CANTANTI « Per me stare in palcoscenico vuol dire anche sapersi trasformare, cercare una nuova identità, guardarsi nello specchio e non riconoscersi... ». Ildebrando D’Arcangelo Un basso che sogna e fa sognare di Massimo Viazzo 48 musica 241, novembre 2012 La carriera di Ildebrando D’Arcangelo si è consolidata in questi anni soprattutto all’estero. Il basso abruzzese calca regolarmente i palcoscenici del Met, del Covent Garden, della Staatsoper di Vienna ed è di casa sia a Berlino che a Salisburgo, dove è molto apprezzato per la naturalezza dell’emissione, la saldezza e la nitidezza con cui rende la linea musicale, per un accento istintivamente nobile e una timbrica sottilmente sensuale che ben si sposano con le innate – e ben sviluppate – qualità attoriali. Lo incontro a Verona durante le recite di Don Giovanni in Arena, opera tra l’altro incisa nel 2011 per la Deutsche Grammophon e cantata un anno fa nella produzione diretta da Daniel Barenboim, con regia di Robert Carsen. Lei nel corso delle recite al Teatro alla Scala si è alternato nel ruolo di Don Giovanni e in quello di Leporello: un vezzo o un’esigenza? Io credo che interpretare i due ruoli nella stessa produzione sia il modo migliore per introiettarne le qualità. Differenze, ma soprattutto similitudini... Quindi per Lei Don Giovanni e Leporello rappresentano le due facce di una stessa medaglia... Direi di sı̀. Non si spiegherebbe altrimenti come Donna Elvira prenda uno per l’altro all’inizio del secondo atto. Donna Elvira è una donna intelligente. Come fa a confondersi e a non accorgersi dello scambio di persona? Don Giovanni e Leporello si devono pur somigliare nei modi, nei gesti e forse anche fisicamente... Mi viene in mente il celebre allestimento del 1990 curato da Peter Sellars in cui le due parti erano state affidate a due gemelli di colore... Già! Leporello per me vive quasi di luce riflessa. Vive e agisce in quanto esiste Don Giovanni. Aspira forse ad essere lui stesso come il suo padrone. Ma il suo essere è fisico, terreno, vero, a volte forse anche un po’ vigliacco... Io mi trovo bene ad interpretarlo una sera sı̀ e l’altra no anche se indubbiamente è Don Giovanni il fulcro delle mie attenzioni. Lui è più sfaccettato, sfuggente... Ma alla fine è la musica di Mozart a dire l’ultima parola. È quella che seguo e che mi dà i giusti suggerimenti. Cosı` eviterà sicuramente di cadere nella routine; ma non c’è il rischio di confondersi cantando magari le frasi dell’altro personaggio? Sa che mi capita di cantare entrambi i ruoli anche nel dormiveglia? Me li sogno pure la notte... E in effetti il pericolo di imbrogliarsi è dietro l’angolo, ma questo rischio sono felice di correrlo. Tornando a questa produzione curata da Zeffirelli... Io la amo molto, dopo aver cantato in molti allestimenti moderni in cui entri in scena in jeans e camicia. Per me stare in palcoscenico vuol anche dire sapersi trasformare, indossare panni differenti, cercare una nuova identità, essere un personaggio e non Ildebrando, guardarsi allo specchio e non riconoscersi... Il Suo Don Giovanni è più colpevole o più vittima, vittima del suo libero pensare? È un po’ difficile rispondere. Penso che una regia coerente potrebbe confortare entrambe le ipotesi. Ma è Mozart, con quegli accordi di Re minore, drammaticissimi, all’inizio della Ouverture che indica la strada da seguire. È per questo motivo che il Suo Leporello è ben lungi dal rientrare nella categoria del « buffo »? Io non ho mai avuto l’idea di fare un Leporello buffo. Sono le situazioni create da Da Ponte e da Mozart ad essere buffe. Per me è controproducente creare un personaggio buffo caricando con frizzi e lazzi la linea musicale. Don Giovanni è una specie di fil rouge nella sua carriera... Certamente, fin dal 1995, quando lo cantai per la prima volta a Bonn... ... per giungere alle recite scaligere nei panni di Leporello con il maestro Muti Un sodalizio che continua tuttora e che mi onora. Alla Scala con Muti arrivò poi anche il Figaro di Strehler, un allestimento che porto nel cuore. Per quanto riguarda il teatro mozartiano io devo tutto al maestro Muti. Che profondità! Mi ricordo che la prova del solo primo