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ANNO
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S AC E R D OTA L E
i
O
ggi il ministero vive una
forte domanda di identità. Forse dovremmo
dire che questa esigenza è anche eccessiva, e
sembra in linea con un’ossessione che
segna il nostro tempo. Si diventa estremamente sensibili al tema dell’identità proprio quando questa si fa incerta. A fianco di tale domanda sembra
oggi che il ministero sia chiamato a
una più forte coscienza di missione.
Proprio questi due temi – identità e
missione – vogliono essere il profilo di
queste note.
Mi sembra di una qualche utilità
avvicinarci a questi temi da una prospettiva che coglie il vissuto a partire
da alcune tensioni che lo abitano
profondamente. Il ministero è segnato
da uno scarto, da un insuperabile contrasto che segna l’esperienza di essere
discepoli, la missione e il mandato ricevuti. Meglio, che segna ogni chiamata, fino all’umano stesso. Non siamo
all’altezza del compito assegnato, esso
ci trascende in modo insuperabile, ci
travolge e ci supera: è troppo per noi.
Eppure è proprio ciò che meglio ci
corrisponde, è ciò senza il quale la nostra umanità si perde.
Questo eccesso che è il ministero è
la nostra unica salvezza; non solo la
via alla santità, ma la grazia per non
perderci. Questa verità dell’essere
umano e del cristiano è sempre avanti
a noi, intima e irraggiungibile. Ha la
forma di un paradosso, come la vita
spirituale di cui parla De Lubac: «Paradosso nella sua sostanza, la vita spirituale è tale anche nel suo ritmo.
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Identità presbiterale
l paradosso del ministero
Quando la missione ridefinisce il prete
La si è appena scoperta, la si tiene
in mano: ma non hai ancora finito di
gettare su di essa un primo sguardo
soddisfatto, che essa se ne è già sfuggita (…). Per trovare questa verità che ci
sfugge, forse bisognerà cercarla nel suo
contrario, poiché essa ha cambiato di
segno».1
Fede cristiana
e scar to incolmabile
Per cercare la verità e la dignità
della vocazione cristiana (la sua identità) e del ministero (la sua missione)
non dovremo mai allora dimenticare
la nostra inadeguatezza, la nostra miseria e il nostro peccato. Proprio nella
vita di uomini peccatori si mostra l’eccesso della chiamata, e questo paradosso resta insuperabile. È lo scarto
della santità cristiana. Lo intuisce
profondamente ad esempio Isaia (cf. Is
6,3-5): la sua vocazione nasce al cospetto della santità di Dio e nella consapevolezza della propria miseria. Solo Dio è santo e vero; davanti a lui siamo perduti. Noi partecipiamo della
storia di un popolo dalle labbra impure, eppure… eppure il Signore ha posto il suo sguardo su di noi. E come
Pietro ci verrebbe da dire: «Signore allontanati da me che sono peccatore! È
troppo per me che tu mi abbia chiamato, è una cosa insopportabile». Eppure… esattamente questo scarto
cambia la mia vita, mi purifica le labbra come Dio fa con Isaia, abilita proprio perché brucia e ferisce.
Questa ferita rimane per sempre,
come una cicatrice inguaribile, che resta indelebile e costituisce il chiamato
nella sua identità più profonda. Così è
del ministero. Siamo uomini, uomini
dalle labbra impure, che condividono
le fragilità della loro generazione, e
ogni volta il Signore sceglie uomini così per portare il suo Vangelo, per dare
voce a quella Parola che come una
spada li trapassa e li ustiona.
Lo dice bene Bernanos, nel suo
Diario di un curato di campagna,
quando parla del prete come uomo
della Parola: «Insegnare, piccolo mio,
non è una faccenda piacevole! Non
parlo di coloro che se la cavano con
degli imbonimenti: ne vedrai abbastanza nel corso della vita, imparerai a
conoscerli. Sono delle verità consolanti, quelle che dicono. La verità, prima
libera, dopo consola.
D’altra parte, non si ha il diritto di
chiamare tutto ciò una consolazione.
Perché non diremmo invece che si tratta di condoglianze? La parola di Dio!
