Credo in un solo Dio Dio nelle religioni Gli uomini religiosi sono giunti per svariate vie a riconoscere l’esistenza di una “potenza nascosta”, che hanno visto come energia o come ordine impersonale, o come una moltitudine di dei e di spiriti, o come un Essere supremo o anche come Dio unico o almeno come un Dio supremo. Anche i filosofi sono giunti a vedere la “potenza nascosta” come l’Ente supremo, onnipotente e perfetto. Ma per una conoscenza più autentica di Dio è stata necessaria la Rivelazione fatta al popolo di Israele e giunta alla sua pienezza in Gesù di Nazaret, che ha detto di sé: “ Io sono la via, la verità la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. (Gv 14, 1-21) Perché ha la rivelazione, Israele, in seno ad un mondo politeista, fa professione di un monoteismo rigoroso, che appare come la caratteristica più notevole del suo pensiero religioso. Il popolo eletto rende culto a un Dio unico, che non ammette nessun altro dio in concorrenza , che ha autorità universale, che agisce dovunque, che è creatore di tutto, che ama il suo popolo. Il credente colloca al centro il Dio presentato dalla Rivelazione, che è indicibile, “misterioso”, padre di tutti gli uomini, provvidente, misericordioso. E’ quel Dio che come diceva l'antico poeta citato da Paolo, è Colui in cui « viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17,28). E, come asserisce un autore moderno, è « silenzio infinito, che con la sua parola crea i mondi. Ha un solo pensiero, e ogni pensiero viene da lui. Ha un solo amore, e tutto l'amore viene da lui. Dio è Dio. È il solo. È. » (Jacques Loew). La religione ha sempre costituito un elemento fondamentale della cultura dei popoli. Delle varie religioni attualmente esistenti si può dare la seguente classificazione: religioni monoteistiche: ebraismo, cristianesimo e islamismo, grandi religioni orientali : induismo, buddhismo, universalismo cinese (confucianesimo e taoismo) ; altre religioni: tradizionali, scintoismo, zoroastrismo, sikismo, giainismo. Esse hanno una grande varietà e ricchezza di dottrine, simboli, riti, preghiere, usi, istituzioni, immagini, oggetti e luoghi sacri. Su Dio hanno visioni diverse. In tutte si crede ad una potenza originaria, ma è difficile parlarne correttamente e addirittura impossibile comprendere adeguatamente la sua traboccante pienezza di perfezione e nette risaltano le differenze tra le concezioni animiste, politeiste, panteiste, monoteiste. La “ potenza originaria” è variamente rappresentata: energia e ordine impersonale, moltitudine di dei e di spiriti, essere supremo. Il rapporto che l’uomo instaura con essa è o di dominio e di cattura (atteggiamento magico) o di sottomissione, e, comunque la si consideri, non è solo individuale, ma comunitario e si esprime con accettazione di una dottrina e di insegnamenti morali, riti, culto pubblico. (Verità vi farà… Cap 1 ) Il divino nelle religioni tradizionali In molte parti del mondo sono presenti numerose e composite forme di religioni dette “tradizionali” o “indigene” o “tribali” o “forme sacre”. Esse in primo luogo inculcano la fede in Dio e un forte senso del sacro. Le persone che le praticano non solo non ne mettono in discussione l'esistenza, ma credono in un Dio che viene considerato uno Spirito Creatore, Unico e Supremo: l'Onnipotente, il Re, il Non Creato, l'Onnisciente, l'Onnipresente, l'Unico al di sopra di tutte le cose visibili e invisibili, il Cielo, il Sole, l'Incomparabile, la Vita, l'Essere per eccellenza, il Trascendente ecc. Queste religioni testimoniano la ricerca di Dio o dell'Essere Supremo, da parte dell'anima umana. Il Kami nello Shintoismo Lo shintoismo è una religione del Giappone. Shinto significa "la via verso Kami" e può essere definito come un complesso di idee, di credenze e di pratiche tradizionali che ruotano intorno a Kami e che nacquero e si svilupparono nel corso della lunga storia del Giappone integrandosi nella vita e nella cultura del paese. Kami è spesso tradotto come Dio, ma il significato del termine Kami è piuttosto diverso da quello che i cristiani, per esempio, attribuiscono al concetto di Dio. L'oggetto del culto shintoista viene chiamato "Kami", vale a dire, qualcosa di sacro, straordinario, soprannaturale. Come una sola divinità cosmica si rivela attraverso diverse manifestazioni, così si dice che l'unico "Kami" possieda otto milioni di forme. Tutti gli esseri umani sono figli di Kami e, pertanto, sono fratelli e sorelle tra loro. Esistono tre forme di shinto . In quello della famiglia imperiale è in risalto la dea madre e dea del Sole Amaterasu, che he protegge la famiglia imperiale e tutte le famiglie, lo shinto del Santuario che ha 80.000 templi, considerati dimora del Kami, e lo shinto popolare , fondato sulla profonda religiosità dei Giapponesi. Dio nel Zoroastrismo Nel Zoroastrismo, fondato intorno al 630 in Iran da Zoroastro, i parsi adorano un solo Dio, Ahura Mazda, il Saggio Creatore e Signore, al quale vengono attribuite qualità sia umane che divine. Egli è circondato da una schiera di santi immortali. Gli insegnamenti dello zoroastrismo si basano su semplici virtù, come la fede nel Dio Creatore, l'amore per la vita, la fiducia nella bontà, il desiderio di conoscenza e il rispetto degli anziani. Dio nel Sikismo Nello Sikismo, nato nel1’unidiceimo secolo ad opera di Guru Nanak , Dio è uno: Egli è il Creatore, l'Eterno, l'Immanente e colui che sostiene tutte le cose. È al di là della nascita e della morte. È l'Amante e il Beneamato dei suoi devoti, è il Maestro di coloro che non hanno maestro (anath Natha). Dimorando nel nome di Dio, si può vivere, ma dimenticandolo si muore. Nessuno è paragonabile a Dio, nessuno è mai stato come lui né lo sarà mai. La sua volontà non può essere manipolata perché il procedere della volontà divina è inconoscibile. Dio non ha forma ed è trascendente (nirakar), e ogni forma di idolatria è peccato. Ogni saggezza e ogni conoscenza del mondo che non derivano da Dio sono false. Dio nel Gianismo Il Gianismo fondato da Vardharmana Mahavira nel sesto secolo prima di Cristo, ha una posizione ambigua su Dio. I giaini non ne negano l'esistenza, ma non la considerano indispensabile per la salvezza. "Forse Dio esiste" (la dottrina giainista, conosciuta come sayyavadà) è il massimo principio vitale. Taluni sostengono che il giainismo potrebbe essere classificato come una tradizione religiosa "transteistica". Gli dèi (concepiti soprattutto in base al pantheon induista) sono immaginati come nobili esempi che hanno raggiunto la condizione di Jaina, cioè la condizione spirituale più elevata. Il giainismo dà grande importanza al fatto che i suoi seguaci devono far conto su se stessi; in altre parole, l'uomo è padrone di se stesso e non esistono esseri superiori, neppure gli dèi o il destino (niyati), che possano aiutarlo a raggiungere la sua "vittoria spirituale". Il divino nell’Induismo Dio è un'entità sopra-personale, vale a dire ineffabile, come nella tradizione Shaiva, o personale, cioè oggetto di devozione, come in quella Vaishnava. La questione può essere riassunta in questo modo: la Divinità è intimamente vicina a noi (Ishta devata), ma è assolutamente trascendente e assolutamente altra (Brahman). Si tratta di un Dio nascosto (deus absconditus), la cui divinità è oscurata e distorta dai veli della vita mondana e soltanto in certi casi si rivela in tutta la sua potenza e il suo splendore (Ishvara). La Divinità è l'Unico che discende come amico personale (Avatara, è onnipresente, onnisciente, onnipotente, eterna, benevola, beata, imperitura, autorivelatrice, autoilluminante, superiore alle previsioni (neti-neti), senza attributi (Nirguna), senza forma (Nirvishesha) e senza limiti (Nirupadhita). Il potere della Divinità permea tutto ciò che esiste (Chidvìlasa). La Moksha (la liberazione definitiva) non è avvertita come un fatto dipendente dall'esistenza o non esistenza di Dio, o dall'esistenza di più dei o di un solo Dio. Dio personale o impersonale? Il Bràhman-Atman delle Upanishad presenta un'immagine di Dio come