mako, guida il ristretto gruppo
di specie responsabili degli attacchi contro l’uomo.
Di questi attacchi (o “interazioni con l’uomo”, come dicono i biologi marini) ne avvengono in media
tra settanta e cento ogni anno, da cinque a quindici
dei quali con esito fatale, in gran parte nelle acque
costiere di Stati Uniti, Sudafrica e Australia. Ma anche il Mediterraneo è un mare a rischio, tanto che
esiste un archivio specifico dedicato agli attacchi
che vi sono segnalati, e in Italia si registrano casi
mortali in Sicilia, nell’Adriatico e nel Mar Ligure.
Le modalità dell’attacco sono grosso modo tre.
C’è quello, ed è il più diffuso, in cui lo squalo morde
una volta sola e se ne va, probabilmente perché ha
attaccato per sbaglio, e lascia quasi sempre una ferita modesta. Molto più serio è invece l’attacco in cui
il morso è preceduto da una forte spinta, ma soprattutto da una serie di movimenti circolari intorno alla vittima, a dimostrazione che non è un erro-
re ma un comportamento predatorio intenzionale.
Molto simile è l’ultimo tipo di attacco, che avviene
però più di sorpresa, senza la spinta; in tutti e due
questi casi, attacchi e morsi sono ripetuti, e le chance di sopravvivenza sono scarse: lo squalo è a caccia,
deciso a uccidere e mangiare.
Ed è particolarmente ben attrezzato per farlo. Gli
squali sono una delle specie evolutivamente più antiche e longeve, il cui adattamento ottimale all’ambiente è provato dal fatto che, sebbene i loro antenati risalgano a oltre quattrocento milioni di anni fa,
negli ultimi cento milioni di anni non sono cambiati moltissimo. Hanno conservato, per esempio, lo
scheletro di cartilagine e la capacità di sostituire
continuamente i denti rotti o consumati. Uno squalo può cambiare fino a 30mila denti nel corso della
vita, e questo contribuisce parecchio alla sua straordinaria efficienza di predatore, insieme alla flessibilità delle mascelle, in grado di allargarsi a dismisura, e allo sviluppo eccezionale di alcuni sensi secondari, tra cui la strana abilità di percepire il campo elettrico di una preda.
Preda che potrebbe appartenere sempre più spesso al genere umano. È la tesi del biologo australiano
Scoresby Shepherd, secondo il quale la ragione per
cui gli attacchi degli squali sono divenuti più numerosi non è che oggi ci sono più uomini in acqua, e
quindi maggiori probabilità di incontro, ma che ci sono meno pesci nel mare. In particolare, sono molto
diminuiti i tonni, pasto favorito degli squali, che reagirebbero alla scarsità di loro prede tradizionali cer-
IL SESTO SENSO
L’OLFATTO
I DENTI
LE DIMENSIONI
Sul muso lo squalo
bianco possiede
piccolissimi organi
sensoriali chiamati
“ampolle di Lorenzini”:
sono canali pieni
di una sostanza
gelatinosa
che gli permettono
di percepire il campo
elettrico delle prede
Come tutti gli squali,
anche lo squalo bianco
ha un olfatto
sensibilissimo (i lobi
olfattivi occupano quasi
un terzo del cervello),
che gli permette
di distinguere l’odore
del sangue a cinquecento
metri di distanza
I denti triangolari
seghettati dello squalo
bianco (23-28 nella
mascella superiore
e 21-25 in quella inferiore)
sono disposti su più file
e vengono sostituiti
da una nuova fila di denti
quando sono consumati
o rotti
Può raggiungere i 5-6
metri e un peso di due
tonnellate. Alla nascita,
i piccoli sono già lunghi
un metro e pesano
venti/trenta chili.
Si nutre di mammiferi
marini (foche e leoni
marini), pesci, calamari,
testuggini e crostacei
candone di nuove: per esempio, noi. Shepherd ritiene che per ora gli squali ci stiano solo assaggiando; la
nostra carne, non abbastanza grassa, non è la loro
dieta ideale. «Ma gli squali sono animali pratici» aggiunge. «Mangiano quello che arriva in tavola».
Tuttavia, la maggior parte degli squali per noi non
è affatto una minaccia. Delle circa 375 specie conosciute, quelle ritenute potenzialmente pericolose sono meno di trenta. Gli squali più grandi, inoltre, non
sono nemmeno predatori: lo squalo balena (Rhincodon typus), che arriva anche a 18 metri di lunghezza
ed è il pesce più grande del mondo, e lo squalo elefante (Cetorhinus maximus), che arriva fino a 10 metri, si nutrono entrambi di plancton. E molte specie
di squali non sono neanche grandi: il gattuccio, che è
una delle più diffuse, è lungo al massimo un metro e
pesa non più di tre chili. E come accade ad altri suoi
confratelli, le sue interazioni con l’uomo lo vedono
soprattutto come protagonista di gustose ricette.
In effetti, come si affannano a ripetere biologi e
conservazionisti, sono gli squali ad aver ottime ragioni per temere noi. A causa della pesca e dello
sfruttamento delle risorse marine in generale, la popolazione di gran parte delle specie negli ultimi anni è calata del 50 per cento, e addirittura dell’80 nel
caso dello squalo bianco, tanto che si parla sempre
più spesso di creare riserve naturali tutte per loro.
Per gli squali si prepara insomma lo stesso destino
degli altri predatori alfa: li incontreremo a distanza,
in qualche tipo di zoo. E i brividi di paura ce li faranno venire solo al cinema.
L’HABITAT
LE ABITUDINI
Lo squalo bianco vive
nelle acque temperate
di quasi tutto il mondo,
ma in inverno si spinge
anche in acque tropicali.
Dal ‘96, è classificato come
vulnerabile nella “lista
rossa” delle specie a rischio
di estinzione
Non è solitario: recenti
studi hanno dimostrato
che si tratta
di un animale sociale,
con comportamenti
complessi e una
gerarchia di gruppo
DOMENICA 23 OTTOBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47
I FILM
LO SQUALO
NEMO
SHARK TALE
Il film di Spielberg
del ‘75, ambientato
sulla costa atlantica
degli Stati Uniti,
ha alimentato
il terrore per gli
squali ed ha avuto
numerosi seguiti
Nel film a cartoni
animati del 2003,
i protagonisti Marlin
e Dory incontrano
tre squali
che cercano
di diventare
vegetariani
Uscito nel 2004,
assimila un clan
di squali a una
famiglia mafiosa.
