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Raggi
Titolo originale: Old Herbaceous.
A Novel of the Garden
Traduzione dall’inglese di Franca Pece
I edizione novembre 2011
© 2011 Elliot Edizioni s.r.l.
via Isonzo 34, 00198 Roma
Tutti i diritti riservati
ISBN 978-88-6192-249-5
[email protected]
www.elliotedizioni.com
Reginald Arkell
MEMORIE DI UN VECCHIO
GIARDINIERE
Traduzione di Franca Pece
1
Era una mite mattina d’autunno, di quelle in cui la foschia dell’alba si tramuta in una pioggerella leggera e
l’acqua gocciola da ogni dove. Non era ancora una vera
avvisaglia dell’inverno, quanto piuttosto una dolce pausa fra due stagioni che danno sempre il meglio di sé: né
troppo caldo, come era stato; né troppo freddo, come
sarebbe stato.
Era il periodo dell’anno e l’ora del giorno che il vecchio prediligeva. Ormai non poteva più muoversi molto, e pertanto gli avevano approntato il letto vicino alla
finestra del cottage, e se ne stava seduto lì, a volte sveglio,
a volte appisolato, sognando tante cose.
Dal punto in cui era seduto, con la schiena appoggiata sui guanciali, vedeva il parco della Grande Villa. Non
come era un tempo, oh no… Certo, era doveroso riconoscere che scarseggiavano un po’ di mano d’opera, e
bisognava anche mettere in conto l’estate poco piovosa;
però quei ragazzi che vi lavoravano adesso avrebbero
dovuto fare meglio di così… Da giovane, lui aveva dovuto muoversi al doppio della loro velocità e non si dileguava quando l’orologio indicava la fine dell’orario di
lavoro. Ore e ore aveva passato a innaffiare dopo che il
sole era scomparso all’orizzonte… Ma oggi non era co7
sì: sarebbero state ore di straordinario, e dove trovare i
soldi per pagarle? Quindi il vecchio giardino non era più
lo stesso da quando non era lui a curarlo.
Tutto era diverso dai suoi tempi. Quei giovanotti guadagnavano di più, il che era certamente giusto; ma sembrava che più guadagnavano, meno si curassero di fare
le cose per bene. Per ottenere dei buoni risultati da un
giardino, bisogna avere l’orgoglio del proprio lavoro. Il
giardinaggio è un impegno a tempo pieno, come quello
del bovaro o del pastore; succeda quel che succeda, le
mucche devono essere munte; e chi mai penserebbe di
rimanersene a letto quando una pecora partorisce? In un
giardino, il lavoro si conforma alle stagioni: c’erano periodi più calmi, e allora ci si poteva permettere una pipata dietro il capanno degli attrezzi; ma quando il prato
cominciava a crescere e le erbacce rischiavano di sopraffarti, non c’era più tempo per sciocchezze del genere. Ore e ore aveva passato a innaffiare… Ma i giovani
di adesso…
Era questo il guaio al giorno d’oggi: sembrava che a
nessuno importasse più di niente. Quando lui era ragazzino, si vedevano i braccianti andare a passeggio con la
famiglia, vestiti degli abiti della festa, con l’aria di essere
loro i padroni della fattoria; si pavoneggiavano, orgogliosi del lavoro fatto durante la settimana, ridevano dei
solchi tutti storti del giovane Harry, palpeggiavano qualche spiga di grano appena spuntata per vedere se prometteva bene. Il bovaro si vantava con la moglie delle
proprie bestie; il pastore si accertava che non ci fossero
pecore ammalate. Poi, quando incontravano il proprietario della fattoria, si facevano una bella chiacchierata
amichevole e ciascuno aveva sempre qualcosa da imparare dagli altri. Bei tempi, quelli… Bei tempi.
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Era lo stesso per il parco della Villa. Quando era stato lui a occuparsene, non si era mai sentito un salariato
che lavorava per guadagnarsi la pagnotta; lui, il giardino,
lo sentiva suo, e così era, in un certo senso. Lo aveva imparato dal vecchio John Addis, il suo primo capo giardiniere. Era un tipo di poche parole, il vecchio John, di
poche parole e rispettoso… fino a un certo punto; perché quando su una cosa la pensava diversamente dalla
giovane Signora, non c’erano dubbi su chi comandasse.