Assoluto Impersonale. Questa concezione, che ha avuto un grande influsso in seno all'Induismo, troverà in Shankara (780-820 d.C.) il suo più convinto sostenitore. Per Shankara tutto è Bràhman, il mondo è mayà, « illusione », e solo l'ignoranza, o meglio, la « non conoscenza » (avidyà) può attribuire alla realtà fenomenica una consistenza che in effetti non ha. Finché l'uomo resta vittima dell'ignoranza, non può attingere la liberazione. Egli potrà essere liberato unicamente attraverso una « conoscenza » (jnànà), che gli permetta di vedere il mondo come illusione e il Bràhman come unica realtà. La Bhagavad-Gìtà non è su questa linea. Essa introduce una concezione personale di Dio, che resterà determinante per tutta la storia dell'Induismo. Per la Gita, Dio non è soltanto l'Immutabile e Immanifesto Bràhman, ma soprattutto la « Persona Suprema », Purush-ottama (B. Gita XV, 17). La via dell'Immanifesto Bràhman è difficile da percorrere, dirà Krishna ad Arjuna , « ma per coloro che adorano Me come Termine supremo, ...Io divento per loro il salvatore da quest'oceano del samsàra mortale » (B. Gita XII, 5). La consistenza della "personalità" dell'Essere supremo non è molto chiara, non pare concepita come "oggettiva", ossia inerente all'Essere supremo stesso, ma come "modo soggettivo" del fedele di considerare Dio, al fine di poter stabilire con Lui un "colloquio interpersonale". E per questo che tale "personalità" viene spesso attribuita anche agli idoli. Il pensiero di Gandhi riassume bene questa "consistenza soggettiva" della personalità di Dio: «Io, soleva ripetere, non considero Dio come una persona... ma per coloro che sentono il bisogno di una sua presenza personale, Dio è una persona. Le definizioni di Dio sono innumerevoli... io adoro Dio solo come Verità». Dio nel Buddhismo Anche se il Buddha storico non ha mai negato l'esistenza di Dio e se non fu probabilmente ateo, la sua dottrina ignora, totalmente Dio, del quale non parla, come se non esistesse. Dio è assente dal cielo di Buddha. Inoltre Buddha non ha mai affermato di essere il messaggero o il profeta di Dio, come Maometto per l'Islam. Per Buddha l'assillo è l'uomo con il suo carico di angoscia e di sofferenza da cui deve liberarsi. L’impegno per liberare l'uomo dal dolore e dalla insignifìcanza della vita, ha eclissato il problema metafisico di Dio . Il buddhismo primitivo non ammette né divinità, né culto, né dipendenza dell'uomo, come creatura, da un Essere supremo, come creatore. Non nega Dio, ma non ne parla mai. Inoltre nella spiritualità buddhista non c'è posto per la preghiera, ma soltanto per la meditazione, che viene privilegiata come forma suprema di vita spirituale. E tuttavia anche nel buddhismo più refrattario al divino c'è una sete e ricerca di Dio, quale che esso sia. Il buddhismo popolare, delle masse orientali, ha finito per proiettare sullo stesso Buddha l'aureola del divino, offrendogli preghiere, fiori, incensi, feste. Però quando l'ulteriore sviluppo della dottrina buddhista ammise e moltipllcò gli dèi, questi non erano che persone umane, diventate tali. Proprio perchè ignora Dio, il Buddhismo fu detto la "religione senza Dio". E potrebbe forse essere considerato più che una religione, un sistema filosofìco-psicologico, agnostico e immanentistico, che si propone la fuga dalla sofferenza, una terapia contro il dolore o una morale. Il Tao nell’ Universismo cinese L'universo, è ordinato dal Tao, legge eterna ed impersonale, regolata a sua volta dall'azione reciproca delle due forze primordiali yang e yin. Yang è luce, calore, movimento, produttività, virilità. Yin è ricettività, quiete, freddo, oscurità, femminilità. Sono necessarie l'una all'altra. Tutto nasce dalla loro armonia e tensione. Prima da Yang il cielo e da Yin la terra, poi, dai due assieme, gli altri esseri. Le stagioni dell'anno, ad esempio, sono un alterno prevalere di Yang (estate) o Yin (inverno). Quest'idea del mondo si colloca in un lasso di tempo di 129.600 anni, durante i quali si compie un ciclo fra l'unità primitiva e la creazione del cosmo e il successivo ritorno all'unità, per ricominciare daccapo e così proseguire all'infinito. Il Tao, forza che guida tutto, già si trova nell'unità primitiva e produce l'armonia di tutta la creazione. Questa concezione intellettualistica non fa che esprimere la regolarità del ciclo cosmico e sociale, e a livello popolare si traduce concretamente nel culto rivolto agli spiriti della natura e agli spiriti degli antenati. Andare alla ricerca del Tao significa andare alla ricerca della giusta impostazione di vita. I grandi eroi della cultura cinese antica, per esempio, sapevano vivere in armonia con il Tao. Così assicuravano l'armonia nell'universo e nella società cinese. Se si fossero allontanati dal ritmo dello yin e dello yang, avrebbero affondato il mondo nel caos. È dunque importante sapere con precisione se in un determinato momento l'universo sia sotto l'influenza dello yin o dello yang. Ne deriva la necessità di stabilire un calendario preciso, di classificare tutti gli elementi, le direzioni e i colori, per potersi accordare pienamente con il principio dell'universo. Intorno a questa idea del Tao è sviluppata tutta una scienza di interpretazione di ogni aspetto dell'universo e della vita. Essa si è intrecciata con l'antica arte della divinazione e a pratiche magiche attraverso le quali si è sempre cercato di esercitare un'influenza sul corso degli eventi. Il cielo All'inizio della storia cinese, però, il Tao non era soltanto una legge universale anonima e impersonale; aveva un nome, era il dio supremo chiamato soprattutto con tre appellativi: Ti (= dominatore), Shang-ti (= supremo dominatore), T'ien (= cielo), usati indifferentemente l'uno per l'altro. Il nome T'ien finì per prevalere all'epoca della dinastia Chou (dal 1050 a.C. in poi). Questo concetto di un unico essere supremo identificato nel cielo si ritrova chiaramente anche in Confucio, in Mo-ti e in Mencio: nel primo sotto forma di principio morale, nel secondo sotto forma di principio mistico, nel terzo come principio filosofico. Da sempre, la triade del cielo, della terra e dell'uomo è stata per i cinesi la base di un'ampia e profonda riflessione sull'universo. Il cielo, spesso figurato come un cerchio o una coppa, avvolge o contiene tutto, mentre la terra che ne è ricoperta è quadrata. Questo cielo dispensa l'energia o il soffio (ki) agli esseri che si trovano sulla terra. Grazie a questo soffio, tutte le creature, animate o inanimate, nascono, crescono e si trasformano. L'uomo che si trova sotto il cielo e sulla terra, è sottoposto agli stessi princìpi, riti o «ordinamenti» (li) del resto dell'universo intero e al movimento e al ritmo del Tao, il principio d'ordine che governa la totalità dell'universo e gli assicura l'unità. Dio nell’Islam « La fede (iman), dice una hadith, consiste nel credere in Dio, nei suoi angeli, nei suoi libri, nei suoi inviati e nel giudizio finale, nonché nel credere nella predestinazione e nel fatto che essa apporta il bene o il male ». I mussulmani adorano “il Dio uno vivo e sussistente, misericordioso e potente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini”, e vogliono essere anzitutto i testimoni del Dio unico, che non ha associati e che a nulla può esse uguagliato. Mistero di Dio Dio, posto in alto e nel medesimo tempo vicino, « possiede le chiavi del mistero, che lui solo conosce perfettamente » (Corano 6,59) e che non comunica a nessuno; il Corano fa dire a Gesù, quando egli si indirizza a Dio: « Tu conosci quel che è in me, mentre io non conosco quel che è in te. Tu conosci perfettamente i segreti invisibili » (Corano: sura 5,116). Tale mistero di Dio viene ordinariamente intravisto attraverso i due più bei versetti coranici, quello del Trono e quello della Luce: « Dio — non vi è alcuna divinità al di fuori di lui — è il Vivente, il Sussistente. Nè sonnolenza, nè sonno lo colgono mai. A lui quel che è nei cieli e quel che è sulla terra. Chi intercederà presso di lui se non dietro suo permesso? Egli conosce