Il protagonista,
è un pescecane
che non mangia
carne
SQUALO TORO
Supera i 3 metri: è fra i più
pericolosi per l’uomo
PINNA NERA
Misura fino a 2,8 metri:
comune nel Mediterraneo
SQUALO MARTELLO
È un vorace predatore
che arriva anche a 6 metri
Ma i veri pescecani
sono in mezzo a noi
MARCO LODOLI
ra l’estate del 1951 quando una cugina tedesca di mia madre venne a farle visita a Roma.
Lavorava come maestra in un paesetto nel
centro della Germania, aveva vent’anni, si chiamava Marlene, era bionda e del vasto mondo non
sapeva ancora quasi nulla. I miei genitori la portarono a cena in un ristorante vicino al Pantheon e
poi a prendere un gelato a piazza Navona. Marlene rimase incantata, tutta quella meraviglia le si riversava a fiotti negli occhi giovani e speranzosi, rideva come una bambina. Il giorno dopo partì per
Napoli, nuova tappa del suo viaggio studiato a tavolino nel freddo di un inverno tedesco. Da lì si
spostò sulla costiera amalfitana: sole, mare, spaghetti con le vongole, canzoni d’amore, felicità.
Una mattina volle fare un bel bagno nell’acqua azzurra e fresca del Mediterraneo. Prima nuotò vicino alla riva, poi l’entusiasmo la spinse al largo. E
chissà cosa pensò quando tra le onde serene intravide quella pinna grigio-acciaio puntare verso di
lei. Forse cercò di rimanere calma, forse provò ad
allontanarsi senza alzare troppa schiuma. Aveva
traversato incolume la guerra, i bombardamenti,
la distruzione, non poteva morire così, tra le zanne crudeli e stupide di un pescecane. In Europa
nessuno muore sbranato da uno squalo, sono tragedie tropicali, pagine di libri d’avventura. Eppure pare che la breve esistenza di Marlene si concluse proprio così, divorata in quattro morsi: di lei
non rimase neppure un brandello di carne da
chiudere in una bara, solo la valigia posata accanto al letto in un alberghetto di Amalfi, un cappello
di paglia, un articolo sul giornale, questa storia che
da sempre sento raccontare a casa mia.
Le andò proprio male, povera ragazza, perché
in effetti gli squali assassini sono più uno spauracchio che naviga nei nostri incubi sudaticci che
non una realtà con cui fare i conti. Sono, o forse
erano, l’effigie favolosa del male assoluto, lo spettro della morte più spaventosa e ottusa, fantastici killer più terrificanti di qualsiasi pazzo con il rasoio in mano. Quand’era ancora un regista emozionante, Steven Spielberg seppe descrivere perfettamente l’arrivo improvviso del mostro, colse
in pieno la sua natura solitaria e furibonda, o
forse piuttosto l’idea agghiacciante che
nuota nelle vasche del nostro inconscio. Per anni ogni madre, anche
sulla spiaggia di Ladispoli o di Tortoreto Lido, ha temuto che d’improvviso, a venti metri dalla riva, apparisse la pinna fatale, e
che il suo marmocchio venisse inghiottito con tutti i
braccioli colorati da quelle fauci atroci.
«Chi sono gli animali
che compaiono nei
nostri sogni, e perché
vengono a noi, proprio a noi, che abbiamo trascorso
gli ultimi due secoli a sterminarli regolarmente, a un ritmo
E
VERDESCA
Arriva a 3,8 metri
ed è fra gli squali più comuni
SQUALO TIGRE
ILLUSTRAZIONI DI MIRCO TANGHERLINI
È un ferocissimo predatore
che supera i 5 metri
5-15
I morti provocati ogni
anno dagli squali.
Stati Uniti, Sudafrica
e Australia le zone
più colpite
100 milioni
Repubblica Nazionale 47 23/10/2005
Gli squali che vengono
uccisi ogni anno
per mano dell’uomo
La causa principale
è la pesca
LE CURIOSITÀ
I PIÙ GRANDI
Le due specie più grandi,
lo squalo balena, che raggiunge
i 18 metri di lunghezza,
e lo squalo elefante, che arriva
a 12 metri, si nutrono di plancton
I PIÙ PICCOLI
La specie più piccola è lo squalo
pigmeo spinoso (Squaliolus
laticaudus), che non supera
i venti centimetri di lunghezza
e vive a grandi profondità
LA FOBIA
La paura degli squali si chiama
elasmofobia (gli elasmobranchi
sono la sottoclasse di cui fanno
parte squali e razze) e rientra
tra i disturbi da panico
sempre più rapido, specie per specie, in ogni parte del mondo?» scrive James Hillman nell’introduzione al suo libro Animali del sogno. Chi è lo
squalo che ci minaccia da sempre, che si struscia
contro la nostra paura, che cosa rappresentano
nell’immaginario collettivo la sua bocca insaziabile, i suoi occhi gelidi, il suo moto perenne e instancabile? Forse è la bestia irriducibile che nessuna educazione morale, nessuna legge, nessun
padre o prete possono addomesticare fino in
fondo, anche se ci provano di continuo? Per dare
forza ai nostri invisibili e affilati arpioni, abbiamo bisogno di concentrare il Male in pochi punti precisi, in figure losche e brutali alle quali nessuna pietà è concessa. Balene, tigri, pantere, serpenti, un tempo nemici temutissimi, sono stati
riassorbiti dalla sfera del Bene, resi simpatici
compagnoni nel Grande Circo della Natura e serenamente massacrati. Ma fino a poco tempo fa
lo squalo non si prestava facilmente a questo gioco di furba riduzione, non ci stava a farsi incastrare in un proverbio o in una favoletta: scodava, ringhiava, mostrava la faccia più cattiva che
aveva, non si voleva inchinare servilmente al
progetto finto amichevole degli umani.
Lo squalo di Alla ricerca di Nemo dimostra ancora tutta la sua incoercibile essenza: ci prova anche a dichiararsi pentito, a intraprendere una dieta vegetariana, a fare il giovialone con i pescetti, ma
basta una goccia di sangue per riportarlo alla sua
natura criminale. Va peggio a Lenny, il protagonista di Shark Tale, un giuggiolone pacifista che rifiuta il suo ruolo naturale, fino a sottomettersi all’amicizia di aringhe e sardine e accettare addirittura di travestirsi da simpatico delfino con tanto di
fazzoletto al collo per ingannare i parenti, all’inizio squali mafiosi e sanguinari, alla fine bestioni
innocui. Insomma, se non riusciamo a sconfiggerlo con la forza, vogliamo ammorbidire il Male rendendolo ridicolo o patetico.