«Molto bene, Addis» diceva lei «se credete che sia giusto fare così, non mi oppongo»; e quando si volevano
recidere dei fiori per i vasi della Grande Villa, si doveva
sempre chiedere prima il permesso al vecchio John. Oggi non era più così. Chiunque raccoglieva quello che voleva perché a nessuno importava più di niente…
Guardando fuori dalla finestrella, il vecchio vide che
la nebbiolina del mattino si era dissolta; era come se fosse stato sollevato un sipario di garza, consentendo di vedere ora nitidamente i particolari di una scena teatrale:
le dalie, non ancora scurite dalla prima brina; gli astri e
le petunie, che ancora formavano chiazze di colore contro un muro grigio; le bacche di un cotognastro simili a
un reggimento di soldatini di stagno in divisa di gala…
Nel sottobosco, i cespugli di nocciolo cominciavano
a ingiallire annunziando l’inizio dell’ultima cavalcata dorata dell’autunno; ben presto gli arbusti avrebbero aggiunto alla scena i loro fiori rossi e arancio, le bacche color corallo avrebbero luccicato dietro il fogliame vistoso
dell’evonimo e le grandi foglie della catalpa avrebbero
creato dei disegni surreali sull’erba umida. E le farfalle
avrebbero volteggiato ancora una volta attorno all’ultima foglia della buddleia, o cespuglio delle farfalle…
Era una scena leggiadra e assai inglese, che vedeva da
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oltre tre quarti di secolo. Si diceva che l’epoca dei grandi giardini privati fosse terminata, che tutto apparteneva
a tutti e niente a nessuno. Lui non la pensava così. Il mondo aveva avuto inizio con un giardino, e una cosa che aveva continuato a esserci per tutto quel tempo non finiva
tanto facilmente; o comunque, non prima della sua morte, e ciò che sarebbe successo dopo non lo riguardava.
Il giardino! Il vecchio chiuse gli occhi e lasciò vagare
i pensieri nel proprio passato denso di profumi; un viaggio lungo, quasi tutto in salita, ma aveva raggiunto una
meta, questo era certo. Aveva cominciato che era nessuno ed era diventato qualcuno quel giorno, quando gli era
stato chiesto di fare parte della giuria alla Mostra Floreale della contea. Il pranzo nel grande padiglione, lui
seduto al tavolo d’onore… Che bei tempi erano quelli…
Un giovane aveva la possibilità di farsi strada, di diventare qualcuno, se non aveva paura di lavorare e ci metteva della passione.
Bene, lui aveva tenuto duro ed era arrivato in cima.
Era rispettato, proprio così. Probabilmente i ragazzini
che ora lavoravano nel parco della Villa gli ridevano alle spalle e, quando credevano che non li sentisse, lo chiamavano “Vecchia Gramigna”, però non si prendevano
mai delle libertà. In fondo, lui era una specie di pianta
resistente, da ottant’anni era sulla breccia… Ma sì, che
si divertissero pure…
Quello era il bello della vecchiaia: non ci si arrabbiava per delle quisquilie e non ci si preoccupava del futuro. Il tempo era troppo breve per cose del genere. Lui
era ben sistemato nel suo cottage e nel libretto postale
aveva depositato abbastanza soldi da bastargli fino alla
fine; pagava ogni cosa di cui avesse necessità e pagava
quelli che facevano qualcosa per lui, e come erano con10
tenti di trovare i soldini sull’angolo della mensola del
camino il sabato mattina…
Per un uomo era un modo bello e degno di concludere la vita, e così sarebbe stato per lui…
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Un certo giovedì del mese di novembre del 1789 si inaugurò ciò che il quotidiano Morning Post definì “l’opera
più importante realizzata per la navigazione interna del
Regno”: il fiume Severn venne collegato al Tamigi con
un canale intermedio; con quaranta chiuse superava il
dislivello di 102,90 metri, e a quell’altezza attraversava
in galleria la collina di Saperton per 4315 metri, per poi
scendere, con ventisette chiuse, fino al Tamigi, nei pressi di Lechlade. La prima imbarcazione che compì quel
formidabile tragitto fu accolta da una folla enorme che
rispose al saluto di dodici salve di cannone con altrettanti urrà esultanti. Presso le cinque locande più importanti fu offerto un grande pranzo e la giornata si chiuse
col suono delle campane, un falò e un ballo.
