Paolo Tonalini
Notaio
Il trasferimento
della
proprietà fondiaria
Le nuove imposte di registro
Le agevolazioni per l’acquisto dei terreni agricoli
Il passaggio generazionale della proprietà fondiaria
Il patto di famiglia
Associazione Provinciale della Proprietà Fondiaria
Pavia
Villa Botta Adorno – Torre d’Isola
14 aprile 2014
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Paolo Tonalini è notaio in Stradella (Pavia) e consigliere del Collegio Notarile di Pavia.
Si è laureato in giurisprudenza all'Università di Pavia con una tesi in diritto tributario.
Dopo la laurea ha frequentato l'Accademia Navale e ha prestato servizio come Ufficiale nella
Marina Militare.
Prima della nomina a notaio ha esercitato per alcuni anni la professione di avvocato.
E’ giornalista pubblicista e dal 1994 cura una rubrica settimanale sull'applicazione della legge
nella vita di tutti i giorni. Il libro "Fatti Vostri", che raccoglie i suoi articoli, è giunto all'ottava
edizione, di cui una realizzata per Intesa SanPaolo e una per il Credito Artigiano. Ha inoltre
realizzato per la Camera di Commercio di Pavia pubblicazioni sulla società a responsabilità
limitata (2003), sull'impresa agricola (2005) e sull’acquisto della casa (2010), per la F.I.M.A.A.
di Pavia una guida all'acquisto della casa "sulla carta" (2006), per la Banca Nazionale del
Lavoro un manuale sull'acquisto della casa e il mutuo (2007) e per la Provincia di Pavia libri
sull'azienda di famiglia (2007), sulla portabilità del mutuo (2008) e sull’acquisto della casa
(2009). Recentemente ha pubblicato i manuali “La compravendita del fondo agricolo” (Edizioni
FAG Milano), “Manuale della compravendita immobiliare” (Edizioni FAG Milano), “Comprare
la Casa”, “Eredità e donazioni”, “Le imposte sulla compravendita immobiliare” e “IMU –
Guida pratica”, tutti disponibili anche in formato e-book.
Negli ultimi anni ha tenuto corsi di aggiornamento per il personale direttivo di istituti di credito,
per ordini professionali e associazioni di categoria, ed è stato relatore in numerosi convegni.
Potete trovare maggiori informazioni sul sito www.tonalini.it.
PAOLO TONALINI
Notaio
27049 STRADELLA (PV) – Via Dallagiovanna 16
Telefono 0385 48564 – Fax 0385 43443
27100 PAVIA – Viale Cesare Battisti 17
Telefono 0382 530207 – Fax 0382 306455
e-mail: [email protected]
Per altre informazioni e aggiornamenti
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Indice sommario
Il fondo agricolo
7 7 7 8 10 10 11 11 11 12 13 14 14 16 16 17 19 19 19 21 23 25 26 27 30 30 30 31 31 32 33 33 33 34 35 35 37 37 38 40 La compravendita
I terreni agricoli
I fabbricati rurali
Imposte e agevolazioni
Nuove imposte di registro dal primo gennaio 2014
Le imposte per chi acquista terreni agricoli
Il valore normale dei terreni
L’imprenditore agricolo professionale (i.a.p.)
Il coltivatore diretto
Le società agricole
La società semplice agricola
Le agevolazioni p.p.c.
La decadenza dall’agevolazione p.p.c.
Acquistare un fondo affittato
L’iscrizione previdenziale e assistenziale
La prelazione agraria
Due diritti di prelazione
Compravendita e altri contratti
Chi ha diritto alla prelazione
L’oggetto della prelazione
La prelazione dell’affittuario
La prelazione del confinante
Quando il fondo è confinante
Il passaggio generazionale
Azienda e fondo agricolo
Il passaggio generazionale dell’azienda
Il passaggio generazionale dei fondi agricoli
Altre imposte sugli immobili
Le aliquote dell'imposta di successione e donazione
Il patto di famiglia
Il patto di famiglia
I legittimari e la successione necessaria
Gli eredi necessari e la parte disponibile
Il divieto dei patti successori
Contenuto e oggetto del patto di famiglia
La forma del patto di famiglia
I partecipanti al patto di famiglia
La liquidazione dei legittimari
Le tasse sul patto di famiglia
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Il fondo agricolo
La compravendita
Il trasferimento della proprietà dei fondi agricoli, siano essi piccoli appezzamenti di terreno o
intere tenute, è regolato da normative specifiche, spesso molto complesse.
Accanto agli aspetti comuni a tutte le compravendite immobiliari (le verifiche sulla proprietà e
libertà da ipoteche, pignoramenti e altri vincoli, la regolarità edilizia e catastale dei
fabbricati, la destinazione prevista dagli strumenti urbanistici, le modalità di pagamento del
prezzo e le recenti norme sugli impianti e sulla certificazione energetica degli edifici), occorre
infatti tenere conto delle regole peculiari sulla prelazione agraria e sui fabbricati rurali, nonché
dell'eventuale presenza di diritti particolari o titoli all'aiuto.
E' inoltre necessario conoscere a fondo le norme che disciplinano le figure del coltivatore diretto
e dell'imprenditore agricolo professionale, e le regole sui diversi tipi di società agricole, come
risultanti dalla riforma del 2004, per verificare con precisione la possibilità di godere delle diverse
agevolazioni fiscali, dalla piccola proprietà contadina (p.p.c.) al compendio unico.
Tutti questi aspetti sono strettamente connessi tra di loro, ed è necessario tenerne conto già dalla
fase della contrattazione preliminare.
Ricordiamo anche che le definizioni fornite dalle varie norme che regolano le diverse materie
sono spesso differenti tra loro, perché dettate dal legislatore in momenti storici diversi, e con
diverse finalità. Un tipico esempio è la definizione di coltivatore diretto, che non coincide nella
normativa fiscale e in quella relativa al diritto di prelazione agraria.
Per tutte queste ragioni, è opportuno farsi assistere da chi è abituato a trattare queste materie,
spesso trascurate da chi non vive a stretto contatto con il mondo agricolo.
I terreni agricoli
Il fondo agricolo, o fondo rustico, è costituito anzitutto dal terreno destinato all’attività
agricola, ma comprende anche le sue eventuali pertinenze, cioè i manufatti o fabbricati posti al
servizio dell’attività agricola.
Nel concetto di fondo agricolo rientrano dunque i terreni di qualsiasi genere destinati alla
coltivazione agricola, alla silvicoltura o all’allevamento degli animali. Possono inoltre esservi
compresi i fabbricati strumentali all’attività agricola, come per esempio le costruzioni destinate al
ricovero degli attrezzi agricoli o alla conservazione dei prodotti agricoli dopo il raccolto, le serre,
le stalle, ma anche i fabbricati destinati ad abitazione dell’imprenditore agricolo o dei suoi
dipendenti.
In linea di principio, quasi tutti i terreni si prestano alla coltivazione agricola, ma per molti aspetti
assume rilevanza anche la destinazione prevista negli strumenti urbanistici, cioè nei documenti
predisposti dagli enti locali territoriali per pianificare l’utilizzo del territorio. La destinazione
urbanistica “agricola” risulta fondamentale, per esempio, sia al fine dell’applicazione delle
agevolazioni fiscali sull’acquisto dei fondi agricoli, sia nell’ambito dei requisiti previsti per
l’esercizio del diritto di prelazione agraria.
Le singole norme di legge, ma anche la prassi e la giurisprudenza, hanno dunque contribuito a
delimitare il concetto di terreno agricolo in relazione a specifiche finalità.
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I fabbricati rurali
I fabbricati rurali sono gli edifici posti al servizio di terreni agricoli, in quanto utilizzati in modo
strumentale all’attività di coltivazione, oppure quale abitazione dell’imprenditore agricolo. Questi
fabbricati godono di un regime fiscale agevolato, a condizione che siano presenti tutti i requisiti
previsti dalla legge (art. 9 del d.l. 30 dicembre 1993, n. 557, convertito dalla legge 26 febbraio
1994, n. 133, e modificato dall'art. 42-bis del d.l. 1 ottobre 2007, n. 159, convertito con
modificazioni dalla legge 29 novembre 2007, n. 222).
In passato i fabbricati rurali erano censiti esclusivamente nel Catasto Terreni, proprio perché
considerati pertinenze dei terreni agricoli su cui sorgevano, e pertanto privi di autonoma capacità
reddituale. Ciò aveva dato luogo a molti problemi in relazione a quei fabbricati che perdevano i
requisiti di ruralità, perché non più utilizzati per l’esercizio dell’attività agricola. Il caso più
frequente è quello della cascina venduta dall’agricoltore a un soggetto che la utilizza come
seconda casa.
In seguito, la legge ha introdotto l’obbligo di censire i fabbricati rurali al Catasto Fabbricati,
con le stesse modalità previste per le costruzioni urbane. Dopo numerosi rinvii, il termine per
l’accatastamento di tutti i fabbricati rurali esistenti è scaduto il 30 settembre 2012. Entro tale
data dovevano essere dichiarati al Catasto Fabbricati tutti i fabbricati rurali che ancora risultavano
iscritti solo al Catasto Terreni, con conseguente attribuzione della rendita catastale.
Contemporaneamente poteva essere presentata un’autocertificazione del proprietario relativa alla
sussistenza dei requisiti di ruralità, con la procedura prevista dalle disposizioni attuative
(decreto del Ministero dell’Economia del 26 luglio 2102 e circolare dell’Agenzia del Territorio n.
2/T/2012).
Dopo vari ondeggiamenti, la legge ha stabilito che i fabbricati rurali vengono iscritti in catasto
secondo le qualità e classi ordinarie, in base alle caratteristiche dell’immobile, e non
necessariamente nelle categorie D/10 e A/6, come era previsto in precedenza. La sussistenza dei
requisiti di ruralità risulta nella banca dati catastale mediante apposizione della specifica
annotazione, ed è riscontrabile anche nella relativa visura.
La presentazione della dichiarazione relativa alla sussistenza dei requisiti di ruralità entro il
termine del 30 settembre 2012 consentiva di qualificare il fabbricato come rurale ai fini fiscali, ai
fini dell’applicazione delle specifiche agevolazioni sull’Imu, a partire dal 1° gennaio 2012, ma
anche di evitare il pagamento dell’Ici relativi ai cinque anni precedenti.
Per i fabbricati che acquisiscono i requisiti di ruralità a partire dal 1° ottobre 2012, è la
dichiarazione di sussistenza dei requisiti di ruralità deve essere presentata entro 30 giorni,
con la stessa procedura (decreto del Ministero dell’Economia del 26 luglio 2102 e circolare
dell’Agenzia del Territorio n. 2/T/2012), e ad essa consegue l’apposizione dell’annotazione nella
banca dati catastale.
Ciò è possibile anche per i fabbricati rurali per i quali i requisiti di ruralità erano già presenti al 30
settembre 2012, ma il mancato rispetto di tale termine comporta l’inapplicabilità delle
agevolazioni relative all’Imu 2012 e all’Ici per i cinque anni precedenti. La dichiarazione di
ruralità, dunque, produce effetti solo dal momento in cui viene apposta l’annotazione in
catasto.
Ricordiamo infine che in caso di perdita dei requisiti di ruralità, occorre rimuovere l’annotazione
di ruralità dalla banca dati catastale, mediante semplice richiesta di cancellazione.
Fabbricati rurali strumentali
Ai fini fiscali sono considerate fabbricati rurali le costruzioni strumentali necessarie allo
svolgimento dell’attività agricola di cui all’articolo 2135 del codice civile e in particolare
destinate:
a) alla protezione delle piante;
b) alla conservazione dei prodotti agricoli;
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c) alla custodia delle macchine agricole, degli attrezzi e delle scorte occorrenti per la coltivazione
e l’allevamento;
d) all’allevamento e al ricovero degli animali;
e) all’agriturismo, in conformità a quanto previsto dalla legge 20 febbraio 2006, n. 96;
f) ad abitazione dei dipendenti esercenti attività agricole nell’azienda a tempo indeterminato o a
tempo determinato per un numero annuo di giornate lavorative superiore a cento, assunti in
conformità alla normativa vigente in materia di collocamento;
g) alle persone addette all’attività di alpeggio in zona di montagna;
h) ad uso di ufficio dell’azienda agricola;
i) alla manipolazione, trasformazione, conservazione, valorizzazione o commercializzazione dei
prodotti agricoli, anche se effettuate da cooperative e loro consorzi di cui all’art. 1, comma 2, del
decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228;
l) all’esercizio dell’attività agricola in maso chiuso.
Fabbricati rurali abitativi
Sono considerati fabbricati rurali anche gli edifici destinati ad uso abitativo, se ricorrono le
seguenti condizioni:
1) il fabbricato deve essere utilizzato quale abitazione da uno dei seguenti soggetti:
- dal titolare del diritto di proprietà o di altro diritto reale sul terreno, avente la qualifica di
imprenditore agricolo e iscritto nel registro delle imprese, per esigenze connesse all’attività
agricola svolta;
- dall’affittuario del terreno stesso o dal soggetto che con altro titolo idoneo conduce il terreno a
cui l’immobile è asservito, avente la qualifica di imprenditore agricolo e iscritto nel registro delle
imprese;
- dai familiari conviventi a carico dei soggetti di cui sopra, risultanti dalle certificazioni
anagrafiche, oppure da coadiuvanti iscritti come tali a fini previdenziali;
- da pensionati a seguito di attività svolta in agricoltura;
- da uno dei soci o amministratori delle società agricole (di cui all’articolo 2 del decreto
legislativo 29 marzo 2004, n. 99), aventi la qualifica di imprenditore agricolo professionale e
iscritte nel registro delle imprese;
2) il terreno cui il fabbricato è asservito deve avere superficie non inferiore a 10.000 metri
quadrati ed essere censito al Catasto Terreni con attribuzione di reddito agrario. Qualora sul
terreno siano praticate colture specializzate in serra o la funghicoltura o altra coltura intensiva,
ovvero il terreno è ubicato in comune considerato montano ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della
legge 31 gennaio 1994, n. 97, il suddetto limite viene ridotto a 3.000 metri quadrati;
3) il volume di affari derivante da attività agricole del soggetto che conduce il fondo deve
risultare superiore alla metà del suo reddito complessivo, determinato senza far confluire in
esso i trattamenti pensionistici corrisposti a seguito di attività svolta in agricoltura; se il terreno è
ubicato in comune considerato montano (ai sensi della legge n. 31 gennaio 1994, n. 97), il volume
di affari derivante da attività agricole del soggetto che conduce il fondo deve risultare superiore ad
un quarto del suo reddito complessivo (il volume d'affari dei soggetti che non presentano la
dichiarazione ai fini dell'IVA si presume pari al limite massimo previsto per l'esonero dall'art. 34
del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633);
4) in ogni caso non possono essere considerati rurali i fabbricati ad uso abitativo che hanno
le caratteristiche delle unità immobiliari urbane appartenenti alle categorie A/1 ed A/8,
ovvero le caratteristiche di lusso previste dal decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 agosto
1969, n. 1072.
Se manca anche uno solo di questi requisiti, l’abitazione non può essere considerata fabbricato
rurale. Lo stesso accade nel momento in cui viene meno uno dei requisiti precedentemente
esistenti. L’ipotesi più frequente si verifica quando un fabbricato rurale viene acquistato da chi
non è agricoltore (per esempio, da chi intende utilizzarlo come seconda casa). In questo caso non
è possibile mantenere la qualifica di ruralità.
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Imposte e agevolazioni
Nuove imposte di registro dal primo gennaio 2014
Dal primo gennaio 2014 sono entrate in vigore alcune modifiche alle imposte di registro,
ipotecarie e catastali sul trasferimento di immobili (art. 10 del d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23,
come modificato dall’art. 26 del d.l. 12 settembre 2013, n. 104 e dall’art. 1, commi 608 e 609,
della legge 27 dicembre 2013, n. 147).
Oggi il trasferimento di terreni agricoli (e relative pertinenze) a favore di soggetti diversi dai
coltivatori diretti e dagli imprenditori agricoli professionali (IAP), iscritti nella relativa gestione
previdenziale ed assistenziale, è ora soggetto all’imposta di registro proporzionale con
l’aliquota del 12% (con un minimo di 1.000 euro), oltre alle imposte ipotecarie e catastali
nella misura fissa di 50 euro ciascuna.
