1° domenica Ger 33,14-16 Verranno giorni nei quali realizzerò le promesse di bene Salmo 24 Fammi conoscere Signore le tue vie… 1 Tes 3,12-4,2 Lc 21,25-28.34-6 “Vi saranno segni nel sole…” Prima domenica di Avvento il SIGNORE e la NOSTRA ’ GIUSTIZIA PREGHIERA D’INIZIO A nulla serve avere buone carte geografiche e neppure essere dotati di un’attrezzatura conveniente se non ci sono più energie per andare avanti, se abbiamo smarrito la “carica”, la voglia di andare, di tentare, di correre l’avventura della fede. Anzi, si è ancora più frustrati perché la vetta resta un sogno del tutto impossibile nonostante i nostri preparativi. Tu, o Dio, hai voluto porre rimedio alla nostra cronica stanchezza, alla debolezza che afferra il cuore, al respiro affannoso con cui affrontiamo ogni salita. Tu, Dio della misericordia, ci hai donato il tuo Spirito, un’energia nuova che percorre la nostra vita, come se il tuo sangue fluisse nelle nostre vene, come se la tua forza sostenesse il nostro cammino. E poi ci continui a spingere sulla strada di tuo Figlio. “Lui è davanti a voi”, ci hai detto “Non abbiate paura” Focus Guardando i giornali, quali notizie ci colpiscono maggiormente? Come giudichiamo il tempo che stiamo vivendo? Cosa sta facendo Dio? Quale speranza ci sostiene? Alcune categorie di discernimento sul tempo presente Dentro una situazione che non sembra avere grandi sbocchi, Dio farà la sua parte. Il profeta enuncia un futuro, ma il futuro lo garantisce Dio: esistono dei profeti che ci stanno indicando un futuro? Dal libro del profeta Geremia (33,14-16) nulla è impossibie a Dio. Alla fine Dio cambierà la sorte, realizzerà le sue promesse positive, dopo che quelle negative si sono già realizzate. Il profeta dialoga con tutta la profezia 15 In quei giorni e in quel tempo precedente Dice che Dio farà sorgere per Davide un farò germogliare per Davide un germoglio giusto, germoglio giusto, un re che eserciterà il giudizio che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra. e la giustizia: questo è il vero compito del re. Giuda sarà salvato, Gerusalemme vivrà 16 In quei giorni Giuda sarà salvato un’epoca di pace e prosperità. e Gerusalemme vivrà tranquilla, Tutto si concentra su Gerusalemme che viene e sarà chiamata: Signore-nostra-giustizia. presentata con un nuovo nome: il Signore è la nostra giustizia. Nel cap. 25 l’oracolo è uguale: Ma il nuovo nome è quello del re, qui invece è il nome della città. 17 Il Signore oltre a dare stabilità Infatti così dice il Signore: alla discendenza di Davide, Non mancherà a Davide un discendente che sieda sul nel v. 18 parla dei sacerdoti: il culto. trono della casa d’Israele; La città, il re, il culto 18 ai sacerdoti leviti non mancherà mai chi stia davanti Dopo l’esilio il posto del re a me per offrire olocausti, per bruciare l’incenso in sarà occupato dal sacerdote. offerta e compiere sacrifici tutti i giorni». Nel NT ci sono le stesse risonanze: una figura sacerdotale, il Battista, ed una figura regale, Gesù. Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore – nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa d’Israele e alla casa di Giuda. 14 Non mancherà… COMMENTO La felicità promessa agli esiliati con la lettera del c. 29 ha probabilmente motivato la raccolta degli oracoli che troviamo in questi capitoli, spesso chiamati «libro della consolazione» (Ger 30-31). Gli elementi più antichi risalgono alla prima predicazione di Geremia e probabilmente facevano riferimento al Nord: sarebbero state quindi promesse di salvezza riguardanti in un primo tempo il regno del Nord caduto in mano assira nel 722 a.C. (non dimentichiamo che nel 612 a.C. cadde Ninive e con essa la potenza assira). Queste promesse di salvezza sarebbero in seguito state ampliate, dal profeta o da suoi discepoli, a comprendere anche il Sud. I due capitoli aggiunti al libretto sviluppano l'idea di salvezza (Ger 32-33): con un gesto profetico (l'acquisto del campo in Anatot, suo villaggio natale) Geremia riafferma la speranza in un futuro