Abbiamo già trasformato il tremendo pescecane del Pinocchio di Collodi in un balenone un po’
fesso, una sorta di anonima caverna di carne
pronta a raccogliere naufraghi e cianfrusaglie e a
risputare fuori tutto con un mezzo rutto. E vi ricordate Joe Jordan, il centravanti inglese del Milan degli anni Ottanta? Era arrivato a San Siro con
il soprannome de “lo Squalo”, e ci si aspettava
che azzannasse il pallone e le caviglie degli avversari, sfondasse le reti, creasse panico nelle
difese. Poveraccio, prima di entrare in campo si
levava la sua protesi dentaria, le zanne dell’odontotecnico, e vagava per il campo a bocca semiaperta, con quel buco nero al posto degli incisivi e dei canini. Era a fine carriera e segnava pochino; la gente lo incitava: vai Squalo, mangiateli
tutti, vai! e lui sorrideva sdentato e malinconico.
E i cinici pescecani del mondo degli affari, quelli che s’arricchivano alle spalle dei soldati della
Prima Guerra Mondiale, che sempre hanno lucrato sulle disgrazie altrui, dove sono finiti? Loro
sì che erano delle bestie senza cuore da temere e
odiare. Siamo passati a Sbardella, Squalo democristiano della specie dei Maneggionis Capitolini, forchettone bonario, grasso e pelato. E ora ci
sono i Raider, squaletti azzimati della finanza, col
capello da parrucchiere di periferia e le giacche
firmate che tirano un po’ sotto le ascelle. Somigliano troppo ai furfantelli che incontriamo ogni
giorno qua e là, a certi compagni di scuola che barattavano e vendevano un po’ di tutto, anche la
roba degli altri: sembrano una nuova puntata di
qualche cartone animato, disegnati in pochi tratti dalla matita di un umorista senza ispirazione.
Non ce la fanno a metterci veramente paura, hanno già gli occhi dei pesci fradici.
Ricordo un carrozzone zingaresco che girava
per i paesi della mia regione. Una ex-bellona vestita con una succinta divisa d’oro e d’argento
gridava in un microfono: «Venite a vedere l’assassino degli oceani, il mostro infernale dagli occhi di ghiaccio, la belva degli abissi! Venite, proverete il vero orrore, vi sognerete lo squalo divoratore per tutta la vita!» I bambini esitavano tra
l’attrazione e il terrore, quindi pagavano il biglietto ed entravano. E anch’io li ho seguiti e sono entrato nel carrozzone per guardare negli occhi la Bestia. Prigioniero di un acquario ombroso nuotava un piccolo pescecane, così lontano
dall’Oceano e dalla libertà da fare sinceramente pena. I bambini gli ridevano in faccia, e lui li
fissava come un vecchio ergastolano che non
spera più nella grazia. Di tremendo non aveva proprio nulla, era l’emblema dell’impotenza e della sconfitta, un povero Zampanò
senza neanche la sua Gelsomina.
Insomma, gli Squali ormai partecipano alla decadenza generale, sono ridotti, come i cantanti, i
comici, gli scrittori e i politici a fenomeni da baraccone, a occupare una poltroncina nel Megaspettacolo Universale, finché dura. Mostrano i
denti per un gettone di presenza, fanno i cattivi in
un film di quart’ordine. E infine vi devo confessare una cosa: alcuni anni dopo la tragedia della cugina tedesca, affiorò dal mare un’altra verità, più
banale. Forse non era stata sbranata da un feroce
pescecane, forse era fuggita con un uomo sposato, piccolo squalo di terra.
48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 23 OTTOBRE 2005
i sapori
È nei fine settimana di ottobre che si celebrano
le tante sagre dei marroni, proposti in mille varianti
di ricette: dal salato all’agrodolce passando
per i dessert. Siamo da anni i primi produttori europei
ma solo oggi abbiamo imparato ad apprezzare
il cibo principe delle antiche comunità di montagna
Tesori del bosco
Marron glacé
I marroni, cotti al vapore
e sbucciati con attenzione
perché restino interi,
vengono bolliti
e raffreddati per tre volte
con sciroppo di zucchero
e vaniglia. Si lasciano
riposare per tre settimane
Castagne secche
La tecnica di conservazione
più diffusa necessita
di un calore moderato
(sotto i cento gradi)
e costante che sottrae
umidità. Per utilizzarle,
si lasciano in ammollo
in acqua tiepida una notte
Tra dolci, zuppe e glasse
l’autunno esce dal riccio
Castagnaccio
LICIA GRANELLO
Mezzo litro di acqua
fredda, 250 gr di farina
di castagne, due cucchiai
di olio e un pizzico di sale:
versare la pastella in teglia
unta con uvetta sultanina,
pinoli e rosmarino. Cuoce
circa un’ora a 200 gradi
78.432
Le tonnellate di produzione
annua nazionale di castagne
«M
angiamo pane e castagne», cantava
De Gregori, simbolo di un passato povero e per niente rimpianto. Deve essere trascorso un tempo lunghissimo,
se è vero che oggi comprare castagne
— e peggio ancora i marroni! — costa
quanto la frutta più preziosa.
In realtà, chi abita la montagna, dal Piemonte alla Calabria, ha
ricordi vivi e dolenti di quel menù obbligato, tanti carboidrati e
poche, pochissime proteine. Eppure, il fascino di zuppe e caldarroste è un’onda lunga che torna puntualmente sulle nostre
tavole quando i vetri si appannano e le temperature di colpo ostili ci obbligano a frettolosi, forzati cambi di guardaroba.
Così, il mese di ottobre, al primo affacciarsi dell’autunno meteorologico si popola di sagre, fiere, percorsi monodedicati che
40%
È la quota di produzione
che si consuma fresca
attraversano
l’Italia intera: solo
in questo fine settimana, da Civitella Licinio (Benevento) a Aritzo (Nuoro), da Marradi (Firenze) a Rocca di Papa (Roma), decine di borghi celebreranno il mito di un finto frutto — quello vero
è il riccio, di cui la castagna rappresenta il seme ben pasciuto —
addobbato e lavorato in mille modi.