Il trasferimento di fabbricati di ogni genere e terreni edificabili (o comunque non agricoli) è
invece soggetto all’imposta di registro proporzionale con l’aliquota del 9% (con un minimo
di 1.000 euro), oltre alle imposte ipotecarie e catastali nella misura fissa di 50 euro ciascuna.
L’acquisto della prima casa, in presenza dei requisiti previsti dalla legge, è soggetto all’imposta
di registro proporzionale con l’aliquota del 2% (con un minimo di 1.000 euro), oltre alle
imposte ipotecarie e catastali nella misura fissa di 50 euro ciascuna.
Inizialmente la riforma aveva previsto l’applicazione dell’aliquota del 9% anche ai terreni
agricoli, ma prima ancora della sua entrata in vigore l’aliquota è stata portata al 12%. La nuova
aliquota rende comunque più conveniente l’acquisto di terreni agricoli da parte di soggetti diversi
dai coltivatori diretti e dagli imprenditori agricoli professionali (IAP). Le imposte ordinarie
sull’acquisto di terreni agricoli erano infatti storicamente fissate nel 18% del prezzo del terreno
(15% per l’imposta di registro, oltre alle imposte ipotecarie e catastali rispettivamente del 2% e
dell’1%).
Dal primo gennaio 2014 sono soppresse tutte le esenzioni e le agevolazioni tributarie in
relazione agli atti traslativi a titolo oneroso della proprietà di beni immobili, anche se
previste in leggi speciali (art. 10 del d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23, come modificato dall’art. 26 del
d.l. 12 settembre 2013, n. 104).
Si salva però dall’abrogazione generalizzata l’agevolazione fiscale per l’acquisto di terreni
agricoli e relative pertinenze da parte di coltivatori diretti e imprenditori agricoli
professionali (IAP), iscritti nella relativa gestione previdenziale ed assistenziale, la cosiddetta
agevolazione per la piccola proprietà contadina (PPC), che consente di pagare soltanto
l’imposta catastale dell’1%, oltre alle imposte ipotecarie e catastali nella misura fissa di 200
euro ciascuna (art. 2, comma 4-bis, del d.l. 30 dicembre 2009, n. 194, inserito dalla legge di
conversione 26 febbraio 2010 n. 25, confermato dall’art. 1, comma 608, della legge 27 dicembre
2013, n. 147).
Sono invece state abrogate tutte le altre agevolazioni per l’acquisto di terreni agricoli
(compendio unico, giovani agricoltori, zone montane e acquisto di terreni condotti in affitto).
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Le imposte per chi acquista terreni agricoli
Venditore
Acquirente
IVA
Imposta
Imposta
Imposta
Registro
Ipotecaria
Catastale
50 €
50 €
Bollo
Tributi
speciali
Soggetto
Chiunque
diverso da
Fuori
coltivatore
campo
diretto o IAP
12%
(minimo
NO
NO
NO
90 €
1.000 €)
Coltivatore
Chiunque
diretto o IAP
Fuori
(agevolazione
campo
200 €
200 €
1%
(minimo 200 €)
PPC)
Il valore normale dei terreni
Le imposte di registro da pagare per l’acquisto di terreni agricoli si applicano sul prezzo
concordato tra le parti per la compravendita.
L’amministrazione finanziaria può verificare la congruità del valore dichiarato rispetto al valore
normale (cioè al valore di mercato) ed eventualmente accertare un maggior valore su cui
applicare l'imposta. Oggi non è più previsto alcun limite a questo potere di verifica, come
invece avveniva fino al 2006, quando era in vigore il meccanismo noto come “valutazione
automatica”, che precludeva l’accertamento di un maggior valore del terreno agricolo quando il
prezzo dichiarato era superiore al valore che si otteneva moltiplicando la rendita catastale per i
coefficienti stabiliti dalla legge.
L’imprenditore agricolo professionale (i.a.p.)
La riforma dell’impresa agricola ha introdotto la qualifica di imprenditore agricolo
professionale (i.a.p.) che ha sostituito la figura dell'imprenditore agricolo a titolo principale. Il
cambiamento, ovviamente, non riguarda solo il nome, ma anche la sostanza.
La legge dispone che “Ai fini dell'applicazione della normativa statale, è imprenditore agricolo
professionale (IAP) colui il quale, in possesso di conoscenze e competenze professionali ai sensi
dell'articolo 5 del regolamento (CE) n. 1257/1999 del 17 maggio 1999, del Consiglio, dedichi alle
attività agricole di cui all' articolo 2135 del codice civile, direttamente o in qualità di socio di
società, almeno il cinquanta per cento del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dalle
attività medesime almeno il cinquanta per cento del proprio reddito globale da lavoro. Le
pensioni di ogni genere, gli assegni ad esse equiparati, le indennità e le somme percepite per
l'espletamento di cariche pubbliche, ovvero in associazioni ed altri enti operanti nel settore
agricolo, sono escluse dal computo del reddito globale da lavoro Nel caso delle società di
persone e cooperative, ivi incluse le cooperative di lavoro, l'attività svolta dai soci nella società,
in presenza dei requisiti di conoscenze e competenze professionali, tempo lavoro e reddito di cui
al primo periodo, è idonea a far acquisire ai medesimi la qualifica di imprenditore agricolo
professionale e al riconoscimento dei requisiti per i soci lavoratori. Nel caso di società di
capitali, l'attività svolta dagli amministratori nella società, in presenza dei predetti requisiti di
conoscenze e competenze professionali, tempo lavoro e reddito, è idonea a far acquisire ai
medesimi amministratori la qualifica di imprenditore agricolo professionale. Per l'imprenditore
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che operi nelle zone svantaggiate di cui all'articolo 17 del citato regolamento (CE) n. 1257/1999,
i requisiti di cui al presente comma sono ridotti al venticinque per cento.” (art. 1, primo comma,
del d.lgs. 29 marzo 2004, n. 99).
Per essere considerato imprenditore agricolo professionale occorrono dunque tre requisiti:
- essere in possesso di conoscenze e competenze professionali in campo agricolo, come previsto
dalle norme dell’Unione Europea (art. 5 del regolamento CE n. 1257/1999 del 17 maggio 1999);
- dedicare alle attività agricole, direttamente o attraverso la partecipazione a una società, almeno
la metà del proprio tempo di lavoro complessivo;
- ricavare dalle attività agricole almeno la metà del proprio reddito globale da lavoro, anche
come socio o amministratore di società agricole.
Ai fini del calcolo del reddito globale da lavoro si prevede espressamente che siano escluse le
pensioni di ogni genere e gli assegni ad esse equiparati, ma anche le indennità e le somme
percepite per cariche pubbliche o in associazioni ed enti operanti nel settore agricolo.
Per l’imprenditore agricolo che opera nelle zone svantaggiate indicate dall’Unione Europea i
requisiti si riducono a un quarto del tempo di lavoro complessivo e un quarto del reddito
globale da lavoro.
La presenza dei requisiti viene accertata dalla Regione competente. Chi aveva già la qualifica di
imprenditore agricolo a titolo principale può ottenere immediatamente quella di iap, dato che i
requisiti sono meno restrittivi. Le nuove regole, infatti, consentono di ottenere più facilmente la
qualifica di iap rispetto a quanto era previsto per quella di imprenditore agricolo a titolo
principale, per la quale era necessario ricavare almeno i due terzi del proprio reddito personale
dall’esercizio dell’attività agricola, e dedicare a tale attività almeno i due terzi del proprio tempo
di lavoro complessivo.
All’imprenditore agricolo professionale, a condizione che sia iscritto nella relativa gestione
previdenziale ed assistenziale, sono riconosciute tutte le agevolazioni tributarie in materia di
imposte indirette e creditizie che in precedenza erano riservate alle persone fisiche in possesso
della qualifica di coltivatore diretto (art. 1, quarto comma, del d.lgs. 29 marzo 2004, n. 99).
Ciò significa che gli imprenditori agricoli professionali, se iscritti nella gestione previdenziale e
assistenziale agricola dell’INPS, possono usufruire, tra l’altro, delle agevolazioni per la
formazione e l’arrotondamento della piccola proprietà contadina (p.p.c.).
Le agevolazioni fiscali per l'acquisto dei terreni agricoli spettano anche a chi non ha ancora
ottenuto la qualifica di imprenditore agricolo professionale, purché abbia già presentato la
domanda all'ufficio regionale competente, che ne rilascia certificazione, e si sia iscritto alla
gestione previdenziale e assistenziale; la qualifica deve essere ottenuta entro ventiquattro
mesi, a pena di decadenza dalle agevolazioni (art. 1, comma 5-ter, del d.lgs. 29 marzo 2004, n.
99).
Non spetta, invece, agli imprenditori agricoli professionali il diritto di prelazione per
l'acquisto dei terreni condotti in affitto o confinanti, che resta una prerogativa esclusiva dei
coltivatori diretti e delle società agricole di persone in cui almeno la metà dei soci sia coltivatore
diretto.
Il coltivatore diretto
E’ considerato coltivatore diretto chi si dedica manualmente e abitualmente alla coltivazione
dei terreni e all'allevamento del bestiame, purché la forza lavoro dell'agricoltore e dei membri
del suo nucleo familiare che collaborano con lui nell'esercizio dell'attività non sia inferiore a un
terzo di quella occorrente per le normali necessità dell'azienda agricola. Il coltivatore diretto
è dunque qualcosa di diverso rispetto all’imprenditore agricolo professionale. Normalmente chi è
coltivatore diretto ha anche tutti i requisiti per essere considerato imprenditore agricolo
professionale, ma ciò non avviene necessariamente, perché i requisiti richiesti dalla legge per
queste due figure professionali operano su piani differenti.
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Prima della riforma, il coltivatore diretto era un soggetto privilegiato nell’ambito del mondo
agricolo, sotto tutti i profili. Era infatti l’unico destinatario delle più importanti agevolazioni
fiscali concesse per l’acquisto dei terreni agricoli. Inoltre era l’unico soggetto avente diritto alla
prelazione sull’acquisto dei terreni agricoli da lui condotti in affitto, oppure confinanti con quelli
di sua proprietà. Oggi l’unico di questi privilegi rimasto di sua esclusiva è il diritto di
prelazione, che non è stato concesso agli imprenditori agricoli professionali, ed è stato esteso alle
società agricole di persone solo quando almeno la metà dei soci è coltivatore diretto, a sottolineare
la permanenza del legame tradizionale con questa figura. Le agevolazioni per l’acquisto dei
terreni agricoli sono invece state estese anche agli imprenditori agricoli professionali, comprese le
società agricole di ogni tipo.
Le società agricole
Le agevolazioni in precedenza riservate esclusivamente agli imprenditori agricoli individuali sono
state estese anche a chi opera in forma associata. La nuova qualifica di imprenditore agricolo
professionale (iap), che ha sostituito quella di imprenditore agricolo a titolo principale, è stata
espressamente riconosciuta anche alle società agricole di ogni tipo, le cui caratteristiche sono
state completamente ridefinite dalla riforma.
Le società agricole possono essere costituite nella forma di società di persone (società semplici,
s.n.c. o s.a.s.), società di capitali (s.r.l. o s.p.a.) e cooperative, ma devono essere sempre presenti
tre requisiti, due di carattere formale, che riguardano il contenuto dell'atto costitutivo o dello
statuto, e il terzo di natura sostanziale, che riguarda le persone dei soci o degli amministratori.
Il primo requisito riguarda l’oggetto sociale. La società deve avere come oggetto esclusivo
l'esercizio dell'agricoltura e delle attività connesse, individuate dall'art. 2135 del codice civile.
Ricordiamo che secondo la nuova formulazione di questa norma rientrano tra le attività agricole la
coltivazione del fondo, la silvicoltura, l’allevamento di animali e tutte le attività connesse, cioè:
- le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e
valorizzazione dei prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o
dall’allevamento di animali;
- la fornitura di beni o servizi utilizzando prevalentemente le attrezzature o risorse dell’azienda
agricola;
- l’agriturismo.
Il secondo requisito è relativo alla ragione sociale o denominazione, che deve sempre contenere
l'indicazione “società agricola”.
Il terzo requisito, sicuramente il più importante, è diverso secondo il tipo di società prescelto.
Nelle società di persone almeno uno dei soci deve essere in possesso della qualifica di
imprenditore agricolo professionale o coltivatore diretto, mentre gli altri soci possono anche non
essere agricoltori, indipendentemente dal loro numero. Nelle società in accomandita semplice
(s.a.s.) deve essere imprenditore agricolo professionale almeno un socio accomandatario.
Nelle società di capitali deve essere imprenditore agricolo professionale o coltivatore diretto
almeno un amministratore. Dato che nelle società di capitali gli amministratori possono anche
non essere soci, possiamo avere una società agricola in cui nessuno dei soci è un agricoltore, e
magari solo uno dei membri del consiglio di amministrazione, del tutto ininfluente nelle decisioni,
è in possesso della qualifica di iap. Potremmo anche ipotizzare una società unipersonale in cui il
socio unico non è agricoltore, e solo uno degli amministratori riveste la qualifica prevista dalla
legge. Le agevolazioni raggiungono, in questo caso, la loro massima estensione, e rappresentano
un notevole incentivo alla costituzione di società agricole.
Nelle società cooperative, infine, occorre invece che almeno un amministratore, che sia anche
socio, abbia la qualifica di imprenditore agricolo professionale o coltivatore diretto.
Ricordiamo però che la qualifica di imprenditore agricolo professionale può essere apportata
dall'amministratore a una sola società (art. 1, comma 3-bis, del d.lgs. 29 marzo 2004, n. 99).
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Il riferimento all' amministratore che apporta la qualifica si riferisce alle fattispecie in cui la
qualificazione della società come “agricola” dipende dalla qualifica apportata dall’amministratore,
e quindi alle sole società di capitali e cooperative. Nelle società di persone, infatti, la qualifica di
imprenditore agricolo professionale o coltivatore diretto deve essere presente in capo ad almeno
uno dei soci, il fatto che questo sia anche amministratore non è determinante. Questa
interpretazione è stata confermata anche l’amministrazione finanziaria (Agenzia delle entrate,
Direzione Regionale dell’Emilia Romagna, risposta a interpello n. 909-216/2006, prot. 90932505/2006 in data 20 luglio 2006).
L'amministratore di società agricola di capitali e il socio di società agricola di persone possono
acquisire la qualifica di imprenditore agricolo professionale in virtù dell'attività svolta
nell'ambito della società agricola, purché siano in possesso delle competenze professionali in
campo agricolo, dedichino all'attività svolta nell'ambito della società agricola almeno la metà del
proprio tempo di lavoro e ne ricavino almeno la metà del proprio reddito (escluse le pensioni). Le
somme percepite per l'attività svolta nelle società agricole consentono l'iscrizione nella gestione
previdenziale agricola.
Le società agricole in possesso dei requisiti sopra elencati possono oggi usufruire di tutte le
agevolazioni tributarie in materia di imposte indirette e creditizie che finora erano riservate
ai coltivatori diretti, cioè alle persone fisiche che dedicano la propria attività manuale alla
coltivazione del terreno. Al momento dell’acquisto di terreni agricoli le società agricole possono
dunque richiedere le agevolazioni per la formazione e l’arrotondamento della piccola proprietà
contadina (p.p.c.).
Le società agricole possono chiedere le agevolazioni fiscali per l'acquisto dei terreni agricoli
anche prima di avere ottenuto la qualifica di imprenditore agricolo professionale, purché
abbiano già presentato la domanda all'ufficio regionale competente, che ne rilascia
certificazione, e il socio o l'amministratore abbia la qualifica di iap o coltivatore diretto (o almeno
abbia presentato la domanda per ottenere la qualifica di iap) e sia già iscritto alla gestione
previdenziale; la qualifica deve essere ottenuta entro ventiquattro mesi, a pena di decadenza
dalle agevolazioni.
La società semplice agricola
La società semplice è sicuramente la forma giuridica più diffusa per l'esercizio associato
dell'attività agricola. Questa è la forma societaria espressamente creata dal legislatore per
l’esercizio dell’impresa agricola, e le è precluso l’esercizio di qualsiasi attività commerciale.
La società semplice rimane dunque il tipo societario preferito dalla maggior parte delle imprese
agricole gestite in forma associata, e può essere definita la società agricola per eccellenza.
Le agevolazioni p.p.c.