garantito da Dio: nonostante la situazione disperata, la parola di Dio lo rassicura «niente è impossibile a Dio» (32,27) e questa stessa parola gli riconferma che la desolazione sarà temporanea: il Signore cambierà la sorte di Giuda e di Israele (c. 33). Nel passo liturgico (33,14-16) il Signore dichiara che realizzerà le promesse positive rivolte un tempo a Israele e Giuda. Egli farà sorgere per Davide un germoglio di giustizia, cioè un re che finalmente eserciterà giustizia e diritto come ogni re dovrebbe fare. Giuda allora sarà salvato e Gerusalemme godrà un'epoca di pace e prosperità. Letto a seguito e in continuità con i due oracoli che lo precedono, il fuoco si restringe da Israele e Giuda, menzionate nell'introduzione, a Gerusalemme, la quale è ora presentata con un nuovo nome: il Signore è la nostra giustizia. Questo nuovo nome era in 23,5-6 quello del nuovo re: «Ecco, verranno giorni - oracolo del Signore nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra. 6 Nei suoi giorni Giuda sarà salvato e Israele vivrà tranquillo, e lo chiameranno con questo nome: Signore-nostra-giustizia». Qui il profeta si concentra invece sulla sorte della città, nella quale il Signore, oltre a dare stabilità alla discendenza di Davide (33,17), garantirà attraverso i sacerdoti leviti un culto perenne che renda propizia la nazione al suo Dio (33,18). Questa speranza sarà sviluppata nei secoli successivi, per esempio in Sir 45,15.23-26 che esalta il patto con Aronne, oltre a quello con Davide; ma avrà la sua eco anche nel Nuovo Testamento: una figura sacerdotale, Giovanni Battista, indicato come discendente di Aronne per entrambi i suoi genitori (Lc 1,5), è strettamente congiunta al messia davidico Gesù. Che cosa significa tuttavia l'espressione il Signore è la nostra giustizia? Non va esclusa una deliberata critica all'ultimo re che sedette sul trono di Davide, Sedecia, il cui nome significa: il Signore è giustizia. Chiunque siede sul trono di Davide deve rammentare sempre che solo conformandosi al volere divino egli garantisce al suo popolo la prosperità; se l'ultimo re è caduto non è perché Dio si è dimenticato del suo popolo, ma perché il sovrano non ha attuato il suo compito, cioè operare per la costruzione di una società di persone libere, come mostra in particolare il libro del Deuteronomio (cf. Dt 17), il che implica non consentire mai che l’esercizio del potere porti alla pretesa assolutistica di poter disporre della vita altrui (la schiavitù di cui l’Egitto è simbolo). È un oracolo di speranza ma un oracolo che riconosce che la giustizia non c’è: il re attuale è inadeguato. Il popolo si trova oppresso, la società non è costruita bene: il Signore è la nostra giustizia per cui il re deve conformarsi a lui. Le speranze di una liberazione politica immediata non ci sono, per cui si lancia in avanti la speranza. La speranza profetica non è un’evasione dalla realtà, ma un rilancio che è denuncia del presente: il superamente non avverrà nei giochi di potere, nella sconfitta dei nemici, in un altro re che fa come questo. C’è bisogno di un nuovo germoglio giusto, perché quello che c’è non va bene. RIAPPROPRIAZIONE Quali atteggiamenti tenere di fronte a questo tempo Quale il modo di entrare nella storia di oggi come cristiani? Quale “speranza” possiamo annunciare nel territorio dove viviamo e negli ambienti che ognuno di noi frequenta? convegno di Firenze Le tante povertà, antiche e nuove, che la crisi evidenzia ancor di più, si condensano nella povertà constatata da Gesù con preoccupazione: ANNUNCIARE la carenza di operai che annunciano il Vangelo della misericordia (gli apparivano «come pecore senza pastore», ricorda l’evangelista: Mt 9,36). La gente ha bisogno di parole e gesti che, partendo da noi, indirizzino lo sguardo e i desideri a Dio. La fede genera una testimonianza annunciata non meno di una testimonianza vissuta. Con il suo personale tratto papa Francesco mostra la forza e l’agilità di questa forma e di questo stile testimoniali: quante