atto delle Nozze era durata più di tre ore. Mi sembrava di non saper più nulla. Ma tutto era cominciato con la vittoria, anzi le vittorie, al « Toti Dal Monte »... Sı̀, lo vinsi due volte, nel 1989 come Masetto e nel 1991 come Don Alfonso. Poi Sesto Bruscantini, il presidente della giuria, mi vietò di partecipare alle edizioni successive: « Altrimenti non vince più nessun altro », disse... E poi a carriera ben avviata arrivò improvvisamente la malattia... Era il 2003. Ero stato scritturato dal maestro Muti per il ruolo di Pharaon nel Moı¨se di Rossini. Dovetti rinunciare per un cancro alla tiroide. E i dischi li ascolta? La mia prima opera ascoltata in disco fu, manco a dirlo, un Don Giovanni, quello diretto da Karl Böhm per la Deutsche Grammophon con Flagello e Fischer Dieskau. Una vera folgorazione! Ed ora l’« etichetta gialla » Le ha affidato, affiancandole un cast di alto profilo, la nuova registrazione dell’opera in uscita in questi giorni. Per me è la chiusura del cerchio, il coronamento di un sogno! Sono state montate tre recite live dal Festival di Baden Baden. Per la DG avevo già registrato due recital [uno mozartiano con la direzione di Noseda e uno dedicato a Händel con Federico Maria Sardelli, ndr] dei quali sono molto soddisfatto. Nel CD mozartiano oltre ai ruoli canonici, ho potuto affrontare tre bellissime arie da concerto, mentre nell’altro mi sono dedicato alla tipologia vocale dei tre bassi händeliani, Antonio Montagnana, Giuseppe Maria Boschi e Antonio Francesco Carli. Il Suo Don Giovanni prende ispirazione da qualche cantante storico? Beh, da giovane ascoltavo molto: i miei modelli erano Cesare Siepi e Samuel Ramey. Ma devo confessare che oggi è solo il palcoscenico a guidare le mie scelte interpretative. E lı̀ che devo cercare di adeguare al meglio il ruolo alle mie caratteristiche musica 241, novembre 2012 49 Con Ramey Lei ha anche cantato qualche anno fa a Chicago. Come è stato avere al proprio fianco un Leporello di tal carisma? Quando lo raccontai a mio padre non ci voleva credere... piangeva di felicità. Pensi che condividevamo lo stesso camerino, io e il mio idolo. Cosa ammira di più nel basso americano? Quella solidità tecnica che gli permetteva di cantare con facilità anche i passaggi più complicati. E il bello è che quando gli facevo qualche domanda in tal senso lui mi rispondeva sempre che di tecnica non ne sapeva nulla... Lui è per me un punto di riferimento in Rossini, Händel, ma anche nell’Attila di Verdi. E Siepi? Di lui ammiro l’eleganza dell’accento, la nobiltà nel porgere. Oltre a Don Giovanni, adoro il suo Filippo II, Méphistophélès... Ruoli, questi ultimi due, che comunque Lei non mi pare abbia in repertorio. Ma, forse, li ha già messi nel mirino... Esatto. Faust lo farò prestissimo, Filippo tra qualche anno. Si tratta quindi di una notevole sterzata di repertorio... Ormai mi sento pronto. Dopo il Faust di Gounod, farò la Damnation de Faust di Berlioz: entrambi a Berlino. Per completare il gruppo mancherebbe il terzo Faust, quello italiano... Mefistofele l’ho già fatto con Riccardo Muti, ma in forma di concerto. Mi piacerebbe molto portarlo in scena. La mia voce sta cambiando, ha più corpo. Sento proprio la necessità di intraprendere nuove strade. È una esigenza musicale derivante dalla maturazione vocale Abbandonando Mozart? No, quello no. Però i registi oggi chiedono che il cantante sia fisicamente credibile, anche esagerando a volte e dimenticandosi che il pubblico va in teatro per sentir cantare. Comunque per il mio Mozart in futuro tutto dipenderà dalla... pancetta [ride sonoramente] C’è uno spazio anche per il canto da camera? Mi piace molto. Ho la tendenza, oggi, ad esplorare nuovi orizzonti. L’importante è che ci sia il tempo per studiare e approfondire lo stile e la lingua. Ad esempio amo moltissimo i Songs of Travel di Vaughan Williams, composti per voce di basso e pianoforte. Sono brani di rara suggestione che spero di eseguire presto in concerto... 