POSTE ITALIANE S.p.A. Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/04 n. 46) art. 1, comma 1 - DCB BRESCIA Editirice La Scuola 25121 Brescia - Expédition en abonnement postal taxe perçue tassa riscossa - ISSN 1828-4582
mensile di ricerca, cultura, orientamenti educativi, problemi didattico-istituzionali
per le scuole del secondo ciclo di istruzione e formazione
Nuova Secondaria
5
gennaio 2014
anno XXXI
E D I T R I C E
LA SCUOLA
E D I T R I C E
Mitigazione del rischio sismico: mito o realtà futura?
LA SCUOLA
Matematica e creatività
Il ruolo dell’arte nella didattica delle lingue
Il madrigale: musica e poesia
L’integrazione che non c’è. Disabilità, DSA, BES
11
Nuova Secondaria
n.
5
EDITORIALE
Cinzia Bearzot
Questioni di democrazia
5
NUOVA SECONDARIA RICERCA
http://nuovasecondaria.lascuolaconvoi.it
E.M.T. Torre
Andrea Bernardi
Ilaria Torzi (a cura di)
Andrea Balbo
Ermanno Malaspina
Guido Milanese
Professione docente e ricerca valutativa
Le università britanniche osservate da vicino
da un docente italiano
Un viaggio tra i percorsi e gli strumenti della didattica
multimediale e della formazione a distanza dedicati al latino
Possibilità per la didattica multimediale del latino:
siti web, videopresentazioni, risorse di You Tube
Lavorare concretamente su Cicerone e Seneca:
i siti Tulliana e Senecana e la filologia digitale
Software libero e banche dati ad accesso libero per la
didattica del latino e l’aggiornamento del docente
FATTI E OPINIONI
50
62
Il fatto
Giovanni Cominelli
Nodi irrisolti
8
Istantanee sull’adolescenza postmoderna
9
Carla Xodo
Val la pena investire in istruzione?
9
Asterischi di Kappa
Abusi e buon senso
10
Asterischi di Kappa
Il romanzo siciliano della formazione professionale
10
Paola Bignardi
La grandezza viene da dove non te l’aspetti
11
Asterischi di Kappa
Università e mondo del lavoro in Francia
11
Evoluzione storica della spesa pubblica
per l’istruzione
12
Razionalità, scelte e vita quotidiana
12
L’esperienza del liceo classico europeo
14
Pensieri del tempo
Giuseppe Acone
Il futuro alle spalle
Vangelo docente
93
La lanterna di Diogene
Fabio Minazzi
Occhio alla scienza
Matteo Negro
Didattica del classico
Augusta Celada
Tempo perduto, tempo ritrovato
Franco Carinci
La privatizzazione del pubblico impiego
15
PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI
Giuliana Sandrone
L’integrazione che non c’è.
Disabilità, DSA, BES (1)
17
101
M.G. Fantoli - O. Gelmi
Francesco Magni
P.M. Pumilia - H. Fiorani A. Chiarle
Valutazione e certificazione delle competenze:
a che punto siamo?
Il Consiglio di Stato afferma che copiare
alla maturità è lecito?
Potenzialità da una riforma dal basso
22
27
29
STUDI
SUDIO SUI TERREMOTI di Mariabianca Cita Sironi
La rivoluzione delle geoscienze degli anni Sessanta
La mitigazione del rischio sismico:
mito o realtà futura?
32
34
42
PERCORSI DIDATTICI
Nicola Fiorino Tucci
Letteratura e archeologia. Il caso dell’epigramma
IV, 44 di Marziale e di un affresco pompeiano
Paolo Fabbri
Il madrigale: quando la musica si accoppia alla poesia
Maria Rosa De Luca
Fra musica, letteratura e immagine.
L’oratorio musicale attraverso i “trionfi” di Giuditta
Rossana Cavaliere
Chi ben comincia… Incipit della narrativa
italiana otto-novecentesca (2)
Salvatore Ragonesi
L’attualismo gentiliano come prassismo trascendentale
Roberto Lucchetti
Matematica e creatività
Carlo Genzo
Sfasamenti tra grandezze e metodi statistici.