immagini e metafore provenienti dal Vangelo egli riesce a comunicare, soddisfacendo la ricerca di senso, accendendo la riflessione e l’autocritica che apre alla conversione, animando una denuncia che non produce violenza ma permette di comprendere la verità delle cose. Le nostre Chiese sono impegnate da decenni in un processo di riforma dei percorsi di iniziazione e di educazione alla fede cristiana. Il Convegno di Firenze è il luogo in cui Verificare quanto abbiamo rinnovato l’annuncio – con forme di nuova evangelizzazione e di primo annuncio; come abbiamo articolato la proposta della fede in un contesto pluriculturale e plurireligioso come l’attuale. Occorrono intuizioni e idee per prendere la parola in una cultura mediatica e digitale che spesso diviene tanto autoreferenziale da svuotare di senso anche le parole più dense di significato, come lo stesso termine “Dio”. Le comunità cristiane stanno rivedendo la propria forma per essere comunità di annuncio del Vangelo? Sono capaci di testimoniare e motivarele proprie scelte di vita, rendendole luogo in cui la luce dell’umano simanifesta al mondo? Sono in grado di generare un desiderio di «edificaree confessare», esprimendo con umiltà ma anche fermezza la propria fedenello spazio pubblico, senza arroganza ma anche senza paure e falsi pudori? Sanno accendere nel credente la ricerca attiva di momenti di comunionevissuta, nella preghiera e nello scambio fraterno? Sanno vivere etrasmettere una predilezione naturale per i poveri e gli esclusi, e una passione per le giovani generazioni e per la loro educazione? Salmo 25 (24) 1 Di Davide. Alef Bet Ghimel Dalet He Zain Het Tet Iod Caf Lamed Mem Nun Samec Ain Pe Sade Res Sin Tau A te, Signore, innalzo l’anima mia, 2 mio Dio, in te confido: che io non resti deluso! Non trionfino su di me i miei nemici! 3 Chiunque in te spera non resti deluso; sia deluso chi tradisce senza motivo. 4 Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri. 5 Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi, perché sei tu il Dio della mia salvezza; io spero in te tutto il giorno. 6 Ricòrdati, Signore, della tua misericordia e del tuo amore, che è da sempre. 7 I peccati della mia giovinezza e le mie ribellioni, non li ricordare: ricòrdati di me nella tua misericordia, per la tua bontà, Signore. 8 Buono e retto è il Signore, indica ai peccatori la via giusta; 9 guida i poveri secondo giustizia, insegna ai poveri la sua via. 10 Tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà per chi custodisce la sua alleanza e i suoi precetti. 11 Per il tuo nome, Signore, perdona la mia colpa, anche se è grande. 12 C’è un uomo che teme il Signore? Gli indicherà la via da scegliere. 13 Egli riposerà nel benessere, la sua discendenza possederà la terra. 14 Il Signore si confida con chi lo teme: gli fa conoscere la sua alleanza. 15 I miei occhi sono sempre rivolti al Signore, è lui che fa uscire dalla rete il mio piede. 16 Volgiti a me e abbi pietà, perché sono povero e solo. 17 Allarga il mio cuore angosciato, liberami dagli affanni. 18 Vedi la mia povertà e la mia fatica e perdona tutti i miei peccati. 19 Guarda i miei nemici: sono molti, e mi detestano con odio violento. 20 Proteggimi, portami in salvo; che io non resti deluso, perché in te mi sono rifugiato. perché in te ho sperato. 22 O Dio, libera Israele da tutte le sue angosce. TESTI (allegati) RICORDATI DEL TUO AMORE E NON DEI MIEI PECCATI salmo alfabetico (manca la lettera Waw che sarebbe collocata fra He e Zain) Il tema è quello della fiducia in Dio, inteso come luogo di rifugio e di riparo. La speranza è l’attesa fiduciosa di Dio; La delusione è il suo opposto ed è impossibile per il fedele che si è rifugiato in Dio. Geremia nelle sue confessioni scrive: “Siano confusi i miei avversari, ma non io!” (Ger, 17,18) dopo aver proclamato il salmo, ognuno/a riprenda il versetto che lo ha colpito/a “Verità o falsità nella profezia. La testimonianza di Geremia” in A. Mello, La passione dei profeti, Qiqajon, 2000, pp. 117ss VERITA’ O FALSITÀ NELLA PROFEZIA La testimonianza di Geremia Per avere una vocazione profetica occorre un discernimento, ma come discernere chi ha davvero una vocazione profetica? Come si fa a sapere se il profeta dice il vero oppure dice menzogne, “inganni del suo cuore”? Nessuno ha vissuto questo problema in maniera tanto acuta e drammatica quanto il profeta Geremia. Al punto che con Geremia la profezia entra in crisi, non riesce più a operare un ragionevole discernimento fra verità e menzogna, non ce la fa più a garantire la propria autenticità, e dunque neppure la propria sopravvivenza. Geremia è attivo sul finire del settimo secolo, alle soglie dell’esilio babilonese. Dopo l’esilio la profezia, vittima di se stessa, delle proprie insolubili contraddizioni interne, sarà praticamente spenta in Israele. Allora si opererà una transizione dalla profezia all’apocalittica, il cui linguaggio è talmente criptico e misterioso da sottrarsi completamente alla verifica se sia vero o falso. Ma non ci saranno più profeti capaci di assumersi tutta la responsabilità delle proprie parole. La Bibbia ebraica non conosce il termine, solo greco, di “falso profeta” (pseudopropbetés). La Bibbia ebraica conosce solamente dei “profeti”, i quali possono dire il vero oppure il falso, ma non sono anticipatamente etichettati come “veri” o “falsi”. Il discernimento resta ancora tutto da fare. Teoricamente, non sarebbe del tutto impossibile che dei falsi profeti talvolta dicano il vero, e che dei veri profeti talvolta dicano il falso. Forse che le parole dei profeti canonici, quelli che noi consideriamo come “veri”, sono sempre infallibili, sono sempre oro colato? Geremia è appunto il profeta che più di ogni altro ha l’umiltà di confessarlo: anche tra le sue parole ve ne sono di quelle che non valgono molto. Perciò così ha detto il Signore: Se tornerai a me e io ti farò tornare starai alla mia presenza; se farai uscire ciò che è prezioso da ciò che è vile sarai come la mia bocca (Ger 15,19). Questo è uno di quei momenti critici della vita del profeta che chiamiamo “confessioni”. Vuol dire che, finora, Geremia non ha sempre detto parole “preziose”, come ci si attende dalla “bocca del Signore” (espressione che indica il profeta). Egli si è lasciato andare anche a parole “vili”, cose non adeguate alla grandezza della Parola di Dio, cose che la avviliscono. La Parola di Dio è sempre anche parola di uomo, veicolata attraverso l’esperienza parzi le gli orizzonti limitati, i sentimenti non ancora purificati, che appartengono al retaggio di ogni uomo. Neppure i più grandi fra i profeti sono stati infallibii. Vi è un passo del Targum che lo ammette molto francamente: “Anche tra i profeti si sono trovate molte sciocchezze”. La grandezza di Geremia, la novità della sua profezia, consiste proprio in una coscienza più acuta, più problematica, di come sia difficile distinguere divino e umano nell’esperienza profetica, e quindi la parola “preziosa” dalla parola “vile”. L’episodio più illuminante della vita di Geremia è il suo alterco con Anania. Ripetiamolo: qui sono due profeti che si affrontano, non è detto che l’uno sia vero e l’altro falso. Anche Anania, che è chiamato “il profeta di Gabaon”, parla in nome del Signore del mondo, Dio d’Israele (Ger 28,2). E Geremia, nella sua replica infinitamente più modesta, gli ricorda “i profeti che furono prima di me e di te” (Ger 28,8): io e te siamo entrambi profeti, abbiamo la stessa chance di dire il vero. Geremia si pone sullo stesso piano del suo interlocutore, senza il minimo complesso di superiorità. Anzi, Geremia arriva ad augurarsi che abbia ragione Anania: “Amen, così faccia il Signore: realizzi il Signore le tue parole” (Ger 28,6). Solo si permette di insinuare un dubbio: di solito i profeti precedenti profetizzavano la sventura, e non la pace. Il racconto è condotto in modo tale da lasciarci in sospeso fino alla fine su quale dei due profeti abbia ragione. Certo noi lo leggiamo nel libro di Geremia, che per noi è canonico. Non