quel che c'è nelle mani degli uomini e dietro di loro, mentre essi abbracciano della sua scienza solo quello ch'egli vuole. Il suo Trono si estende al di sopra dei cieli e della terra. Il conservarlo non lo costringe affatto a piegarsi. Egli è l'Augusto, l'Immenso » (Corano 2,255); « Dio è la Luce dei cieli e della terra. La sua luce è simile a una nicchia, dove si trova una lucerna; la lucerna è dentro un recipiente di vetro; quest'ultimo assomiglia a un astro scintillante; la lucerna è accesa grazie a un albero benedetto, un olivo né orientale nè occidentale, il cui olio risplenderebbe anche se nessun fuoco lo toccasse. Luce su Luce. Dio versa la sua Luce, dirige chi egli vuole » (Corano 24,35). Dio è unico Anzitutto, Dio, com'è presentato nel Corano, è «unico». L'unicità è il carattere fondamentale di Allah: «II vostro Dio è un Dio solo» (s. 16, 22). «Dio! Non c'è altro Dio che Lui, l'Iddio a cui appartengono i nomi più belli» (s. 20, 8). E’ detto nella sura 112: «Dì: Egli, Dio, è Uno. Dio, l'Eterno. Non generò nè fu generato e nessuno gli è pari». E’ qui espressa l'essenza del Credo musulmano, rigidamente monoteista; contro il politeismo arabo, si afferma l'unicità di Dio: «L'Iddio vostro è un Dio unico, non c'è altro Dio che Lui, il Misericordioso, il Clemente» (sura 2, 163); contro il cristianesimo, e forse prima ancora contro i pagani che ammettevano divinità femminili, si afferma che Dio «non generò» e che a Dio «nessuno è pari», cioè Dio è senza figli e senza eguali. Infatti Maometto accusa continuamente i cristiani di affermare che «Dio si è scelto un figlio» (s. 2, 116), mentre «Dio non sopporta che altri vengano associati a Lui: tutto il resto egli perdona, ma chi associa altri a Dio commette colpa suprema» (sura 4, 48). Maometto, che ha del cristianesimo una conoscenza gravemente lacunosa, pensa che la «generazione» sia un fatto essenzialmente di ordine fisico e carnale e quindi ritiene che i cristiani credano che Gesù sia il figlio carnale di Dio: questo, per lui, è lo scandalo supremo, perché «non è da Dio prendersi un figlio» (s. 19, 35). Per Maometto, Gesù è soltanto «un semplice servo di Dio»: «O Gente del Libro! Non siate stravaganti nella vostra religione e non dite di Dio altro che la Verità! Che il Cristo Gesù figlio di Maria non è che il Messaggero di Dio, il suo Verbo che Egli depose in Maria, e uno Spirito che proviene da lui. Credete in Dio e nei suoi Messaggeri e non dite: "Tre"! Basta! E sarà meglio per voi. Perché Dio è un Dio solo, troppo glorioso e alto per avere un figlio! [...]. Il Cristo non ha disdegnato di essere un semplice servo di Dio» (s. 4, 171-172). Maometto nega esplicitamente la divinità di Gesù, chiamando i cristiani «empi». Probabilmente Maometto, avendo sentito che i cristiani credevano nella Trinità, pensa che la Trinità sia composta da Dio, da Gesù e da Maria: «E quando Dio disse: "O Gesù, figlio di Maria! Sei tu che hai detto agli uomini: Prendete me e mia madre come dèi oltre a Dio"? E rispose Gesù: "Gloria a Te! Come mai potrei dire ciò che non ho il diritto di dire?"» (sura. 5, 116). Assoluta libertà Il secondo carattere essenziale di Dio è l’assoluta libertà: Egli può fare quello che vuole e nessuno può chiedergli conto di quello che fa: «Egli perdona chi vuole e tormenta chi vuole. A Dio appartiene il dominio dei cieli e della terra e dello spazio fra essi. Dio è sovra ogni cosa potente» (s. 5, 17.19). Osserva A. Bausani: «II Dio coranico può anche cambiare idea, abrogare quello che aveva detto poc'anzi; anzi, generalmente, quasi tutte le prescrizioni coraniche, quasi a voler sempre rammentare questa libertà di Dio, sono corrette da frasi che suonano "a meno che Dio non voglia altrimenti" e simili. Quindi è inesatto parlare di "fatalismo coranico": sì bene bisogna parlare di libertà assoluta di Dio e di dipendenza totale dell'uomo dall'unico e vero motore e attore dell'universo». Infatti Dio «fa entrare chi vuole nella sua misericordia» (s. 42, 8), «travia chi vuole e dirige chi vuole» (s. 35, 8). «A Dio appartiene il Regno dei cieli e della terra, Egli crea quel che vuole, concede a chi vuole femmine, concede a chi vuole maschi, oppure appaia assieme maschi e femmine, e rende chi egli vuole sterile. Egli è sapiente possente» (s. 42, 49-50). In realtà, per il Corano, Dio fa tutto: non esistono le «cause seconde». L'uomo non è libero: egli «non può volere nulla se non lo vuole Dio» (s. 29, 29). Creatore In terzo luogo il Dio coranico è «creatore dei cieli e della terra», «che aggiunge al Creato ciò che egli vuole», e che ha creato tutto con perfezione: «Colui che creò sette cieli l'uno sull'altro, e tu non puoi scorgere nella creazione del Misericordioso ineguaglianza alcuna. Volgi in alto la vista: vedi tu fenditure? E volgi ancora in alto due volte la vista: tornerà a te la vista affaticata e stancata» (sur. 35, 1; sura 57, 3-4). Dio nell’Ebraismo «Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo», (Dt 6,4), così ha inizio la giornaliera professione di fede dell’ebreo è i primi quattro principi di Moimonide professano la fede nell’esistenza di Dio, unico, spirituale, eterno, Secondo l’Ebraismo Dio è al di là del tempo e dello spazio e l'universo è a lui subordinato. Egli è trascendente e immanente. Esiste al di fuori del mondo ed è nello stesso tempo coinvolto in esso. L'ebraismo rigetta sia il deismo, che nega l'immanenza di Dio nell'universo, sia il panteismo, che nega la sua trascendenza e lo identifica con l'universo. L'ebraismo è sempre stato, da Abramo in poi, l'affermazione perentoria, assoluta, inderogabile del Dio Uno e Unico. Il monoteismo è il pilastro che regge tutto l'ebraismo. Non era facile per questo piccolo popolo, stretto nell'urto fra la potenza dei grandi imperi, l'egiziano con la sua cultura affascinante, l'assiro con la sua potenza militare crudele, il babilonese e il persiano con le loro grandiosità, restare fedele al Dio Uno e Unico che, nei tempi tragici della distruzione di Gerusalemme e delle grandi deportazioni a Ninive e a Babilonia, si era dimostrato una povera divinità di fronte allo sfarzo cultuale degli dèi d'Egitto, di Ninive e di Babilonia. Gli ebrei sono sempre stati calamitati dai culti pagani delle popolazioni e delle culture con cui venivano a contatto e il rischio di tradimento del Dio Uno e Unico faceva fremere i profeti e scatenava la collera ardente di Jahvè. Tutta la storia umana, come è descritta nella Bibbia, può sintetizzarsi in una frase: Dio è alla ricerca dell'uomo. In seno ad un mondo politeista, Israele fa professione di un monoteismo rigoroso, che appare come la caratteristica più notevole del suo pensiero religioso. I Patriarchi rendono culto al Dio che si è rivelato al padre di ciascuno di loro, e quelle rivelazioni personali non hanno mai portato a parlare di molteplici dei. Questo Dio non ammette che nessun altro dio gli sia messo in concorrenza ( Gb 32, 10) e agisce non solo in Canaan, ma dovunque, in Egitto, a Sodoma e Gomorra, a Carrai, e ha autorità universale. Identificando Javhè, che gli è apparso nel roveto, al Dio dei Patriarchi, ai clan ebrei che si unirono a lui, Mosè impose il monoteismo, che fu la religione di Israele nei secoli, anche se il popolo spesso indulse a culti politeistici. Durante l’esilio in Mesopotamia (586-538) la comunità dei deportati venne a trovarsi in continuo scontro col paganesimo trionfante babilonese. Al politeismo, i profeti, in particolare il Deuteroisaia, hanno condotto una forte critica in nome del monoteismo iavhistico. Dio nella storia II Dio biblico non è un Dio che venga fuori da una serie di sillogismi astratti e lucenti, è lontanissimo dal Dio dei filosofi elaborato nel «palazzo di cristallo» della Ragione, come diceva Dostoevskij. Dire «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe» non è come dire «il Dio della verità, della bontà e della bellezza». Abramo, Isacco, Giacobbe non sono astrazioni, non sono valori, idee o principi. Sono persone in carne e ossa con una storia drammaticamente densa di eventi. Il Dio biblico è