“Per quanto riguarda il commercio interno del Regno
e la sicurezza delle comunicazioni in tempo di guerra”
concludeva il Morning Post “il collegamento del Tamigi
col Severn sarà sempre di enorme utilità…”.
Con buona pace della vanità dei pronostici umani, nel
giro di cinquant’anni la ferrovia aveva decretato la fine
del trasporto interno via acqua e dopo altri cinquant’anni il canale che univa il Tamigi al Severn era stato praticamente abbandonato.
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Ma negli anni Settanta dell’Ottocento non erano deprimenti pensieri sulla mutabilità e il decadimento delle
cose umane quelli che passavano nella mente dei ragazzini del villaggio, appollaiati sul ponte a schiena d’asino
a scambiare dubbie gentilezze con l’anziano custode della chiusa che viveva nell’insolita casetta. Il suo lavoro
era pressappoco una sinecura perché, nonostante il canale fosse ufficialmente ancora navigabile, trascorreva
anche una settimana tra il passaggio di una chiatta e la
successiva, e anche queste si limitavano a trasportare
carbone per le cittadine dei dintorni o a prelevare dei
sacchi d’orzo che un agricoltore locale aveva venduto alle distillerie di Bristol.
Così, il custode della chiusa, un vecchietto irascibile,
aveva tutto il tempo che voleva per battagliare con i suoi
giovani tormentatori mentre il canale si rassegnava malinconicamente a dimenticare le glorie passate.
Tra i monelli che dal ponte gettavano i sassi nell’acqua stagnante, ve n’era uno che non partecipava con l’entusiasmo degli altri alle schermaglie e ai dispetti. Come i
suoi compagni, anche lui indossava pantaloni di velluto
e scarponi chiodati scartati dai ragazzi più grandi, ma
aveva lineamenti più fini, e gambe scheletriche, di cui una
un po’ più corta dell’altra, conseguenza di un gioco rude
in cui aveva avuto la peggio. Le sue risposte al vecchio custode non erano impertinenti quanto quelle degli altri ragazzi, forse perché non poteva correre altrettanto velocemente; e anche quando una rara chiatta compariva superando lentamente la curva del canale, più del barcone
lo interessavano i giaggioli acquatici e i fior di cuculo che
di anno in anno invadevano il corso d’acqua sempre più
abbandonato.
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A quel punto del ricordo, il Vecchio Gramigna si agitava irrequieto tra i guanciali. Gli piaceva vagare con la
mente nel passato, specialmente lungo le sponde del canale, ma l’immagine di sé, così diverso dagli altri ragazzi,
si presentava ogni volta come elemento inquietante, perché era stato davvero diverso, e per un ottimo motivo.
Una mattina di maggio di circa ottant’anni prima,
aprendo la porta del suo cottage, la signora Pinnegar, la
moglie del bovaro, aveva ricevuto un colpo, e che colpo!
Là, sulla soglia, avvolto in una vecchia gonna di cotone,
c’era un bambino, un neonato. La signora Pinnegar, che
era donna di buon cuore e madre di sei figli, passò in rassegna le signorine del villaggio: parecchie erano “in attesa”, ma la signora Pinnegar, levatrice non ufficiale e
amica di tutte le famiglie, conosceva con precisione la
data del parto di ognuna e pertanto il dilemma non era
di facile soluzione. Da settimane non si vedevano zingari gironzolare per il villaggio… Da donna pratica qual
era, raccolse il fagotto che le fate avevano depositato alla sua porta, lo battezzò Herbert, in ricordo di uno zio
rimasto ucciso in Crimea, e si dedicò al bucato del lunedì. Quando si hanno sei bambini, uno in più non fa
differenza.