possediamo un libro di Anania, che ci presenti le cose dal suo punto di vista. Abbiamo solo il libro di Geremia, ma questi non fa nulla per presentarsi come il vero profeta. Al contrario, la figura vincente, quella che ha l’ardire di spezzare il giogo sul collo del profeta, è proprio Anania. Geremia non può far altro che battere in ritirata: “Il profeta Geremia se ne andò per la sua strada” (Ger 28,11). Ora, questi due profeti predicono due cose opposte e inconciliabili: - Geremia che l’esilio babilonese sarà lungo (da qui il giogo sul suo collo); - Anania invece che la liberazione dall’esilio è vicina. È quasi impossibile stabilire chi sta dicendo la verità, eppure noi sentiamo che il vero profeta è Geremia. Come mai? Walter Vogels ci ha offerto un’altra analisi molto fine dei criteri che consentono di individuare il profeta autentico. Lui ne identifica alcuni, diciamo così, “esterni”, relativi all’oggettività del messaggio, e altri invece “interni”, legati alla singolarità della persona. Quanto ai criteri esterni, sono piuttosto scolastici. In genere, è il libro del Deuteronomio che ha provveduto a definirli, ma si vede bene che riflettono la preoccupazione dogmatica di normare un fenomeno che si sottrae a una facile classificazione. Il primo criterio di verità di una profezia è la sua realizzazione: Magari dirai in cuor tuo: Come sapremo che una parola non l’ha detta il Signore? Se il profeta parlerà nel nome del Signore ma la parola non avverrà e non si realizzerà, quella parola non l’ha detta il Signore. E il profeta che ha parlato con presunzione: tu non devi temerlo (Dt 18,21). Questo criterio almeno è ovvio: se uno dice una cosa ma poi la realtà lo smentisce, è difficile credergli. Michea ben Jimlà profetizza al re che morirà in guerra, e subito dopo aggiunge: “Se tornerai in pace, vuol dire che il Signore non mi ha parlato” (1Re 22,28). Questo va da sé. Tuttavia, il campo di applicazione di questo criterio è abbastanza limitato. Anzitutto, esso si applica soltanto alla predizione di eventi futuri, ma la profezia non consiste solo in questo: prophetés è chi parla in nome di Dio, piuttosto che chi predice il futuro. Ma anche nel caso in cui il profeta preveda un evento futuro, la sua realizzazione non è quasi mai immediatamente verificabile. Torniamo allo scontro fra Geremia e Anania. Quest’ultimo prevede la liberazione dall’esilio “fra due anni”: questa profezia, di per sé, sarebbe abbastanza facile da controllare. Ma Geremia prevede che l’esilio durerà un tempo lungo, almeno tre generazioni (cf. Ger 27,7, che poi diventeranno settant’anni): questa profezia non è verificabile nella vita di Geremia, da parte dei suoi ascoltatori, ma solamente dai posteri, i quali hanno conservato gli oracoli di Geremia e non quelli di Anania. Questo criterio non è quindi molto utile per un discernimento della profezia. Tutt’al più, ci viene a dire che “la storia ha dato ragione a Geremia e non ad Anania”. Ma, in questo modo, si invoca un principio che eccede la verificabiità concreta, e di questo Geremia doveva essere perfettamente consapevole, perché la gente non cessava di rinfacciarglielo: Ecco, essi mi dicono: Dov’è la parola del Signore? Si realizzi, finalmente! (Ger 17,15). Il profeta sa che il Signore “veglia sulla sua parola per realizzarla” (Ger 1,12), ma può ben darsi che i tempi di questo compimento siano sottratti alla sua stessa conoscenza. Può darsi che siano tempi più lunghi del previsto, o anche tempi più brevi: chi lo può dire? “Quanto poi al giorno e all’ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli nel cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre” (Mc 13,32). Il secondo criterio di verità è la fedeltà alla tradizione, formulato di nuovo molto chiaramente dal Deuteronomio: Se sorgesse in mezzo a te un profeta o un sognatore e facesse per te un segno o un prodigio, e quel segno o prodigio si compisse, ma poi ti dicesse: Seguiamo altri dèi che non conoscete, e serviamoli, tu non ascolterai le parole di quel profeta (Dt 