Le agevolazioni per la formazione e l’arrotondamento della piccola proprietà contadina (p.p.c.)
consentono ai coltivatori diretti e agli imprenditori agricoli professionali iscritti nella
gestione previdenziale e assistenziale (comprese le società agricole) di acquistare terreni
agricoli pagando solo l'imposta catastale dell'1% sul prezzo pagato per la compravendita,
mentre l'imposta di registro e l'imposta ipotecaria si applicano nella misura fissa, anziché in
percentuale sul prezzo. L’atto di compravendita e le relative copie sono inoltre esenti dall'imposta
di bollo (art. 2, comma 4-bis, del d.l. 30 dicembre 2009, n. 194, inserito dalla legge di
conversione 26 febbraio 2010 n. 25).
Le agevolazioni introdotte dalla legge 26 febbraio 2010 n. 25 sono in vigore dal 28 febbraio 2010.
A differenza di quanto era avvenuto ripetutamente negli anni precedenti, la legge 26 febbraio
2010 n. 25 non ha richiamato le originarie agevolazioni p.p.c. contenute nella legge 6 agosto
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1954, n. 604, che da oltre cinquant’anni disciplinava la materia, con numerose proroghe. Ciò
significa che le agevolazioni p.p.c. introdotte dalla legge 26 febbraio 2010 n. 25 rappresentano
una disciplina completamente nuova, come ha riconosciuto anche l’Agenzia delle entrate
(risoluzione 17 maggio 2010, n. 36/E).
La legge 26 febbraio 2010, n. 25, dispone che “Al fine di assicurare le agevolazioni per la piccola
proprietà contadina, (…) gli atti di trasferimento a titolo oneroso di terreni e relative pertinenze,
qualificati agricoli in base a strumenti urbanistici vigenti, posti in essere a favore di coltivatori
diretti ed imprenditori agricoli professionali, iscritti nella relativa gestione previdenziale ed
assistenziale, nonché le operazioni fondiarie operate attraverso l'Istituto di servizi per il mercato
agricolo alimentare - ISMEA, sono soggetti alle imposte di registro ed ipotecaria nella misura
fissa ed all'imposta catastale nella misura dell'1 per cento. (…) I predetti soggetti decadono dalle
agevolazioni se, prima che siano trascorsi cinque anni dalla stipula degli atti, alienano
volontariamente i terreni ovvero cessano di coltivarli o di condurli direttamente.”
Successivamente è stata eliminata la scadenza della nuova agevolazione p.p.c., originariamente
prevista per il 31 dicembre 2010. Le agevolazioni per la piccola proprietà contadina sono dunque
divenute definitive, dato che la legge non si è limitata a una proroga, ma ha soppresso il
termine di scadenza (art. 1, comma 41, della legge 13 dicembre 2010, n. 220).
La legge di stabilità 2014 ha confermato l’applicazione dell’agevolazione PPC anche dal
primo gennaio 2014, introducendo una specifica eccezione all’abrogazione generalizzata di tutte
le agevolazioni sulle imposte di registro relative alla compravendita di immobili.
Dal primo gennaio 2014 sono state invece soppresse tutte le altre esenzioni e le agevolazioni
tributarie in relazione agli atti traslativi a titolo oneroso della proprietà di beni immobili, anche se
previste in leggi speciali (art. 10 del d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23, come modificato dall’art. 26 del
d.l. 12 settembre 2013, n. 104). Scompaiono dunque tutte le altre agevolazioni per l'acquisto di
terreni agricoli (compendio unico, territori montani, etc.).
Le agevolazioni per la formazione e l’arrotondamento della piccola proprietà contadina si
applicano ai coltivatori diretti e agli imprenditori agricoli professionali iscritti nella relativa
gestione previdenziale e assistenziale, e pertanto anche alle società agricole.
Sono ammessi a godere delle agevolazioni soltanto gli atti di acquisto a titolo oneroso di
terreni, e relative pertinenze, qualificati agricoli in base agli strumenti urbanistici vigenti.
L’agevolazione, dunque, non può essere richiesta per l’acquisto di terreni edificabili (o comunque
non agricoli), anche se l’acquirente intende destinarli all’attività agricola. L’agevolazione non si
applica neppure agli atti a titolo gratuito, come le donazioni, né alle successioni a causa di morte.
La nuova norma fa espresso riferimento alle pertinenze dei terreni agricoli, quindi l’agevolazione
si applica anche per i fabbricati rurali pertinenziali ai terreni agricoli, cioè con carattere
strumentale alla coltivazione degli stessi.
L’Agenzia delle entrate ha precisato che per fruire dell’agevolazione non è più necessario che
ricorrano le condizioni precedentemente previste dalla legge 6 agosto 1954, n. 604, ovvero
circostanza che l’acquirente dedichi abitualmente la propria attività alla lavorazione della terra,
l’idoneità del fondo alla formazione o all’arrotondamento della piccola proprietà contadina e la
mancata alienazione nel biennio precedente di fondi rustici di oltre un ettaro. Pertanto, non è più
necessario richiedere all’ispettorato provinciale agrario il certificato (prima provvisorio e poi
definitivo) che attesta la sussistenza dei requisiti al fine dell’applicazione del regime agevolato
(risoluzione 17 maggio 2010, n. 36/E). Il certificato, che già era stato escluso per gli imprenditori
agricoli professionali, non è più necessario neppure per i coltivatori diretti. In entrambi i casi, la
presenza dei requisiti previsti dalla nuova normativa viene dichiarata dal coltivatore diretto o
dall’imprenditore agricolo professionale direttamente nell’atto di acquisto.
L'Agenzia delle Entrate ha espressamente riconosciuto che l'agevolazione p.p.c. può essere
richiesta anche quando il socio conferisce in una società agricola i propri terreni agricoli (e
fabbricati accessori), nonostante la lettera della legge faccia riferimento soltanto all'acquisto
mediante atto di compravendita (Risoluzione 4 gennaio 2008 n. 3).
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La decadenza dall’agevolazione p.p.c.
La legge prevede la decadenza dell'agevolazione, con il conseguente recupero delle imposte e le
relative sanzioni, se l'acquirente cede volontariamente i terreni, a qualsiasi titolo, oppure cessa
di coltivarli o di condurli direttamente prima che siano trascorsi cinque anni dall'acquisto
(art. 2, comma 4-bis, della legge n. 25 del 26 febbraio 2010). Non comportano mai decadenza
dalle agevolazioni la successione a causa di morte e l'espropriazione per pubblica utilità.
Prima che siano trascorsi cinque anni, è comunque concessa la facoltà di trasferire o affittare il
terreno a favore del coniuge, di parenti entro il terzo grado o di affini entro il secondo grado
che esercitino l’attività di imprenditore agricolo, a condizione che si mantenga la destinazione
agricola del fondo (art. 11, comma 3, del d.lgs. 18 maggio 2001, n. 228).
Questa norma ha reso più facile la riorganizzazione dell’azienda agricola all’interno della
famiglia, rimuovendo quello che rappresentava un grosso ostacolo al trasferimento della proprietà
dei terreni, o quanto meno della gestione dell’azienda, alle nuove generazioni.
L'Agenzia delle entrate ha precisato che non comporta la decadenza dalle agevolazioni p.p.c.
neanche l’affitto del fondo a favore di una società agricola costituita tra l'acquirente, il
coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado, a patto che il
concedente continui a coltivare direttamente il fondo acquistato con le agevolazioni (Risoluzione
dell'Agenzia delle entrate n. 279/E del 4 luglio 2008).
L'Agenzia delle Entrate ha ritenuto infine che il conferimento di un fondo agricolo, acquistato
con le agevolazioni per la p.p.c., in una società agricola in accomandita semplice, della quale il
coltivatore diretto sia socio accomandatario e gli altri soci siano il coniuge e un figlio, effettuato
nel quinquennio successivo all’acquisto, non comporta la decadenza dalle agevolazioni, perché si
tratta di un'operazione finalizzata a promuovere lo sviluppo e la modernizzazione dell’attività
agricola, coerentemente con la ratio che ha ispirato gli interventi legislativi volti a riconoscere la
qualifica di imprenditore agricolo anche alle società (Risoluzione dell'Agenzia delle entrate n.
455/E del 1 dicembre 2008).
Acquistare un fondo affittato
La legge prevede la decadenza dalle agevolazioni p.p.c. in caso di alienazione volontaria o di
cessazione della coltivazione o conduzione diretta dei terreni agricoli prima che siano trascorsi
cinque anni dall'atto di acquisto (art. 2, comma 4-bis, della legge n. 25 del 26 febbraio 2010). Non
c'è dubbio, quindi, che decada dall'agevolazione chi concede in affitto i terreni agricoli acquistati
prima che siano trascorsi cinque anni dall'acquisto. Ma cosa succede se i terreni agricoli sono già
condotti in affitto da terzi, in forza di un contratto in corso al momento dell'atto di acquisto?
La questione è di particolare rilevanza anche perché, come è noto, la presenza sul fondo di un
affittuario coltivatore diretto normalmente esclude il diritto di prelazione in capo ai confinanti.
La finalità della norma che ha introdotto le agevolazioni per la piccola proprietà contadina è
quella di favorire l'acquisto dei terreni agricoli da parte di chi si dedica professionalmente
all'attività agricola (imprenditore agricolo professionale, coltivatore diretto, società agricola). E'
chiaro, dunque, che il presupposto dell'agevolazione è che l'acquirente coltivi direttamente i
terreni acquistati, e la presenza di un altro soggetto quale affittuario del fondo agricolo
impedisce, ovviamente, la coltivazione da parte del proprietario. Tuttavia, non si può fare a meno
di considerare che la presenza di un contratto di affitto prossimo alla scadenza (o comunque di
breve durata) consentirebbe comunque l'inizio della coltivazione diretta da parte dell'acquirente in
un tempo ragionevole, e non vi sarebbe quindi motivo di negare l'applicabilità dell'agevolazione.
Ciò vale, in modo particolare, quando la scadenza del contratto di affitto in corso è prevista in
concomitanza con il termine dell'annata agraria (convenzionalmente, l'11 novembre, ma ci sono
16
differenze in relazione alle diverse tipologie di coltivazione), dato che nel mondo agricolo è
assolutamente normale che l'effettiva consegna del fondo , sia in caso di compravendita sia al
termine dell'affitto agrario, avvenga dopo il raccolto, e quindi al termine dell'annata agraria, per
consentire a chi ha lavorato il terreno nell'anno precedente di raccoglierne i frutti, e al nuovo
conduttore di provvedere fin dall'inizio alle lavorazioni necessarie per l'inizio del nuovo ciclo
stagionale, ed eventualmente alla semina.
Per queste ragioni, pur in mancanza di una specifica disposizione normativa, molti uffici periferici
dell'Agenzia delle entrate sono orientati nel senso di concedere le agevolazioni fiscali per la
piccola proprietà contadina anche in caso di acquisto di un fondo agricolo condotto in affitto da
terzi, purché il contratto non si prolunghi oltre la fine dell'annata agraria in corso (sia per
scadenza naturale, sia a seguito di risoluzione consensuale del contratto pattuita dall'affittuario
con il venditore, prima della vendita del fondo, oppure anche con l'acquirente, dopo la stipula
dell'atto di compravendita). In tal senso si è anche espressa anche la giurisprudenza, seppure in
modo isolato (Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, Sez. LXVII, 28 febbraio 2011,
n. 62).
In ogni caso, considerando le conseguenze della decadenza dall'agevolazione fiscale, soprattutto
nel caso di acquisto di fondi agricoli di rilevante valore, è consigliabile un atteggiamento
prudente, che prevede la risoluzione del contratto di affitto, ove presente, prima della stipula
dell'atto di compravendita o contestualmente allo stesso.
L’iscrizione previdenziale e assistenziale
L’iscrizione alla gestione previdenziale e assistenziale agricola dell’INPS è condizione essenziale
per ottenere l’applicazione delle agevolazioni fiscali per la piccola proprietà contadina. E’
inoltre espressamente richiesta l’iscrizione alla gestione previdenziale e assistenziale agricola per
la richiesta delle agevolazioni fiscali sull’acquisto di fondi agricoli da parte di chi non ha ancora
ottenuto la qualifica di imprenditore agricolo professionale, ma ha soltanto presentato la
domanda all'ufficio regionale competente, che ne rilascia certificazione, a condizione che la
qualifica sia ottenuta entro ventiquattro mesi (art. 1, comma 5-ter, del d.lgs. 29 marzo 2004, n.
99).
A differenza di quanto previsto dalla legge per la qualifica di imprenditore agricolo professionale,
che può anche essere conseguita successivamente all’atto di acquisto del fondo agricolo, purché
prima dell’acquisto sia stata presentata la domanda all’ufficio regionale competente, l’iscrizione
alla gestione previdenziale e assistenziale agricola deve sempre avvenire prima della stipula
dell’atto di acquisto del fondo agricolo.
E’ essenziale, dunque, che chi vuole avvalersi della possibilità di richiedere le agevolazioni “sotto
condizione” del successivo ottenimento della qualifica di imprenditore agricolo professionale,
oltre a presentare la relativa domanda all’ufficio regionale competente, faccia in modo di ottenere
immediatamente l’iscrizione alla gestione previdenziale e assistenziale agricola dell’INPS. Le
norme fiscali, infatti, non consentono l’applicazione delle agevolazioni in seguito alla semplice
presentazione della domanda di iscrizione all’INPS. E’ necessario avere ottenuto l’iscrizione
INPS prima della stipula dell’atto di acquisto del fondo agricolo.
Ciò può essere un problema, perché l’INPS normalmente non accetta l’iscrizione nella
gestione previdenziale e assistenziale agricola da parte di chi non ha già in corso un’attività
agricola. D’altra parte, chi sta per acquistare un fondo agricolo può anche non essere già un
agricoltore, e avere intenzione di iniziare l’attività agricola dopo l’acquisto, proprio sul fondo
acquistato. E’ per questo che la legge di riforma dell’impresa agricola ha introdotto la possibilità
di applicare provvisoriamente le agevolazioni fiscali anche all’acquisto di terreni da parte di chi
non ha ancora ottenuto la qualifica di imprenditore agricolo professionale, purché abbia già
presentato la domanda all'ufficio regionale competente, che ne rilascia certificazione; la qualifica
deve essere ottenuta entro ventiquattro mesi, a pena di decadenza dalle agevolazioni. La legge
17
richiede però che l’acquirente sia già iscritto alla gestione previdenziale e assistenziale agricola
dell’INPS.
Per risolvere questo problema è intervenuto il Direttore Generale dell’INPS con una circolare,
disponendo che “le Sedi devono iscrivere con riserva coloro che, anche se non in possesso dei
requisiti, presentino apposita certificazione, rilasciata dalla Regione, comprovante solo
l’avvenuta presentazione della domanda” per ottenere la qualifica di imprenditore agricolo
professionale (Circolare INPS del 24 marzo 2006, n. 48). La circolare prevede inoltre che
“Costoro saranno cancellati ab origine dalla gestione previdenziale se dopo 24 mesi dalla data di
presentazione della citata istanza alla Regione - o dopo il diverso termine stabilito dalla Regione non risultino in possesso della certificazione della qualifica rilasciata dalla Regione”.
L’INPS ha dunque introdotto la formula di “iscrizione con riserva”, per consentire l’iscrizione
nella gestione previdenziale e assistenziale agricola a chi non è ancora in possesso dei requisiti per
l’iscrizione, ma dimostra di avere presentato alla Regione competente la domanda per ottenere la
qualifica di imprenditore agricolo professionale. Naturalmente, trattandosi di iscrizione con
riserva, sarà cancellata se entro il termine previsto dalla legge, ordinariamente di ventiquattro
mesi, il soggetto non ottiene l’attribuzione della qualifica di imprenditore agricolo professionale
da parte della Regione competente.
Purtroppo, però, non sempre le sedi periferiche dell’INPS tengono conto di questa circolare. E’
infatti capitato di veder negare l’iscrizione, sia pure con riserva, a chi non ha già in corso
un’attività agricola, in contrasto con quanto previsto dalla legge e dalla circolare del direttore
generale dell’INPS. In questo caso occorre trovare un modo per iniziare l’attività agricola prima
dell’acquisto del terreno, magari stipulando provvisoriamente un contratto di affitto.
18
La prelazione agraria
Due diritti di prelazione
Il diritto di prelazione agraria consiste nel diritto di essere preferiti ad altri per l’acquisto di un
fondo agricolo, a parità di prezzo, quando il proprietario decide di venderlo. Questo diritto di
prelazione è riconosciuto solo in presenza di determinate condizioni, soggettive e oggettive.