Com’è naturale, vi furono delle chiacchiere, ma gli arrivi inattesi non facevano grande notizia in un villaggio
inglese; l’incendio di un pagliaio o voci incontrollate sull’ingresso dei prussiani a Parigi erano molto più interessanti. Il piccolo Herbert si sistemò nella sua nuova casa;
le stagioni e gli anni si susseguirono; per legare i covoni
si cominciò a usare la nuova mietilegatrice…
Tuttavia, l’essere stato raccolto sulla soglia di una casa pregiudica un po’ l’immagine di una persona, soprattutto quando questa si fa strada e diventa qualcuno nel15
la comunità. È vero che ormai non c’era più nessuno che
gli rinfacciasse la sua nascita: erano morti tutti! I vecchi
vicini se n’erano andati all’altro mondo, ne erano arrivati dei nuovi, e non se ne trovava più neppure uno che
ricordasse qualcosa del passato. Molto presto se ne sarebbe andato anche lui, e a quel punto non sarebbero
rimaste che le case e il parco della Villa.
Che cosa strana! Uno pianta un albero, lo vede crescere, ne raccoglie i frutti e da vecchio siede all’ombra dei
suoi rami. Poi muore e ci si dimentica completamente di
lui, come se non fosse mai esistito… mentre l’albero continua a crescere e nessuno se ne meraviglia: è sempre stato lì, in quel posto, e sempre ci sarà. Tutti, prima o poi,
dovrebbero piantare un albero, fosse solo per conservarsi umili agli occhi del Signore.
Il Vecchio Gramigna non si poteva definire un uomo
religioso; si ricordava del Creatore soltanto nei momenti di grande apprensione, ma le occasioni erano rare e di
solito riguardavano le piante. La cura spirituale di un
essere umano era compito del parroco, ma un olmo affetto da necrosi era un altro paio di maniche… in tali
casi era il Capo Giardiniere a essere convocato per un
consulto, e ciò che Lui diceva di solito era legge.
La sua fondamentale mancanza di ortodossia era stata un cruccio per diversi pastori che si erano succeduti
alla guida della vecchia parrocchia, ognuno dei quali
aveva cercato, anche con l’astuzia, di prendere all’amo
l’anima di quel peccatore. Parecchi di loro avevano percepito che da qualche parte si celava un certo fervore
religioso, ma nessuno era riuscito a ottenere una conversione chiara e inconfutabile. Una cosa imbarazzante! Una volta, mentre si recava a officiare la funzione,
un giovane pastore assai zelante si era fermato a chiede16
re al vecchio se sapesse il significato del Venerdì Santo.
«Il Venerdì Santo?» fu la risposta. «Il Venerdì Santo è il
giorno in cui l’Onnipotente si aspetta che piantiamo le
patate».
A dire il vero, la faccenda della religione aveva disturbato non poco il Vecchio Gramigna durante gli ottant’anni in cui aveva trafficato con le cose terrene; ogniqualvolta aveva interpellato il Signore, l’aveva fatto con
la sicurezza assoluta di parlare con un suo pari, uno del
cui consiglio ci si poteva fidare nelle emergenze. Ma
quando si trattava di una vera emergenza? Non poteva
certo bussare alle porte del cielo a ogni piè sospinto, come si usa dire. In fin dei conti, non c’era mica solo lui al
mondo. Fu così che sviluppò gradualmente una specie
di ritrosia, di modestia eccessiva, che rischiò di porre fine per sempre a un rapporto molto cordiale, come succede quando uno che chiede in continuazione dei favori a un amico si rende improvvisamente conto di stare
forse esagerando.