13,2-4). Quindi non basta che la parola si compia, o che il segno che la conferma si realizzi, occorre anche che questa parola sia conforme a un certo insegnamento tradizionale. Qui viene indicata soprattutto l’ortodossia, la fede nel Dio d’Israele. Io non penso che Anania, o altri “falsi” profeti, fossero eterodossi. Anche loro parlavano in nome del “Signore del mondo, Dio d’Israele”. La prescrizione deuteronomica che abbiamo citato fa seguito a un’altra, in cui si dice: “Tutta la parola che io vi ordino (cioè tutta la Torà) l’osserverete per compierla; non vi aggiungerete né vi sottrarrete nulla” (Dt 13,1). Quindi l’ortodossia del profeta va misurata su tutta la Torà: cioè è una questione di ortoprassi e non solo di ortodossia, di precetti e non solo di dottrine. Alla Torà non si può aggiungere né sottrarre alcunché. Il principio, così precisato, è abbastanza chiaro, ma è applicabile? E vero che un profeta non aggiunge né toglie nulla alla Torà? Per limitarci ancora a Geremia, questi predica contro il Tempio, contro la circoncisione, contro la dottrina classica della retribuzione collettiva, contro l’antica alleanza, contro la stessa Torà, nella misura in cui viene ridotta a menzogna dall’applicazione degli scribi. Tutto questo non toglie nulla e non aggiunge nulla all’insegnamento tradizionale? Io penso che la predicazione profetica di Geremia dovesse apparire ai suoi contemporanei come profondamente innovativa, se non addirittura rivoluzionaria. Il criterio dell’ortodossia o dell’ortoprassi serve fino a un certo punto, se si tratta di valutare la verità di queste innovazioni. Il terzo criterio oggettivo è che la vera profezia è più probabilmente una profezia di sventura che non una profezia di pace. Questo principio è formulato dallo stesso Geremia contro Anania: I profeti che furono prima di me e di te, da sempre, hanno profetizzato contro molte terre e grandi regni guerra, sventura e peste. Quanto al profeta che profetizza la pace, solo se si compie la parola del profeta si saprà che quel profeta il Signore l’ha veramente inviato (Ger 2,8-9). Questo criterio, nella sua stessa formulazione, ha un carattere relativo, non assoluto: è un criterio di maggiore o minore probabilità. Geremia non esclude che si possano dare “profeti di pace”, ma li sottomette al primo criterio, quello della realizzazione della loro parola (ciò che, del resto, vale per tutti, anche per i “profeti di sventura”). Egli si limita a considerare che i profeti del passato (“da sempre”) sono stati più facilmente profeti di sventura che non di pace, e qui deve pensare prima di tutto ai grandi profeti del periodo assiro: Amos, Osea, Isaia, Michea. Tuttavia, non è che in questi grandi profeti classici non vi siano anche oracoli di salvezza. Lo stesso Geremia, nonostante la triste fama che lo accompagna, non è stato soltanto un profeta di sventura. Dopo di lui, sul finire dell’esilio, apparirà un profeta il cui messaggio è tutto intero di consolazione, il Secondo Isaia. Perciò questo criterio probabiistico è in realtà un criterio molto debole, che non è in grado di dirimere un caso concreto. Nessuno dei criteri oggettivi, legati al contenuto del messaggio, è dunque sufficiente a garantirne la verità. Paradossalmente, sono molto più decisivi i criteri soggettivi, che hanno pertinenza alla persona del profeta. Il primo criterio di autenticità di un profeta è la sua vocazione. Quasi tutti i grandi profeti ci raccontino questa loro esperienza fontale, paradigmatica, indica a sufficienza l’importanza che essi le attribuivano. I veri profeti sono dei chiamati e degli inviati da parte di Dio, non di rado contro le loro stesse disposizioni native, contro la loro stessa volontà. I falsi profeti non possono vantare le stesse credenziali: I profeti profetizzano menzogne nel mio nome: io non ll ho inviati, né ho dato loro ordini, né ho parlato con loro (Ger 14,14). Anche ad Anania, finalmente, Geremia ha solo questo da rimproverare: “Ascolta, Anania: il Signore non ti ha inviato” (Ger 