50 musica 241, novembre 2012 Il Suo repertorio, finora, è in gran parte italiano. Ad esempio, Lei che ha fatto tutto Mozart non ha ancora cantato Papageno... In quel caso non è solo un problema legato alla lingua tedesca, ma si è ai margini del dialetto... In tal senso forse verrà prima Sarastro... Peraltro ho cantato la Cantata del caffè di Bach, la Creazione di Haydn e mi piacerebbe tanto studiare il Requiem Tedesco di Brahms. Un passo indietro, ora, per ripercorrere gli studi. Mio padre, pure lui musicista, voleva fare di me un grande pianista. E quindi gli inizi furono quelli del bimbo che passava ore e ore al pianoforte. Andavo a lezione da Ettore Peretti al Conservatorio di Pesaro. Ho dato il Quinto e avevo l’Ottavo pronto. Poi i miei studi hanno subı̀to una virata verso il canto... ... e il pianoforte è stato appeso al chiodo... Nemmeno per idea! Quando torno a casa, a Pescara, tra una produzione e l’altra, non canto mai. Suono, suono e ancora suono... Passo le mie giornate a cercare fraseggi al pianoforte, ad inseguire timbriche nuove... Quindi Lei non ha bisogno di un pianista per ripassare gli spartiti? Effettivamente mi suono tutto da solo. Anzi, dato che non ho una buona lettura a prima vista, delle volte passo più tempo a studiare la parte pianistica che quella vocale... Non posso arrivare alle prove impreparato. Tra l’altro gli accompagnamenti pianistici delle arie mozartiane non sono una passeggiata per il pianista... Pensi che una volta a Salisburgo, durante un’audizione, me li dovetti suonare io stesso perché la pianista accompagnatrice non era in grado di eseguirli correttamente. Il Suo ambito come pianista resta comunque limitato agli spartiti per canto e pianoforte... Non proprio. Sto studiando la Ciaccona di Bach nella trascrizione di Busoni e la Sonata in Si minore di Liszt. Ma come le dicevo non è certo per suonare in pubblico. A me affascina indagare colore e espressione. È proprio la ricerca sul suono che fa la differenza tra i musicisti, sia tra gli strumentisti che tra i cantanti. Un suono che oltre ad affascinare gli altri deve affascinare te stesso. Devi innamorartene. Immagino, quindi, che abbia ascoltato molta musica pianistica. Quali sono i Suoi beniamini della tastiera? Sviatoslav Richter, Arturo Benedetti Michelangeli e, oggi, Radu Lupu e Murray Perahia per la musica di Mozart. Mio padre conobbe Richter dopo un recital a L’Aquila. Si era tal- mente spellato le mani ad applaudire e sgolato a gridare bis che il grande pianista russo lo volle conoscere invitandolo in camerino alla fine del concerto. Ma torniamo al canto. Quali furono i Suoi insegnanti? Iniziai con Maria Vittoria Romano che mi guidò alla scoperta del canto in maschera. Poi, dopo la sua morte, fu Natale De Carolis, anche lui suo allievo, a prendermi sotto la sua ala protettiva. Con lui studiai, ad esempio, il ruolo di Masetto. E, infine, andai da Paride Venturi, un uomo straordinario che spesso non voleva neanche essere pagato... Le piace la definizione basso-baritono? Diciamo che mi piace attenermi alle definizioni più tradizionali, quindi mi sento di appartenere alla categoria di basso cantabile, che riflette molto di più le qualità della mia voce. La quale sta maturando e, com’è giusto che sia; sta acquistando un colore diverso da quello degli anni giovanili. Ecco CD MOZART Don Giovanni (dramma giocoso in due atti su libretto di L. Da Ponte) I. D’Arcangelo, D. Damrau, J. DiDonato, L. Pisaroni, R. Villazón, M. Erdmann, K. Wolff, V. Kowaljow; Vocalensemble Rastatt, Mahler Chamber Orchestra, direttore Yannick NézetSéguin DG 477 9878 (3 CD) DDD 173:13 HHHH Ildebrando D’Arcangelo è da tempo un nome di spicco nella discografia di Don Giovanni. Il basso abruzzese interpreta Leporello sia (accanto ai libertini di Carlos Álvarez e Thomas Hampson) in due DVD del capolavoro mozartiano realizzati nel 2005 e nel 2007 sia nell’incisione audio diretta da John Eliot Gardiner (Archiv) nel 1994, mentre con Claudio Abbado (1997, DG) è stato un ottimo Masetto. Finora tuttavia non aveva lasciato una testimonianza completa e ufficiale del personaggio che gli è più congeniale: quello di Don Giovanni. E la sicurezza psicologica e musicale mostrata in questa registrazione dal vivo – effettuata durante tre esecuzioni in forma di concerto a Baden-Baden nel luglio del 2011 – è tale da compensare ampiamente la mancanza della