Il caso dell’inerzia termica nel sistema
riscaldamento solare e atmosfera terrestre
Gian Giacomo Guilizzoni Sali: nomenclatura e formule
Ledo Stefanini
La nave aerea di Lana Terzi
Giovanni V. Pallottino
Fisica della sobrietà (2)
In cucina
In automobile
50
54
58
62
71
75
80
85
88
93
98
LINGUE, CULTURE E LETTERATURE a cura di Giovanni Gobber
Lucia Salvato
Sonia Rachele Piotti
Silvia Gilardoni
Il ruolo dell’arte nella didattica delle lingue,
con attenzione al tedesco
I think this could possibly be…
An appreciation of hedging strategies in English
106
CLIL e Italiano L2: un’esperienza per non italofoni
114
101
LIBRI
a cura di Luigi Tonoli e Lucia Degiovanni
Lezioni con slide disponibili sul sito di Nuova Secondaria
http://nuovasecondaria.lascuolaconvoi.it
119
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mensile di ricerca, cultura, orientamenti educativi, problemi didattico-istituzionali
per le scuole del secondo ciclo di istruzione e formazione
Nuova Secondaria
DIRETTORE
Giuseppe Bertagna
Università di Bergamo
5
gennaio 2014
anno XXXI
COMITATO DIRETTIVO
Cinzia Susanna Bearzot - Università Cattolica, Milano
Edoardo Bressan - Università di Macerata
Alfredo Canavero - Università Statale, Milano
Giorgio Chiosso - Università di Torino
Luciano Corradini - Università Roma Tre
Lodovico Galleni - Università di Pisa
Pietro Gibellini - Università Ca’ Foscari, Venezia
Giovanni Gobber - Università Cattolica, Milano
E D I T R I C E
LA SCUOLA
E D I T R I C E
Mitigazione del rischio sismico: mito o realtà futura?
LA SCUOLA
Matematica e creatività
Il ruolo dell’arte nella didattica delle lingue
Il madrigale: musica e poesia
L’integrazione che non c’è. Disabilità, DSA, BES
Angelo Maffeis - Facoltà Teologica
dell’Italia Settentrionale, Milano
Mario Marchi - Università Cattolica, Brescia
Mensile di ricerca, cultura, orientamenti educativi,
problemi didattico-istituzionali per le Scuole
del secondo ciclo di istruzione e di formazione
Fondatore e direttore emerito: Evandro Agazzi
Anno XXXI - ISSN 1828-4582
Luciano Pazzaglia - Università Cattolica, Milano
Giovanni Maria Prosperi - Università Statale, Milano
Pier Cesare Rivoltella - Università Cattolica, Milano
Stefano Zamagni - Università di Bologna
Direzione, Redazione e Amministrazione: EDITRICE LA
SCUOLA, Via Gramsci, 26, 25121 Brescia - fax 030.2993.299 - Tel.
centr. 030.2993.1 - Sito Internet: www.lascuola.it - Direttore responsabile: Giuseppe Bertagna - Autorizzazione del Tribunale di
Brescia n. 7 del 25-2-83 - Poste Italiane S.p.A. - Sped. in A.P.-D.L.
353/2003 (conv. in L. 27/02/04 n. 46) art. 1, comma 1 - DCB Brescia - Editrice La Scuola - 25121 Brescia - Stampa Vincenzo Bona
1777 Spa, Torino - Ufficio marketing: Editrice La Scuola, Via Gramsci 26, - 25121 Brescia - tel. 030 2993.290 - fax 030 2993.299 - email: [email protected] – Ufficio Abbonamenti : tel. 030
2993.286 (con operatore dal lunedì al venerdì negli orari 8,3012,30 e 13,30-17,30; con segreteria telefonica in altri giorni e orari
)- fax 030 2993.299 - e-mail: [email protected].