È un ferro rovente. E tu che l’insegni,
tu vorresti afferrarla con le pinze, per
paura di bruciarti? Non l’impugneresti
a piene mani? Lasciami ridere. Un
prete che scende dalla cattedra della
Verità con la bocca a coso di pollo, un
po’ riscaldato ma contento, non ha
predicato: tutt’al più ha fatto le fusa.
Nota che la cosa può capitare a tutti
quanti: siamo dei poveri dormienti, è il
diavolo, qualche volta, che ci fa svegliare. Gli apostoli dormivan bene, loro, al Getsèmani! Ma, infine, bisogna
rendersi conto. E tu capisci anche che
il tale o il tal altro, che gesticolano e sudano come facchini da sgomberi, non
sono sempre più svegli degli altri; affatto. Io pretendo semplicemente, quan-
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do il Signore trae da me, per caso, una
parola utile alle anime, di sentirla dal
male che mi fa».2
All’inizio: fra ideale e reale
Pensiamo anzitutto agli inizi del
ministero. Non solo a quando uno
«comincia» a fare il prete, ma anche a
tutti gli «inizi» da cui è segnata una
parabola ministeriale. Si ricomincia
ogni volta che una nuova destinazione
ci viene affidata, si inizia quando scopriamo di essere davanti a sfide nuove,
a paesaggi inediti, a frontiere della pastorale e dell’umano davanti alle quali tutta la nostra esperienza sembra
non bastare. E ogni volta che «iniziamo» da capo, sentiamo di essere sproporzionati.
Fin dai primi passi l’essere prete è
un azzardo. Dal momento in cui il Signore pone le mani su di lui egli è consacrato, reso suo, fatto segno della sua
cura per gli uomini. Eppure resta un
«ragazzo», anche se oggi non più in
tenera età! Occorre una vita perché
l’intera umanità aderisca a quella verità in cui è posta interamente fin dal
primo giorno dalla grazia del sacramento.
I primi passi di un prete in una comunità sono per questo tra i più delicati. Un giovane prete arriva carico di
desideri, che sono stati a lungo coltivati in anni di formazione: essere prete
di tutti, predicare il Vangelo, avvicinare i più lontani, accompagnare cammini di fede, crescere nella sua stessa
fede in compagnia di una comunità di
credenti… poi occorre fare i conti con
una condizione reale che è sempre più
complicata di come era stata presentata; bisogna confrontarsi con una storia
che non corrisponde alle aspettative.
Lo scarto sembra a volte insopportabile: deluso dalla comunità, dai preti
con cui si condivide l’azione ministeriale, dai laici collaboratori...
Ma più in profondità il prete fa l’esperienza di essere deluso da se stesso,
scoprendosi inesperto e incapace, mai
abbastanza all’altezza del ministero
che lo attende. Guardarsi con verità e
non disprezzarsi, accettare sé stessi
senza alcuna superbia: l’esame dell’inizio a volte spiazza. Tutti si aspettano
un’«abilità» da chi comincia: nella catechesi, nelle relazioni, nell’organizzazione, nella predicazione.
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È richiesta da subito una esperienza senza che ci sia il tempo di farla:
«manca il libretto delle istruzioni»,
possiamo dire. Forse è proprio così ed
è solo così che si inizia. Un uomo diventa padre quando il figlio nasce,
senza sapere nulla, e anche in questo
caso «non gli è dato un libretto delle
istruzioni». Così se ogni inizio sembra
essere un esame, ogni volta ci si scopre
impreparati. Oppure si finge, si prova
a vendere una sicurezza di superficie,
che presto si rivela soluzione pericolosa e fragile.
Ora, c’è qualcosa di questo inizio
che si ripete a ogni destinazione nuova: si entra in un luogo già abitato, in
una storia che precede, in una tradizione che a volte spinge e altre frena,
ma quasi mai corrisponde alla propria
indole. Iniziare è entrare con rispetto
in una storia che non è nostra, imparare una lingua sconosciuta, prendere
le misure, accordarsi con pazienza.
Alla fine gli inizi mettono in luce, a
uno sguardo più sincero, le proprie capacità ma anche i propri limiti. Abbiamo così poco e sappiamo così poco!