Naturalmente, di quando in quando è lecito fare
qualcosa di sensazionale, fosse anche solo per dimostrare in modo tangibile i propri sentimenti. Per esempio,
quando la vecchia signora Pinnegar passò a miglior vita, lui le fece un funerale come non si era mai visto l’eguale nel villaggio; saccheggiò la serra finché non rimase neppure un fiore. L’aveva fatto per lei, e anche per il
Signore. Rivedeva la bara; o meglio, non riusciva a vederla tanto era coperta di gigli, garofani e orchidee. Dopo, si era sentito più sereno; ma era ancora in debito con
entrambi, e potevano stare certi che non si sarebbe dimenticato di dimostrarlo quando fosse arrivato il suo
momento…
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Messosi in tal modo l’animo in pace, il vecchio si abbandonò ai ricordi, ritornando col pensiero al ponte a
schiena d’asino e al ragazzino con i calzoni di velluto e
gli scarponi chiodati. Era più contento quando ripensava a quei giorni; ricordava meglio le persone di allora, ne
rivedeva il volto, ne sentiva la voce. Gli succedeva lo stesso con la Storia: nel corso del tempo erano successe tante cose che non gli sembravano avere grande importanza, ma se uno gli chiedeva di Alfredo il Grande o di Guglielmo il Conquistatore, sapeva rispondere, eccome!
Ricordava come fosse ieri il primo giorno alla scuola
del villaggio. La direttrice era un donnone formidabile
che metteva in corpo una paura del diavolo a tutti, compreso il parroco, che era presidente del consiglio di amministrazione e il mercoledì veniva a fare lezione di religione.
Si chiamava Mary Brain, una persona vigorosa dall’aspetto vigoroso che usava mezzi vigorosi per ottenere i risultati che avrebbe indiscutibilmente raggiunto. Mancava completamente di diplomazia; andava dritta al punto
senza ricorrere a stratagemmi o sotterfugi o tattiche superflue. No, lei proprio no! Sapeva dove voleva arrivare
e se chi le intralciava la strada non si toglieva di torno veniva calpestato senza pietà: uno schiacciasassi umano
provvisto di un senso della direzione perfetto. Il tipo di
donna tutta d’un pezzo di cui, come si usa dire, si è perduto lo stampo; il che è, naturalmente, una stupidaggine.
Non si era mai sposata, e capitò che una volta gliene
chiedesse la ragione uno studente universitario giovane
e impudente arrivato in barchino da Oxford alla ricerca
della vera sorgente del Tamigi. Mary Brain, che a quel
tempo era molto più giovane e molto più snella, si trovava in un campo erboso a cercare la prima fritillaria o
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“testa di serpente”. Si sedettero e parlarono per tutta la
lunga serata estiva, ma quando lui cercò di baciarla, lei
lo mandò per la sua strada, ovvero a scoprire la sorgente del Tamigi, appunto.
L’orgoglio ferito rese il giovane eloquente. «Il tuo
guaio» le disse «è che hai un aspetto troppo efficiente,
competente, abile. Decisamente terrorizzante! Ma perché porti quegli occhiali orribili?».
«Perché sono miope».
«Non è una buona ragione. Una ragazza con begli occhi non dovrebbe portare gli occhiali. Togliteli e buttali
nel fiume. Avanti, dai, buttali in acqua!».
Ammaliata dal dinamismo del giovanotto, Mary Brain
se li tolse, li piegò lentamente e… li buttò nel fiume. Ma
il suo insegnante di arte della seduzione non era ancora
soddisfatto.
«E adesso i capelli. Una pettinatura troppo pratica»
le disse, deciso.
«Cosa devo farne? Buttarli in acqua?» chiese Mary
con voce amabile.
Negli occhi dello studente era comparso un bagliore
pericoloso. «Ti mostro io cosa devi farne» le rispose.
E lì, sull’argine del fiume Iris, le arruffò le trecce attorcigliate strettamente fino a quando Mary non ebbe
l’aspetto di una che fosse stata trascinata per i piedi attraverso una siepe. Il giovanotto indietreggiò di un passo e giudicò il suo operato.
Ne parve soddisfatto.
«Molto meglio» disse. «Adesso sei meno rigida. Continua così! Uno di questi giorni tornerò».
Un colpo di pagaia vigoroso lo portò oltre la curva, e
scomparve.
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Mary Brain ritornò alla scuola. Acquistò un nuovo paio
di occhiali e decise di essere più amabile e più competente di prima. Non si sposò mai, ma ogni tanto la si vedeva con i capelli un po’ arruffati, come se qualcuno glieli avesse spettinati passandovi in mezzo le dita.