Difficile trovare una “materia prima” più malleabile, trasversale, da declinare in tutte le accezioni possibili: salata, dolce, agrodolce. Sontuoso ingrediente-principe di leccornie assolute ma anche contorno suadente delle carni più difficili,
sotto forma di purè, crocchette, glassate intere. La tradizionalissima zuppa di castagne — da sola o in combinazione con patate, fagioli, riso — si può gustare come minestra corroborante o come dolce della memoria. Perfetta nelle farciture: dalla
160
Le calorie contenute
in 100 grammi di castagne
Monte Bianco
Caldarroste
Crema di marroni
Castagne bollite
Zuppa di Castagne
Il dolce prevede doppia
cottura delle castagne,
in acqua e latte, zucchero
e vaniglia. Limitando a 20
minuti la prima bollitura
è più facile sbucciarle
La cupola di filamenti
ottenuti si rifinisce
con panna montata
La padella di ferro forata
va preferita al forno perché
la scorza (incisa)
bruciacchiata regala
aroma e sapore. Se a fine
cottura si avvolgono
in un canovaccio umido
d’acqua o di vino rosso,
risulteranno più morbide
I marroni bolliti, sbucciati
e rimessi in pentola
con latte, zucchero, cacao,
vaniglia, si passano a fine
cottura. Il composto,
con l’aggiunta di un
cucchiaio di panna liquida,
si serve freddo, anche
con salsa di cioccolato
È la cottura-base (45’)
di molte ricette dolci
e salate. Ma vale anche
come cibo a se stante:
basta aggiungere
nella pentola – con acqua
e un cucchiaio di sale –
qualche foglia di alloro,
o i semi di finocchio
È base dell’alimentazione
povera di montagna
Si prepara con castagne
secche rinvenute in acqua
o fresche, coperte di latte
e lasciate bollire a fuoco
lento per almeno un’ora
Si consuma salata,
zuccherata o con riso
DOMENICA 23 OTTOBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49
itinerari
Romano,
ma toscano
di adozione,
Fulvio
Pierangelini
è il talento
più rigoroso
della cucina
italiana
Ha tra i suoi
piatti-culto
la pernice
con castagne,
erbe e zucca
Chiusa Pesio (CN)
Marradi (FI)
Centro sciistico
immerso
nel parco
naturale dell’Alta
Valle Pesio
e Tanaro,
alle falde
del Marguareis,
vanta la produzione dei bellissimi marroni
dalla buccia lucida e striata, grandi
e regolari, perfetti per i marron glacé
Situata
nella valle alta
del Lamone,
terra famosa
per la qualità
delle castagne,
varietà
“marrone”
della Castanea Sativa, protetta dall’Igp
come Marrone del Mugello. È comune
fondatore della “Strada del Marrone”
Appoggiata
in una vallata
della bassa
Irpinia,
circondata
dalla catena
appenninica,
rappresenta
il cuore della produzione di castagne
di alta qualità - Palummina e Verdole protette a livello europeo da vent’anni
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
B&B LE CABANE
Borgata Tetti Caban
Frazione Vigna 57
Tel. 0171-338207
Doppia da 50 euro, colazione inclusa
B&B SARTONI
Cardeto Val Stefano 38
Tel. 339-8728226
Doppia da 40 euro,
colazione inclusa
AGRITURISMO PERICLE
Località SottoMonticchio
Tel. 0827-609161
Camera doppia da 50 euro
colazione inclusa
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
AL RODODENDRO
Via San Giacomo 73, San Giacomo
Tel. 0171-380372
Chiuso domenica sera e lunedì
menù da 42 euro
MULINO SAN MICHELE
Via Perisauli 6, Tredozio
Tel. 0546-943677
Chiuso a pranzo e lunedì,
menù da 25 euro
LOCANDA DI BU
Vicolo dello Spagnuolo 1, Nusco
Tel. 0827-64619
Chiuso domenica sera e lunedì
menù da 33 euro
‘‘
Il canto
«Castagne e pinoli caldi caldi!»,
cantava. Le castagne e l’uomo
si davano calore a vicenda
FOTO OLYMPIA
Da La mia vita
con Pablo Neruda
di Matilde Urrutia
Castagne
le
Repubblica Nazionale 49 23/10/2005
faraona alla pernice, la sua profumata consistenza è garanzia
di un ripieno coi fiocchi. I dessert, poi, meritano un discorso a
parte: il gelato di castagna, il sensuale Monte Bianco, ma anche il “povero” castagnaccio occupano posti di rilievo nella gerarchia dolciaria. Su tutti, ovviamente, domina il marron
glacé, massima espressione della golosità pasticciera applicata ai fratelli maggiori delle castagne.
Il recupero della cucina delle castagne è una benedizione
anche dal punto di vista ambientale. Abbiamo perso così tanti boschi di castagne nell’ultimo quarto di secolo — pressoché
dimezzati, da oltre 140mila a 74mila, gli ettari votati alla castanicoltura — che quasi ci si stupisce di essere ancora i più importanti produttori europei e i terzi al mondo, dietro Corea del
Sud e Cina. Per fortuna, l’inversione di tendenza, nel totale
smarrimento della nostra cultura agricola, sta irrobustendo la
Montella (AV)
quota di esportazione e rimpinguando l’elenco delle aziende
dedicate. Una pratica spesso ripensata in modo da coprire l’intera filiera produttiva, dalla raccolta alla trasformazione.
Se andate a rallegrarvi in uno dei tanti paesi delle castagne,
scoprirete che l’unico limite alla preparazioni elaborate nelle
cucine locali è davvero solo la fantasia: c’è il pane, morbido e
insolito, ma guai a sottovalutare i tortelli ripieni, la torta soffice, le tagliatelle, le polpettine, le crèpes, gli gnocchi.
Ai turisti in trasferta francese, invece, non dovrebbe sfuggire la zuppa cremosa di castagne con foie gras creata da Yves
Camdeborde, uno degli chef che ha più nobilitato e innovato
l’offerta gastronomica dei bistrot di Parigi. Andateci — lì e altrove — con una castagna in tasca. Dicono i nonni che aiuta a
difendersi dal raffreddore. Che ci crediate o no, con la pioggia
fredda di questi giorni un aiuto in più non guasta.
La fortuna dei marroni attraverso i secoli
Così nacque sull’albero
il pane della povera gente
MASSIMO MONTANARI
«L
e castagne sono il pane della povera gente», recita uno
Statuto toscano del Quattrocento. Due secoli dopo, l’emiliano Giacomo Castelvetro osserva: «Migliaia dei nostri montanari si cibano di questo frutto al posto del pane, che non
vedono mai, o molto raramente».