Nella definizione di prelazione agraria rientrano due distinti diritti di prelazione, soggetti a regole
in parte diverse e rispondenti a differenti finalità. Da una parte c’è la prelazione riconosciuta
all’affittuario del fondo offerto in vendita (art. 8 della legge 26 maggio 1965, n. 590), dall’altra
quella del proprietario del fondo confinante con quello offerto in vendita (art. 7 della legge 14
agosto 1971, n. 817).
La prelazione agraria ha una grande rilevanza nella contrattazione per la compravendita dei fondi
agricoli. Nella pratica, infatti, rappresenta il secondo aspetto che deve affrontare chi ha intenzione
di acquistare un fondo agricolo (il primo è ovviamente quello delle agevolazioni fiscali).
La disciplina legislativa della prelazione agraria, però, è rimasta sostanzialmente ferma agli anni
’60 e ’70 e del secolo scorso, e non tiene conto della realtà dell’agricoltura italiana, che sta
affrontando un passaggio generazionale e, grazie alla nuova disciplina dell’imprenditore agricolo
professionale e delle società agricole, sta cercando di acquisire la struttura necessaria per rimanere
competitiva in uno scenario economico sempre più globalizzato.
A complicare ulteriormente la situazione, le norme sulla prelazione agraria sono sempre state
molto sintetiche, e hanno dato origine a una lunga serie di dubbi interpretativi.
Oggi la prelazione agraria è dunque disciplinata da poche norme dettate dal legislatore molto
tempo fa, e da una serie di sentenze in cui i giudici, nell’arco di quasi mezzo secolo, hanno
fornito le loro interpretazioni, spesso contrastanti, per colmare le lacune normative. Queste
sentenze, specialmente quando sono arrivate a formare orientamenti consolidati, rappresentano
una valida indicazione di come potrebbe essere deciso un caso analogo, ma ricordiamo che non
sono vincolanti per i giudici nelle controversie future, quindi su molti aspetti sono possibili
interpretazioni differenti.
Compravendita e altri contratti
Il diritto di prelazione è testualmente previsto per il trasferimento a titolo oneroso (o di
concessione in enfiteusi) di fondi agricoli (art. 8, primo comma, della legge 26 maggio 1965, n.
590). L’ipotesi principale in cui si applica il diritto di prelazione è dunque la compravendita del
fondo agricolo.
Il diritto di prelazione è invece espressamente escluso quando il fondo agricolo è oggetto di
permuta, vendita forzata, liquidazione coatta, fallimento ed espropriazione per pubblica
utilità (art. 8, secondo comma, della legge 26 maggio 1965, n. 590).
La giurisprudenza ha precisato che non è ammesso l’esercizio della prelazione in caso di
permuta, quale che sia il bene permutato con il fondo agricolo (Cass. 3 novembre 1990, n.
10573; Cass. 19 luglio 1990, n. 7391; Cass. 16 agosto 1988, n. 4948; Cass. 16 giugno 1984, n.
3607; Cass. 13 febbraio 1985, n. 1211; Cass. 20 dicembre 1980, n. 6573; Cass. 21 novembre
1981, n. 6225; Cass. 28 aprile 1981, n. 2584), a meno che si di un bene fungibile, come per
esempio titoli di Stato oppure titoli azionari o obbligazionari quotati in mercati regolamentati
(Cass. 11 febbraio 1989, n. 863; Cass. 23 novembre 1985, n. 5829). La previsione di un
conguaglio in denaro nella permuta non fa sorgere il diritto di prelazione agraria, purché il
conguaglio sia destinato a pareggiare il valore dei beni permutati, e il suo importo non risulti
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superiore al valore del bene oggetto di permuta (Cass. 3 novembre 1990, n. 10573; Cass. 19 luglio
1990, n. 7391; Cass. 26 agosto 1982, n. 4729).
Il diritto di prelazione è escluso anche in caso di donazione, come pure negli altri casi di
trasferimento a titolo gratuito privi dello spirito di liberalità, dato che la legge fa riferimento ai
trasferimenti a titolo oneroso (art. 8, primo comma, della legge 26 maggio 1965, n. 590). Alla
donazione è equiparata anche la vendita a prezzo simbolico o irrisorio, che integra una
donazione indiretta (Cass. 15 maggio 2001, n. 6711; Cass. 18 luglio 1991, n.. 7969).
Non si può ipotizzare un diritto di prelazione neanche nell’ambito di una divisione.
Il diritto di prelazione non spetta neppure nel caso di conferimento del fondo agricolo in una
società di qualsiasi genere (sia che esso avvenga in sede di costituzione, sia in occasione di una
delibera di aumento del capitale sociale), dato che questo è equiparato alla permuta del terreno
con un altro bene, quale è la partecipazione sociale (Cass. 8 giugno 1992, n. 7039; Cass. 1 agosto
1991, n. 8458; Cass. 20 agosto 1990, n. 8492). Infatti, mentre il prezzo in denaro può essere
pagato da chiunque, in questa ipotesi il corrispettivo è infungibile.
Resta naturalmente fuori dal campo di applicazione della prelazione agraria la cessione delle
quote di una società che sia proprietaria di terreni agricoli, poiché la cessione comporta il
subingresso nella qualità di socio, non l’acquisto della proprietà del fondo agricolo, che resta in
capo alla società (Cass. 26 gennaio 2010, n. 1523; Cass. 17 febbraio 1984, n. 1190).
Secondo l’opinione prevalente, il diritto di prelazione agraria è escluso anche quando il
trasferimento del terreno agricolo avviene nell’ambito di un accordo di transazione (cioè
dell’accordo con cui le parti, facendosi reciproche concessioni che possono anche includere il
trasferimento della proprietà di beni immobili, pongono fine a una lite tra di esse. La transazione,
infatti, è normalmente caratterizzata dall’infungibilità delle prestazioni reciproche (Cass. 29
maggio 1984, n. 3283). E’ comunque consigliabile prestare particolare attenzione alle transazioni
caratterizzate da un accordo che prevede il trasferimento del terreno agricolo a fronte del
pagamento di un corrispettivo in denaro (pur se accompagnato dalla rinuncia alla lite), che si
prestano a essere facilmente riqualificate come compravendite in sede giudiziale.
E’ soggetto al diritto di prelazione agraria il trasferimento del fondo agricolo quale corrispettivo
della costituzione di una rendita vitalizia, ma non di un vitalizio alimentare, nel quale
l’acquirente si obbliga a corrispondere, oltre a vitto, alloggio e quanto altro necessario, anche
assistenza morale, che introduce un elemento di infungibilità nella prestazione (Cass. 18 dicembre
1986, n. 7679; Cass. 14 giugno 1982, n. 3625; Cass. 30 ottobre 1980, n. 5855).
La giurisprudenza ha ritenuto applicabile il diritto di prelazione agraria nel caso di vendita della
nuda proprietà del fondo agricolo (Cass. 22 agosto 1990, n. 8561; Cass. 27 luglio 1973, n.
2204), o di una quota indivisa del fondo (Cass. 26 luglio 2001, n. 10218; Cass. 22 gennaio 1991,
n. 591; Cass. 23 novembre 1985, n. 5829), anche se ovviamente in queste ipotesi è improbabile
che il diritto di prelazione sia esercitato, dato che il diritto acquistato non consentirebbe la
coltivazione del terreno, e l’acquisto non potrebbe godere delle agevolazioni fiscali. Ricordiamo
però che in caso di vendita di una quota di comproprietà indivisa da parte di un componente della
famiglia coltivatrice, gli altri componenti hanno diritto alla prelazione se sono coltivatori manuali
o continuano l'esercizio dell'impresa familiare in comune (art. 8, terzo comma, della legge 26
maggio 1965, n. 590). In ogni caso, all’affittuario sono preferiti sempre, se coltivatori diretti, i
coeredi del venditore (art. 8, dodicesimo comma, della legge 26 maggio 1965, n. 590).
Il diritto di prelazione agraria spetta infine nell’ipotesi di vendita all’asta da parte di un ente
pubblico, pertanto l’avente diritto deve essere messo in condizione di acquistare il fondo con
preferenza rispetto all’aggiudicatario (Cass. 12 ottobre 1982, n. 5264; Cass. 23 ottobre 1979, n.
5548), e nel caso di vendita con patto di riscatto (Cass. 3 giugno 1991, n. 6227).
20
Chi ha diritto alla prelazione
I due tipi di prelazione agraria, quella riconosciuta all’affittuario del fondo offerto in vendita (art.
8 della legge 26 maggio 1965, n. 590), quella del proprietario del fondo confinante con quello
offerto in vendita (art. 7 della legge 14 agosto 1971, n. 817), sono accomunati dalla figura
soggettiva che ne può beneficiare, il coltivatore diretto.
Ricordiamo infatti che non hanno mai diritto di prelazione agraria gli imprenditori agricoli
professionali, che pure, in seguito alla riforma dell'impresa agricola, hanno ottenuto l’accesso a
tutte le agevolazioni di carattere fiscale in ambito agricolo (d.lgs. 29 marzo 2004, n. 99,
modificato dal d.lgs. 27 maggio 2005, n. 101).
La prelazione agraria rimane dunque strettamente riservata ai coltivatori diretti.
Il coltivatore diretto
La disciplina della prelazione agraria è centrata sulla figura del coltivatore diretto.
L’art. 31 della legge 26 maggio 1965, n. 590, stabilisce che al fine dell’applicazione delle norme
sulla prelazione agraria “sono considerati coltivatori diretti coloro che direttamente ed
abitualmente si dedicano alla coltivazione dei fondi ed all'allevamento ed al governo del
bestiame, sempreché la complessiva forza lavorativa del nucleo familiare non sia inferiore ad un
terzo di quella occorrente per la normale necessità della coltivazione del fondo e per
l'allevamento ed il governo del bestiame”. Precisa inoltre che “Nel calcolo della forza lavorativa
il lavoro della donna è equiparato a quello dell'uomo”.
Il lavoro proprio e dei familiari del coltivatore diretto era inteso in origine come lavoro
essenzialmente manuale, e questo limitava fortemente la possibilità di crescita dimensionale
dell’azienda agricola. Per quanto numerosi potessero essere i familiari, e anche dando per scontato
che tutti si dedicassero, senza eccezioni, al lavoro manuale nei campi (come normalmente
avveniva nel mondo agricolo preso a riferimento dal legislatore), l’azienda agricola a coltivazione
diretta non poteva superare una certa dimensione, comunque piccola secondo gli standard attuali.
Nel corso degli anni, però, lo sviluppo nella meccanizzazione delle colture agricole ha consentito
un notevole incremento della superficie di terreno coltivabile da un singolo soggetto, e un
conseguente aumento dimensionale delle aziende agricole gestite dai coltivatori diretti.
La figura del coltivatore diretto che aveva presente il legislatore nel 1965 era sicuramente molto
diversa da quella che troviamo oggi nelle nostre campagne, e molto diverso era anche lo scenario
generale. Nel secondo dopoguerra, da una parte c’era il coltivatore diretto, dall’altra c’era il
latifondo, la grande proprietà terriera lavorata da braccianti salariati, e in questo scenario
l’attenzione del legislatore era dedicata al primo. Il coltivatore diretto era una specie protetta, da
tutelare con ogni mezzo per assicurargli una possibilità di sopravvivenza contro un potere
economico “forte”, che lo avrebbe altrimenti schiacciato. Dietro questa scelta, naturalmente, stava
anche un ragionamento di opportunità politica.
Ai fini della prelazione agraria, dunque, il coltivatore diretto è chi si dedica direttamente e
abitualmente alla coltivazione dei fondi e all'allevamento del bestiame, purché la forza
lavoro dell'agricoltore e dei componenti del suo nucleo familiare che collaborano con lui
nell'esercizio dell'attività non sia inferiore a un terzo di quella occorrente per le normali
necessità dell'azienda agricola.
La Corte di Cassazione è intervenuta ripetutamente per interpretare e precisare la definizione
dettata dal legislatore.
Diverse sentenze hanno riconosciuto la qualifica di coltivatore diretto, al fine del riconoscimento
del diritto di prelazione, anche a chi coltiva il fondo in modo non professionale, purché
stabilmente e abitualmente (quindi in modo non occasionale), e quindi anche a chi svolge
un’altra attività lavorativa principale, da cui trae un reddito superiore a quello derivante
dall’attività agricola (si veda per esempio Cass. 10 ottobre 2001, n. 12374; Cass. 23 gennaio
1995, n. 759; Cass. 31 gennaio 1986, n. 632; Cass. 15 gennaio 1982, n. 245; Cass. 7 marzo 1981,
n. 1289). E’ stato considerato coltivatore diretto persino chi si dedica alla coltivazione del fondo
21
per destinarne i frutti al consumo proprio, senza trarne alcun reddito, argomentando che la
nozione di coltivatore diretto dettata dalla legge 26 maggio 1965, n. 590, non coincide con quella
di piccolo imprenditore agricolo di cui all’art. 2083 del codice civile (Cass. 19 dicembre 1980, n.
6563).
Da ciò discende che, secondo la giurisprudenza, la qualifica di coltivatore diretto, al fine del
riconoscimento del diritto di prelazione, non richiede l’iscrizione al registro delle imprese, né
l’iscrizione in albi o elenchi, e trattandosi di una circostanza di fatto la relativa prova può essere
fornita con ogni mezzo, anche mediante prova testimoniale e per presunzioni (si veda per
esempio Cass. 27 settembre 2011, n. 19748; Cass. 19 gennaio 2006, n. 1020; Cass. 21 febbraio
2002, n. 2505; Cass. 1 settembre 1982, n. 4769). Al fine del riconoscimento del diritto di
prelazione, dunque, non è necessaria neppure l’iscrizione all’INPS nella gestione previdenziale
e assistenziali dei coltivatori diretti, che se presente è considerata solo come elemento indiziario,
trattandosi di un dato puramente formale.
La giurisprudenza ha anche precisato anche che non si applica l'art. 2, secondo comma, della
legge 29 novembre 1962 n. 1680 (secondo cui l'esistenza delle condizioni previste per il
riconoscimento della qualità di coltivatore diretto deve essere attestata dall'ispettorato provinciale
agrario, sentito il competente ufficio delle imposte dirette), dettato ad altri fini (Cass. 1 settembre
1982, n. 4769; Cass. 24 maggio 1984, n. 3194).
Secondo la giurisprudenza, il diritto di prelazione spetta anche al coltivatore diretto che si
avvale di contoterzisti per le operazioni più importanti e complesse nell’ambito della
coltivazione del fondo, trattandosi di pratica ordinaria e diffusa (Cass. 26 ottobre 1998, n. 10626).
La Corte di Cassazione ha riconosciuto il diritto di prelazione anche al coltivatore diretto di età
avanzata che ha dimostrato di svolgere effettivamente attività di direzione dei lavori di
coltivazione del fondo (Cass. 25 maggio 2007, n. 12249, riferita a un caso in cui il coltivatore
diretto aveva 86 anni).
Ricordiamo infine che secondo la giurisprudenza non spetta il diritto di prelazione a chi svolge
soltanto l’attività di allevamento del bestiame, dovendo questa attività essere connessa a quella
di coltivazione del fondo (si veda, per esempio, Cass. 27 dicembre 1991, n. 13927).
Dall’interpretazione giurisprudenziale emerge dunque una figura di coltivatore diretto diversa
da quella prevista al fine delle agevolazioni fiscali per l’acquisto dei terreni agricoli (piccola
proprietà contadina), per le quali è indispensabile l’iscrizione nella gestione previdenziale e
assistenziale agricola dell’INPS (art. 2, comma 4-bis, del decreto legge 30 dicembre 2009, n.
194, inserito in sede di conversione dalla legge 26 febbraio 2010 n. 25 e successivamente
modificato dall'art. 1, comma 41, della legge 13 dicembre 2010, n. 220).
La società di coltivazione diretta
La riforma dell'impresa agricola (d.lgs. 29 marzo 2004, n. 99, modificato dal d.lgs. 27 maggio
2005, n. 101) ha esteso il diritto di prelazione per l'acquisto dei terreni condotti in affitto o
confinanti alle società agricole di persone (società semplici, s.n.c., s.a.s.) in cui almeno la metà
dei soci è in possesso della qualifica di coltivatore diretto. Rimane dunque un collegamento con
la figura del coltivatore diretto, a cui è tradizionalmente riservato il diritto di prelazione. Ciò che
conta è il numero dei soci, indipendentemente dalla loro quota di partecipazione, dato che il
legislatore non ha fatto riferimento alla metà del capitale sociale.