il Dio della storia, che cammina alla testa del suo popolo che esce dalla schiavitù dell'Egitto, che lo guida attraverso il mar Rosso, che lo accompagna, tra i prigionieri umiliati nell'esilio assiro e babilonese. L'ebraismo è una religione della storia, che si coglie nella storia. Ben diverso dagli dèi cananei, egiziani e assiri, dèi della natura, dei fiumi, della fertilità, delle greggi, delle stagioni, della fecondità dei campi, dei «stanziali» a dimora fissa contro un Dio che cammina tra le sabbie del deserto e a cui basta una tenda beduina. Di fronte ai grandi e sontuosi culti stellari del pantheon assiro babilonese, la Bibbia afferma polemicamente il «Dio degli eserciti» stellari, creatore del sole, della luna e delle stelle. Il Dio biblico sdivinizza la natura, la desantifica e, perciò stesso, la riconcilia con l'uomo. Per le religioni orientali cosmico-mistiche l'universo è il Divino da cui tutto sgorga e in cui tutto rifluisce. L'universo è eterno: non c'è creazione, non c'è catarsi finale. Cicli si succedono a cicli in un ruotare infinito. L'induismo, il buddhismo, il taoismo e altre culture anche lontanissime, avevano sacralizzato l'universo colmandolo di poteri e dinamismi misteriosi. La terra stessa era diventata una dea, la Madre Terra, Gea. Anche la cultura greca era su questa linea. Anche in culture molto lontane da quelle orientali come quelle indo-americane, come nel Perù troviamo la Madre Terra, chiamata Pachamama L'ebraismo è fuori radicalmente da questa prospettiva, ha posto in rilievo i segni della saggezza e bontà del Creatore presenti in tutta la natura. Una delle maggiori conquiste dei profeti fu il rifiuto di considerare la natura come un oggetto di adorazione. Tuttavia la desacralizzazione della natura non portò affatto come conseguenza una alienazione della natura. Al contrario riconciliò l'uomo a tutte le cose in comunanza di lode al Creatore. Il mondo, nel suo significato ultimo deve essere compreso in relazione a Dio. La visione di Dio dell’Ebraismo proviene dalla rivelazione , trasmessa dalla Bibbia ebraica , detta Tanàkh , che contiene buona parte dell’Antico Testamento della Bibbia cristiana. Dio nella rivelazione Nomi di Dio Da sempre la ricerca del nome, del volto e del mistero divini accompagna il cammino del popolo di Dio, sia ebraico che cristiano, nel tentativo di meglio intravederlo e incontrarlo, per affrontare il dialogo con le altre religioni, al fine di esprimere in maniera il più possibile adeguata il proprio credo e la comprensione di sé in rapporto a Dio stesso. Il volto di Dio che “ha parlato e continua a parlare per mezzo di uomini e alla maniera umana” (DV 12 ), che si è rivelato a Israele e che Israele ha cercato è possibile riconoscerlo attraverso la Bibbia, sembra andare incontro a chi lo cerca, suggerendo volti e nomi. I nomi di Dio aiutano ad incontrarlo e a parlare con lui, ma indicano anche un “più in là”, che invita a fermarsi alla soglia del mistero. I principali sono: El ed Elohim El ricorre per 240 volte nell’AT. Nella forma Elohim si incontra 2600 volte . Sono poi da aggiungere le combinazioni di El in forme distinte come Isma-el; Bet-el o negli appellativi divini congiunti come El-Elion (Dio altissimo), El-Saddaj (Dio onnipotente), El-Olan (Dio eterno), El-Betel (Dio di Betel), ccc. Dei due termini El ed Elohin non si conosce il vero significato, ma molti pensano che indichino ”potere”. Hanno una valenza di universalità: Israele afferma che Javhé è il suo Elohim e che è Dio per tutti i popoli. Jaweh Israele ha la coscienza di fede di aver ricevuto questo nome per rivelazione da parte di Dio stesso. JHWH (si pronunzia J (a) HW (e) H ) : le vocali furono aggiunte nel VI secolo d.C. ) ricorre circa 6.830 volte nell’AT; per lo più risulta usato nella forma completa di quattro lettere (JHWH), anche se meno frequentemente si incontra la forma ridotta (JH o JHW). Il verbo H (a) J (a) H, che richiama la radice HWH (=essere), alla prima persona fa: (e) HJ (e) H (= Io sono) ; alla terza persona iussiva fa: J (a) HW (e) H (=Colui che è). Il significato del nome JHWH è: “Colui che è”, “Colui che fa essere”. In Israele , nel tempo, il nome del suo Dio si carica di nuovi significati ad ogni nuova esperienza di lui. Diventa un’interpretazione del suo nome la tardiva lettura, in luogo di Javhé per rispetto, con Adonai che significa Signore e la traduzione greca in Kirios, che significa sempre Signore. Successive traduzioni o utilizzazioni liturgiche non furono sempre coerenti, quando ricorsero ad appellativi come “L’Eterno”, “Il Nome”. Abbà Come Israele per Javhè, così la comunità cristiana ha coscienza di aver ricevuto il nome Abbà per rivelazione da parte di Dio. Abbà è una forma aramaica, che indica il padre. Nell’AT “ab” è usato circa 1.800 volte per le relazioni di paternità-filiazione, mentre per la relazione con Dio si dice raramente a modo di paragone (come un padre). Riferita a Dio, compare nella vita e nell’insegnamento di Gesù (Mc 14, 36; Gal 4, 6; Rm 8, 15). La rivelazione del Dio-Abbà è propria di Gesù, che al Padre si rivolgeva chiamandolo “Abbà”. Ab o Abbà era un termine familiare usato dai bambini e in questo senso l’ha usato Gesù. Il significato fondamentale del termine è quello di fonte di vita e di relazione filiale con Dio; se ne comprende meglio il significato quando si accoglie la preghiera che Gesù ha insegnato ai suoi. Dio del nomadismo e della diaspora La situazione di tenda e di nomadismo è in Israele propria del periodo dell’uscita dall’Egitto, ma non è mai venuta meno in quel popolo e nella Chiesa e la Bibbia testimonia un rivelarsi di Dio in tale condizione umana. In questa situazione Dio appare all’Israelita, come Roccia e sostegno Il vero credente vede la condizione di provvisorietà non come fatalità ma come vocazione e constata che Dio è sempre vicino a chi vive tale esperienza come fatto religioso. Il Dio che si è reso presente nella tenda dei patriarchi è Dio altissimo (El-Elion), Dio onnipotente (El- Saddaj ), Dio eterno (El-Olan). E’ guida, sostegno, scudo, amico che conforta, è il Dio delle promesse. Colui che difende il povero Esistono varie forme di provvisorietà umana, una è quella della povertà. I profeti presentano Dio che protegge i poveri e punisce ogni abuso dei potenti di turno. I profeti predicano anche una “povertà” come scelta spirituale, quella di mettersi sotto la protezione di Dio, e di distaccarsi da ogni protezione umana; i “poveri di Javhé”, che ne accolgono l’invito, constatano la grande vicinanza di Dio. Israele ha subito anche la povertà della privazione della patria; gli esiliati veramente credenti hanno visto la deportazione non solo come castigo per le colpe, ma anche occasione di purificazione e hanno potuto incontrare Dio in terra straniera e dialogare con Lui. Provvidente Le varie situazioni di provvisorietà sono state una scuola al distacco da ricchezza e benessere e all’apertura a Dio vicino e provvidente. Gesù ha invitato spesso a fondare la propria fiducia in Dio presente e provvidente; vertice dell’insegnamento di Gesù può essere considerata la richiesta che propone ai discepoli di chiedere a Dio il pane quotidiano. Dio della liberazione e dell’alleanza La Bibbia racconta la storia dell’esodo e il fatto dell’alleanza stipulato da Dio col popolo al Sinai. La situazione di alleanza non è solo di quel momento storico, ma è una costante del popolo di Dio, che ha sempre potuto vederlo come Dio che libera e lega a sé in alleanza Dio è visto da Israele come colui che vince e trionfa, che libertà, che dona l’alleanza, che non ammette una fedeltà parziale. porta Israele dalla schiavitù alla Dio sposo fedele e misericordioso Il Dio della liberazione e dell’alleanza si presenta come uno sposo appassionato e fedele, ma tradito, un padre amoroso non corrisposto. I profeti parlano di un’alleanza con Dio come legame sponsale, di nuova alleanza, di redenzione. Dio appare misteriosamente “geloso” come uno sposo ferito e offeso come un padre e una madre abbandonati. Ma sempre misericordioso. Dio che