La fortuna dei due prodotti, le castagne e il pane, procede parallela. C’è un momento nella storia italiana ed europea — i secoli centrali del Medioevo, tra il X e il XII — in cui la crescita della popolazione non consente più di vivere sull’economia forestale. Quel che ne deriva è una vera mutazione ambientale. Nelle regioni di pianura, progressivi disboscamenti spazzano via
gli alberi per far posto ai campi di grano. Nelle regioni di montagna, dove il grano fatica a crescere, i boschi non scompaiono,
ma si trasformano. I querceti, grandi produttori di carne suina,
che dominavano nei secoli precedenti, vengono in gran parte
sostituiti da boschi “coltivati”, che danno un frutto diverso dal
chicco di grano, ma in fondo simile: anche la castagna, una volta seccata, si può macinare e diventa farina. Il sapore è diverso,
gli usi alimentari si rincorrono: pane, polente, dolci… Per questo, nei paesi mediterranei, il castagno è detto “albero del pane”. La castagna è il pane di quell’albero.
Oggi le castagne sono un tipico frutto di stagione. Un tempo, il
loro consumo era meno legato al tempo della raccolta. Accurate
tecniche di conservazione consentivano di farle durare a lungo, o
semifresche nel loro riccio, o seccate al calore del fuoco. «Nelle nostre montagne», scrive nel XVI secolo l’agronomo bresciano Agostino Gallo, «gran parte della popolazione non vive d’altro che di
questo frutto». Nel 1553 il capitano della montagna pistoiese nota che gli abitanti di Cutigliano sono «poverissimi, e i sette ottavi di
loro tutto l’anno non mangiano che castagnacci».
Nelle zone meno povere e negli anni meno difficili, questa particolare «serbevolezza» del prodotto dava luogo anche a un fiorente commercio. Castagne e marroni finivano su mercati lontani (anche oltremare) e restavano in vendita per molti mesi, fino a
primaverainoltrata.VincenzoTanara,nelXVIIsecolo,osservache
i marroni si possono servire anche d’estate «per stranezza». Dalla
fame allo sfizio, il passo è più breve di quanto non sembrerebbe.
La gastronomia della castagna pare essere stata, nei secoli passati, più ricca e fantasiosa di oggi. Castore Durante, nel XVI secolo,
ricorda l’uso di cuocerle «in un tegame con olio, pepe, sale e sugo
d’aranci». Il succo d’arance ritorna in Giacomo Castelvetro, che
vuole sale e pepe sulle castagne arrosto e riferisce l’uso di farcire
con le castagne (dopo averle bollite nel latte) le carni di volatili: «E
sono molto buone, e ne riempiono i capponi, le oche e i tacchini
che vogliono arrostire, con susine secche, uva passa e pane grattugiato». Una ricetta europea che avrebbe trovato particolare fortuna nel continente americano.
Vincenzo Tanara raccoglie molte ricette locali (come quella,
piemontese, dei marroni cotti in vino «con finocchio, cannella, noce moscata o altri aromi») e si dilunga sui dolci, castagnacci e frittelle di varia composizione. Per parte sua, dice di
preferire i gusti semplici: «I castagnacci fatti tra le sue fronde, e
cotti tra le tegole rotonde di pietra cotta, grosse un dito, ben calde, anzi roventi, quando si mangiano, fatti da poco e ancor tiepidi, sono una vivanda squisita, accompagnati col companatico del buon appetito».
L’autore è docente di Storia medievale all’Università di Bologna
50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 23 OTTOBRE 2005
le tendenze
Mutazioni chic
È un riflesso automatico nei periodi di crisi: il revival
del nero. Ha cominciato l’alta moda rilanciando il colore
classico dell’eleganza. Ma la tendenza al dark è presto
dilagata in altri ambiti creativi: il mercato degli accessori,
il design d’arredamento, l’architettura. E perfino il cinema,
con film come “Sin City” e “Il cadavere della sposa”
Gotico
neo
Sedotti
dal lato oscuro
degli oggetti
“Era necessario - dice Miuccia
Prada - porre fine a una serie
troppo lunga di stagioni
colorate, frivole, superficiali”
JACARANDA CARACCIOLO FALCK
ccade ciclicamente nei periodi di crisi.
Quando qualcosa, l’incertezza politica o
un’economia traballante, comincia a infiltrarsi nella vita di tutti i giorni. E a creare preoccupazione. Ecco allora che i creativi rispondono a modo loro, rispolverando il colore più simbolico del mondo: il nero. Quella tonalità-icona che, da sempre, evoca immagini diverse.
Ma, da sempre, molto intense. Di revival della moda
black l’universo della moda è pieno. Accadde nella cupa
Inghilterra vittoriana, nel ‘29 dopo il crollo di Wall Street,
nell’Italia fascista. E così via fino a epoche più recenti.
Eppure oggi il fenomeno è diverso. Molto più ampio.
Perché non coinvolge solo i grandi couturier. Ma tutti i tipi di creativi: arredatori e artisti d’avanguardia, cuochi
e designer, registi e scrittori. Uniti dall’improvvisa passione per la cultura del nero. Da esplorare in modi diversi. Per qualcuno il colore delle tenebre è semplicemente quello dell’eleganza. Indossato dalle grandi star
di ieri, come la Rita Hayworth che balla sensuale sul set
di Gilda. Per altri ha una valenza più profonda. Perché è la massima espressione di quello stile neogotico che, ispirandosi al medioevo, ne riprese i
simboli più tetri. Una via di mezzo, per intenderci tra le favole dei fratelli Grimm e lo stile funereo della famiglia Addams.
Gothic o semplicemente dark, una cosa è certa:
anche questa volta i primi a lanciare la tendenza sono stati gli stilisti. A cominciare da Miuccia Prada.
Che commenta: «Un ritorno al nero era
necessario per porre fine a una serie ormai troppo lunga di stagioni colorate,
leggere, frivole, superficiali». E aggiunge: «Il nero, poi, esprime un desiderio di vera femminilità, anche se
dolente, di bellezza e di eleganza». Per rendersi conto di quanto Prada ami il nero basta entrare in una delle sue boutique: vestiti e pantaloni, scarpe e pellicce sono rigorosamente monocromatici. Addolciti, in qualche
caso, da un dettaglio luminoso,
una spilla di brillanti o un bordo di
pizzo. Niente più.