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COMITATO DI REDAZIONE
Parte generale e settore umanistico
Luigi Tonoli, Lucia Degiovanni
([email protected])
con la collaborazione di
Andrea Potestio, Don Fabio Togni
Settore scientifico
Marina Dalè, Pietro Marchese
([email protected])
Impaginazione
Marco Filippini
Segreteria di Redazione
Annalisa Ballini ([email protected])
Supporto tecnico area web
[email protected]
3
CONSIGLIO PER LA VALUTAZIONE SCIENTIFICA DEGLI ARTICOLI
Coordinatori del Consiglio:
Luigi Caimi e Carla Xodo
Francesco Abbona
Mineralogia, Università di Torino
Giuseppe Acone
Pedagogia, Università di Salerno
Emanuela Andreoni Fontecedro
Lingua e letteratura latina,
Università di Roma Tre
Dario Antiseri
Filosofia della scienza, Collegio S. Carlo, Modena
Gabriele Archetti
Storia Medioevale, Università Cattolica, Milano
Andrea Balbo
Latino, Università degli studi di Torino
Giorgio Barberi Squarotti
Letteratura italiana, Università di Torino
Raffaella Bertazzoli
Letterature comparate, Università di Verona
Fernando Bertolini
Istituzioni di Analisi Superiore,
Università di Parma
Gianfranco Bettetini
Teoria e tecniche delle comunicazioni,
Università Cattolica, Milano
Maria Bocci
Storia contemporanea,
Università Cattolica, Milano
Cristina Bosisio
Glottodidattica, Università Cattolica, Milano
Marco Buzzoni
Logica e filosofia della scienza,
Università di Macerata
Luigi Caimi
Biochimica e biologia molecolare,
Università di Brescia
Luisa Camaiora
Linguistica inglese, Università Cattolica, Milano
Renato Camodeca
Economia aziendale, Università di Brescia
Franco Cardini
Storia medievale, ISU, Università di Firenze
Maria Bianca Cita Sironi
Geologia, Università di Milano
Michele Corsi
Pedagogia, Università di Macerata
Vincenzo Costa
Filosofia teoretica, Università di Campobasso
Giovannella Cresci
Storia romana, Università di Venezia
Luigi D’Alonzo
Pedagogia speciale,
Università Cattolica, Milano
Cecilia De Carli
Storia dell’arte contemporanea,
Università Cattolica, Milano
Bernard D’Espagnat
Fisica, Università di Parigi
Floriana Falcinelli
Didattica generale e Tecnologie dell'Istruzione,
Università degli Studi di Perugia
Vincenzo Fano
Logica e filosofia della scienza, Università di Urbino
Ruggero Ferro
Logica matematica, Università di Verona
Saverio Forestiero
Biologia, Università Tor Vergata, Roma
Arrigo Frisiani
Calcolatori elettronici, Università di Genova
Alessandro Ghisalberti
Filosofia teoretica, Università Cattolica, Milano
Valeria Giannantonio
Letteratura italiana, Università di Chieti - Pescara
Massimo Giuliani
Pensiero ebraico, Università di Trento
Adriana Gnudi
Matematica generale, Università di Bergamo
Giuseppe Langella
Letteratura italiana contemporanea,
Università Cattolica, Milano
Erwin Laszlo
Teoria dei sistemi, Università di New York
Giuseppe Leonelli
Letteratura italiana, Università Roma Tre
Carlo Lottieri
Filosofia del diritto, Università di Siena
Gian Enrico Manzoni
Latino, Università Cattolica, Brescia
Emilio Manzotti
Linguistica italiana, Università di Ginevra
Alfredo Marzocchi
Matematica, Università Cattolica, Brescia
Vittorio Mathieu
Filosofia morale, Università di Torino
Fabio Minazzi
Filosofia teoretica, Università dell’Insubria
Alessandro Minelli
Zoologia, Università di Padova
Enrico Minelli
Economia politica, Università di Brescia
Luisa Montecucco
Filosofia, Università di Genova
Moreno Morani
Glottologia, Università di Genova
Gianfranco Morra
Sociologia della conoscenza, Università di Bologna
Maria Teresa Moscato
Pedagogia, Università di Bologna
Alessandro Musesti
Matematica, Università Cattolica, Brescia
Seyyed Hossein Nasr
Filosofia della scienza, Università di Philadelphia
Salvatore Silvano Nigro
IULM
Maria Pia Pattoni
Università Cattolica, Brescia
Massimo Pauri
Fisica teorica, Modelli matematici,
Università di Parma
Jerzy Pelc
Semiotica, Università di Varsavia
Silvia Pianta
Geometria, Università Cattolica, Brescia
Fabio Pierangeli
Letteratura italiana,
Università di Roma Tor Vergata
Pierluigi Pizzamiglio
Storia della scienza,
Università Cattolica, Brescia
Simonetta Polenghi
Storia della pedagogia,
Università Cattolica, Milano
Luisa Prandi
Storia greca, Università di Verona
Erasmo Recami
Fisica, Università di Bergamo
Enrico Reggiani
Letteratura inglese, Università Cattolica, Milano
Filippo Rossi
Patologia generale, Università di Verona
Giuseppe Sermonti
Genetica, Università di Perugia
Ledo Stefanini
Fisica, Università di Mantova
Ferdinando Tagliavini
Storia della musica, Università di Friburgo
Guido Tartara
Teoria dei sistemi di comunicazione,
Università di Milano
Filippo Tempia
Neurofisiologia, Università di Torino
Marco Claudio Traini
Fisica nucleare e subnucleare,
Università di Trento
Piero Ugliengo
Chimica, Università di Torino
Lourdes Velazquez
Bioetica e Filosofia del Messico,
Universidad Anáhuac, Northe Mexico
Marisa Verna
Lingua e letteratura francese,
Università Cattolica, Milano
Claudia Villa
Letteratura italiana, Università di Bergamo
Giovanni Villani
Chimica, CNR, Pisa
Carla Xodo
Pedagogia, Università di Padova
Pierantonio Zanghì
Fisica, Università di Genova
Gli articoli della Rivista sono sottoposti a referee doppio cieco (double blind). La documentazione rimane agli atti.