Ricordiamo che per essere considerata società agricola la società di persone deve avere come
oggetto esclusivo l'esercizio dell'agricoltura e delle attività connesse, (individuate dall'art.
2135 del codice civile), la ragione sociale deve contenere l'indicazione “società agricola”, e
almeno uno dei soci deve essere in possesso della qualifica di coltivatore diretto o imprenditore
agricolo professionale, mentre gli altri soci possono anche non essere agricoltori,
indipendentemente dal loro numero. Nelle società in accomandita semplice (s.a.s.) deve essere
coltivatore diretto o imprenditore agricolo professionale almeno un socio accomandatario.
Il diritto di prelazione, dunque, non spetta a tutte le società agricole di persone, ma solo a quelle in
cui almeno la metà dei soci è in possesso della qualifica di coltivatore diretto. Sono escluse dal
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diritto di prelazione le società agricole di persone in cui meno della metà dei soci è coltivatore
diretto, indipendentemente dalla presenza di imprenditori agricoli professionali, e sono sempre
escluse le società di capitali, anche in presenza di soci coltivatori diretti.
L’imprenditore agricolo professionale
La riforma dell'impresa agricola ha introdotto la nuova figura dell’imprenditore agricolo
professionale (i.a.p.), a cui ha esteso tutte le agevolazioni tributarie in materia di imposte indirette
e creditizie in precedenza riservate ai coltivatori diretti (d.lgs. 29 marzo 2004, n. 99, modificato
dal d.lgs. 27 maggio 2005, n. 101).
All’imprenditore agricolo professionale, però, non è stato esteso il diritto di prelazione, che è
rimasto prerogativa esclusiva del coltivatore diretto, singolo o associato.
Ricordiamo anche che, secondo l’interpretazione assolutamente prevalente, i beneficiari del diritto
di prelazione agraria non sono stati ampliati neppure dall’art. 7 del decreto legislativo 18 maggio
2001, n. 228, che prevede i criteri di preferenza da seguire in caso di esercizio del diritto di
prelazione da parte di più coltivatori diretti confinanti. Questa norma, infatti, prevede che “nel
caso di più soggetti confinanti, si intendono, quali criteri preferenziali, nell'ordine, la presenza
come partecipi nelle rispettive imprese di coltivatori diretti e imprenditori agricoli a titolo
principale di età compresa tra i 18 e i 40 anni o in cooperative di conduzione associata dei
terreni, il numero di essi nonché il possesso da parte degli stessi di conoscenze e competenze
adeguate ai sensi dell'articolo 8 del regolamento (CE) n. 1257/99 del Consiglio, del 17 maggio
1999.”. Ciò non significa che il legislatore abbia voluto estendere il diritto di prelazione agli
“imprenditori agricoli a titolo principale” (ora imprenditori agricoli professionali), essendosi
limitato a dettare i criteri da utilizzare per dirimere il conflitto tra più confinanti aventi diritto alla
prelazione in base alle previsioni della legge n. 590 del 1965 e della legge n. 817 del 1971.
L’oggetto della prelazione
Oggetto della prelazione agraria è sempre e soltanto un “fondo rustico” o fondo agricolo (art. 8
della legge 26 maggio 1965, n. 590).
La legge non fornisce ulteriori specificazioni, ma per fondo agricolo si intende comunemente il
terreno destinato all'agricoltura, che può essere comprensivo anche di uno o più fabbricati
rurali, cioè fabbricati destinati esclusivamente al servizio dell'attività agricola svolta sul fondo.
La destinazione agricola risulta normalmente dal certificato di destinazione urbanistica
rilasciato dal Comune. Questo certificato deve essere allegato all’atto di compravendita, nella
sua versione più aggiornata (non deve essere stato rilasciato da più di un anno, e la parte
venditrice deve dichiarare davanti al notaio che non sono intervenute modifiche negli strumenti
urbanistici dopo il suo rilascio, quindi esso rappresenta fedelmente la situazione urbanistica del
terreno). In questo modo la parte acquirente è sempre in grado di verificare agevolmente la
destinazione urbanistica del terreno che sta acquistando. I terreni a destinazione agricola sono
normalmente indicati nel certificato di destinazione urbanistica come “zona agricola”, con
eventuale aggiunta di ulteriori specificazioni, oppure come “verde agricolo”.
Sono espressamente esclusi dalla prelazione agraria i terreni edificabili di qualsiasi genere
(residenziali, artigianali, industriali, commerciali). La legge precisa che occorre fare riferimento
anche agli strumenti urbanistici non ancora vigenti, poiché non si è ritenuto compatibile con le
finalità della prelazione agraria l'acquisto di un terreno destinato a perdere, in breve tempo, la
destinazione agricola (art. 8, secondo comma, della legge 26 maggio 1965, n. 590). La norma, per
escludere il diritto di prelazione, fa riferimento ai terreni destinati ad utilizzazione edilizia “in
base a piani regolatori, anche se non ancora approvati". La Corte di Cassazione è intervenuta
spesso per chiarire questo aspetto, e ha precisato anzitutto che si deve tenere conto di qualsiasi
strumento urbanistico di pianificazione del territorio, proveniente dal Comune o da altro ente
territoriale (si veda, per esempio, Cass. 24 marzo 2003, n. 4274; Cass. 19 gennaio 2000, n. 534;
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Cass. 23 giugno 1999, n. 6401; Cass. 20 giugno 1998, n. 6161; Cass. 14 gennaio 1997, n. 306;
Cass. 2 aprile 1996, n. 3028). La finalità della norma, infatti, è quella di escludere il diritto di
prelazione agraria in tutti i casi in cui il terreno è destinato a perdere la sua attuale destinazione
agricola per acquisire la natura di bene edificabile, o comunque di area utilizzata per scopi diversi
da quelli agricoli. Il diritto di prelazione è dunque escluso quando è già iniziato un
procedimento amministrativo finalizzato al mutamento della destinazione urbanistica del
terreno, purché questo procedimento sia già stato formalizzato in atti conoscibili dai terzi. Non è
sufficiente, dunque, la richiesta di variante urbanistica presentata al Comune dal proprietario del
fondo agricolo, che è un semplice atto privato sul quale la pubblica amministrazione non si è
ancora pronunciata (Cass. 21 gennaio 2000, n. 673).
Non deve essere in ogni caso considerato edificabile il terreno in cui gli strumenti urbanistici
consentono esclusivamente la realizzazione di costruzioni strumentali all’attività agricola,
neppure se è già stato rilasciato il relativo titolo abilitativo (Cass. 21 novembre 1990, n. 11241).
Non escludono il diritto di prelazione agraria la destinazione paesistica, che risulta compatibile
con l’esercizio dell’attività agricola sul terreno (Cass. 20 dicembre 1990, n. 12090; Cass. 28
aprile 1990, n. 3592), né, naturalmente, la destinazione agrituristica, che rientra espressamente
nell’ambito delle attività connesse con l’attività agricola (Cass. 27 novembre 1991, n. 12684).
La giurisprudenza più recente, superando il precedente orientamento, esclude invece dalla
prelazione agraria i terreni che rientrano nella destinazione a “verde pubblico”, cioè destinati alla
formazione di parchi pubblici e in genere di spazi verdi per l'utilizzo collettivo della popolazione
urbana (Cass. 6 marzo 2006, n. 4797; Cass. 29 marzo 2003, n. 4842; Cass. 28 giugno 2011, n.
8851; Cass. 16 novembre 1989, n. 4878) e a “verde privato”, cioè destinati alla realizzazione di
giardini, parchi e spazi verdi di uso privato (Cass. 16 maggio 2003, n. 7641). Secondo la Corte di
Cassazione, infatti, il legislatore ha inteso escludere dalla prelazione tutti i terreni la cui
destinazione seppure non edificatoria, sia da considerare comunque “urbana” (“verde pubblico”,
“verde privato” e le cosiddette “zone di rispetto”, come per esempio le aree di rispetto cimiteriale)
in contrapposizione alla destinazione “agricola” (Cass. 31 marzo 2010, n. 7796; Cass. 28 aprile
2006, n. 9963; Cass. 6 marzo 2006, n. 4797).
Ricordiamo infine che se il terreno offerto in vendita ha solo in parte destinazione agricola, il
diritto di prelazione spetta soltanto sulla parte agricola (Cass. 24 novembre 1986, n. 6910; Cass.
12 aprile 2000, n. 4659; Cass. 6 marzo 2006, n. 4797).
E’ pertanto opportuno che già nel contratto preliminare il prezzo complessivo sia scorporato
nelle sue due componenti, quella relativa alla porzione agricola e quella relativa alla porzione
edificabile o comunque a destinazione diversa, al fine di consentire l’esercizio della prelazione (in
caso contrario, la prelazione può comunque essere esercitata sulla porzione agricola, e la
determinazione del prezzo sarà rimessa al giudice).
Una sentenza della Corte di Cassazione ha però consentito di estendere l’esercizio della
prelazione all’intero terreno oggetto della compravendita, nel quale la zona agricola era
ampiamente prevalente su quella avente destinazione diversa, considerando sia il valore sia la
superficie (Cass. 6 agosto 2002, n. 11757).
La presenza di uno o più fabbricati sul fondo agricolo offerto in vendita non esclude il diritto
di prelazione. Dobbiamo però distinguere due ipotesi. Se si tratta di fabbricati rurali, cioè
fabbricati destinati esclusivamente al servizio dell'attività agricola svolta sul fondo, la prelazione
può essere esercitata sull’intero fondo agricolo, comprensivo dei fabbricati (Cass. 10
settembre 1986, n. 5538). In caso contrario, la prelazione può essere esercitata solo sul
terreno agricolo, e non sui fabbricati. Anche in questo caso, come abbiamo visto, è opportuno
che già nel contratto preliminare il prezzo complessivo sia scorporato nelle sue due componenti
(terreno agricolo e fabbricati non strumentali) per consentire l’esercizio della prelazione sui soli
terreni agricoli, e in mancanza la prelazione può essere esercitata sul solo terreno agricolo, e la
determinazione del prezzo sarà rimessa al giudice.
In passato veniva escluso il diritto di prelazione agraria per i fabbricati che, pur strumentali
all'attività agricola, fossero stati dichiarati al catasto fabbricati, ritenendo che in tale ipotesi la
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costruzione perdesse il suo connotato di fabbricato rurale. Questo elemento formale è stato però
smentito dalla successiva evoluzione della normativa catastale, che come è noto oggi impone
l'iscrizione al catasto fabbricati per tutte le costruzioni, compresi i fabbricati rurali, che non
per questo, ovviamente, perdono i requisiti di ruralità, se presenti. Oggi, pertanto, il discrimine
non può certo essere l'iscrizione in catasto fabbricati, che sarà sempre presente, ma piuttosto
l'effettiva ruralità del fabbricato, che potrà essere compreso nel fondo oggetto di prelazione
agraria soltanto ne effettivamente destinato al servizio dell'attività agricola, e dunque in presenza
di tutti i requisiti previsti dalla legge per il riconoscimento della ruralità (art. 9 del d.l. 30
dicembre 1993, n. 557, convertito dalla legge 26 febbraio 1994, n. 133, e modificato dall'art. 42bis del d.l. 1 ottobre 2007, n. 159, convertito con modificazioni dalla legge 29 novembre 2007, n.
222).
La vendita del solo fabbricato rurale normalmente non è soggetta a prelazione agraria, dato che
questo può assumere rilevanza, sotto il profilo della prelazione, esclusivamente quale pertinenza
del terreno agricolo, al cui servizio è destinato. La Corte di Cassazione ha però eccezionalmente
riconosciuto applicabile il diritto di prelazione agraria a un fabbricato rurale che, pur essendo
venduto separatamente, rimaneva adibito al servizio dell’impresa agricola, e in particolare ha
riconosciuto il diritto di prelazione all’affittuario del fondo che aveva già acquistato i terreni, in
caso di successiva vendita dei fabbricati (Cass. 15 maggio 2009, n. 11314; Cass. 2 aprile 1992, n.
4011).
La giurisprudenza ha precisato che il diritto di prelazione esiste indipendentemente dalla
dimensione del fondo agricolo (Cass. 2 febbraio 1995, n. 1244; Cass. 2 marzo 2000, n. 2327),
quindi sono soggetti alla prelazione agraria sia i terreni di piccole dimensioni, sia quelli di grande
estensione (ferma restando la limitazione dimensionale derivante dalla capacità lavorativa della
famiglia del coltivatore diretto).
Inoltre, è indifferente il tipo di coltivazione in atto (Cass. 25 marzo 2003, n. 4374; Cass. 2
febbraio 1995, n.1244), anzi è soggetto a prelazione agraria anche il fondo attualmente non
coltivato (incolto), perché ciò che conta è soltanto la possibilità di una futura coltivazione da
parte dell'acquirente (Cass. 2 febbraio 1995, n. 1244). Anche il terreno boschivo è soggetto a
prelazione agraria, dato che il bosco è considerato una forma di coltivazione agricola (Cass. 17
ottobre 1984, n. 5242).
La giurisprudenza ha invece escluso il diritto di prelazione in caso di affitto di terreno adibito a
pascolo o in presenza di un contratto di vendita di erbe, o pascipascolo (Cass. 2 marzo 2007, n.
4958).
La prelazione dell’affittuario
L’art. 8, primo comma, della legge 26 maggio 1965, n. 590, prevede che “In caso di trasferimento
a titolo oneroso o di concessione in enfiteusi di fondi concessi in affitto a coltivatori diretti, a
mezzadria, a colonia parziaria, o a compartecipazione, esclusa quella stagionale, l'affittuario, il
mezzadro, il colono o il compartecipante, a parità di condizioni, ha diritto di prelazione purché
coltivi il fondo stesso da almeno due anni, non abbia venduto, nel biennio precedente, altri fondi
rustici di imponibile fondiario superiore a lire mille, salvo il caso di cessione a scopo di
ricomposizione fondiaria, ed il fondo per il quale intende esercitare la prelazione in aggiunta ad
altri eventualmente posseduti in proprietà od enfiteusi non superi il triplo della superficie
corrispondente alla capacità lavorativa della sua famiglia.”.
Il diritto di prelazione dell’affittuario ha lo scopo di consentire la riunione in un unico soggetto
della proprietà e della conduzione del fondo agricolo. Il legislatore ha ritenuto vantaggioso, per
lo sviluppo dell’economia agricola, che il soggetto che conduce il fondo (purché abbia la qualifica
di coltivatore diretto) abbia la possibilità di acquistarne la proprietà con precedenza rispetto ad
altri soggetti, nel momento in cui il proprietario decide di venderlo. La coincidenza tra proprietà e
conduzione del fondo agricolo risponde all’interesse generale, perché il proprietario è senz’altro
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portato, più dell’affittuario, ad apportare miglioramenti al fondo, rendendolo più produttivo
anche mediante investimenti a lungo termine.
Il diritto di prelazione spetta al coltivatore diretto solo se ricorrono queste condizioni:
- coltiva il fondo in qualità di affittuario da almeno due anni;
- non ha venduto, nel biennio precedente, altri fondi rustici di imponibile fondiario
superiore a lire mille (salvo il caso di cessione a scopo di ricomposizione fondiaria);
- il fondo per il quale intende esercitare la prelazione, in aggiunta ad altri eventualmente
posseduti in proprietà od enfiteusi, non supera il triplo della superficie corrispondente
alla capacità lavorativa della sua famiglia.
La prelazione del confinante
L’art. 7 della legge 14 agosto 1971, n. 817 dispone che il diritto di prelazione previsto dal primo
comma dell'art. 8 della legge 26 maggio 1965, n. 590, “spetta anche (…) al coltivatore diretto
proprietario di terreni confinanti con fondi offerti in vendita, purché sugli stessi non siano
insediati mezzadri, coloni, affittuari, compartecipanti od enfiteuti coltivatori diretti”.
Questa norma ha ampliato le fattispecie di prelazione agraria, concedendola anche a favore del
proprietario coltivatore diretto di fondo confinante con quello offerto in vendita, ma solo in
mancanza di un affittuario coltivatore diretto. La finalità prevalente, dunque, rimane quella di
consentire la riunione in un unico soggetto della proprietà e della conduzione del fondo agricolo.
Ad essa si aggiunge però quella di favorire la creazione di aziende agricole di maggiore
estensione, attraverso l’accorpamento dei fondi limitrofi, sempre in presenza della qualifica di
coltivatore diretto.