Il contagio della nero-mania si è
diffuso: da Marc Jacobs, che ha spiegato di essersi ispirato, per la sua collezione, ai macabri disegni del fumettista di
Chicago Edward Gorey; alla belga Ann
Demeleumesteer che ha realizzato i suoi
tailleur decostruiti in stoffa rigorosamente nera. Da Celine, che ha optato per uno
stile da signora anni Cinquanta con gonne
sotto al ginocchio e scolli all’americana; a
Lanvin, che ha risposto con una serie di severi
tailleur dal taglio vintage. Perfino Roberto Cavalli si allinea: «Io amo il colore e le fantasie ma
non riesco a rinunciare mai al nero perché è il colore della seduzione, della notte e rappresenta il
mistero delle donne. Il nero può essere anche la
più forte forma di colore perché esalta la
silhouette ed evidenzia i dettagli». Il nero, poi,
spopola, tra gli accessori: le borse con fiori di pelle applicati di Bottega Veneta, gli scarponcini
con zeppa di Hogan, la pochette in coccodrillo
firmata Roger Vivier, o gli stivali sexy di Gucci.
Dalle passerelle la passione noir è approdata al design. «Nei paesi del Nord Europa il nero è sempre stato usato, da noi invece veniva guardato con ostilità», spiega Tommaso Ziffer, l’architetto preferito del magnate dell’hotellerie Rocco Forte e autore dell’hotel de Russie a Roma e dell’hotel de Rome a Berlino, che verrà
inaugurato tra qualche mese. «Invece è molto più facile del bianco ed
anche più elegante».
Non è finita qui. Il revival dark è arrivato anche al cinema con il nuovo Il cadavere della sposa
di Tim Burton o con il capolavoro black and white Sin
City. Perché oggi il nero non ha più confini.
Repubblica Nazionale 50 23/10/2005
A
SERATA SPECIALE
Un’idea per una serata
speciale?
La gonna a sirena
bordata di pizzo
di Gianfranco Ferrè
Si porta con giacca
smoking e camicia
di raso. All black
L’ODORE DEL CUOIO
Evoca atmosfere dark
la sedia in pelle Buré
di Antidiva. In ferro curvato
con seduta in cuoio nero
UN’IDEA
DA SALOTTO
Il nero trionfa
in salotto
con il tavolino
e le sedie
Blow up
del designer
Xavier Lust
per Moroso
L’OMBROSO CALICE
Il cristallo vira al nero. Merito di Philippe Starck
che per Baccarat ha realizzato calici dal nome
evocativo: “Exploring your dark side…”
DOMENICA 23 OTTOBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51
C’ERA UNA VOLTA
IL LAMPADARIO
Ricorda i lampadari
delle case di caccia
di una volta
il modello in vetro
nero, con bracci
a calice. Di Gallery
vetri d’arte
SOGNI NOIR
È brunito e laccato
il legno del letto
decisamente noir
della catena
d’arredamento
britannica
The Conran shop
SI CHIAMA ZOE
Il lampadario diventa
moderno: Zoe, firmato
La Murrina, è ideato con steli
che si aprono a raggiera
È disponibile in due
misure (diametro 65
o 90 cm) e in 4 colori
UN FIORE
AL DITO
Fa parte
della collezione
Camelie
di Chanel
l’anello in oro
e onice nera
Perché preferisco
gli angeli del buio
ISPIRAZIONE RETRÒ
Ispirazione vagamente
retrò anche per i sandali
da gran sera di Ferragamo
Con tacco alto e nappe
PHILIPPE STARCK
l nero è il colore degli ultimi due secoli. E la ragione per la quale oggi
possiamo permetterci di vestirci
con questa tonalità è, in realtà, tecnica. Nel Medioevo, infatti, le classi abbienti vivevano in grandi e tetri castelli. Illuminati solo da minuscole finestre e da centinaia di candele. Il risultato? Si trascorrevano le giornate
nell’oscurità. In filosofia si usa dire
che noi esistiamo solo se qualcuno ci
guarda. I nobili medioevali dunque,
per esistere dovevano fare in modo di
essere visti e per essere visti, dovevano indossare colori sgargianti, lustrini e ricami. Altrimenti sarebbero
scomparsi. In tutti quei secoli dunque
solo gli ecclesiastici vestivano di scuro proprio per marcare la loro non appartenenza a un certo tipo di società.
La black mania, come la intendiamo noi, è cominciata in maniera
esplosiva negli anni Ottanta del secolo scorso quando tutti vivevano in
stanze super illuminate. In quel periodo fanno la loro comparsa in modo
massiccio la nuova lampada alogena e il neon: sono gli anni più
luminosi della storia. E quindi
vestirsi di nero diventa un modo
per farsi notare in una realtà dove il bianco tende ad apparire
sbiadito. Questa relazione tra
nero e luce mi ha sempre affascinato molto.
Per quanto riguarda la mia
personale relazione con questo
colore, ho cominciato a utilizzarlo per dare un messaggio.
Quando creo, uso sempre dei
simboli, tutti i miei oggetti sono il frutto di una serie di riferimenti che vogliono comunicare qualcosa. Nella vita di oggi tutti devono apparire al loro
meglio: perfetti, sorridenti,
belli. L’unico lato della nostra
personalità che viene preso in
considerazione nel mondo
contemporaneo è quello
bianco, luminoso. La nostra è la
società della felicità a tutti i costi.
Ma il mondo in realtà è composto
da due tipi di angeli, quelli bianchi e
quelli neri. Il lato bianco non può esistere senza quello nero. Che anzi,
spesso, è più interessante. Io per
esempio, sono perfettamente conscio che la mia metà bianca non è
molto divertente. Tutto quello che ho
creato nella mia vita arriva dal mio
subconscio, da mio istinto, dal mio lato oscuro.
Ecco allora che la linea di calici che
ho disegnato per Baccarat, chiamata
appunto “Exploring your dark side…”
è un invito a cominciare un viaggio
esplorativo in un’altra dimensione
della nostra personalità. Per me dunque il nero è il simbolo di un nuovo
territorio del nostro subconscio. Anche perché, da sempre, preferisco l’eleganza della melanconia, rispetto alla volgarità della finzione.