Davanti alla comunità ogni prete è da
subito percepito come «presbitero»,
come se gli fosse infusa per magia una
saggezza che gli permette di presiedere la vita della comunità, di fronte alle
sfide inedite dell’esistenza. E invece
egli non sa nulla, è come i sacerdoti e
i profeti di cui parla Geremia che «si
aggirano per la regione senza comprendere» (Ger 14,18). Davanti a sfide
inedite (nuove forme di pastorale,
nuovi problemi delle comunità, nuovi
scenari della sfida della fede ecc.) ogni
volta il prete si riconosce come i discepoli di fronte alla folla, che non possono che constatare di avere ben poco
per molta gente, cinque pani e due pesci. Il poco che egli è. E con questo
poco deve ricominciare ogni volta.
Eppure la bellezza dell’inizio è
proprio in questo suo scarto: si è gettati nella mischia, si viene buttati in
acqua e occorre imparare a nuotare.
In un tempo e una società che ha azzerato ogni salto, che vuole sempre e
solo agevolare i passaggi attutendone
le fatiche, l’inizio del ministero ha la
forma di una vera e propria iniziazione. Non ci sono scappatoie, non ci sono «bigini» per le istruzioni. Una partenza è sempre un «taglio», un abban-
dono di sicurezze precedenti, di una
casa, di una rete di relazioni protette
perché note, di una terra, di un orizzonte di conoscenze e di esperienze
consolidate, in favore di un luogo sconosciuto, di un qualcosa di inedito e
tutto da scoprire. Un rischio, un azzardo che non protegge da cadute e
ferite. Ma sono proprio queste a rendere forte una vocazione, a generare
una capacità di relazione nuova: prima era solo un giovane, ora è un adulto, perché capace di responsabilità,
perché si assume dei rischi, perché è in
grado di fare delle scelte che non prevedono ritorni, perché è anche umile
nel riconoscere i propri limiti.
Certo questo carattere «assoluto»
dell’inizio – qualcosa di nuovo accade,
che non è semplicemente la ripetizione di situazioni precedenti – rischia di
generare insicurezza oppure di tramutarsi nella presunzione di una autorità
fuori luogo. Oppure può trasfigurare
la nostra umanità in una forza mite e
umile, in un paziente ascolto e in un
docile apprendimento.
Paolo nel suo ministero lo ha imparato a caro prezzo. Il suo inizio a
Corinto non è stato dei migliori. Ha
creduto di costruire qualcosa di solido
e poi ha dovuto riconoscere che tutto
era in forse, minacciato. Si è scontrato
con insuccessi e con fallimenti. Ha
preso anche contatto con la propria
umanità: scoprendo di essere impetuoso, scrivendo lettere di fuoco, passione e insieme furore. Ma quando ripensa agli inizi (1Cor 2,3) – «mi presentai a voi» – egli alla fine comprende che i primi passi non possono essere né la sapienza di discorsi persuasivi, né la magnificenza di opere e miracoli stupefacenti, ma piuttosto la stoltezza della croce. Per questo ripensa i
suoi primi passi come compiuti «nella
debolezza e con molto timore e trepidazione». La trepidazione è quella di
chi sa di camminare in luogo sacro, in
una storia che non gli appartiene. E sa
anche di portare nella sua carne la debolezza della propria umanità, non
come ostacolo alla predicazione, ma
come la sua più autentica condizione.
Il timore allora è quello che si prova di
fronte all’agire misterioso di Dio, che
opera le sue meraviglie nella nostra
debolezza e nel campo incerto e fragile dell’umano.
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N e l m i n i s te ro :
la messe è molta
Il secondo scarto che vogliamo rileggere è quello che segna la missione
dei discepoli. «La messe è abbondante,
ma sono pochi gli operai» (Mt 9,37).