Questa tendenza all’accorpamento avrebbe dovuto essere agevolata, nelle intenzioni del
legislatore, fino al raggiungimento della massima dimensione aziendale coltivabile con la forza
lavoro della famiglia diretto-coltivatrice. All’epoca questa dimensione era ancora piuttosto
piccola, mentre oggi è cresciuta notevolmente, grazie alla meccanizzazione. Peraltro, è cresciuta
di pari passo anche la dimensione richiesta alle aziende agricole per essere competitive sul
mercato.
Perché sia riconosciuto il diritto di prelazione, l’art. 7 della legge 14 agosto 1971, n. 817 richiede
che:
- il proprietario del fondo confinante lo coltivi direttamente;
- sul fondo offerto in vendita non sia insediato un affittuario coltivatore diretto.
Devono inoltre essere presenti le condizioni previste dall’art. 8 della legge 26 maggio 1965, n.
590, pertanto:
- il confinante deve coltivare il fondo da almeno due anni;
- il confinante non deve aver venduto, nel biennio precedente, altri fondi rustici di
imponibile fondiario superiore a lire mille (salvo il caso di cessione a scopo di
ricomposizione fondiaria);
- il fondo per il quale il confinante intende esercitare la prelazione, in aggiunta a tutti gli
altri da lui posseduti in proprietà od enfiteusi, non deve superare il triplo della
superficie corrispondente alla capacità lavorativa della sua famiglia.
Il diritto di prelazione riconosciuto al proprietario del fondo confinante con quello offerto in
vendita è quello che si più si presta a suscitare dubbi nell’applicazione pratica, generando conflitti
tra il potenziale acquirente e il confinante che intende esercitare il diritto di prelazione. Sotto
questo profilo, infatti, la posizione dell’affittuario coltivatore diretto è molto più semplice, non
solo perché è sempre altamente probabile che siano presenti tutti i requisiti richiesti dalla legge (e
dalla giurisprudenza) perché sussista il diritto di prelazione, ma anche perché è assai difficile che
qualcuno sia interessato ad acquistare un fondo agricolo in presenza di un affittuario coltivatore
diretto, senza aver prima raggiunto un accordo con questo, dato che egli, anche se non intendesse
esercitare il diritto di prelazione per l’acquisto, continuerebbe a coltivare il fondo in virtù del
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contratto di affitto. In tale situazione, l’acquirente sarebbe penalizzato anche sotto il profilo
fiscale, non potendo richiedere le agevolazioni concesse esclusivamente a chi coltiva direttamente
il terreno acquistato. E’ molto probabile, dunque, che l’acquirente di un fondo condotto in affitto
sia lo stesso affittuario, oppure che il terzo acquirente si accordi con l’affittuario per il rilascio del
terreno, contestualmente o subito dopo l’atto di acquisto (eventualmente al termine dell’annata
agraria).
Al contrario, la presenza di coltivatori diretti confinanti con il fondo offerto in vendita è
quasi una costante nella pratica, e il raggiungimento di un accordo tra essi e il potenziale
acquirente, pur se auspicabile, non è affatto scontato, anzi sono frequenti le situazioni di
conflitto. Risulta dunque essenziale la verifica della presenza o meno dei presupposti per la
sussistenza del diritto di prelazione in capo all’affittuario, sia sotto il profilo soggettivo sia sotto il
profilo oggettivo.
Quando il fondo è confinante
Come abbiamo visto, la verifica circa la presenza o meno dei presupposti per la sussistenza del
diritto di prelazione in capo all’affittuario è un aspetto essenziale nella gestione della
compravendita di un fondo agricolo. La presenza di coltivatori diretti confinanti con il fondo
offerto in vendita è quasi una costante nella pratica, e le situazioni di conflitto sono molto
frequenti.
Uno degli aspetti essenziali è pertanto la verifica della qualità di confinante. La legge fa
riferimento ai “terreni confinanti con fondi offerti in vendita” (art. 7 della legge 14 agosto 1971,
n. 817). Ma quando un terreno si considera “confinante” con un altro? La risposta a questa
domanda, apparentemente semplice, ha impegnato i giudici di merito e di legittimità per oltre
quarant’anni. Le sentenze, anche da parte della Corte di Cassazione, sono numerose, e da esse
possiamo trarre molte indicazioni utili a risolvere i più disparati casi che si presentano ogni giorno
nella pratica, pur tenendo sempre presente che nel nostro sistema giuridico i precedenti
giurisprudenziali, per quanto autorevoli, non sono vincolanti per i giudici nelle controversie
future, quindi non si possono escludere, a priori, interpretazioni differenti.
La giurisprudenza prevalente considera due fondi come “confinanti” esclusivamente quando tra di
essi esiste una contiguità fisica e materiale, cioè hanno una comune linea di demarcazione,
escludendo dunque il diritto di prelazione nel caso della semplice contiguità funzionale, cioè
quando due fondi, pur se fisicamente separati, potrebbero essere utilmente accorpati in un’unica
azienda (si veda, per esempio, Cass. 26 marzo 2003, n. 4486; Cass. 17 luglio 2002, n. 10337;
Cass. 9 novembre 1994, n. 9319).
Nessun dubbio che siano confinanti due fondi che si toccano su un lato, cioè hanno una linea di
confine in comune. Maggiori dubbi ha invece sollevato l’ipotesi in cui i due fondi si tocchino solo
in uno spigolo, cioè, da un punto di vista strettamente geometrico, abbiano un comune un solo
punto, anziché una linea. In questo caso la giurisprudenza ha ritenuto che i fondi non fossero
confinanti (Cass. 20 gennaio 2006, n. 1106).
E’ piuttosto frequente che lungo il confine tra fondi agricoli di proprietà diverse sia presente
una strada, di solito destinata al solo passaggio dei mezzi agricoli, ma a volte divenuta, con il
passare del tempo, di uso pubblico, o addirittura una strada pubblica a tutti gli effetti. In molte
realtà agricole, inoltre, lungo i confini del fondi esistono fossi, canali o rogge destinate
all’irrigazione dei fondi stessi. In tutti questi casi non è così facile stabilire quando un fondo è
“confinante” con un altro, e quando invece la presenza di un elemento estraneo, quale la strada o
la roggia, impedisce di considerare i fondi come fisicamente contigui.
Strada pubblica e ferrovia
La presenza di una strada pubblica (comunale, provinciale, statale, o addirittura un’autostrada) o
di una ferrovia lungo il confine tra due fondi esclude sempre il diritto di prelazione, secondo la
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giurisprudenza prevalente, poiché fa venir meno la contiguità materiale tra i fondi (Cass. 26
novembre 2007, n. 24622; Cass. 20 dicembre 2005, n. 28235; Cass. 17 luglio 2002, n. 10377;
Cass. 6 agosto 2002, n. 11779; Cass. 9 febbraio 1994, n. 1331; Cass. 4 dicembre 1982, n. 6644).
Strada interpoderale
La situazione è più complicata quando lungo il confine tra due fondi corre una strada privata.
Nelle zone agricole sono ampiamente presenti le cosiddette “strade interpoderali”, chiamate
anche “carrarecce”, “carreggiate” o “tratturi”, denominazioni che nelle diverse zone geografiche
indicano le stradelle private (normalmente in terra, battuta dal passaggio stesso dei mezzi agricoli,
o al massimo consolidata con il riporto di ghiaia, sassi o frammenti di varia origine), create dagli
agricoltori per le proprie necessità di coltivazione e trasporto dei prodotti agricoli al momento del
raccolto. A volte queste stradelle sono interne al fondo, e quindi appartengono a un unico
proprietario, che è il solo legittimato ad utilizzarle (salva la presenza di una servitù di passaggio a
favore di terzi), anche se create in prossimità del confine. La presenza di una strada creata dal
proprietario del fondo destinando a tale scopo una porzione del terreno di sua proprietà non
esclude la contiguità materiale con il fondo limitrofo, e quindi non esclude il diritto di prelazione
agraria.
Lo stesso può dirsi per le strade interpoderali realizzate lungo il confine tra più fondi, in seguito
all’accordo tra i proprietari frontisti, ciascuno dei quali ha fornito l’area necessaria alla
realizzazione di una metà della strada, pertanto il confine tra i due fondi coincide con la
mezzeria della strada (sulla quale può essere presente una servitù di passaggio a favore di terzi).
Anche in questo caso c’è contiguità materiale, e dunque si ritiene prevalentemente che sussista il
diritto di prelazione agraria (Cass. 29 settembre 1995, n. 10272; Cass. 3 settembre 1985, n.
4590).
Strada vicinale
Diversa è la situazione della cosiddetta “strada vicinale”, cioè quella strada che, pur essendo
originariamente di proprietà privata (di solito dei proprietari frontisti), nel corso del tempo è stata
assoggettata al diritto di transito pubblico a favore della collettività. Ciò avviene,
normalmente, quando la strada, anziché essere destinata esclusivamente al servizio di uno o più
fondi agricoli, è diventata anche una via di accesso a una piccola frazione (gruppo di case) o
cascina. Le strade vicinali soggette a uso pubblico sono normalmente iscritte nell’apposito
elenco tenuto dal Comune, e spesso sono riportate sulle mappe catastali con l’indicazione di
strada vicinale.
Secondo la giurisprudenza, i fondi agricoli presenti ai lati della strada vicinale non possono essere
considerati contigui, e pertanto è escluso il diritto di prelazione (Cass. 26 novembre 2007, n.
24622; Cass. 14 gennaio 1998, n. 265).
Normalmente per strada vicinale si intende esclusivamente quella soggetta a pubblico transito. In
alcuni casi, tuttavia, è stato escluso il diritto di prelazione anche per i fondi separati da una
cosiddetta “strada vicinale non aperta al pubblico transito”, cioè da una strada interpoderale
formata dai frontisti mettendo in comune la proprietà di varie strisce di terreno. In questo caso,
secondo una parte della giurisprudenza, la strada, pur rimanendo privata, non è di proprietà dei
frontisti per singole porzioni, ma rappresenta un bene autonomo, di proprietà comune a diversi
soggetti, e quindi esclude la contiguità materiale dei fondi (Cass. 27 settembre 2011, n. 19747;
Cass. 26 novembre 2007, n. 24622; Cass. 19 gennaio 2007, n. 1191; Cass. 17 luglio 2022, n.
10377). Questo tipo di strada interpoderale si avvicina alle caratteristiche della “strada vicinale”,
pur non essendo aperta al pubblico transito. Si tratta, però, di una situazione piuttosto difficile da
dimostrare nella pratica, specialmente se la strada non è segnata sulle mappe catastali, quindi
ciascun caso deve essere analizzato facendo riferimento alla specifica realtà locale, ed è
comunque opportuno tenere presente che, in mancanza di una qualificazione ufficiale della
strada come “vicinale”, è molto probabile che sia riconosciuto al confinante il diritto di
prelazione (Cass. 8 gennaio 1996, n. 58).
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Corsi d’acqua
Secondo la giurisprudenza, manca la contiguità materiale tra i fondi, e dunque è escluso il diritto
di prelazione, quando questi sono separati da un fiume, da un torrente o comunque da un corso
d’acqua naturale, oppure da un canale o roggia demaniale, indipendentemente dal fatto che
esso sia incluso nell’elenco delle acque pubbliche, che non ha carattere costitutivo ma solo
dichiarativo (Cass. 14 marzo 2008, n. 7052; Cass. 20 febbraio 2001, n. 2471; Cass. 23 giugno
1989, n. 2983; Cass. 10 febbraio 1987, n. 1433).
Fossi e canali di scolo
Si considerano invece confinanti i fondi separati da un semplice fosso o da un canale di scolo
delle acque. Questo può appartenere a uno dei due fondi oppure essere comune alle due proprietà
(art. 897 c.c.), che si estendono fino alla mezzeria del fosso o canale. In questo caso, dunque,
sussiste il diritto di prelazione (Cass. 26 marzo 2003, n. 4486; Cass. 17 dicembre 1991, n. 13558).
Striscia di terreno
La contiguità materiale tra i fondi è ovviamente esclusa dalla presenza di una striscia di terreno di
proprietà di terzi, per quanto piccola. Non dobbiamo però pensare che il venditore possa eludere il
diritto di prelazione del confinante frazionando e riservandosi la proprietà di una piccola
porzione di terreno in prossimità del confine. In questo caso, infatti, se il terreno frazionato, per
la sua forma e la sua dimensione, non risulta idoneo a una coltivazione separata, è stato comunque
riconosciuto il diritto di prelazione del confinante (Cass. 9 aprile 2003, n. 5573; Cass. 13
agosto 1997, n. 7553; Cass. 27 luglio 1990, n. 7579; Cass. 17 ottobre 1989, n. 4152). La
prelazione non spetta, invece, se i fondi sono separati da un appezzamento di terreno che ha
una propria autonomia strutturale e funzionale (Cass. 25 luglio 1990, n. 7503).
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Il passaggio generazionale
Azienda e fondo agricolo
Il passaggio generazionale della proprietà fondiaria presenta significative differenze, sotto il
profilo fiscale, se ha per oggetto un azienda gestita in proprio oppure un complesso immobiliare
concesso in affitto a terzi.
Solo nel primo caso, infatti, è possibile beneficiare, nell’ambito del trasferimento per donazione o
successione, della normativa fiscale di favore prevista per il trasferimento di azienda ai figli e ai
discendenti.
Nel caso in cui il trasferimento ha per oggetto terreni agricoli (e fabbricati rurali) che non sono
gestiti direttamente dal disponente, ma sono condotti in affitto da terzi, si applicano invece le
imposte ordinarie sulle donazioni e successioni, pur con le franchigie previste dalla legge.
Il passaggio generazionale dell’azienda
La legge finanziaria per il 2007 (legge 27 dicembre 2006, n. 296), in seguito alla reintroduzione
delle imposte sulle successioni e donazioni, ha disposto, a certe condizioni, l'esenzione
dall'imposta di successione e donazione per i trasferimenti di aziende o rami di azienda, di
quote sociali e di azioni a favore dei figli e degli altri discendenti (l'art. 2, comma 31, della
legge 24 dicembre 2007, n. 244, legge finanziaria per il 2008, ha aggiunto anche il coniuge), e ha
previsto espressamente che essa si applica anche ai trasferimenti effettuati tramite i patti di
famiglia di cui agli articoli 768-bis e seguenti del codice civile.
Dal primo gennaio 2007, quindi, i trasferimenti di aziende o rami di azienda, di quote sociali e di
azioni a favore dei figli e degli altri discendenti nell'ambito dei patti di famiglia sono esenti
dall'imposta di donazione e successione. Se l'azienda comprende beni immobili, il trasferimento
è esente anche dalle imposte ipotecarie e catastali che dovrebbero gravare su di essi.
L'esenzione si applica a tutte le aziende e a tutte le quote di partecipazione in società di
persone (s.n.c., s.a.s. e società semplici), indipendentemente dal loro ammontare.
Se invece si tratta di azioni o quote di s.r.l. l'esenzione si applica solo alle partecipazioni che
consentono al beneficiario di acquisire o integrare il controllo della società attraverso la
maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria.
Le legge prevede inoltre che il beneficiario deve impegnarsi espressamente a proseguire nella
gestione dell'azienda, o a mantenere il controllo della società, per almeno cinque anni dopo il
trasferimento, a pena di decadenza dall'agevolazione. A tal fine il beneficiario deve rendere
un'apposita dichiarazione nell'atto di donazione, ovvero allegata alla dichiarazione di successione.
In caso di mancato rispetto dell'impegno assunto, sarà applicata l'imposta di donazione nella
misura ordinaria (4%), ed eventualmente le imposte ipotecarie (2%) e catastali (1%) sugli
immobili, oltre alla sanzione amministrativa pari al trenta per cento dell'importo non versato e agli
interessi di mora.
La necessità che, per godere dell'esenzione fiscale, il trasferimento di azioni o quote di s.r.l. abbia
per oggetto una partecipazione che consente al beneficiario di acquisire o integrare il controllo
della società, può creare qualche problema quando il beneficiario non è uno solo dei figli.
Infatti, la ripartizione delle partecipazioni fra due o più discendenti impedirebbe a ciascuno di essi
di acquisire, da solo, il controllo della società, e di conseguenza farebbe venire meno l'esenzione
per tutti. L'Agenzia delle entrate ha mostrato di interpretare questa norma in modo restrittivo.