Non avendo figli propri, si occupava con dedizione
dei bambini che le venivano affidati, e di quando in
quando succedeva che uno fosse coccolato in modo speciale, ma non si trattava obbligatoriamente del più intelligente o del più somaro; capitava che due occhi azzurri
le sorridessero timidamente dal terzo banco e le difese di
Mary crollavano in un battibaleno; da quel momento, il
piccolo, disorientato, si trovava a disposizione una seconda casa e una seconda madre, che di solito si rivelavano molto più piacevoli di quelle a cui apparteneva di
diritto.
Fu così che il piccolo Herbert, entrando guardingo e
timoroso come un gattino impaurito in quel mondo estraneo e freddo, scoprì un paradiso meraviglioso in cui finalmente era importante per qualcuno. A volte, in passato, l’istinto materno di Mary aveva provocato gelosie e illazioni di favoritismi, ma dato che a nessuno importava
cosa facesse un marmocchio orfano al di fuori dell’edifi21
cio scolastico, non ci furono serpenti a drizzare il capo
nel suo paradiso terrestre.
Quasi ogni sera d’estate, si videro quei due camminare lungo il terrapieno del vecchio canale. Di quando
in quando si fermavano a raccogliere un fiore selvatico
che li colpiva in modo particolare e poi parlavano fitto
fitto delle sue caratteristiche. A volte lo sezionavano e lo
studiavano pezzo per pezzo. Mary Brain era la più esperta conoscitrice di fiori selvatici della contea e si giunse al
punto che la gente cominciò a dire che “quello che il piccolo Herbert ignora dei fiori selvatici non vale la pena
di essere saputo”.
Il vecchio canale era il terreno di caccia preferito per
due ragioni: innanzitutto, perché uno poteva camminare a proprio piacimento lungo la sponda senza che un
contadino arrabbiato gli inveisse contro. A quel tempo,
i contadini erano dei grandi egoisti; non sapevano che
farsene dei fiori selvatici – anzi, per la verità, li odiavano
– ma non permettevano agli altri di goderne. Se uno si
azzardava a cogliere una margheritina nell’angolo di un
campo di erba da taglio, piantavano delle grane come se
gli avessero incendiato un mucchio di fieno. È vero che
erano assillati dai bracconieri e dagli intrusi, ma un po’
di buonsenso non avrebbe nuociuto, che diamine!
Dopo un paio di quegli incontri, il piccolo Herbert
cominciò a detestare tutti i contadini. Lo feriva nell’orgoglio che qualcuno gli inveisse contro gridando dall’altra parte del campo, e soltanto perché aveva raccolto
una primula. Per lui, ogni erbaccia era un fiore, mentre
per i contadini ogni fiore era un’erbaccia, e quindi non
c’era speranza di comprensione reciproca. Decise solennemente che, una volta terminati gli studi, mai e poi
mai sarebbe andato a fare il contadino; piuttosto, avreb22
be accettato di ripulire i fossi lungo il ciglio delle strade,
oppure un lavoro da tuttofare o qualsiasi altra cosa, ma
niente lavoro nei campi per lui, nossignore!
La seconda ragione era che il vecchio canale offriva
una meravigliosa abbondanza di vegetazione. Perfino allora, le rare chiatte dovevano farsi strada fra bordure di
giaggioli acquatici, eliotropi selvatici e una profusione
lussureggiante di decine di altre specie. Bastava sfiorare
l’erba col piede perché il profumo della menta acquatica vi stordisse; vi erano i fior di cuculo così eleganti, e dal
colore particolare; quanto poi ai non-ti-scordar-di-me
selvatici…
A volte il piccolo Herbert faceva delle domande davvero difficili alla sua compagna. Qual era il fiore che le
piaceva di più? Lui non aveva dubbi sulla propria scelta, ma voleva sentirla approvare da un’autorità superiore. Dopo avere formulato la domanda, si abbracciava
stretto fremendo deliziosamente in attesa della risposta,
perché lui sapeva, così come lei sapeva, che non c’era
nessun fiore che reggesse il confronto con i non-ti-scordar-di-me. Quelli coltivati non erano niente paragonati
con quelli selvatici. Quando avrebbe avuto un giardino
tutto suo, avrebbe scavato una buca, l’avrebbe riempita
d’acqua e avrebbe piantato non-ti-scordar-di-me selvatici tutto attorno al bordo.