28,11). Certo, si tratta di un argomento ad hominem, soggettivo, che a un certo momento potrà ritorcersi contro lo stesso Geremia (cf. Ger 43,2), però è un argomento forte, che fa appello a un dato essenziale, che c’è o non c’è, che nessuno può inventarsi, a meno di essere in cattiva fede, a meno di essere un millantatore. Il secondo criterio è la correttezza professionale, cioè l’agire in maniera disinteressata, senza secondi fini, tanto meno se si tratta di vantaggi personali: Così dice il Signore contro i profeti che sviano il mio popolo: se mordono qualcosa con i denti parlano di pace, ma a chi non gli dà niente in bocca dichiarano guerra (Mi 3,5). Chi fa il profeta di mestiere, a scopo di lucro, è evidente che si squalifica da solo (cf. Mi 3,11). Ma questo argomento non è molto usato da Geremia: su questo piano, sembra di capire, egli non ha nulla da rimproverare a gente come Anania. Se non forse una cosa: che è più facile, più comodo, più gratificante andare incontro ai desideri della gente che non contraddirli (il che ci rimanda, sotto un aspetto più psicologico, al terzo criterio oggettivo formulato sopra). Ma qui si delinea, proprio con Geremia, un grande tema che è forse il più decisivo di tutti per stabilire quale sia la verità della profezia, un tema che conoscerà molti sviluppi nella tradizione successiva, dal capitolo cinquantatré di Isaia fino al Vangelo: e cioè il tema del profeta rifiutato e sofferente. In pratica si potrebbe formulare così: proprio l’insuccesso e il faffimento del profeta sono segni della sua autenticità, e non il contrario. Ohimè madre mia che mi hai partorito uomo di lltigio e di contesa per tutto il paese: non ho preso in prestito né han preso in prestito da me eppure tutti mi maledicono (Ger 15,10). Non a caso, nel libro di Geremia, assistiamo a uno strano slittamento dell’attenzione: accanto al messaggio, e si può ben dire anche al di là del messaggio, l’obiettivo si sposta sempre di più sulle vicende personali del profeta, su quella che è stata chiamata la “passione di Geremia”. Ed è per questa testimonianza personale, non per altro, che noi sappiamo che Geremia è un vero profeta. Com’è facile intuire, non si tratta soltanto di una certa correttezza professionale, di una certa onestà: ciò che accredita il profeta è la sua santità. E con questo argomento soggettivo arriviamo a porre un fondamento più certo, più vero, di tanti criteri oggettivi. L’ultimo criterio, anch’esso tipicamente geremiaco, è la difficile distinzione fra la parola e il sogno. Secondo Geremia, queste due cose non hanno molto in comune. Si veda tutto il passo del “libretto contro i falsi profeti”, che termina dicendo: Il profeta che ha avuto un sogno racconti un sogno ma chi ha udito la mia parola annunzi la mia parola con verità (o “di verità”: emet). Che cosa ha in comune la paglia con il grano? Oracolo del Signore. Non è forse la mia parola come il fuoco e come un martello che spacca la roccia? (Ger 23,28-29). Di fronte all’esperienza così intensa, così forte, che Geremia ha fatto della parola di Dio (come un fuoco ardente, come un martello), il sogno ha la leggerezza della paglia: fantasia, inganno del cuore. Il sogno, come dirà Maimonide, è un “frutto immaturo” della profezia. Contiene sì degli elementi indicativi, ma indecifrabili se non alla luce di un’altra parola. Questo è forse ciò che intende dire la Torà quando sottomette il carisma profetico, e in particolare i sogni e le visioni, alla rivelazione mosaica: Ascoltate le mie parole! Se ci sarà un vostro profeta, io, il Signore, in visione a lui mi farò conoscere, in sogno parlerò con lui. Non così con il mio servo Mosè: egli è l’uomo di fiducia in tutta la mia casa (Nm 12,6-7). Ci dev’essere una “legge”, una norma entro cui incanalare le proprie suggestioni inconsce, onde evitare un soggettivismo incontrollato. Anche questo criterio è delicato da manipolare, sconfina quasi nella psicanalisi, ma segnala il bisogno di un autodiscernimento che deve operare in profondità. I