(testo raccolto
da Jacaranda Caracciolo Falck)
I
GIOIE DA REGINA
Un gioiello particolare:
il collier dalle forme
liberty con brillanti chiari
e scuri, rubini e platino
Christian Dior jewellery
Repubblica Nazionale 51 23/10/2005
LE FORME
DEL LEGNO
Legno tornito
laccato nero
per il tavolino
della serie
New
Antiques,
design Marcel
Wanders
per Cappellini
LOOK
DI GALA
Look bon ton
rivisitato
e corretto
per la signora
di Vuitton
che indossa
un abito
passepartout
con guanti,
e stivali
VIVA LE PASSAMANERIE
A Prada ora piacciono
le passamanerie nere
che ricordano molto
quelle d’epoca vittoriana
Onnipresenti sulle borse
DETTAGLI HARD
Per le donne
che vogliono
un’immagine
aggressiva:
le scarpe a punta
di Guess
con cinturino
alla caviglia
IL FASCINO DEI QUARANTA
Si rifà ai modelli in voga
negli anni Quaranta la borsa
da sera con frange in perline
di vetro firmata Armani
52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 23 OTTOBRE 2005
l’incontro
Ha costruito un nuovo genere
teatrale e ha portato sulla scena
scandali e misteri,memorie civili,
saghe generazionali. E ora torna
a raccontare se stesso, la famiglia
proletaria, gli amici
dei bar di provincia,
la rocambolesca
gavetta sulle piazze
d’Italia, la sofferenza
amorosa e creativa.
E così, a sorpresa,
si scopre un uomo che,
dopo aver sparso sulle platee
infinite parole, in fondo fra sé e sé
crede all’emozione del silenzio
One man show
Marco Paolini
di lotta. Un’impresa didattica ma divertente. Replicammo nelle feste, al
primo maggio, o nei raduni di quartiere. Io, fin dalle prove, avevo la tendenza di mandare in vacca il copione, storpiandolo, facendo ridere gli spettatori,
rendendo furibondi quelli che erano in
scena con me. Covavo secondi di immenso piacere prima di dire cose micidiali. Mi sentivo idealmente sostenuto
dalle correnti alimentate da Santarcangelo e dalla rivista Scena di Attisani
che faceva ponti audaci tra gli acrobati
sui trampoli e Laurie Anderson».
E qui Paolini è testimone delle mutazioni, delle contraddizioni, degli estremismi, delle poetiche del corpo. Le ha
passate tutte. Fino a potersi permettere
qualche rispettosa ironia. «Non so, forse c’è stato un momento in cui m’ha persino rovinato una certa lettura del teatro
povero di Grotowski, una nuova Bibbia
che raccomandava di disimparare le
battute e fare le capriole. Il teatro, d’accordo, è anche questo, e la ventata servì
a “sessualizzare” attitudini che altri-
Io mi sento artigiano
non artista,
il senso di quel
che faccio oggi
c’era già tutto
nel girovagare
col furgone,
come gli ambulanti
dei mercati
FOTO GERALD BRUNEAU
Repubblica Nazionale 52 23/10/2005
«I
terie di altri, a locali dove bighellonava
il mio giro. Ho ritratto con immenso affetto il bar della Jole, perché sede e meta collettiva della Jole Rugby Trevigi. Il
mio passaggio dall’infanzia all’adolescenza, dalla terza media al primo liceo, ha semmai a che fare con la socialità di un tavolo: smettendo di stare con
un compagno di giochi, passavo al contatto con un gruppo di persone che in
genere chiacchieravano di politica attorno a un tavolo. Ragazzi poco più
grandi di me, che discutevano di cose
interessanti come il Vietnam o la situazione in Portogallo, o di straordinarie
svolte come il ‘68, che capivo essere una
rivoluzione visto che la categoria dei
giovani, fin lì inesistente, s’era presa la
scena senza aspettare l’eredità degli
anziani, apprendendo tutto dai coetanei. Con i rischi relativi».
I rischi della seduzione che subisce
chi vive lontano dal centro e sconta
tempi più lunghi, con le novità che arrivano come un’eco, col complesso di
doversi mettere in pari. Magari arrancando, magari non afferrando il cuore
esatto di ciò che avviene. «Pasolini dice
che c’è un’età in cui è casuale che ti
schieri da una parte o dall’altra, dietro
le idee proletarie o quelle di destra. Dipende da un niente. Da un buon maestro o da un cattivo maestro. Io sedetti
al tavolo accanto a quelli che mi fecero
scoprire Kerouac, Hemingway, Pavese,
e i dischi di Dylan».
Gli amici divennero un modello cui
Paolini è rimasto legatissimo, anche se
non ha più incontrato i compagni di
strada. E gli servirono da termine di confronto. «Stando con gli altri t’accorgi che
non sei sempre il più bravo. Che ci sono
cose che sai fare e cose cui devi rinunciare. Mi riferisco allo sport, al calcio. C’è
chi tocca il pallone e “vede” il gioco, e fa
il passaggio perfetto, mentre io dovevo
alzare la testa, e perdere tempo. Ero un
calciatore mediocre, smisi. Mi riferisco
alla musica. Ho scoperto con dolore che,
mentre tutti se la cavavano piuttosto bene, io ero negato a suonare la chitarra.
Però mi rifacevo e mi rifaccio tutt’oggi
cantando. Negli anni Settanta sono partito con cose popolari, canzonieri politici, il folk di Woody Guthrie, le creazioni
di Giovanna Marini (me le “bevevo”),
ogni tipo di tradizione».
Da questa cultura dell’impegno alla
pratica del teatro il passo è breve. Paolini converte la politica sul territorio e i
circoli di apprendistato sociale in voglia di comunicazione scenica, e il festival di Santarcangelo di Romagna è
l’utopia che diventa raduno, coscienza, cantiere di progetti, piattaforma di
spettacoli. Ma prima che Paolini diventasse Paolini, qual è stato il tirocinio?
«Al principio fu Brecht. Mettemmo in
prova per un anno e mezzo un Galileo,
senza venirne a capo. Impararlo a memoria era un inferno. Invece ci riuscì,
nel ‘74 al liceo, l’allestimento de L’eccezione e la regola, con un prologo e un
epilogo di canzoni popolari di lavoro,
menti, soprattutto nel Veneto oberato
da sensi di colpa, procedevano in modo
formale e castrante. Io trovai la spinta
per aderire ad alcune realtà del teatro di
gruppo: Pontedera, il Teatro del Tamburo di Genova, e César Brie a Milano
dove trovai Danio Manfredini. Nel frattempo m’ero piuttosto dedicato al teatro ragazzi, costituendo con altri due attori il Teatro degli Stracci».
Giorno dopo giorno le ossa si facevano con la clownerie, con tracce di testo,
con l’allenamento grotowskiano. «La
mappa italiana era costituita dalle sedi
delle altre compagnie di ricerca, un circuito del mutuo soccorso. Io facevo
un’imbarcata disordinata di esperienze strane ma utili. In certi casi lavoravo
senza aprire bocca. Eravamo comunque ostili alle gerarchie accademiche.