Per consulenze più specifiche i coordinatori potranno avvalersi anche di professori non inseriti in questo elenco.
EDITORIALE
Questioni di democrazia
Cinzia Bearzot
R
iflessioni sulla democrazia a partire dall’esperienza degli antichi non sono mancate
ultimamente: un bel segno dell’attualità dell’antico e un’occasione per riflettere sul nostro
tempo a partire dal confronto con un patrimonio di tradizione non sempre adeguatamente
valorizzato. Vorrei contribuire a questo dibattito con qualche ulteriore spunto: anche per noi
quella della democrazia, in Italia e nel mondo, resta una questione cruciale.
“Democrazia” è, etimologicamente, il “governo del popolo”, in cui il kratos, il potere (noi
diremmo la sovranità) risiede nel demos, il popolo (inteso nel senso di “tutti i cittadini”, senza
alcuna discriminazione), che lo esprime attraverso un processo decisionale basato sul criterio di
maggioranza. Fatta salva la fondamentale differenza tra forme dirette, quali erano quelle degli
antichi, e forme rappresentative, quali sono le nostre, questi principi valgono per noi come per loro
(do per scontata la differenza nei modi di determinare la cittadinanza, che nell’antichità
comporta, per esempio, l’esclusione delle donne).
Nell’antichità le correnti antidemocratiche erano molto forti: nell’odierno mondo occidentale, la
democrazia costituisce un quadro di riferimento imprescindibile. Tuttavia, il sistema democratico
è stato oggetto anche di recente di riflessioni critiche che ne hanno sottolineato i limiti, le criticità
e, soprattutto, l’intrinseca fragilità, a partire da prospettive tutt’altro che “antidemocratiche” e
quindi particolarmente degne di attenzione.
Una prima questione riguarda il rischio di esautoramento della sovranità popolare: un rischio
che nelle democrazie rappresentative è molto più forte che nelle antiche democrazie dirette. Nella
democrazia greca la classe politica coincideva con il corpo dei cittadini di pieno diritto e non
esisteva una “casta” di politici contrapposta alla società civile. Ma per fare politica servivano
competenze specifiche di non facile acquisizione per il cittadino comune, dal saper parlare in
pubblico in modo persuasivo, in assemblea e in tribunale, alla capacità di guidare l’esercito
cittadino in guerra. Col tempo, la politica divenne così appannaggio di veri e propri “specialisti”,
che alla capacità oratoria univano un’accurata conoscenza della legge e dei meccanismi del
sistema democratico; è questa anche l’epoca dei veri e propri “tecnici”, in quanto la crescente
complessità dell’amministrazione pubblica richiedeva l’impegno di uomini dotati di particolari
competenze in ambito economico-finanziario.
Se ragioni della politica e ragioni della tecnocrazia si scontrano anche nella democrazia antica,
va detto però che gli antichi “tecnici” erano pienamente legittimati dal voto popolare, che
sceglieva consapevolmente politici con specifiche caratteristiche di competenza; ciò non è scontato
nel caso di più complessi meccanismi istituzionali, che possono favorire l’aggiramento, sul filo
della costituzionalità, delle prerogative di sovranità del popolo, in nome dell’efficienza,
dell’emergenza economica, della necessità di adeguarsi alle richieste, vere o presunte, di “poteri”
come l’Europa e i mercati.