perdona e recupera Spesso si trova nella Bibbia l’invito ad aver fiducia in Dio misericordioso. A Dio Padre misericordioso Gesù invita a rivolgersi con infinta fiducia. Nel definire la misericordia di Dio l’A.T adopera soprattutto due espressioni: “hesed” e “reh’min”. Il vocabolo “hesed”, indica fedeltà e viene riferito in rapporto all’alleanza, spesso tradita dal popolo, ma alla quale Dio resta fedele. Questa fedeltà nei confronti del popolo infedele è fedeltà di Dio a se stesso. Il secondo vocabolo è “ reh’min, la cui radice denota l’amore materno (rehem = grembo materno), Si tratta di un amore totalmente gratuito non frutto di merito, che genera una gamma di sentimenti tra i quali la bontà, la tenerezza, la pazienza, la compassione, la prontezza a perdonare. ( vedi: Dives in Misericordia di Giovanni Paolo II: nota del n. 4 ) Dio nella prova Dal tempo delle peregrinazioni di Israele nel deserto, esperienze religiose di prova della fedeltà a Javhé segnano spesso il cammino del popolo di Dio. E Dio appare come Dio che “tenta” E’ detto ripetutamente dai redattori della toràh che il popolo ribellandosi a Dio lo tenta, ma è anche detto che “Dio.....tentò Israele” (Es 15, 25; 16, 4 ; 20, 20 ; Dt 8, 2-16; 13, 4 ). Questa tentazione non è risparmiata nemmeno ad Abramo. Dio che “mette alla prova” Anche nel secondo esilio Dio mette alla prova il popolo. Il Dio che tenta è il Signore della storia che si rivela con un suo volto e un nome. E il popolo impara a cercare un Dio più grande e misterioso. Iavhé è un Dio che provoca dei “perché”, che restano a lungo senza risposta e portano così a purificare le confidenze superficiali nei suoi riguardi. Colui cui chiediamo di “non indurci in tentazione” Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto “per essere tentato” (Mt 4, 1 ), “ è stato tentato in tutto a nostra somiglianza” (Eb 4, 15), per tutta la vita, al termine della quale, nel Getsemani, ha pronunziato l’ultimo “si” al Padre. Egli ci rivela il volto e il nome di Dio, che è quello paterno di Abbà, che “chiama” nel deserto, anzi “induce” in tentazione. Perché? Perché si prenda coscienza della propria fragilità e si ricorra a lui per essere liberati dal maligno, A lui, nel Padre nostro. chiediamo di “ non indurci in tentazione”. Dio al di sopra di ogni esperienza Nessuna sintesi del mistero divino è mai adeguata a spiegare le sorprese sconcertanti di Dio nella storia e nella vita umana. Egli è sempre più in là: l’incontro con lui non ripete mai i moduli precedenti; occorre accettare un Vivente sempre originale, che chiama ad un profondo senso di umiltà. Dio re e Signore della storia Il Dio vivente è presente e si è costantemente rivelato come Signore (Adonaj - Kirios) . Il suo Regno è un’iniziativa unica sulla storia umana e sul cosmo. Egli è: Colui che per primo sceglie e chiama Dio che crea è il Signore dell’universo. Dio elegge e chiama, “assegna un nome” e dona un senso all’esistenza dell’uomo, guida sempre il popolo fuori dall’Egitto, alla conquista della terra. Al Signore che comanda l’uomo non obietta , né risponde con parola, ma eseguendo. (Gn 17; Es 7, 6-7 ) Javhé Signore della storia Numerosi testi di rivelazione presentano la signoria divina nella storia. Ne è un esempio la profezia di Natan a Davide ( 2 Sam 7 ), in cui si vede Javhé che prende in mano la storia dei discendenti dei patriarchi. Un altro esempio è quanto è detto nel libretto dell’Emmanuele (Is 6-12). Chiarissime sono le profezie dell’Apocalisse da cui appare Javhé che riassumerà la storia umana e cosmica, svelandone il progetto profondo e rendendo finalmente chiaro agli occhi dei fedeli l’ordine di Dio, al di sopra del disordine e della perversità umana. Colui che scruta e giudica il cuore umano Gli scritti sapienziali presentano il volto di Dio che discerne e giudica tra gli uomini coloro che sono retti da coloro che sono empi. Dio, al suo sguardo nulla sfugge, è colui che scruta i pensieri umani. La personalità di Dio Si può dire che ci sono alcuni tratti fondamentali di Dio che ritornano con maggiore frequenza nella Bibbia, e presentano l’identità che egli stesso ha svelato e che il popolo di Dio ha colto e professato. Sembrano essere i seguenti: Dio è il vivente, è colui che parla e si manifesta attraverso la parola, è presente e provvidente, svela la fine e il senso della storia umana e cosmica, è uno e trino. Dio il vivente Il popolo d’Israele ha costantemente professato la certezza in un Dio vivo che è pure colui che fa vivere. Ciò è vero già per i primi esseri umani, ma anche per ogni istante dell’esistenza cosmica ( Gb 34, 14-15; Sl 104 ). I testi profetici e sapienziali vedono in Javhè colui che dà la vita all’uomo, che genera alla maniera di un padre e di una madre. Gesù dirà che Dio è il Dio “dei vivi”. ( Mc 12, 27 ) Dio che parla Il Dio vivente è eloquente . “E Dio disse”, con questa formula del primo capitolo della Bibbia, ha inizio la vita. Dio si manifesta parlando, chiama, orienta tutto e dialoga con l’uomo. Il suo silenzio è castigo per l’uomo, punizione per l’abuso della sua parola e per la disobbedienza. Ma Dio tace talora anche per tentare il suo popolo che intende purificare e consolidare nella fede in lui. Dio presente e provvidente Dio è vicino e coinvolto nella storia dell’uomo e del cosmo. Lo sostiene in vari passi la Bibbia. In particolare è sottolineato da Isaia. Lo studioso francese Bonnard ha trovato, solo nel secondo Isaia, sessantatre espressioni differenti del comportamento di Dio riguardo alla storia. Il Dio che parla è anche il Dio che opera. Del Dio presente e operante ha parlato Gesù, presentando l’Abbà vicino e coinvolto con tutta la vicenda dell’uomo. ( Mt 6, 25-34 ) Dio giudice Il Vivente, origine e causa del mondo e della storia umana, è atteso come fine di tutto e suo ultimo significato. Tutto è orientato verso Dio. Di lui l’AT ha parlato come del vincitore finale della storia (Ez 38-39 ), come del Signore che conforta e offre un festoso banchetto, come del giudice che darà significato all vicenda umana ( Ez 33, 10-20 ), come di colui che risusciterà tutti ( Dan 12, 1-3 ). Dopo ciò che Gesù ci ha detto di Dio non attendiamo altra rivelazione se non quella che riassumerà e manifesterà quanto questa nostra storia apparteneva ad un più profondo progetto di Dio. (Per quanto è qui sunteggiato, vedi meglio in “Nuovo dizionario di Teologia Biblica”- Ed Paoline 1988 - Voce: “Dio”, di A. Marangon ) Dio è amore In Israele vi è una nuova immagine di Dio. Nelle culture che circondano il mondo della Bibbia, l'immagine di Dio e degli dei rimane, alla fin fine, poco chiara e in sé contraddittoria. Nel cammino della fede biblica diventa invece sempre più chiaro ed univoco ciò che la preghiera fondamentale di Israele, lo Shema, riassume nelle parole: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo » (Dt 6, 4). Esiste un solo Dio, che è il Creatore del cielo e della terra e perciò è anche il Dio di tutti gli uomini. Questo Dio ama l'uomo. L'unico Dio in cui Israele crede, ama personalmente. Il suo amore, inoltre, è un amore elettivo: tra tutti i popoli Egli sceglie Israele e lo ama, con lo scopo però di guarire, proprio in tal modo, l'intera umanità. « Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui » (1 Gv 4, 16). Queste parole della Prima Lettera di Giovanni esprimono con singolare chiarezza il centro della fede cristiana: l'immagine cristiana di Dio e anche la conseguente immagine dell'uomo e del suo cammino. La prima enciclica di Benedetto XVI ha come titolo: “ Deus Caritas est” e tratta della comprensione e della prassi dell’amore nella Sacra Scrittura e nella tradizione della Chiesa. Essa inizia così: “« Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui » (1 Gv 4, 16). Queste parole della Prima Lettera di Giovanni esprimono con singolare chiarezza il centro della fede cristiana: l'immagine cristiana di Dio e anche la conseguente immagine dell'uomo e del suo cammino. Inoltre, in questo stesso versetto, Giovanni ci offre per così dire una formula sintetica dell'esistenza