Questo non è un caso e neppure una
condizione temporanea. È uno scarto
permanente dell’agire pastorale, dell’essere della Chiesa nel mondo. Lo è
perché fin dall’inizio la missione di Gesù è caratterizzata da questa sproporzione. La vita stessa del Signore sembra segnata da questa piccolezza: pochi
anni, poco tempo per una missione
enorme. La sua vita è circoscritta in un
fazzoletto di terra, eppure deve portare
un Vangelo che è destinato ai confini
del mondo. Egli inizia il suo ministero
stando entro i confini della sua terra,
del suo popolo, del tempo che gli è dato, di quel gregge che sono le «pecore
perdute della casa d’Israele» (Mt 10,6),
ma proprio così sconfina, allarga l’orizzonte, non esclude nessuno.
Anche per il prete la sfida è accettare il limite e insieme tenere largo l’orizzonte del cuore; è una tensione tra le
più feconde e le più delicate. Non fuggire lontano dalla terra, non staccarsi
da un corpo che ci assegna uno spazio
e un tempo limitati, e insieme alzare lo
sguardo, lasciare che lo Spirito animi le
ossa aride portando una vita che si
diffonde come il vento.
In questo scarto possiamo rileggere
la relazione tra elezione e universalità
della salvezza, tra il carattere particolare, limitato nel tempo e nello spazio,
della manifestazione del Regno nella
sua universalità. La messe è molta, è
estesa, si allarga fino ai confini del
mondo, ma il modo di raggiungerla è
sempre legato a storie particolari, a
una comunità che è locale, che abbraccia una parte con l’orizzonte del tutto.
L’universalità della Chiesa cattolica
non si realizza se non nel suo essere
Chiesa particolare, locale.
Un precedente istruttivo, nella storia della salvezza, è dato dalla relazione
tra Israele e le genti, o meglio dalla dispersione del popolo d’Israele in mezzo
alle genti. Anche in questo caso troviamo un paradosso: Israele è la più piccola delle nazioni eppure diventa un
segno che raggiunge tutte le genti. Lo
diventa, paradossalmente, proprio mediante una crisi, in particolare il secon-
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do esilio, quando viene disperso tra le
genti e diviene solo un «resto». È esattamente nel momento critico dell’esilio
e della dispersione che si fa più evidente, nella coscienza del popolo d’Israele,
la sua vocazione universale. Israele è
solo un «resto» ma questo lo rende benedizione per tutte le nazioni. Proprio
quando sembra rimpicciolirsi il cuore
si allarga.
Così per la Chiesa: essa è segno
«dell’unità di tutto il genere umano»
(Lumen gentium, n. 1; EV 1/284), è
mandata a tutti, e i confini della sua
missione sono i confini del mondo. Ma
questo non significa affatto far entrare
il mondo nei propri confini, quanto
piuttosto essere mandati, dispersi, disseminati tra le genti; e questo rimanendo
un piccolo segno, un piccolo resto. In
questo senso l’allargamento dei confini
del Regno è sempre accompagnato da
una crisi. Il segno del Regno deve essere visibile, deve avere un volto preciso
per essere incontrabile: ma questo volto della comunità non adegua mai il
Regno di cui è segno. Ogni volta che la
Chiesa pensa di essere potente e grande in realtà si allontana dal suo compito, e la crisi la riporta alla propria giusta proporzione. Solo se rimane piccola e fragile può essere segno del Regno
la cui forza è nelle mani di Dio. La
Chiesa resta questo «corpo inquieto»3
che proprio nelle sue crisi trova la forza
di una ri-forma, di un nuovo slancio
verso la sua vocazione universale.
Di questa sproporzione occorre
non avere paura: «Non temere, piccolo
gregge» (Lc 12,32). Eppure questa piccolezza ci spaventa ogni volta che ci
rendiamo conto di dovere fare i conti
con essa. Forse questa è la grazia del
tempo che viviamo. Un tempo segnato
dalla fine della cristianità, che non significa certo fine del cristianesimo, ma
di una forma di esso che lo vedeva egemone – almeno in una parte del mondo – e coincidere in qualche modo con
la forma di una societas (in realtà mai
del tutto). Questa fine è una crisi che riporta il cristianesimo a essere un «resto», un piccolo gregge; e questo non
per perdere la sua destinazione universale ma per viverla in modo nuovo, in
cerca di nuove forme di essere lievito e
germe nel mondo.