Era il colore che lo lasciava a bocca aperta: un blu
senza eguali. Il piccolo Herbert non aveva ancora visto
le genziane, e neppure la bella ipomoea acuminata, ma
con la sicurezza serena tipica della gioventù era più che
certo della sua preferenza; sarebbe venuto il momento
in cui l’avrebbe cambiata, ma l’avrebbe fatto a malincuore e con tante scuse nostalgiche al vecchio canale e
ai suoi non-ti-scordar-di-me selvatici.
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A parte i fiori, la flora e la fauna della campagna non
lo interessavano affatto. I nidi d’uccello, forse, ma soltanto da guardare. Un giorno ne aveva scoperto uno insolito in mezzo a un cespuglio di biancospino; non potendo arrivarci, aveva raccolto un bastone ricurvo e abbassato un angolo del nido: era pieno di uccellini nati
da poco e uno cadde giù. Pieno di rimorso, il piccolo
Herbert seppellì il corpicino implume. E non andò più
a caccia di nidi.
Aveva il terrore dei contadini, ma non era preoccupato quando usciva in convoglio, come si usa dire. Mary
Brain veleggiava in acque nemiche come il capitano di
una nave corsara dei tempi passati, a vele spiegate e con
la fiancata armata di cannoni pronti a far fuoco. Povero
il contadino che ostacolava le sue attività abusive! Le ginocchia del piccolo Herbert battevano come nacchere,
pur sapendo che dallo scontro sarebbero usciti a bandiere spiegate. Per equità, bisogna dire che i contadini
non andavano in cerca di guai: sollevavano il cannocchiale da marina agli occhi e aspettavano occasioni più
propizie per aprire il fuoco.
Di conseguenza, i due malfattori vagavano per la
campagna in cerca di avventure insolite e nuove: a volte
era un’orchidea selvatica di una specie sconosciuta, altre
volte era un giusquiamo nefasto con le foglie vischiose ricadenti sopra un mucchio di rifiuti. E mentre andavano
allegramente a zonzo come una coppia di vecchi amiconi, l’insegnante riempiva la mente ricettiva dell’allievo
con una provvista di notizie e informazioni che gli sarebbero state utilissime al termine del periodo di apprendistato.
Tutto ciò potrebbe indurre a credere che il giovane
Herbert stesse diventando un cocco di mamma, uno
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smidollato, con quel piede zoppo e sempre attaccato alle sottane dell’insegnante. Un paio di monelli si erano
fissati su quell’idea e, credendo di potersi tranquillamente divertire alle sue spalle, si procurarono un grembiule da donna e fecero per legarglielo addosso. Non ci
provarono mai più: per la prima volta nella vita, il piccolo Herbert reagì con un’ira fredda che li terrorizzò.
Non ci furono né calci né lanci di sassi: soltanto un bambino dal volto pallidissimo e con l’espressione talmente
sprezzante che all’improvviso il gioco non fu più divertente. Brancolando fra i suoi sconosciuti antenati, aveva
trovato un cavaliere coraggioso, e il ragazzino cominciò
a formarsi una personalità. Forse, dopo tutto, c’era un
qualche vantaggio a essere figlio di ignoti.
La vena di eccentricità emerse sotto una miriade di
aspetti, come pattinare sul canale, per esempio. A quei
tempi, pattinare non era un passatempo per poveri, non
tanto per il costo dei pattini, quanto per una questione
di ceto, che non permetteva alle classi superiori e a quelle inferiori di volteggiare sul ghiaccio nella stessa località.
Tranquillamente e senza strepito, il piccolo Herbert superò tutte le convenzioni sociali. Si procurò un vecchio
paio di pattini, corresse l’imperfezione della gamba zoppa attaccando un pezzo di legno alla suola dello scarpone sinistro e in mezz’ora imparò da solo tutti i trucchi
per rimanere in equilibrio e acquistare velocità. Quando
era sul ghiaccio diventava una creatura diversa, come se
gli spuntassero le ali e il bambino che era si trasformasse in una rondine in volo.