Un secondo problema è quello della leadership, sostanziale per una gestione della democrazia
capace di guardare al bene comune, in cui le ambizioni private (non tutte legittime) non
favoriscano l’asservimento a interessi di poteri interni ed esterni.
Il tema è particolarmente caro a Tucidide, che presenta Pericle come uomo politico provvisto di
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
5
EDITORIALE
doti di autorevolezza e di equilibrio, incorruttibile dal denaro, capace di tenere a freno il popolo
senza limitarne la libertà e in grado di interloquire con l’assemblea popolare senza cedere alla
demagogia, perché il suo potere si fondava su riconosciuti meriti personali. Questa leadership
autorevole (a volte, senza vero motivo, presentata come una sorta di dittatura illuminata) è per
Tucidide il presupposto per far funzionare al meglio il sistema democratico, particolarmente
delicato ed esposto a derive demagogiche: il rischio che l’assemblea venisse usata come massa di
manovra da uomini politici senza scrupoli era infatti molto alto. Il problema si manifestò in tutta
la sua gravità dopo la morte di Pericle. Egli fu sostituito da uomini che Tucidide considera di
qualità decisamente inferiore, ma assai desiderosi di primeggiare e pronti dunque a usare
l’assemblea come strumento di potere: ambizioni personalistiche e sete di guadagno
caratterizzano una generazione politica che al servizio della comunità ha sostituito l’interesse
privato. L’opposizione pubblico/privato ritorna con insistenza nelle fonti della fine del V secolo,
che proprio nell’affermarsi del personalismo individuano le radici dei due colpi di stato
antidemocratici che interruppero, se pur brevemente, la storia della democrazia ateniese nel 411 e
nel 404. Non è difficile notare come le patologie della vita politica che Tucidide mette in luce
affliggano anche la nostra esperienza contemporanea e come esse possano mettere a rischio, oggi
come allora, la libertà: indifferenza al bene comune, affermazione di personalismi, diffusione
della corruzione e degli abusi di potere si ripropongono nei momenti di crisi della politica e
alimentano la sfiducia dell’opinione pubblica non solo negli uomini politici, ma anche nella stessa
idea della politica come servizio alla comunità.
Un terzo aspetto che merita considerazione è il cambiamento delle modalità di comunicazione,
che determinano una svolta non soltanto di tipo formale, ma anche sostanziale: lo stile
comunicativo, infatti, non è privo di influenza sulla qualità dei contenuti. La generazione
successiva a Pericle fu caratterizzata dall’avvento dei cosiddetti “nuovi politici”, che prendevano le
distanze dall’antico e composto stile politico: loro caratteristica era il modo diverso di fare appello
al popolo, immediato e “popolare”, anzi “populista”, capace di entrare in sintonia con l’assemblea.
L’esponente principale di questa linea fu Cleone, del quale la tradizione ricorda con insistenza lo
stile oratorio rivoluzionario: dalla tribuna degli oratori egli urlava, insultava gli avversari, si
agitava scompostamente, vestito in modo non adeguato. La tradizione deplora la sguaiataggine di
Cleone, ma la commedia contemporanea non può fare a meno di far emergere che il rapporto fra
l’uomo politico e il popolo fu così forte da essere dipinto quasi come una relazione amorosa: «Ti
amo, Demos, sono innamorato di te», dice al popolo il personaggio che, nei Cavalieri di
Aristofane, rappresenta Cleone. Questo cambiamento delle modalità di comunicazione, che fa
appello all’emotività più che alla ragione, inaugura la stagione della demagogia, il cui esito
furono i colpi di stato di fine V secolo. Tuttavia, che simili atteggiamenti populistici (che pure sono
in fondo espressione di scarso rispetto per l’interlocutore stesso) possano avere una certa attrattiva
sull’opinione pubblica è ben noto.