Credo che questa condizione ci
chieda di vivere la sproporzione come
una possibilità. Anzitutto perché la piccolezza delle risorse e delle forze non
deve mai trasformarsi in un restringimento e in un indurimento del cuore.
Noi siamo piccola cosa, ma in questa
sproporzione il cuore deve dilatarsi,
partecipare della stessa compassione di
Gesù per le folle sterminate. Così proprio questo scarto introduce il discepolo alla magnanimità, alla larghezza di
cuore, che caratterizza il cuore di Gesù
e del Padre. Solo così lo scarto non deprime ma trasfigura la nostra stessa
umanità.
Pensiamo anche alla scarsità dei
preti e delle vocazioni. La viviamo come un motivo di crisi, ed effettivamente è il segno di una crisi, della fatica a
vivere la vita e la fede come vocazione,
come una chiamata a mettere la propria vita a servizio degli uomini e del
Regno. Ma in questa crisi forse ci sono
i germi di una rinascita, di una nuova
chiamata a essere inviati. È una straordinaria occasione di ripensamento e di
riforma, ovvero la possibilità di immaginare una nuova forma di ministero.
Come agnelli fra i lupi
Ma non c’è solo la sproporzione
numerica. C’è quella che chiamerei
una sproporzione culturale. Siamo
mandati in un mondo di lupi, dove
cioè le relazioni tra gli uomini sono
luoghi di potere, rapporti di forza, e
quindi intrinsecamente segnate dalla
violenza, da una aggressività indomita.
È in questo mondo che la Chiesa agisce, e non deve stupirsi se gli uomini
nei suoi confronti non risparmiano colpi bassi, non lesinano aggressioni e violenza. Ma guai se la Chiesa stessa si
mettesse sulla stessa lunghezza d’onda.
Perderebbe la sua differenza, quella che
la fa segno mite e umile di un Regno nel
quale la violenza è vinta dal perdono. Il
discepolo dovrà fare i conti con questa
violenza e aggressività; Gesù risorto
nell’inviare i discepoli in missione dirà
addirittura che «prenderanno in mano
serpenti» (Mc 16,18) senza lasciarsi infettare. Restare immuni dal virus della
violenza non è facile, e solo il perdono
può diventare un antidoto a questo spirito mondano di relazioni tra lupi. «In
questa immersione (nell’opacità del
mondo, nelle sue contraddizioni), la
comunità cristiana è chiamata a vivere
una differenza nella qualità delle rela-
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zioni, divenendo quella comunità alternativa che, in una società connotata da
relazioni fragili, conflittuali e di tipo
consumistico, esprima la possibilità di
relazioni gratuite, forti e durature, cementate dalla mutua accettazione e dal
perdono reciproco. È la “differenza”
cristiana, una differenza che chiede oggi di saper dar forma visibile e vivibile
a comunità plasmate dal Vangelo».4
Questa mentalità del mondo ovviamente non è solo fuori dalla Chiesa,
ma entra nelle relazioni dei credenti,
che non a caso conoscono litigiosità,
aggressività, lamentela, rapporti di potere. Il prete tiene vivo il carattere alternativo delle relazioni evangeliche perché ogni volta le riconduce alla sorgente del perdono che le rianima, le rende
forti senza diventare dure. Edificare la
comunità dei credenti, presiedere al
cammino di comunione significa anche
questo: vivere la passione per una comunione che sembra sempre ferita dalla violenza, dal male, e custodire il carattere alternativo delle relazioni tra
credenti.
Non scandalizzarsi del male e della
violenza che mette radici anche dentro
la comunità cristiana e insieme vincere
il male con il bene (cf. Rm 12,21). Anche in questo caso la sproporzione tra
la violenza e l’aggressività del male e la
debolezza di un bene che non si difende può sfigurare il presbitero: allora abbiamo paesaggi di durezza, contrapposizioni, difese dal mondo che però sembrano speculari alla sua aggressività.
Oppure questa sproporzione può trasfigurare il credente e il pastore: ed ecco la forza della mitezza. Il mite non è
uno stupido che non reagisce al male,
ma un forte che ha deciso di non replicare con le stesse armi, che porta la relazione ad altri livelli. Egli si sottrae allo scontro ma non si sottrae alla relazione, disarma perché si consegna disarmato, rischiando la propria vita per
la vita dell’altro.