cristiana: « Noi abbiamo riconosciuto l'amore che Dio ha per noi e vi abbiamo creduto ». Nel suo Vangelo Giovanni aveva espresso questo avvenimento con le seguenti parole: « Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui ... abbia la vita eterna “ (3, 16). Al n. 9, trattando della novità della fede cristiana l’enciclica dice: “Vi è anzitutto la nuova immagine di Dio. Nelle culture che circondano il mondo della Bibbia, l'immagine di Dio e degli dei rimane, alla fin fine, poco chiara e in sé contraddittoria. Nel cammino della fede biblica diventa invece sempre più chiaro ed univoco ciò che la preghiera fondamentale di Israele, lo Shema, riassume nelle parole: « Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo » (Dt 6, 4). Esiste un solo Dio, che è il Creatore del cielo e della terra e perciò è anche il Dio di tutti gli uomini. Questo Dio ama l'uomo. L'unico Dio in cui Israele crede, ama personalmente. Il suo amore, inoltre, è un amore elettivo: tra tutti i popoli Egli sceglie Israele e lo ama, con lo scopo però di guarire, proprio in tal modo, l'intera umanità. Egli ama, e questo suo amore può essere qualificato senz'altro come eros, che tuttavia è anche e totalmente agape. Il rapporto di Dio con Israele viene illustrato mediante le metafore del fidanzamento e del matrimonio; di conseguenza, l'idolatria è adulterio e prostituzione. La storia d'amore di Dio con Israele consiste, in profondità, nel fatto che Egli dona la Torah, apre cioè gli occhi a Israele sulla vera natura dell'uomo e gli indica la strada del vero umanesimo. Tale storia consiste nel fatto che l'uomo, vivendo nella fedeltà all'unico Dio, sperimenta se stesso come colui che è amato da Dio e scopre la gioia nella verità, nella giustizia - la gioia in Dio che diventa la sua essenziale felicità: « Chi altri avrò per me in cielo? Fuori di te nulla bramo sulla terra... Il mio bene è stare vicino a Dio » (Sal 73 [72], 25. 28). L'eros di Dio per l'uomo - come abbiamo detto - è insieme totalmente agape. Non soltanto perché viene donato del tutto gratuitamente, senza alcun merito precedente, ma anche perché è amore che perdona. Soprattutto Osea ci mostra la dimensione dell'agape nell'amore di Dio per l'uomo, che supera di gran lunga l'aspetto della gratuità. Israele ha commesso «adulterio», ha rotto l'Alleanza; Dio dovrebbe giudicarlo e ripudiarlo. Proprio qui si rivela però che Dio è Dio e non uomo: « Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? ... Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all'ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te » (Os 11, 8-9). L'amore appassionato di Dio per il suo popolo — per l'uomo — è nello stesso tempo un amore che perdona. Esso è talmente grande da rivolgere Dio contro se stesso, il suo amore contro la sua giustizia. Il cristiano vede, in questo, già profilarsi velatamente il mistero della Croce: Dio ama tanto l'uomo che, facendosi uomo Egli stesso, lo segue fin nella morte e in questo modo riconcilia giustizia e amore. L'aspetto filosofico e storico-religioso da rilevare in questa visione della Bibbia sta nel fatto che, da una parte, ci troviamo di fronte ad un'immagine strettamente metafisica di Dio: Dio è in assoluto la sorgente originaria di ogni essere; ma questo principio creativo di tutte le cose - il Logos, la ragione primordiale - è al contempo un amante con tutta la passione di un vero amore. In questo modo l'eros è nobilitato al massimo, ma contemporaneamente così purificato da fondersi con l'agape. Da ciò possiamo comprendere che la ricezione del Cantico dei Cantici nel canone della Sacra Scrittura sia stata spiegata ben presto nel senso che quei canti d'amore descrivono, in fondo, il rapporto di Dio con l'uomo e dell'uomo con Dio. In questo modo il Cantico dei Cantici è diventato, nella letteratura cristiana come in quella giudaica, una sorgente di conoscenza e di esperienza mistica, in cui si esprime l'essenza della fede biblica: sì, esiste una unificazione dell'uomo con Dio - il sogno originario dell'uomo- ma questa unificazione non è un fondersi insieme, un affondare nell'oceano anonimo del Divino; è unità che crea amore, in cui entrambi - Dio e l'uomo - restano se stessi e tuttavia diventano pienamente una cosa sola: « Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito », dice san Paolo (1 Cor 6, 17). L’agire di Dio acquista la sua forma drammatica nel fatto che, in Gesù Cristo, Dio stesso insegue la « pecorella smarrita », l'umanità sofferente e perduta. Quando Gesù nelle sue parabole parla del pastore che va dietro alla pecorella smarrita, della donna che cerca la dracma, del padre che va incontro al figliol prodigo e lo abbraccia, queste non sono soltanto parole, ma costituiscono la spiegazione del suo stesso essere ed operare. Nella sua morte in croce si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l'uomo e salvarlo, amore, questo, nella sua forma più radicale. Lo sguardo rivolto al fianco squarciato di Cristo, di cui parla Giovanni (cfr 19, 37), comprende ciò che è stato il punto di partenza di questa Lettera enciclica: « Dio è amore » (1 Gv 4, 8). È lì che questa verità può essere contemplata. E partendo da lì deve ora definirsi che cosa sia l'amore. A partire da questo sguardo il cristiano trova la strada del suo vivere e del suo amare. A questo atto di offerta Gesù ha dato una presenza duratura attraverso l'istituzione dell'Eucaristia, durante l'Ultima Cena. Egli anticipa la sua morte e resurrezione donando già in quell'ora ai suoi discepoli nel pane e nel vino se stesso, il suo corpo e il suo sangue come nuova manna (cfr Gv 6, 31-33). Se il mondo antico aveva sognato che, in fondo, vero cibo dell'uomo - ciò di cui egli come uomo vive - fosse il Logos, la sapienza eterna, adesso questo Logos è diventato veramente per noi nutrimento -come amore. L'Eucaristia ci attira nell'atto oblativo di Gesù. Noi non riceviamo soltanto in modo statico il Logos incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione. L'immagine del matrimonio tra Dio e Israele diventa realtà in un modo prima inconcepibile: ciò che era lo stare di fronte a Dio diventa ora, attraverso la partecipazione alla donazione di Gesù, partecipazione al suo corpo e al suo sangue, diventa unione. La « mistica » del Sacramento che si fonda nell'abbassamento di Dio verso di noi è di ben altra portata e conduce ben più in alto di quanto qualsiasi mistico innalzamento dell'uomo potrebbe realizzare. Ora però c'è da far attenzione ad un altro aspetto: la «mistica » del Sacramento ha un carattere sociale, perché nella comunione sacramentale io vengo unito al Signore come tutti gli altri comunicanti: « Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane », dice san Paolo (1 Cor 10, 17). (“Deus Caritas est” di Benedetto XVI ) Dio uno e trino Amore infinito “Dio è amore” ( 1 Gv 4. 8 ). In principio sta l’amore infinito che dona tutto se stesso e non solo qualcosa di se stesso. Non è un Dio in solitudine, un Dio solo. «Dio è amore» (1Gv 4,8). Il principio originario di tutta la realtà è «uno, ma non solitario»: è Amore e comunicazione infinita. Prima ancora di creare le creature e di partecipare ad esse un limitato riflesso della sua vita, egli da sempre comunica tutta la propria perfezione al Figlio eterno e allo Spirito Santo. Il Padre è dunque la pura gioia del donare senza riserve, il principio senza principio delle altre persone divine e poi di tutta la realtà creata, verso il quale tutto deve ritornare nella gratitudine, nella lode e nell’obbedienza. «Io sono l’Alfa e l’Omega, dice il Signore Dio, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente» (Ap 1,8). Davanti a lui riconosciamo: «Tutto il bene è Dio; tutto il bene viene da Dio; tutto il bene ritorna in Dio». È opportuno che, secondo l’uso del Nuovo Testamento, il nome “Dio” indichi normalmente il Padre, perché egli solo è Dio da se stesso e principio senza principio, «sorgente e origine di tutta la divinità», mentre il Figlio è «Dio da Dio» e lo Spirito Santo è Dio «dal Padre e dal Figlio». L’uguaglianza delle persone divine non contraddice l’ordine tra di loro. Gesù stesso riceve tutto dal Padre, anche ciò che gli appartiene più intimamente, le opere che compie, l’amore per i fratelli, la vita stessa: «Chi ha visto me ha visto il Padre... Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me» (Gv 14,9-11). Il Figlio viene dal Padre e va al Padre; e tutto in lui viene dal Padre come dono e torna incessantemente al Padre come lode, gratitudine o obbedienza. Chi accoglie Gesù partecipa alla sua vita filiale e riceve in sé lo Spirito che gli fa gridare: “ Abbà, Padre” ( Rm 8, 15). Allora conosce Dio in modo nuovo. Dio appare come Padre che genera il Figlio che è divinità donata e partecipata, e Padre e Figlio si dicono vicendevolmente “Noi”; l’amore che li unisce è lo Spirito. Dio amore è comunione dei Tre: l’Amante, l’Amato, l’Amore; il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo, un’unione e insieme un distinzione infinita. Credere in Dio amore significa credere che Dio è Uno in Tre Persone. Uno nell’Amore, Tre nel dare-ricevere Amore. Il Padre genera il Figlio, al quale dona tutto il suo amore; all’amore del Padre per il Figlio risponde l’amore del Figlio per il Padre. Questo mutuo amore fa sorgere la Persona dello Spirito Santo. Così il movimento è completo. Le tre persone divine sono colme dello stesso amore, pur avendo ciascuna le loro proprietà personali. Mistero fulgente Le persone divine agiscono sempre insieme, ma ciascuna con una relazione e caratteristica propria. Con la Pentecoste inizia il cammino storico della comunità cristiana, Chiesa di Dio, corpo del Cristo e tempio vivo dello Spirito. In essa si entra con il battesimo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. I carismi, che sostengono la sua vita e la sua missione, sono “operazioni” del Padre, “ministeri” del Signore Gesù, “doni” dello Spirito Santo. Davanti al Mistero Trinitario il discorso umano è un povero balbettare e volentieri cede il posto al silenzio e all’adorazione. Anche i mistici, che nella contemplazione hanno una conoscenza di Dio più perfetta di quella ordinaria, non riescono ad esporla come vorrebbero; lasciano intuire qualcosa delle meraviglie intraviste più con la loro personale trasformazione che mediante tentativi di raccontare; possono solo dire: «Non si trova parola che suoni adeguata; nessun pensiero può mai giungervi, nessuna mente allargarsi fin là, tanto supera il tutto; come è vero che Dio non può esser spiegato mai»” Ogni parola rimane al di sotto della realtà, anche se indica la giusta direzione” . Davanti al mistero della Trinità c’è solo la fede e il silenzio. Ma la Trinità è una luce che dà significato e bellezza a tutto, sebbene in se stessa non possa essere fissata, perché troppo intensa. In Cristo e nella sua Chiesa Dio ha dato se stesso, come egli è, Padre e Figlio e Spirito Santo. L’analogia dell’amore Sarebbe ingenuità e presunzione cercare una chiarezza completa. Tuttavia un barlume di luce può venire attraverso la debole, ma preziosa analogia dell’amore umano, che comporta sempre distinzione e comunione di persone, in quanto è trasferire se stesso nell’altro, riporre in lui le ragioni del vivere, la propria vita più vera. «Se vedi la carità, tu vedi la Trinità». La carità divina in quanto donazione infinita senza riserve è il Padre; in quanto accoglienza attiva è il Figlio; in quanto perfetta unità di colui che dona e di colui che accoglie è lo Spirito Santo. «Ecco sono tre: l’Amante, l’Amato e l’Amore». Gesù rivela la Trinità La nostra riflessione sulla vita di Gesù e su quanto Egli ci ha rivelato su Dio conducono alla scoperta sorprendente che Dio non è solitudine, è amore, comunione, relazione di tre persone: Padre, Figlio e Spirito Santo. E’ un mistero oscuro, ma che illumina tutto e a tutto dà significato. Il mistero della vita intima di Dio si rende accessibile attraverso la storia di Gesù, perché in essa sono coinvolti Padre, Figlio e Spirito Santo, ciascuno con un suo ruolo proprio. Gesù riceve il battesimo nelle acque del Giordano ed ecco la voce del Padre presentarlo al mondo e lo Spirito scendere su di lui, per sostenerlo nella missione. Gesù compie esorcismi e miracoli: è il regno del Padre che giunge con la forza dello Spirito. Gesù prega ed è esultanza nello Spirito Santo che si leva verso il Padre. Gesù si consegna volontariamente nelle mani dei peccatori e va liberamente incontro alla morte; ma è il Padre che per primo lo consegna, gli ispira amore per i peccatori e misteriosamente “soffre” per la sua passione e per il peccato degli uomini; ed è lo «Spirito eterno» (Eb 9,14), che Cristo riceve dal Padre, a trasformare la croce in sacrificio redentore. Infine, Gesù risorge vittorioso dalla morte per virtù propria, come Signore e Salvatore; ma è il Padre che lo fa risorgere, donandogli in modo nuovo lo Spirito Santo, perché possa a sua volta comunicarlo agli altri e rigenerarli come suoi fratelli e figli di Dio. Il Padre risuscita il Figlio, il Figlio è risuscitato e rivive, lo Spirito è la potenza della risurrezione: «Il Figlio da sé non può far nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa... Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi vuole» (Gv 5,19.21). Fede trinitaria La fede cristiana fin dalle origini professa il monoteismo trinitario, escludendo da una parte il politeismo e dall’altra il monoteismo rigido; ma, per trovare un’espressione linguistica accurata e precisa, ha impiegato molti secoli; anzi, si può dire che la ricerca continua ancora, perché l’intelligenza del mistero, per quanto inadeguata e debolissima, risulta sempre ardua da formulare. Gli autori ispirati non erano degli studiosi, non hanno elaborato una dottrina, non l’hanno trasmesso con ragionamenti o formule. Vi fu un processo di maturazione nella preghiera e nella riflessione, un ricordare i gesti e le parole di Gesù e dei suoi discepoli, un approfondimento graduale. E così si giunse a comprendere che Dio si manifestava nel culto, nell’Eucaristia, nella preghiera come Padre-Figlio-Spirito, che chiama tutti gli uomini alla salvezza e all’unità nel Verbo incarnato, Gesù Cristo salvatore. Le diverse cristologie hanno determinato la concezione di Dio. Se si vedeva Gesù come il profeta più grande, il Messia, l’uomo scelto per una grande missione di salvezza poteva bastare la visione del Dio della tradizione biblica, ma se si guardava a Gesù come il Logos, che preesiste in Dio, quella visione non bastava più. Bisognava quindi non abbandonare, ma prolungare il monoteismo biblico e vederlo alla luce dell’incarnazione e del Verbo. Già per Colossesi ed Efesini Gesù è “immagine del Dio invisibile”, nel quale “tutto è stato creato” ( Col 1, 15-16 ) e in lui “dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità” ( Col 2, 9). Nell’Apocalisse Gesù, è “ colui che è il testimonio fedele, il Primo nato dai morti, il Principe dei re della terra” (Ap 1, 5 ). E dice di sé “Io sono l’Alfa e l’Omega… Colui che è, che era, che viene, l’Onnipotente” (Ap 1, 8 ) e anche : “ Io sono il Primo e l’Ultimo, il Vivente” ( Ap 1, 17 ) e ancora : “ Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine “ ( Ap 22, 13 ) . Lo Spirito è inseparabile in questa partecipazione alla divinità; è lo Spirito che invia il messaggio alle sette chiese e ispira la Chiesa nella sua ultima preghiera : “Lo Spirito e la Sposa dicono: Vieni“ ( Ap 22, 17 ). La fede trinitaria venne trasmessa anche con immagini, come per esempio la discesa di Gesù dalla condizione divina fino alla morte in croce (Fil 2, 6-11 ) o lo stare dell’Agnello assiso nel trono celeste con l’Antico dei giorni. La dottrina trinitaria Le formule che esprimono con esattezza la concezione trinitaria hanno assunto la loro forma definitiva e ortodossa nel corso del secoli IV e V ed è stata opera di teologi e di Concili. Sin dall’inizio ci furono formule trinitarie, legate al battesimo che venivano pronunziate durante le tre immersioni, fatte “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt 28, 19). Tuttavia nei primi tre secoli della cristianità