L'unica possibilità per godere dell'esenzione è che il pacchetto di controllo della società sia
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intestato ai figli in modo indiviso, cioè essi diventino comproprietari dell'intera partecipazione di
controllo, nominando poi un rappresentante comune nei confronti della società. Si tratta
sicuramente di una complicazione, ma sembra essere l'unica soluzione per ottenere l'esenzione
quando il trasferimento avviene a favore di più soggetti. La divisione delle quote o azioni potrà
dunque avvenire solo dopo cinque anni dal trasferimento.
Il passaggio generazionale dei fondi agricoli
Se la donazione (o la successione) ha per oggetto terreni agricoli (e fabbricati rurali) che non sono
gestiti direttamente dal disponente, ma sono condotti in affitto da terzi, si applicano invece le
imposte ordinarie sulle donazioni e successioni, pur con le franchigie previste dalla legge.
L’imposta sulle successioni e donazioni è stata reintrodotta nel nostro ordinamento a partire dal 3
ottobre 2006 (decreto legge 3 ottobre 2006, n. 262), dopo che era stata abolita il 25 ottobre 2001.
La nuova imposta sulle successioni e donazioni è stata subito dopo modificata, prima con la legge
di conversione del decreto collegato alla finanziaria 2007 (legge 24 novembre 2006, n. 286), e poi
ancora con la vera e propria legge finanziaria 2007 (legge 27 dicembre 2006, n. 296).
Altre imposte sugli immobili
Oltre alla vera e propria imposta di successione e donazione, sul valore degli immobili compresi
nell'eredità oppure donati si pagano le imposte ipotecarie e catastali, le stesse che paghiamo, per
esempio, in caso di vendita. Se nel patrimonio del defunto, o nella donazione, sono compresi
fabbricati e terreni, dunque, si paga il 2% di imposta ipotecaria e l'1% di imposta catastale. In
totale il 3%, che si calcola sul valore catastale degli immobili, che per fortuna è (almeno fino a
oggi) molto più basso del loro valore effettivo.
Le imposte ipotecarie e catastali sono uguali per tutti, quindi i figli pagano come i parenti più
lontani e gli estranei, e purtroppo non è prevista alcuna franchigia, quindi questo 3% si paga
sull'intero valore degli immobili, e non solo oltre il milione di euro (per coniuge e figli) e i 100
mila euro (per fratelli e sorelle). Se ci sono immobili, le imposte ipotecarie e catastali si pagano
sempre.
Anche nella successione o donazione è però possibile chiedere le agevolazioni per la prima
casa. Se almeno uno degli eredi o donatari intende destinare a propria abitazione principale il
fabbricato ricevuto in successione o donazione, e sono presenti i requisiti previsti dalla legge sulla
prima casa, le imposte ipotecarie e catastali sono ridotte a 400 euro complessivi,
indipendentemente dal valore dell'abitazione.
Quando ci sono più eredi e più immobili, ciascuno può chiedere le agevolazioni prima casa su
un'abitazione, e per ciascuno di essi l'agevolazione si applica all'intera unità immobiliare,
anche se il beneficiario è proprietario solo di una quota o è titolare di un diritto reale. L'Agenzia
delle Entrate ha chiarito che si può chiedere l'agevolazione anche se la casa è utilizzata dal
coniuge del defunto, che mantiene per legge il diritto di abitazione anche quando rinuncia
all'eredità (risoluzione n. 29/E del 25 febbraio 2005).
Ricordiamo comunque che il semplice fatto di aver richiesto l'agevolazione per la successione o la
donazione non preclude la possibilità di ottenere nuovamente le agevolazioni per la prima
casa nell'ipotesi in cui si acquisti in un momento successivo un'altra abitazione, come ha
espressamente chiarito l'Agenzia delle Entrate. In caso di ulteriore acquisto per successione o
donazione, invece, chi ha già fruito dell’agevolazione non può goderne nuovamente, a meno che il
trasferimento abbia ad oggetto quote di comproprietà dello stesso bene (circolare n. 44/E del 7
maggio 2001).
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Le aliquote dell'imposta di successione e donazione
Soggetti
Coniuge, figli e parenti in linea retta
Fratelli e sorelle
SU TUTTI I BENI
Imposta
di successione e donazione
4% *
(solo sull'importo
che eccede € 1.000.000)
6%
(solo sull'importo
che eccede € 100.000)
SOLO SUGLI IMMOBILI
Imposta
Imposta ipotecaria
catastale
2%
1%
2%
1%
Altri parenti fino al 4° grado, affini
in linea retta, affini in linea
collaterale fino al 3° grado
6%
2%
1%
Altri soggetti
8%
2%
1%
* Sono esenti dall'imposta i trasferimenti, a favore dei soli discendenti e del coniuge, di aziende o rami di azienda, di quote sociali e di
azioni, in presenza di alcune condizioni indicate dalla legge.
E' inoltre prevista una franchigia di 1.500.000 euro per i portatori di handicap riconosciuto grave, indipendentemente dal rapporto di
parentela.
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Il patto di famiglia
Il patto di famiglia
Il patto di famiglia è un contratto con il quale l'imprenditore trasferisce, in tutto o in parte,
l'azienda, e il titolare di partecipazioni societarie le trasferisce, in tutto o in parte, a uno o
più discendenti, con il consenso del coniuge e di tutti quelli che sarebbero legittimari (eredi
necessari) se la successione si aprisse in quel momento. Chi riceve l'azienda o le partecipazioni
societarie deve liquidare gli altri legittimari pagando loro una somma corrispondente alla quota di
eredità che gli spetterebbe, a meno che questi vi rinunzino in tutto o in parte.
IMPRENDITORE
AZIENDA
FIGLIO
ASSEGNATARIO
ALTRI
FIGLI
DENARO
Il trasferimento dell'azienda o delle partecipazioni societarie ha effetto immediato e definitivo,
quindi non può più essere messo in discussione neanche dopo la morte del disponente, salvo
alcune eccezioni espressamente indicate dalla legge. L'azienda o le partecipazioni societarie
oggetto del patto di famiglia non rientrano nella successione al momento della morte del
disponente, e non è ammessa l'azione di riduzione nei confronti del trasferimento, che pertanto
deve intendersi come definitivo.
Fino a ieri un accordo del genere sarebbe stato impossibile, perché considerato espressamente
nullo dalla legge. Il patto di famiglia rappresenta dunque un'importante eccezione al divieto dei
patti successori tradizionalmente previsto dalla nostra legislazione.
I legittimari e la successione necessaria
Per comprendere la portata del cambiamento introdotto nel nostro sistema giuridico con le norme
sul patto di famiglia, è opportuno ricordare alcuni aspetti della disciplina dettata dal codice civile
sulle successioni e le donazioni.
Alla morte di una persona, l'intero patrimonio del defunto passa agli eredi. Se non c'è un
testamento, è la legge che stabilisce chi sono gli eredi e in quale misura essi si dividono l'eredità.
Ma anche chi fa testamento non è sempre libero di decidere a chi andrà il proprio patrimonio dopo
la morte. Ci sono infatti alcuni soggetti che devono necessariamente ricevere una quota
dell'eredità, anche contro la volontà del defunto. Questi soggetti sono chiamati legittimari, o
anche eredi necessari, proprio perché hanno diritto a ricevere sempre una quota dell'eredità (artt.
536 e seguenti del codice civile). Essi sono il coniuge del defunto, i suoi figli e, in mancanza di
figli, anche i genitori. La quota di eredità riservata ai legittimari varia in base al loro numero. Per
esempio, se il defunto lascia il coniuge e un figlio, ciascuno di loro ha diritto ad almeno un terzo
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dell'eredità; se invece il defunto lascia il coniuge e due figli, ciascuno ha diritto a un quarto
dell'eredità.
La parte dell'eredità che non è riservata ai legittimari, e di cui pertanto il testatore può disporre
liberamente, è chiamata quota disponibile.
E' chiaro, dunque, che chi vuole fare testamento, se è sposato o ha dei figli, è soggetto a molte
limitazioni, e può disporre liberamente solo di una piccola parte del proprio patrimonio. Le
disposizioni testamentarie che eccedono la quota disponibile possono infatti essere impugnate
dai legittimari attraverso l'esercizio dell'azione di riduzione, che fa rientrare nel patrimonio
ereditario i beni che ne sono oggetto (art. 554 del codice civile).
Gli eredi necessari e la parte disponibile
Quote di eredità
riservate e disponibili
Eredi necessari
Coniuge
(in mancanza di figli e genitori)
Un solo figlio
(in mancanza del coniuge)
Due o più figli
(in mancanza del coniuge)
1/2 al coniuge
1/2 disponibile come da testamento
1/2 al figlio
1/2 disponibile come da testamento
2/3 ai figli (divisa in parti uguali)
1/3 disponibile come da testamento
1/3 al coniuge
Coniuge e un solo figlio
1/3 al figlio
1/3 disponibile come da testamento
1/4 al coniuge
Coniuge e due o più figli
1/2 ai figli (divisa in parti uguali)
1/4 disponibile come da testamento
1/2 al coniuge
Coniuge e genitori
1/4 ai genitori (divisa in parti uguali)
(in mancanza di figli)
1/4 disponibile come da testamento
Genitori
1/3 (divisa in parti uguali)
(in mancanza di figli e coniuge)
2/3 disponibile come da testamento
Quando c'è un testamento, la legge riserva una quota di eredità solo al coniuge e ai figli (se
il defunto non aveva figli è riservata una quota anche ai genitori ancora viventi), quindi se
il testamento è valido gli altri parenti non possono avanzare pretese
Per evitare che qualcuno possa eludere i diritti dei legittimari donando in tutto o in parte i propri
beni mentre è ancora in vita, la legge prevede la possibilità di esercitare l'azione di riduzione
anche contro le donazioni, dopo la morte del donante (art. 555 del codice civile). Per stabilire
ciò che spetta ai legittimari, infatti, il patrimonio esistente al momento della morte (relictum) si
somma alle donazioni effettuate in vita dal defunto (donatum). Le quote di legittima si calcolano
sulla somma complessiva (relictum + donatum), e se il patrimonio residuo non è sufficiente a
soddisfare i diritti dei legittimari, questi possono chiedere la riduzione delle disposizioni
testamentarie e poi anche delle donazioni, iniziando da quelle più recenti. In conseguenza
dell'azione di riduzione, i beni oggetto delle donazioni devono essere restituiti, in tutto o in parte,
ai legittimari, non solo da chi ha ricevuto la donazione ma anche dai successivi acquirenti. E' per
questo che le donazioni possono essere considerate definitive solo dieci anni dopo la morte
del donante, e da ciò derivano una serie di problemi nella circolazione dei beni che sono stati
oggetto di donazione. Solo recentemente la legge ha introdotto un limite di vent'anni dalla
donazione, trascorso il quale sono definitivamente fatti salvi i diritti dei terzi acquirenti dei
beni oggetto di donazione, e restano ferme le ipoteche iscritte sugli stessi (d.l. 35/2005). Rimane
dunque la possibilità di impugnare la donazione, e rimane il divieto dei patti successori, che
vietano la rinuncia preventiva all'impugnazione, ma i terzi che acquistano l'immobile o iscrivono
l'ipoteca possono stare tranquilli quando sono passati vent'anni dalla donazione. Dopo vent'anni,
infatti, gli eredi legittimi possono rivolgersi solo a chi aveva ricevuto la donazione, che deve
risarcirli in denaro. Un termine slegato dalla morte del donante è senz'altro un passo avanti, ma
vent'anni sono davvero tanti. I vent'anni, inoltre, possono essere prorogati con un atto di
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opposizione alla donazione da parte del coniuge o dei parenti in linea retta del donante, che in
questo modo si riservano di agire contro tutti i successivi acquirenti dei beni donati anche dopo il
ventennio. Questo atto di opposizione deve essere notificato al donante e trascritto nei registri
immobiliari, e deve essere rinnovato ogni vent'anni. Gli aventi diritto possono rinunciare
all'opposizione, ma questa rinuncia impedisce di prolungare il termine oltre i vent'anni, ma non
può mai consentire di ridurlo al di sotto di tale durata minima.
Il divieto dei patti successori
La tutela dei diritti dei legittimari è completata dalla norma che vieta ai legittimari di rinunciare
all'azione di riduzione prima della morte del donante (art. 557, secondo comma, del codice
civile), e soprattutto dal divieto dei patti successori (art. 458 del codice civile).
I patti successori sono tassativamente vietati dalla legge italiana, a differenza di quanto avviene
negli altri Stati europei. Per patto successorio si intende qualsiasi tipo di accordo con cui
qualcuno dispone della propria successione, oppure dispone dei diritti che gli possono
spettare su una successione non ancora aperta, o vi rinuncia. Non è possibile, dunque,
stipulare un contratto per regolare una successione prima della morte dell'interessato. Questo
divieto sembra andare contro il buon senso, ed è di difficile comprensione. Va bene tutelare i
legittimari, ma perché impedire di raggiungere un accordo con il consenso di tutti? Purtroppo il
divieto dei patti successori non è stato abrogato, ma il patto di famiglia rappresenta ora
un'importante eccezione, che riconosce l'autonomia contrattuale delle parti almeno in presenza di
un'azienda o di partecipazioni societarie.
Il patto di famiglia rappresenta un'importante eccezione al divieto dei patti successori, eccezione
che viene espressamente prevista dal nuovo testo dell'art. 458 del codice civile. Il divieto rimane
in vigore, come regola generale, ma sono ammessi, in deroga, i patti di famiglia, che rientrano
pienamente nella definizione di patti successori, non tanto per quanto riguarda il trasferimento
dell'azienda o delle partecipazioni societarie, che ha effetto immediato e non dall'apertura della
successione, e quindi è assimilabile più che altro a una donazione, ma per la liquidazione della
quota spettante ai legittimari, o la rinunzia alla stessa.
Essendo rimasta in vigore la norma che vieta i patti successori, dobbiamo muoverci con cautela
nell'applicazione pratica del patto di famiglia, perché se ne superiamo i confini ricadiamo
inevitabilmente in un patto successorio nullo. Un'applicazione disinvolta del nuovo istituto,
dunque, può facilmente portare alla nullità degli accordi presi.
Contenuto e oggetto del patto di famiglia
Il patto di famiglia è un contratto con il quale l'imprenditore trasferisce, in tutto o in parte,
l'azienda, e il titolare di partecipazioni societarie le trasferisce, in tutto o in parte, a uno o
più discendenti, con il consenso del coniuge e di tutti quelli che sarebbero legittimari (eredi
necessari) se la successione si aprisse in quel momento (art. 768-bis del codice civile).
Oggetto del patto di famiglia può dunque essere un'azienda, di qualsiasi genere (commerciale,
industriale, artigianale ma anche agricola), oppure partecipazioni in una società di qualsiasi
tipo, che vengono trasferite in tutto o in parte ai discendenti del titolare.
Nelle norme che disciplinano il patto di famiglia, il legislatore usa la parola "imprenditore" per
indicare il soggetto che dispone dell'azienda o delle partecipazioni societarie trasferendole ai
discendenti. Il termine, in realtà, è tecnicamente esatto solo nel caso dell'azienda gestita dal
proprietario nella forma di impresa individuale, mentre risulta usato in senso atecnico se riferito al
titolare delle partecipazioni societarie. Non si può dubitare che il legislatore, parlando di
imprenditore, intendesse riferirsi anche a chi gestisce l'impresa in forma societaria, da solo o
con altri soci. Suscita però molti dubbi la possibilità di utilizzare il patto di famiglia anche per
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trasferire una partecipazione sociale di minoranza, che non consente in alcun modo di incidere
sulla gestione della società ma rappresenta solo una forma di investimento finanziario. Sarebbe
sicuramente contrario alla legge un patto di famiglia con il quale viene trasferita una piccola
percentuale di partecipazioni in una società quotata in Borsa, acquistata dal disponente solo a
titolo di investimento. In tal caso, infatti, il disponente non potrebbe certo essere definito,
neppure impropriamente, come imprenditore. Nelle piccole e medie imprese il patto di
famiglia non si ritiene applicabile a una quota di partecipazione che non può essere considerata
"di maggioranza" o quantomeno "di riferimento". E' stato fatto notare, però, che evitare la
polverizzazione di una quota, anche modesta, della società potrebbe essere vantaggioso per il
futuro dell'impresa. Rimane controversa anche la possibilità di applicare il patto alle
partecipazioni in una società di comodo, creata appositamente in vista del patto di famiglia. La
questione, insomma, rimane aperta e dovrà essere maggiormente approfondita dagli interpreti.