Sconfiggere l’inimicizia che si insinua tra gli uomini, e anche tra i credenti non è operazione indolore. Paolo
ne ha fatto l’oggetto di una delle sue
più profonde meditazioni sul «mistero»
di cui si sente chiamato a diventare ministro nella Lettera agli Efesini (cf. Ef
2,13-18). Esiste un «muro di inimicizia» che tiene lontani gli uomini tra loro e con Dio. Che li separa fra lontani
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e vicini. Gesù ha abbattuto il muro dell’inimicizia perché ha lasciato che la
violenza ricadesse su di lui, e con la forza umile di un atto d’amore che arriva
a dare la vita, ha riconciliato gli uomini che possono ora avvicinarsi gli uni
gli altri e ritrovare un nuovo accesso a
Dio. Questo è lo scarto difficile da percorrere. Non si tratta solo di non entrare nell’agone della lotta, di restare fuori dalla violenza, ma si tratta piuttosto
di entrarvi come intercessori, si tratta
di mettersi in mezzo accettando di subire a volte la violenza per riportare la
pace. Questo per nulla significa ingenuità: occorre essere «prudenti come
serpenti e semplici come colombe», occorre conoscere tutta la malizia del
peccato e mantenere un cuore puro come bambini.
Il ruolo non è una corazza
Questi scarti di cui abbiamo parlato si precisano nel ruolo di autorità del
prete nella comunità stessa. Anche in
questo caso possiamo parlare di una
identità paradossale: quella di essere
un’autorità che è servizio, che non vive
l’autorità come potere. Non è così semplice, anche per il prete, proprio nel
contesto attuale. E questo per molteplici ragioni.
Viviamo un tempo di identità deboli e incerte. Anche il prete soffre di questa debolezza dell’identità quando sembra non percepire il proprio come un
ruolo ben definito. Ancora una volta
possiamo parlare di un paradosso,
quello insito nell’autorità (presidenza,
essere pastore) come luogo dell’identità. Da un lato il rischio è quello di cercare nel «ruolo» un rivestimento che doni quella sicurezza che sembra oggi
mancare al vissuto umano nella sua ricerca di identità. Ecco che non mancano tentazioni autoritarie, quelle appunto che misurano le relazioni in termini
di potere.
E il prete potrebbe cercare nella sacralità (enfatizzando una teologia della
potestas, ovvero del potere sulle cose
sacre, del potere di dare i sacramenti)
una sicurezza che lo separa dagli uomini, dagli stessi credenti. In un tempo
nel quale anche i laici sono chiamati ad
assumere un ruolo nella Chiesa, i preti
sembrano vivere un tempo di smarrimento; come a dire: «A cosa serve il
prete se in ogni cosa sembra poter esse-
re rimpiazzato da laici che chiedono
spazio e riconoscimento nella Chiesa?». Da qui il rischio di cercare l’identità separandosi: «In una cosa il prete
non può essere sostituito, nel potere di
consacrare, nell’autorità sulla comunità». Nascono allora conflitti di ruolo
pericolosi dentro la comunità. Il ruolo,
in realtà, non offre un’identità al modo
di una corazza esteriore, da esibire e
contrapporre nelle relazioni esigenti
come difesa; dietro una corazza del genere ci si può facilmente nascondere, si
può rimuovere la propria umanità e
fragilità. Occorre che accada esattamente il contrario: che il ruolo diventi
certo un marcatore di confine, ma per
varcarlo, per entrare in relazioni che
non si difendono ma si espongono.
Di fatto non è per nulla facile riconoscersi in un ruolo con un profilo così fortemente istituzionale, proprio in
un tempo come il nostro, nel quale
sembra che siano le biografie personali
a dare un significato particolare e unico alla personalità di ciascuno. E infatti si apprezza il prete perché è particolare, originale, carismatico; meno per il
suo appartenere a una Chiesa e a una
istituzione. Quando lo si apprezza in
qualche modo gli si dice: «Ti stimo
perché non sei come gli altri preti»: e
questo è un complimento che mina la
sua stessa autorità, perché la separa
dall’istituzione che precede ogni suo interprete e lo legittima.