dimensione visiva. D’Arcangelo è in splendida forma e riesce a comunicare con apparente spontaneità – attraverso l’autorevolezza del timbro e dell’accento, l’ampiezza della gamma dinamica – quella protervia e quella carica sensuale che molti altri protagonisti dell’opera (specialmente quando sono baritoni) sono costretti a simulare. È un Don Giovanni capace davvero di intimorire il suo servo e di misurarsi spavaldamente con il convitato di pietra (che qui ha la voce ben radicata di Vitalij Kowaljow). Nello stesso tempo la sua emissione ha una morbidezza d’impasto che dà piena credibilità alle scene di seduzione, mentre nei dialoghi egli sviscera ogni sillaba con una varietà di sfumature del tutto degna dei significati stratificati del testo di Da Ponte. In alcuni casi tuttavia la volontà di evidenziare i doppi sensi, oppure il carattere intimo del dialogo, è resa fin troppo esplicita attraverso un gioco di pause e di sussurri che compromette il fluire musicale della frase. Anche perché quei sussurri non sono sempre ben sostenuti sul fiato e quindi beneficiano solo a tratti della forte pregnanza espressiva garantita da un’autentica mezza voce. Se confrontiamo D’Arcangelo con Ferruccio Furlanetto (1990, con Barenboim), notiamo che la voce piena del basso friuliano è meno nobile e seducente nel colore, mentre la mezza voce è più a fuoco e meglio integrata nel legato. Raramente capita tuttavia di sentire in disco oggi due interpreti italiani nei ruoli di Giovanni e Leporello (Furlanetto per esempio è affiancato da John Tomlinson) e l’intesa tra D’Arcangelo e Luca Pisaroni è eccellente. Anche se la tessitura di Leporello è più bassa di quella del suo padrone, il timbro di Pisaroni è più chiaro di quello del basso abruzzese e il contrasto coloristico rende musicalmente più viva la loro interazione. E Pisaroni, pur senza lasciare un’impronta umana indelebile sul ruolo (come fanno per perché credo sia giunto il momento di ampliare il mio repertorio e muovermi verso nuovi orizzonti in questo senso. La sensualità nel canto c’entra più con il timbro o con il fraseggio? La sensualità deriva da entrambe. C’è da dire che un bel timbro senza fraseggio non può funzionare, viceversa un buon fraseggio e un bel modo di cantare possono in certi casi ovviare a una mancanza di qualità vocale. Ad ogni modo l’ideale è avere entrambe le cose. Come studia un ruolo nuovo? Prima dò una scorsa alle migliori incisioni. Ma la base sulla quale costruire la mia interpretazione resta lo spartito, nel quale mi immergo completamente sia per lo studio del testo sia naturalmente per l’assimilazione della parte musicale. Una full immersion con il valore aggiunto della lettura della parte pianistica. esempio Giuseppe Taddei o Rolando Panerai), crea un personaggio ben risolto in ogni dettaglio. Diana Damrau poi è una Donna Anna di squisito smalto sonoro, capace di variare la linea di « Or sai chi l’onore » con una sprezzatura che mette in ombra persino Joan Sutherland (con Bonynge nel 1968), mentre nel recitativo che lo precede ogni parola acquista un forte peso emotivo senza che nulla risulti caricato. La voce corre cosı̀ bene, e viene modulata con tale facilità, che non sembra mai troppo esigua per delineare questa nobildonna di forte volontà. E l’interazione con il Don Ottavio di Rolando Villazón è perfetta. Il tenore messicano dispone di una voce meno luminosa e ricca di armonici rispetto a qualche anno fa, ma sono pochissimi gli interpreti di questo ruolo in disco (vengono in mente Alfredo Kraus e Cesare Valletti) che risultano cosı̀ centrati nell’accento e nello stesso tempo cosı̀ musicali nel fraseggio. Villazón non può offrirci delle mezze voci paradisiache in « Dalla sua pace », ma in entrambe le arie egli rivela un controllo dei fiati ammirevole, una concentrazione espressiva che conferisce piena dignità al personaggio. Lo stesso si può dire di Joyce DiDonato: una Donna Elvira che ricorda – per colore e per assolutezza espressiva – quella di Elisabeth Schwarzkopf. Non è questo forse il ruolo in cui le sue doti eccezionali possano spiccare con maggiore originalità (almeno senza la dimensione visiva), e « Mi tradı̀ quell’alma innamorata » viene abbassato di mezzo tono, ma la superiore intelligenza dell’interprete è evidente non solo nei dettagli di fraseggio ma anche nella capacità di costruire il personaggio con gradualità e con coerenza impeccabili. Su un piano inferiore risultano i due contadini. Mojca Erdmann è una Zerlina viva e graziosa, ma si distingue poco da tante altre interpreti in disco, e Konstantin Wolff è un Masetto relativamente pallido, che cerca di compensare con alcune emissioni gutturali la limitata gamma coloristica della sua voce: siamo lontani insomma dagli esiti raggiunti in passato da Panerai o dallo stesso D’Arcangelo. La notevole riuscita complessiva di quest’edizione deve molto a un’orchestra da camera che conosce l’opera piuttosto bene. Celebri infatti furono le recite con Abbado e Harding ad Aix-en-Provence nel 1999, e anche qui gli strumentisti uniscono accompagnamenti teatralmente vivi a una buona conoscenza della prassi settecentesca (una conoscenza condivisa anche dai cantanti). E se la direzione di Yannick Nézet-Séguin risulta meno fresca e innovativa di quella di Harding (Virgin, 1999), i tempi meno precipitosi scelti dal maestro canadese concedono maggiore spazio allo sviluppo psicologico dei personaggi. I tempi sono scelti in piena sintonia col cast, in modo da valorizzare anche le pause, per non parlare di quei rubati e quei rallentandi che fanno parte integrante della tradizione interpretativa dell’opera. Il direttore poi sembra sentirsi a suo agio tanto nel clima tragico che avvolge i momenti di svolta del dramma quanto nelle atmosfere giocose che alleggeriscono la trama. E le transizioni tra un registro e l’altro sono scioltissime. Stephen Hastings musica 241, novembre 2012 51 Non si tratta solo di controllare al pianoforte una notina qua e là o di solfeggiare qualche terzina... Per me resta un tipo di approccio fondamentale e irrinunciabile. È un arricchimento straordinario che mi consente di raggiungere subito una grande familiarità quando provo con l’orchestra. È bello sapere con certezza cosa c’è sotto la mia voce. E nella Sua voce cosa cerca in relazione alla linea di canto da realizzare? Cerco sempre la semplicità, non amo le forzature. Quando mi riferivo a Cesare Siepi intendevo proprio questo: una perfetta omogeneità in tutta la gamma. È questo a cui aspiro. Non voglio e non posso imitarlo, naturalmente. Mi interessa però il risultato finale. Ci sono delle opere in cui ha avuto l’impressione di non essersi espresso compiutamente perché il direttore non Le concedeva abbastanza libertà? No, direi che finora sono stato molto fortunato in questo senso. Lei ha una decina di ruoli rossiniani in repertorio e ha inciso quel disco di arie di Händel: l’agilità che questo repertorio richiede è in Lei una specie di predisposizione naturale oppure è stata faticosamente conquistata? Diciamo che è un misto tra le due cose: per tutto quello che ho fatto ho dovuto studiare, essenzialmente perché della natura mi fido poco, soprattutto nella mia continua ricerca della perfezione. Inoltre studiare aiuta ad avere una certa sicurezza del proprio strumento vocale, cosa fondamentale perché la natura purtroppo alcuni giorni funziona ed altri meno. Un ruolo che richiede un canto drammatico con agilità è Enrico Ottavo in Anna Bolena: come si è travato nei panni di questo personaggio cosı` carismatico? Vorrebbe interpretarlo di nuovo? Il ruolo di Enrico VIII mi è servito molto soprattutto per capire come affrontare le vocalità verdiane e come spunto di riflessione su di esse. Purtroppo però, a differenza degli altri ruoli nell’opera, questo non è un ruolo di soddisfazioni vocali, sebbene invece scenicamente il personaggio sia di grande carisma. Inoltre avendolo debuttato con un cast stellare come quello di Vienna credo che ciò sia stato sufficiente per il mio bagaglio culturale. E prima di una recita come si prepara? Fa qualche vocalizzo per scaldare la voce? Sono impaziente di salire sul palco e non faccio vocalizzi. Non ho neanche particolari riti da seguire. Per me è fondamentale arrivare alla recita riposato. Mi sono inventato un sistema per massaggiare le corde senza emettere suoni che trovo molto