il vocabolario trinitario rimaneva sfumato. E circolavano anche eresie, come quella di un certo Prassea, che agli inizi del 200, parlava di monarchia del Padre e fu combattuto da Tertulliano (150230 ), che per la prima volta usa una parola che avrà fortuna, “trinitas” (Trinità ). L’eresia più pericolosa ed estesa fu quella di Ario, un prete di Alessandria ( morto verso il 336 ), che vedeva il Logos come divino solo in senso figurato. Secondo Ario, il Logos sarebbe una creatura unica nel suo genere, creata prima dell’universo, per mezzo di Lui Dio avrebbe creato il mondo, incarnata nell’uomo Gesù, e sua anima, sarebbe il redentore degli uomini. Questa dottrina che di diffuse rapidamente minacciava il cuore stesso della fede. Ad Ario rispose il Concilio di Nicea nel 325, che adottò il Credo, che nella forma più elaborata datagli dal II Concilio di Costantinopoli, nel 381, è quello che recitiamo nei giorni festivi, durante la Santa Messa. In esso si dice che il Figlio è “homoousios” cioè della stessa “ousia” del Padre. Il termine greco “ousia” non è traducibile nelle lingue moderne noi lo rendiamo, non proprio esattamente, con “essenza” o “sostanza o “natura”. Significa che “l’essere” del Padre e del Figlio è uno solo e non sono due. La “homoousios” del Verbo e del Padre completava bene l’asserzione dei teologi che parlano di “periconesi” o “circuminsessio”, ossia affermano che il Padre, il Verbo e lo Spirito sono l’uno nell’altro a seguito di un eterno movimento mediante il quale essi comunicano l’uno all’altro ( per motivo dell’unità della natura il Padre sta tutto nel Figlio e nello Spirito, il Figlio tutto nel Padre e nello Spirito, lo Spirito tutto nel Padre e nel Figlio ). Il Concilio di Costantinopoli poi proclamò che lo Spirito è come il Verbo, “Signore” e “dà la vita”, che il Figlio è “generato” dal Padre e lo Spirito Santo “procede” dal Padre e “con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato”. Nacque un dibattito sul vocabolario: come distinguere nella Trinità ciò che è comune ai Tre e ciò che è proprio di ciascuno. I greci disponevano di una vasta scelta di termini. Di essi “ousia” e “phisis” furono riservate a ciò che è comune in Dio, “prosopon” ( che indicava la maschera da teatro, la personalità, la persona ) e “hypostasis” (ipostasi ) a ciò che è proprio di ciascuno dei tre. A poco a poco anche i latini adottarono un vocabolario analogo: una sola “sostanza” o “essenza” e tre “persone”. Da qui la formula lapidaria dei nostri catechismi: “ un solo Dio ( essenza, sostanza ) in tre persone”. I termini ormai erano chiari, ma non mancarono in seguito eresie e ci furono anche altre precisazioni di Concili, come quelle del Concilio di Efeso che nel 431 rifiutò la dottrina di Nestorio, secondo cui in Cristo ci sarebbero due soggetti, uniti moralmente: il Verbo e l’uomo Gesù., mentre invece il Verbo si è fatto uomo ed è una sola persona. E di Calcedonia nel 451 che condannò i Monofisiti, i quali sostenevano che nell’incarnazione la natura umana viene assorbita da quella divina. Sempre poi ci furono studi sulla Trinità. Per esempio S. Agostino di Ippona (354-430 ) scrisse sulla Trinità ben 15 volumi. Le formule trinitarie, proposte con autorità dal magistero ecclesiastico, mettono in evidenza sia l’uguaglianza e l’opera comune delle persone divine sia l’ordine reciproco e dinamico tra di loro. Una delle più complete e analitiche è quella del concilio di Firenze, nell’anno 1442, che riportiamo quasi integralmente: «Un solo, vero Dio, onnipotente, immutabile e eterno, Padre, Figlio e Spirito Santo; uno nell’essenza, trino nelle persone, Padre non generato, Figlio generato dal Padre, Spirito Santo procedente dal Padre e dal Figlio... Queste tre persone sono un solo Dio e non tre dei, poiché dei tre una sola è la sostanza, una l’essenza, una la natura, una la divinità, una l’immensità, una l’eternità, e tutto è uno, dove non si opponga la relazione. Per questa unità il Padre è tutto nel Figlio, tutto nello Spirito Santo; il Figlio è tutto nel Padre, tutto nello Spirito Santo; lo Spirito Santo è tutto nel Padre, tutto nel Figlio... Tutto quello che il Padre è o ha, non lo ha da un altro, ma da se stesso, ed è principio senza principio. Tutto ciò che il Figlio è o ha, lo ha dal Padre, ed è principio da principio. Tutto ciò che lo Spirito Santo è o ha, lo ha dal Padre e dal Figlio insieme. Ma il Padre e il Figlio non sono due principi dello Spirito Santo, ma un solo principio, come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo non sono tre principi della creazione, ma un solo principio». Nel Catechismo della fede cattolica Il Catechismo della Chiesa Cattolica presenta la dottrina della Trinità in particolare nel numeri 232-267. E termina con la seguente breve sintesi: Il Mistero della Santissima Trinità è il Mistero centrale della fede ed della vita cristiana. Soltanto Dio può darcene la conoscenza, rivelandosi come Padre, Figlio, Spirito Santo. (261 ) L’Incarnazione del Figlio di Dio rivela che Dio è il Padre eterno e che il Figlio è consustanziale al Padre, cioè che in lui e con lui è lo stesso unico Dio ( 262 ). La Missione dello Spirito Santo, che il Padre manda nel nome del Figlio e che il Figlio manda “dal Padre” ( Gv 15, 26), rivela che Egli è con loro lo stesso unico Dio . (263 ) Lo Spirito Santo procede primariamente dal Padre e, per il dono eterno che il Padre ne fa al Figlio, procede dal Padre e dal Figlio in comunione ( 264 ). Attraverso la grazia del Battesimo “nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” siamo chiamati ad aver parte alla vita della Beata Trinità, quaggiù nell’oscurità della fede, e, oltre la morte, nella luce eterna. ( 265 ) La fede cattolica consiste nel venerare un Dio solo nella Trinità, e la Trinità nell’Unità, senza confusione di persone né separazione della sostanza: altra infatti è la Persona del Padre, altra quella del Figlio, altra quella dello Spirito Santo, ma unica è la divinità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, uguale la gloria coeterna la maestà. ( Dal Simbolo “quiqunque” : 266 ) Inseparabili nella loro sostanza, le persone divine sono inseparabile anche nelle loro operazioni. Ma nell’unica operazione divina, ogni persona manifesta ciò che le è proprio nella Trinità, soprattutto nelle missioni divine dell’Incarnazione e del dono dello Spirito Santo . ( 267 ) Partecipi alla vita trinitaria La Trinità è il mistero di Dio; ma è anche il segreto più profondo della vita dell’uomo. L’uomo, creato a immagine di Dio è chiamato a partecipare alla sua vita nell’amore. Per noi uomini la Trinità è l’origine, il sostegno, la direzione e la meta del nostro cammino. Siamo creati a sua immagine e chiamati a partecipare alla sua vita di amore. Il Signore Gesù, quando prega il Padre, perché “tutti siano uno... come anche noi siamo uno” (Gv 17,21-22), mettendoci davanti orizzonti impervi alla ragione umana, ci suggerisce una certa similitudine tra l’unione delle persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nella carità. Questa similitudine manifesta che l’uomo, il quale in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa, non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé». Un discorso analogo va fatto per tutte le realtà sociali, dalle piccole comunità ai popoli: anch’esse possono svilupparsi solo nella comunicazione reciproca, libera e rispettosa. L’impegno cristiano nella storia mira a realizzare la più grande libertà nella più grande solidarietà, evitando da una parte la solitudine dell’individualismo e dall’altra l’oppressione del collettivismo. Esso riserva un’attenzione privilegiata alla famiglia, riflesso della comunione trinitaria, esperienza primaria della reciprocità, in cui la persona vive e cresce. La Chiesa, da parte sua, deve porsi come immagine viva e concreta della Trinità, edificandosi come un solo corpo con molte membra, nella comunicazione incessante dei fedeli e delle loro varie aggregazioni. La Trinità è il mistero di Dio; ma è anche il segreto più profondo della vita dell’uomo.