Per quanto riguarda il tipo di società le cui partecipazioni possono essere oggetto del patto di
famiglia, sicuramente può trattarsi di una società di persone (società semplice, società in nome
collettivo o società in accomandita semplice), di una società a responsabilità limitata oppure di
una società per azioni (o in accomandita per azioni). L'uso del termine "quote" da parte del
legislatore deve intendersi come un'imprecisione di linguaggio, dato che non ci sarebbe alcuna
ragione di escludere dal patto di famiglia le azioni di s.p.a.. Molti dubbi sono stati però avanzati in
riferimento alla quota del socio accomandante di s.a.s., che non può incidere sulla gestione della
società.
In ogni caso il trasferimento delle partecipazioni societarie, anche nell'ambito del patto di
famiglia, deve avvenire nel rispetto delle modalità e dei limiti previsti dalla legge, dai patti
sociali o dallo statuto per le differenti tipologie di società. Nelle società di persone, dunque, è
normalmente necessario l'intervento di tutti i soci, che devono prestare il consenso al
trasferimento della quota sociale. Nelle società di capitali, invece, potrà essere necessaria la
preventiva rinuncia al diritto di prelazione da parte degli altri soci, oppure il gradimento degli
stessi o di un organo sociale, ove previsto dallo statuto vigente. Se l'azienda trasferita è gestita
nella forma di impresa familiare, sono fatti salvi i diritti dei familiari partecipanti all'impresa
relativamente agli utili e agli incrementi dell'azienda (art. 230-bis del codice civile), che
devono essere liquidati direttamente dall'imprenditore e non vanno confusi con la liquidazione a
essi eventualmente spettante nell'ambito del patto di famiglia, se essi sono anche legittimari. Non
opera, invece, il diritto di prelazione previsto a favore dei familiari partecipanti all'impresa,
trattandosi di trasferimento a titolo gratuito, se non di una vera e propria donazione. Le opinioni
contrarie appaiono prive di fondamento.
Per espressa previsione legislativa, il trasferimento dell'azienda o delle partecipazioni societarie
può essere anche parziale, e ciò sembra consentire al disponente di attuare un trasferimento
progressivo e dilazionato nel tempo. Nell'azienda il trasferimento parziale può riguardare un ramo
di azienda oppure una quota di comproprietà. In questo caso dovrebbe essere costituita una società
tra il disponente e i discendenti beneficiari dell'assegnazione, a meno che si voglia ipotizzare un
contestuale affitto di una quota dell'azienda, che continuerebbe così a essere gestita in forma
individuale, dallo stesso disponente o dal discendente assegnatario. Nel caso delle partecipazioni
societarie, invece, il loro trasferimento parziale non crea problemi, e anzi può essere opportuno al
fine di realizzare un graduale passaggio generazionale dell'impresa, a meno che si voglia
ritenere, anche in questo caso, inapplicabile il patto di famiglia a una quota di partecipazione che
non possa essere considerata "di maggioranza" o "di riferimento". Una simile interpretazione,
però, andrebbe chiaramente contro la volontà del legislatore, che ha espressamente previsto la
possibilità di un trasferimento parziale, e quindi dilazionato nel tempo.
L'aver ammesso, come oggetto del patto di famiglia, solo l'azienda e le partecipazioni societarie
rappresenta naturalmente una grossa limitazione alla possibilità di raggiungere un accordo
anticipato su una futura successione. Nell'ambito del dibattito che ha preceduto e accompagnato
l'approvazione della nuova legge, era stata prospettata anche la possibilità di estendere il patto di
famiglia ai beni immobili o ad altri beni compresi nel patrimonio del defunto, ma il legislatore ha
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intenzionalmente voluto privilegiare le esigenze di continuità dell'impresa, mantenendo
invece l'assoluta rigidità del sistema per tutte le altre ipotesi. Niente da fare, dunque, per chi
non ha nel proprio patrimonio aziende o partecipazioni societarie, e anche per gli imprenditori non
c'è comunque la possibilità di trasferire con il patto di famiglia beni di altro genere (mobili o
immobili) eventualmente compresi nel proprio patrimonio. Per i beni che rimangono nel
patrimonio del disponente, dunque, si aprirà a suo tempo la successione secondo le regole
ordinarie.
La forma del patto di famiglia
Per espressa disposizione di legge, il patto di famiglia deve essere stipulato nella forma di atto
pubblico (art. 768-ter del codice civile). L'intervento del notaio, dunque, è sempre necessario,
anzitutto per la natura dei beni oggetto del patto (azienda o partecipazioni societarie), il cui
trasferimento richiede un controllo imparziale a garanzia dei terzi, ma soprattutto perché
occorre verificare che ciascuno dei partecipanti sia pienamente consapevole delle conseguenze
del contratto che sta firmando. Proprio per questo il legislatore non ha ritenuto sufficiente
neppure la scrittura privata autenticata dal notaio, abitualmente utilizzata per il trasferimento delle
aziende e delle partecipazioni societarie, ma ha richiesto la forma più solenne dell'atto pubblico.
La legge non prevede la presenza di due testimoni, che però è sicuramente opportuna e
probabilmente sarà sempre richiesta dal notaio, considerata la natura essenzialmente donativa del
trasferimento dell'azienda o delle partecipazioni societarie.
I partecipanti al patto di famiglia
Al patto di famiglia devono partecipare, ovviamente, il disponente e i discendenti ai quali viene
trasferita l'azienda o le partecipazioni societarie.
La legge, inoltre, prevede espressamente la necessità che vi prendano parte il coniuge del
disponente e tutti quelli che sarebbero legittimari se nel momento della stipula del patto di
famiglia si aprisse la sua successione (art. 768-quater, primo comma, del codice civile). Ciò
significa che il patto di famiglia può essere stipulato solo se il disponente raggiunge un accordo
con tutti i legittimari circa il trasferimento dell'azienda (o delle partecipazioni societarie) e la
liquidazione delle altre quote, in denaro o in natura. In mancanza di accordo unanime, il patto
di famiglia non può essere stipulato, quindi questo strumento non può mai essere utilizzato per
privare i legittimari dei diritti riconosciuti dalla legge, senza il loro consenso. Il patto di famiglia,
d'altronde, non è certo inteso come un mezzo per "diseredare" i legittimari, neppure
parzialmente. La deroga al divieto dei patti successori introdotta nel nostro ordinamento deve
intendersi come uno strumento eccezionale, che può essere utilizzato solo con l'accordo di tutti
gli interessati. Un patto di famiglia stipulato senza la partecipazione di tutti i legittimari
sarebbe irrimediabilmente nullo e improduttivo di qualsiasi effetto. L'ipotesi, avanzata da alcuni
interpreti, di "convocare" i legittimari per la stipula del patto e poi procedere anche in assenza di
alcuni di loro appare del tutto fantasiosa e priva di qualsiasi riscontro nella legge. Anche in questo
caso il patto sarebbe nullo.
Normalmente i partecipanti al patto di famiglia saranno il disponente, il coniuge e i figli. Si può
anche ipotizzare che in alcuni casi il disponente intenda trasferire l'azienda o le partecipazioni
societarie direttamente a un nipote (figlio del figlio), saltando così una generazione, naturalmente
con l'accordo dei figli. La legge non prevede la partecipazione al patto di famiglia dei genitori (o
ascendenti) del disponente, dato che questi sono legittimari solo in assenza di discendenti, e la
presenza di discendenti è sempre essenziale per la stipula del patto di famiglia.
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La liquidazione dei legittimari
Chi riceve l'azienda o le partecipazioni societarie deve liquidare gli altri legittimari pagando
loro una somma corrispondente alla quota di eredità che gli spetterebbe sull'azienda o sulle
partecipazioni societarie, a meno che questi vi rinunzino in tutto o in parte (art. 768-quater,
secondo comma, del codice civile).
Questa liquidazione avviene a titolo gratuito, cioè senza corrispettivo. Naturalmente l'assegnatario
dell'azienda o delle partecipazioni societarie non ha intenzione di beneficiare i legittimari, ma
adempie a un preciso obbligo assunto nei confronti del disponente in conformità alla legge.
La liquidazione viene dunque assimilata a un onere apposto dal disponente alla donazione
dell'azienda o delle partecipazioni societarie, e come tale può essere considerata una donazione
indiretta effettuata dal disponente al legittimario.
La liquidazione dei legittimari avviene in base al valore dell'azienda o delle partecipazioni
societarie al momento della stipula del patto di famiglia, determinato di comune accordo dai
partecipanti, che rimane così definitivamente fissato. La legge non prevede regole particolari per
la determinazione di tale valore, che pertanto può essere liberamente individuato dalle parti.
L'espressa previsione di una possibilità di rinunciare in tutto o in parte alla liquidazione conferma
l'assoluta libertà dei partecipanti nel fissare il valore su cui essa si basa. Per evitare, però, la
possibilità che il patto di famiglia sia impugnato da parte di chi non conosceva il reale valore
dell'azienda o delle partecipazioni societarie, potrebbe essere opportuno far redigere una
perizia di stima.
La liquidazione può avvenire in denaro oppure, in tutto o in parte, anche in natura, cioè con il
trasferimento di beni di qualsiasi genere. In questo caso i beni assegnati ai legittimari che
partecipano al patto di famiglia sono imputati alle loro quote di legittima secondo il valore che
viene ad essi attribuito nel contratto.
Il trasferimento dei beni ai legittimari può avvenire anche con un contratto successivo, che sia
espressamente dichiarato collegato al primo, con l'intervento degli stessi soggetti o di quelli che li
hanno sostituiti. E' quindi possibile rinviare la liquidazione dei legittimari a un atto successivo,
inserendo nel patto di famiglia un semplice impegno a provvedere in tal senso.
E' prevista espressamente la possibilità che i legittimari rinunzino in tutto o in parte alla
liquidazione della loro quota di legittima. In questo caso nulla è dovuto da chi ha ricevuto
l'azienda o le partecipazioni societarie, e i legittimari, al momento della morte del disponente,
parteciperanno alla successione solo sugli altri beni eventualmente rimasti nel suo patrimonio.
La liquidazione ai legittimari rappresenta probabilmente l'aspetto più problematico nell'ambito
della disciplina del patto di famiglia, a causa dell'impostazione scelta dal legislatore, e ha già
suscitato contrasti tra gli interpreti.
La scelta più logica, quella che ci indicherebbe il buon senso, sarebbe stata quella di consentire al
disponente di liquidare direttamente i legittimari, nell'ambito del patto di famiglia,
assegnandogli una somma di denaro oppure beni in natura. Per esempio, l'imprenditore avrebbe
potuto assegnare l'azienda a un figlio e un immobile di pari valore all'altro figlio. Solo nel caso in
cui il valore dell'azienda fosse stato notevolmente superiore a quello degli altri beni presenti nel
patrimonio del disponente, avrebbe potuto essere prevista la liquidazione da parte di chi ha
ricevuto l'azienda. Il legislatore, invece, ha previsto come unica possibilità la liquidazione dei
legittimari da parte dell'assegnatario dell'azienda o delle partecipazioni societarie. Una
scelta anomala, perché va contro la normale volontà dei genitori di provvedere direttamente alla
divisione del patrimonio tra i figli. Una scelta che si spiega solo con la precisa volontà di
limitare il patto di famiglia alla sola azienda o alle partecipazioni societarie, ed escludere
tassativamente la possibilità di utilizzarlo per trasferire beni di altro genere, in particolare gli
immobili. Una scelta discutibile, che possiamo criticare ma che non possiamo ignorare, neppure
proponendo interpretazioni che, per quanto appetibili da un punto di vista pratico, non sembrano
compatibili né con la lettera della legge né con il suo spirito.
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Purtroppo dobbiamo accettare il fatto che, nell'ambito del patto di famiglia, l'imprenditore può
trasferire l'azienda a uno dei figli, ma non può compensare gli altri assegnando loro altri
beni. A maggior ragione la liquidazione degli altri legittimari non può avvenire da parte di un
terzo (per esempio il coniuge del disponente). La liquidazione degli altri legittimari deve venire
solo da chi ha ricevuto l'azienda o le partecipazioni sociali.
Il primo problema che si può presentare è dunque il reperimento della liquidità necessaria, o dei
beni da trasferire ai legittimari. Se possiamo presumere che l'imprenditore giunto all'età della
pensione abbia altri beni, oltre all'azienda, nel proprio patrimonio, non altrettanto si può ipotizzare
per il figlio che sta iniziando adesso l'attività. Sarà dunque inevitabile, nella maggior parte dei
casi, il ricorso al credito bancario. Chi riceve l'azienda o le partecipazioni societarie potrà
stipulare un mutuo per finanziare la liquidazione degli altri legittimari, offrendo presumibilmente
in garanzia l'azienda stessa o le partecipazioni societarie.
IMPRENDITORE
AZIENDA
BANCA
MUTUO
FIGLIO
ASSEGNATARIO
DENARO
ALTRI
FIGLI
Se invece l'imprenditore vuole compensare direttamente gli altri legittimari, versando loro una
somma di denaro o trasferendogli altri beni, occorre affiancare al patto di famiglia una o più
donazioni, che possono anche essere contestuali ma rimangono necessariamente al di fuori di
esso. A queste donazioni, dunque, non si può applicare la disciplina di favore prevista per i
trasferimenti disposti nell'ambito del patto di famiglia. Si tratterà dunque di donazioni esposte
all'azione di riduzione e alla collazione (oltre i limiti nei quali è ammessa una dispensa). Sarà
comunque possibile combinare gli effetti delle donazioni e del patto di famiglia, con eventuale
rinuncia alla liquidazione da parte dei legittimari già beneficiati, in modo di avvicinarsi al
risultato voluto. In questo modo si potrà anche tenere conto dei beni eventualmente già
trasferiti dall'imprenditore ad alcuni figli, mediante donazione o semplicemente fornendo i
soldi necessari al loro acquisto (donazione indiretta), come spesso avviene in pratica.
Il punto cruciale, in questo ambito, sta nell'obbligo dell'assegnatario dell'azienda o delle
partecipazioni societarie di imputare alla propria quota di eredità, al momento della futura
successione, il valore di ciò che ha ricevuto nell'ambito del patto di famiglia. Come abbiamo
visto, i beni assegnati ai legittimari che partecipano al patto di famiglia sono imputati alle loro
quote di legittima secondo il valore che viene ad essi attribuito nel contratto. Ciò non è
espressamente previsto nei confronti dell'assegnatario dell'azienda o delle partecipazioni sociali,
ma è chiaro che nella futura successione non possiamo fare a meno di tenere conto di quanto essi
hanno già ricevuto nell'ambito del patto di famiglia. In realtà, per l'assegnatario dell'azienda o
delle partecipazioni sociali, questa regola discende dalla natura essenzialmente donativa del
trasferimento (art. 564, secondo comma, del codice civile). L'assegnatario dell'azienda o delle
partecipazioni societarie deve quindi imputare alla propria quota di eredità ciò che ha ricevuto
nell'ambito del patto di famiglia, secondo il valore in esso determinato, al netto di quanto egli ha
liquidato agli altri legittimari.
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IMPRENDITORE
AZIENDA
ALTRI BENI
FIGLIO ASSEGNATARIO
ALTRI FIGLI
Grazie al meccanismo dell'imputazione, anche le donazioni effettuate al di fuori del patto di
famiglia possono essere di fatto sottratte all'azione di riduzione. Occorre però trovare caso per
caso un difficile equilibrio tra le varie disposizioni, con il rischio che la soluzione individuata sia
messa in discussione da un cambiamento imprevisto della situazione. Il legislatore, infatti, sembra
volerci costringere a ragionare per compartimenti stagni: da una parte l'azienda, che può essere
oggetto di successione anticipata mediante il patto di famiglia, con contestuale liquidazione degli
altri legittimari; dall'altra parte il residuo patrimonio dell'imprenditore (beni immobili, denaro,
etc.) che continua ad essere regolato dalle norme in tema di successione (o donazione), la cui sorte
sarà dunque decisa solo alla morte dell'imprenditore. Purtroppo questo è l'esatto contrario di ciò
che avviene nella realtà, dove il patrimonio da trasferire ai figli viene sempre considerato
unitariamente.
Le tasse sul patto di famiglia
Il patto di famiglia può usufruire dell'esenzione dall'imposta di successione e donazione per i
trasferimenti di aziende o rami di azienda, di quote sociali e di azioni a favore dei figli e
degli altri discendenti (legge 27 dicembre 2006, n. 296).
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proprietà fondiaria - Notaio Paolo Tonalini