utile. Butto fuori solo aria. In fin dei conti noi cantanti siamo come degli sportivi. Siamo noi i responsabili ultimi del nostro corpo. È il connubio tra mente e corpo ad affascinarmi. Solo noi ci possiamo conoscere fino in fondo. Anzi, proprio grazie alla mia professione ho imparato a conoscermi ancor di più. È bello sapere quello che ti fa bene e quello che ti fa male, ed è utilissimo imparare a dosarsi anche psicologicamente. Sa, io amo il teatro, ma credo però che non si debba dare tutto al teatro. Se no, finiti gli applausi resti solo. Vivi una recita per tutta la vita. Nella nostra attività la solitudine è una brutta bestia... Allora Lei quando torna in Abruzzo praticherà qualche hobby? Mi piacciono le cose semplici. Vado al cinema, mi piace stare a contatto con la natura, camminare, ma anche veder crescere i pomodori nell’orto di casa e... mangiarli. 52 musica 241, novembre 2012 E con il computer, con i social network, come se la cava? Proprio pochi giorni fa sulla mia pagina ufficiale di facebook m’è arrivato un messaggio di una fan che postava un video di youtube nel quale si vedeva un papà con in braccio una neonata che piangeva disperatamente. A un certo punto la ragazza, la madre evidentemente, introduceva nel lettore l’Andante dell’Aria del catalogo cantata da me e magicamente la bimba smetteva di strillare... ... vero effetto taumaturgico della Sua voce... Serenità, gioia, fantasia, far sognare... È questo il messaggio che noi cantanti dobbiamo far passare. Tornando alla tecnica, si nota che Lei sfrutta una naturale protrusione delle labbra che sembra essere fatta apposta per completare il suo organo fonatorio. Questo non lo so: lo dobbiamo chiedere a Franco Fussi... Lui oltre ad essere un luminare nel campo è anche un amico. Vado da lui tutti gli anni per fare il « tagliando » come si fa con l’automobile. Per me è molto importante sapere periodicamente in quali condizioni siano le mie corde vocali. Oggi, a differenza di una volta, si cambia repertorio più rapidamente, si viaggia, il ritmo della carriera è sempre più frenetico. Ma Lei sa dire anche di no qualche volta? Molte volte. Qualche anno fa avevo esaminato il calendario di Samuel Ramey e avevo notato una intelligente calibratura degli impegni. Ad esempio lui cantava Boris nei primi tre mesi dell’anno, poi era la volta di Filippo... Questo vuol dire che la corda vocale non subiva shock muscolari! Oggi non è facile organizzarsi un’agenda cosı̀. Ma ci si deve provare per non venire travolti. OsservandoLa in palcoscenico si nota anche che Lei presta estrema attenzione ad ancorare il corpo a terra... Credo che sia fondamentale avere un solido punto d’appoggio per il diaframma. Per fortuna non mi è ancora capitato di cantare sdraiato o a testa in giù... Ma oggi bisogna essere pronti a tutto... Se un domani mi capitasse di cantare un’aria a testa in giù le farò sapere... Aspetto notizie, allora... Ma mi dica, in generale, come ha imparato a stare in palcoscenico? Quando studiavo il pianoforte, e mio padre mi obbligava a suonare otto ore al giorno, l’unica cosa che mi rilassava era guardare in TV i film comici. Avevo bisogno di svagare la mente. Dato che non avevo il tempo di giocare con i miei coetanei, mi inventai il passatempo di imitare i comici, nei movimenti, negli atteggiamenti, ma anche nella voce. Cosı̀ scoprii che per me era facile mettere la mia voce dove volevo... E la gestualità di quei personaggi mi affascinava. Spesso, i miei genitori mi portavano alle loro feste ed io, da vero showman, ero l’attrazione della serata! Ollio, Bombolo, Verdone mi venivano particolarmente bene. La cosa curiosa è, comunque, che se è vero che Lei guardava i comici non lo si nota ammirandoLa in palco. Lı̀ Lei non è mai comico in senso stretto, né tantomeno stereotipato nella gestualità. Cosı̀ è Ildebrando... ... un nome un tantino impegnativo... I miei genitori volevano darmi un nome che avesse attinenza con la musica. E Ildebrando è il nome di battesimo di Pizzetti. Ma, se fosse stato per mio padre, un incallito corelliano, oggi in teatro vi potreste imbattere in un Don Giovanni cantato da un... « Radames »! Ma la mamma mise il veto, per fortuna... &