Io ho fatto un solo provino in tutta la
mia vita, quasi un omaggio affettuoso a
Glauco Mauri che mi “bocciò” e aveva
ragione: anziché portargli un monologo, gli raccontai una storia, e lui rimase
interdetto ma mi fece lo stesso i complimenti. Per fortuna, in parallelo, senza scalzare l’edificio delle regole, s’affermava un’altra prospettiva del teatro,
quello delle piazze, del “passare una sera assieme”, dei festival».
In questo ieri l’altro che ha recato
emozione e nuovi linguaggi al teatro, lui
restò folgorato dai danzatori balinesi,
dalle scuole di mimo, dal contatto con
Bolek Polivka, dal carisma dell’argentino Brie. In materia di origini personali, a
quale tribù appartiene Paolini? «Mio padre era ferroviere e sindacalista della
Cgil, mia madre proveniva da un ceppo
che trattava il legname. La mia famiglia
era proletaria. Ma quando ho detto, al
quarto anno di Agraria, che lasciavo tutto per il teatro, mi risposero con infinita
fiducia e immensa generosità: “Fai
quello che credi di fare”. Ecco, quel loro
assecondarmi è stata una lezione di vita.
E sono stato libero di mettere le mie
economie in comune coi compagni di
lavoro per bollette, benzina, mangiare.
La formula che ho sempre messo a punto è quella dell’artigianato. Io non mi
sento artista. Il senso di quello che faccio oggi c’era già tutto nel girovagare col
furgone come gli ambulanti dei mercati, stracarichi noi come loro».
Poi bisognerebbe dire come e quando
l’uomo-artigiano Paolini è caduto da
cavallo, è incappato in una visione che
gli ha cambiato la vita. «Il riferimento è
uno, fortissimo. Quando ho assistito alla Classe morta di Kantor ho avuto uno
shock, sono rimasto disarmato, e ho
pianto e riso. Una cosa rara che ti si mette nel cervello per sempre, che in mezzo
a tanta noia ti produce l’effetto di un innamoramento». Già, l’innamoramento. Adesso la parola l’ha pronunciata.
Sembrerebbe che Paolini corteggi solo i
problemi, gli scandali, le tragedie corali,
i sentimenti duri. Ma dietro quella sua
scorza da pubblico ministero cordiale o
da personaggio angosciato, ci saranno
pure gli affetti, o no? «Il teatro è stato an-
che, ovviamente, una meravigliosa scusa per darsi da fare. Viaggiare e avvicinare donne che sai che non vedrai mai più.
Innamorarsi di tutte. Sentirsi autorizzato ad approcci di tipo artistico, e non negarsi poi il resto. Le affinità sono il motore di ricerca maggiore. E un paio di occhi di cui innamorarsi te li aspetti, quando giri». Un teatrante che mette il corpo
nel documentare le ingiustizie, crea anche per sofferenza propria? «Credo di sì,
ma forse non è importante parlarne. Direi comunque che la sofferenza c’è
quando ti ostini a far funzionare qualcosa che non funziona più, e allora solo il
rimanere da soli ti può aprire la testa. La
solitudine è ferocemente creativa, rinascono energie. Quando, all’ennesima
volta, ho capito il meccanismo, mi sono
chiesto se era necessario riattendere il
dolore, o se non fosse sufficiente (come
lo è) staccare e farsi un viaggio da soli.
Produrre il vuoto senza fratture».
Ora, uscito a settembre il secondo
volume de Gli Album nell’Einaudi Stile
Libero, riposerà e studierà sino a fine
anno, e a gennaio riprenderà la tournée
col Sergente e con Song n. 32. «Stratifico, mi vorrei concedere il lusso dell’extratemporalità e dell’anacronismo,
vorrei mettere a frutto il “live”, quello
che ricevo dal pubblico, perché il paese vitale è diverso dal paese reale rappresentato dai media. L’ispirazione
più bella nasce da un coro vigoroso fatto di storia, poesia e passioni, da una
Costituente di identità. E nasce anche
dalle frequentazioni: imbattersi in Meneghello o Zanzotto, discutere qualche
volta all’anno con Erri De Luca con cui
ho lavorato in concerto, sono doni che
ti lasciano idee. Ma sto bene anche con
amici che lavorano in fabbrica, con chi
coltiva i campi, con chi fa il tassista.
Mai, è la regola, abusare delle confidenze. Le cose durano se sono rare. M’è
bastato un concerto di Bruce Springsteen, e la bellezza m’è rimasta».
‘‘
RODOLFO DI GIAMMARCO
o non sono cresciuto
con le favole dei miei,
coi racconti domestici
di vita vissuta. L’unico
piacere infantile dell’ascolto che m’è rimasto
in mente è un’immagine sonora: mio
padre che mi legge Topolino con l’intercalare dei gulp e dei gasp accentuati in
modo abnorme grazie a un cambio di
tono e di volume. Ne uscivano fuori
astrazioni, onomatopee, rumori corporei che davano una scossa a tutto il fumetto. E questa cosa mi piaceva, mi rimaneva impressa. Molto. L’altra “parola”che nella prima gioventù ebbe una risonanza diversa fu quella della televisione, che da me, a Treviso, entrò in famiglia nel 1967, quando io avevo undici
anni. A dire la verità non ne sentivo il bisogno. Fin lì avevo saltuariamente rubato qualche pezzo di discorso dagli apparecchi installati nei bar».
La voce è fluida, bassa, orientata a
un’intimità corretta da disincanto. Dopo aver ricostruito testimonianze epocali, memorie civili e saghe e apologhi di
generazioni di coetanei, Marco Paolini
ora racconta se stesso. Non è stato facile, convincerlo. Ha l’aria d’un montanaro che preferirebbe descrivere paesaggi
piuttosto che tragitti personali. Ha sempre, a ribadire un’indole da soggetto
fuori del mucchio, quella lieve barba incolta da esploratore di uomini, e di storie. Ha il sorriso candido e schivo d’un
jazzista che dal suo strumento, la bocca,
vomita infinite parole ma che poi fra sé
e sé crede all’emozione del silenzio. Ha
citato il bar, luogo paradigmatico dei
suoi Album teatrali, parlatorio dei ragazzi di provincia. Il bar come mitico
crocevia, come seconda casa, come rifugio degli sportivi...
«Ma lo vuol sapere? In realtà io non
avevo un mio bar. Mi riferisco a caffet-
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