Essere uomo dell’istituzione, uomo
ecclesiastico – come amava dire De Lubac – che ha un forte senso della Chiesa, non è una via facile bensì un sentiero che chiede molta disciplina e capacità di perdere la vita. Perché questo è
il senso del servizio dell’autorità nella
Chiesa, il modo evangelico di assumere la questione del potere: «Gesù li
chiamò a sé e disse: “Voi sapete che i
governanti delle nazioni dóminano su
di esse e i capi le opprimono. Tra voi
non sarà così; ma chi vuole diventare
grande tra voi, sarà vostro servitore e
chi vuole essere il primo tra voi, sarà
vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire,
ma per servire e dare la propria vita in
riscatto per molti”» (Mt 20,25-28).
È proprio questo il senso di un’autorità che trova nella presidenza eucaristica il suo sigillo: presiedere l’eucaristia è la stessa cosa che lavare i piedi ai
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fratelli, mettersi al loro servizio fino a
dare il proprio corpo, senza mettersi
«sopra» bensì piegandosi alle cose umili. Una strada assolutamente esigente e
paradossale: il prete è se stesso se non
difende il proprio ruolo, se non si innalza sopra gli altri, se impara che lo stile
del pastore, in Cristo, è inseparabile da
quello dell’Agnello. Ci sono momenti
nei quali il pastore deve vivere l’autorità perché si mette in testa al gregge e
compie il primo passo verso la via che
il Vangelo chiede di seguire, pronto a
dare la vita per proteggere il gregge dai
lupi e dai ladri. Altre volte è guida perché si lascia portare, nella docilità di un
agnello fino a perdere la vita stessa per
servire fino alla fine coloro che gli sono
affidati. In questo stile paradossale dell’autorità che serve, del pastore che è
agnello, il prete interpreta in modo
evangelico il tema difficile del potere: il
potere è quello di dare la vita e non di
dominarla. Come Cristo che ha ricevuto il potere sulla propria vita come comando: «Nessuno me la toglie: io la do
da me stesso. Ho il potere di darla e il
potere di riprenderla di nuovo. Questo
è il comando che ho ricevuto dal Padre
mio» (Gv 10,18). Questo potere e questa autorità un prete li vive accettando
il senso del limite e libero da ogni delirio di onnipotenza: è accettare il poco
che si può e non sottrarsi alla responsabilità che spesso è proprio quella di favorire l’altrui potere, di abilitare gli altri a dare la vita.
Guaritori feriti
Veniamo allora all’ultimo scarto. Il
prete è chiamato a farsi carico della fede dei fratelli, proprio perché vive fino
in fondo la sua condizione di cristiano
peccatore perdonato, perché dona non
solo la sua vita, nel senso del suo tempo, delle sue competenze, delle sue capacità; ma anche perché dona loro la
sua stessa fragilità. Come un guaritore
ferito, come uno che si lascia perdonare e salvare per primo.
Così Gesù istruisce Pietro nel suo
compito. Lo vediamo bene sia in Luca
sia in Giovanni. Luca ci presenta Pietro nel suo compito di confermare i
fratelli proprio perché egli stesso ha attraversato la prova, e non da vincitore,
ma da discepolo perdonato e custodito
dall’amore di Gesù: «“Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per va-
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gliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga
meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli”. E Pietro gli disse:
“Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte”. Gli
rispose: “Pietro, io ti dico: oggi il gallo
non canterà prima che tu, per tre volte, abbia negato di conoscermi”» (Lc
22,31-34). E Giovanni ci presenta la
stessa condizione di Pietro nel suo ultimo dialogo con Gesù: «Quand’ebbero
mangiato, Gesù disse a Simon Pietro:
“Simone, figlio di Giovanni, mi ami
più di costoro?”. Gli rispose: “Certo,
Signore, tu lo sai che ti voglio bene”.
Gli disse: “Pasci i miei agnelli”. Gli disse di nuovo, per la seconda volta: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami?”.
Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai
che ti voglio bene”. Gli disse: “Pascola
le mie pecore”. Gli disse per la terza
volta: “Simone, figlio di Giovanni, mi
vuoi bene?”. Pietro rimase addolorato
che per la terza volta gli domandasse:
“Mi vuoi bene?”, e gli disse: “Signore,
tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene”. Gli rispose Gesù: “Pasci le mie
pecore. In verità, in verità io ti dico:
quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un
altro ti vestirà e ti porterà dove tu non
vuoi”. Questo disse per indicare con
quale morte egli avrebbe glorificato
Dio. E, detto questo, aggiunse: “Seguimi”» (Gv 21,15-19).
Mi piace rileggere questo paradosso ancora con una citazione di Bernanos. Il curato sembra fallire il suo ministero, il suo compito di raccogliere i
suoi parrocchiani, perché irrimediabilmente fragile e perché si sente assolutamente inadatto e peccatore. In realtà
nel portare – da povero e da peccatore
– il loro male, nel condividerlo fino alla fine egli diventa il segno di una nuova immagine di Chiesa. All’inizio del
romanzo il curato contempla il suo villaggio, la sua parrocchia, con occhi sognanti e tristi: una parrocchia spenta,
«divorata dalla noia», come il mondo,
presagio di una morte che la abita. Durante tutto il suo ministero egli fa i conti con il fallimento di ogni possibilità di
riformare la Chiesa, di radunare il suo
gregge, sia per la sordità di chi non lo
comprende sia per la sua incapacità e
la sua povertà che scopre insuperabili.
Ma alla fine, quando si è consegnato
senza difese all’«agonia di Cristo»,
quando ha intrapreso la strada della riconciliazione con le sue povertà e con il
male del mondo, solo allora, mentre si
trova in visita nella città anonima diventa capace, quasi a sua insaputa, di
generare il germoglio di una nuova
Chiesa ospitale. «La parrocchia è morta» aveva dichiarato Bernanos nel romanzo M. Ouine, o, meglio, deve rinascere a partire dalla santità dei piccoli e
dei poveri. E ora quella parrocchia rinasce, perché qualcuno ha portato su
di sé la debolezza del peccato e si è lasciato riconciliare dalla grazia. Questa
è la nuova via con cui il giovane curato
diventa capace di assolvere al suo compito. Prima, nel colloquio con la contessa, l’assunzione del dolore avviene in
un dialogo travagliato, ma alla fine del
romanzo è semplicemente un silenzio
ospitale, che non dice nulla, non giudica nessuno, semplicemente si apre ad
accogliere. Come farà con l’amico Dufréty e la sua compagna, morendo semplicemente in loro compagnia. Ne riflette all’osteria dove è stato accolto –
lui stesso come a una locanda per pellegrini – dalla signora Duplouy, mentre
attende l’esito della visita che gli avrebbe pronosticato la morte per tumore.
Proprio in questa scena, posta fuori dal
suo villaggio, nella città secolarizzata e
senza Dio, sembra quasi prendere forma una nuova immagine della Chiesa,
come luogo che semplicemente ospita
il dolore umano, se ne fa compagna
nella condivisione della stessa sorte e in
questo – come Cristo che muore fuori
dalle porte della città santa – apre a un
nuovo culto, una nuova Chiesa, una
possibile redenzione offerta a tutti.
Nella locanda del Diario, possiamo
vedere prender forma questa nuova figura di Chiesa dei poveri, nella quale il
dolore e l’angoscia del mondo trovano
redenzione perché vengono umilmente
ospitati e condivisi da credenti, da santi umili e poveri.
Antonio Torresin
1
H. DE LUBAC, Paradossi e nuovi paradossi,
Jaca Book, Milano 1989, 103.
2
G. BERNANOS, Diario di un curato di campagna, Mondadori, Milano 1975, 77.
3
S. XERES, La Chiesa, corpo inquieto. Duemila anni di storia sotto il segno della riforma,
Áncora, Milano 2003.
4
E. BIANCHI, La differenza cristiana, Einaudi, Torino 2006, 53.
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il paradosso del ministero