Il vecchio canale ebbe un ruolo importante anche in
quella circostanza: all’inizio dell’inverno, i primi a gelare
erano i corsi d’acqua che scorrevano in mezzo ai campi,
ma con l’avanzare della stagione fredda anche il ghiaccio
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che si formava sul canale reggeva, e se non ci fossero state le chiuse si sarebbe potuto pattinare dal Tamigi al Severn senza fermarsi. L’ultima acqua a gelare era quella
sotto i ponti a schiena d’asino, e i più prudenti uscivano
zampettando dal tratto ghiacciato e passavano rasente il
ponte aspettando che qualche spirito più audace facesse
da battistrada.
Il piccolo Herbert fu sempre il primo a passare: prendeva una bella velocità, univa i piedi e l’abbrivio lo portava sano e salvo oltre il ponte; un’impresa pionieristica
di altissimo livello che richiedeva abilità, capacità di giudizio e coraggio, perché il minimo errore lo avrebbe fatto finire sotto lo strato di ghiaccio senza alcuna possibilità di scampo. I vecchi del luogo, che ricordavano incidenti del passato, trattenevano il respiro, ma il ragazzino
non commise mai errori e le sue imprese durante i mesi
del Grande Freddo divennero leggendarie nel villaggio.
Il successo, in qualunque campo lo si ottenga, è sempre stimolante, e il giovane Herbert uscì da quel duro inverno fortificato nel corpo e nel carattere, più sicuro di
sé. Quando il ghiaccio si sciolse, fu un ragazzino molto
diverso quello che svitò i pattini e gettò via il pezzetto di
legno che per un paio di mesi lo aveva portato allo stesso
livello dei suoi compagni. Ora sapeva che, all’occasione,
valeva quanto loro. Se bastava un pezzetto di legno messo sotto la scarpa a cambiare tanto le cose, allora non aveva più nulla da temere: ciò che aveva fatto sul ghiaccio,
poteva farlo in qualsiasi altro luogo.
Quanto agli altri ragazzi, i figli degli agricoltori che
ogni anno sfoggiavano abiti nuovi e frequentavano le
scuole private non lo mettevano più in soggezione: li
aveva visti che lo guardavano, desiderando di saper pattinare bene quanto lui e timorosi di essere i primi a pas26
sare sotto i ponti! Bene, se il prossimo inverno avesse
portato una bella gelata, avrebbe mostrato loro qualche
altro giochetto.
Dal che si evince che il piccolo Herbert si stava liberando del complesso di inferiorità come una serpe si libera della pelle al sole primaverile. E non gli ritornò mai
più o, perlomeno, non intensamente; perché il Vecchio
Gramigna, sonnecchiando fra i guanciali, di quando in
quando percepiva la fitta dolorosa del vecchio nemico.
Non era stato uno scherzetto entrare nel mondo come figlio di nessuno, nonostante, a quanto pareva, l’inconveniente gli avesse offerto una specie di vantaggio nel
renderlo in qualche modo diverso dagli altri. Se fosse
stato uno dei tanti ragazzetti del villaggio, sarebbe andato anche lui a lavorare nei campi e a spingere l’aratro
per tutta la vita. Non si sarebbe mai seduto a tavola con
un vero signore in carne e ossa, parlandogli da uomo a
uomo. Non sarebbe mai diventato un giardiniere rispettabile…
Che strana piega aveva preso la vita; non si sa mai cosa
sia meglio per noi, in prospettiva, mentre è proprio il lungo termine che è importante. Vedendolo ridotto com’era
adesso, quei giovanotti là fuori avrebbero pensato che
non avesse mai viaggiato, che non si fosse mai allontanato molto dal villaggio; e invece avrebbero dovuto vederlo
nel suo momento di gloria.
Un raggio di sole entrò da una finestra del cottage e
illuminò un trofeo dorato vinto a un’esposizione, facendolo risplendere come un’orifiamma. Il Vecchio Gramigna sorrise felice. Già, quei giovanotti avrebbero dovuto vederlo nel suo momento di gloria…
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Indice
Memorie di un vecchio giardiniere
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Note
177
Biografia di Reginald Arkell
179
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