Una delle criticità del sistema democratico, messe in evidenza dalle vicende che hanno
caratterizzato sia il nostro paese, sia l’Europa e l’intero Occidente negli ultimi anni, è emersa in
merito alla necessità di deliberare su questioni etiche delicate, che ha messo in luce
l’inadeguatezza del principio di maggioranza, in un contesto culturale in cui, per citare
Benedetto XVI, «ciò che in riferimento alle fondamentali questioni antropologiche sia la cosa
giusta e possa diventare diritto vigente, oggi non è affatto evidente di per sé». Di questo possibile e
spesso drammatico contrasto tra principio di maggioranza e giustizia il mondo antico ha avuto
piena consapevolezza. Secondo Cicerone, affermare che la legge è giusta se esprime la volontà della
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Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
EDITORIALE
maggioranza è troppo semplificatorio; seguendo questo criterio, infatti, «si potrebbero legalizzare
il latrocinio, l’adulterio, la falsificazione dei testamenti, se ciò fosse approvato con voto popolare a
maggioranza» (De legibus I, 43). Secondo Cicerone, il criterio della giustizia va ricercato nella
legge naturale, che l’uomo può conoscere attraverso la ragione. Il tema è cruciale in società
democratiche come le nostre, in cui individualismo e relativismo hanno portato alla rarefazione
dei valori condivisi e avviato un processo di disgregazione che è sotto gli occhi di tutti.
Ma forse la criticità più inquietante riguarda la fragilità della democrazia: anche il rigido
rispetto delle istituzioni può trasformarsi, talora, in un aggiramento del loro vero significato e
assumere, quindi, un valore sovversivo, sotto la spinta della propaganda.
L’avvento del governo “tecnico” di Mario Monti indusse alcuni a parlare di “sospensione” della
democrazia, sotto la spinta di pressioni di diversa provenienza. Altri reagirono dicendo che
l’entrata in carica di questo “governo del Presidente” non costituiva in realtà un attentato alla
democrazia, ma semmai un tentativo di salvaguardarne la sostanza: infatti, il crescente potere
finanziario e tecnologico avrebbe imposto un ripensamento dell’idea di democrazia
rappresentativa, mettendo in primo piano la necessità di assicurare governi formati da competenti
e relegando in secondo piano il ruolo delle assemblee elettive.
La democrazia diretta di ambito ateniese conobbe problemi non molto diversi. Dopo l’età d’oro
di Pericle, la democrazia era entrata in una fase di degenerazione, caratterizzata da diversi fattori:
la decadenza della classe politica, la crescita smisurata dei costi del sistema, la difficoltà di far
funzionare correttamente assemblee manipolate dai demagoghi, l’abuso della giustizia nei
tribunali, la crescente disistima verso la capacità di governo del popolo, di cui venivano
sottolineate l’incompetenza, l’arroganza e la tendenza a obbedire più alle ragioni dell’emotività
che a quelle della razionalità. I critici del sistema, sia nel 411 sia, poi, nel corso del IV secolo,
optarono per la promozione di una presunta “democrazia diversa”, in cui i pieni diritti politici
fossero accessibili alla sola classe media, escludendo i nullatenenti, e in cui le funzioni
magistratuali fossero rivestite esclusivamente da “competenti”. Un governo di questo genere
rispondeva certamente a esigenze di rispetto della competenza e all’insofferenza per la democrazia
assembleare e la demagogia. C’è però da domandarsi se questa “democrazia” fosse effettivamente
tale: Pericle avrebbe certamente risposto in senso negativo, perché essa non assicurava pari
opportunità a tutti gli Ateniesi senza discriminazioni di nascita e di censo; mentre avrebbero
risposto positivamente i rivoluzionari oligarchici del 411, che si presentavano appunto come
disposti a sospendere le tradizionali forme della democrazia per salvaguardarne la sostanza.
Molte esigenze apparentemente prioritarie si manifestano in quest’epoca di crisi e mettono in
discussione principi che siamo abituati a considerare inderogabili: è comprensibile, e forse anche
utile, ma richiede prudenza. La democrazia è, fin alle sue origini, un sistema fragile, esposto alla
propaganda su temi già proposti in diverse circostanze – come l’emergenza (economica e/o
militare) e il bisogno di concordia e di “unità nazionale” – che possono indurre a prendere
decisioni di dubbia correttezza istituzionale con il pretesto della “eccezionalità” della situazione;
un sistema in cui problemi come quelli della condivisione dei valori, dell’interesse comune, della
leadership appaiono cruciali e non sempre adeguatamente messi a fuoco. Guardare alla storia –
da cui, nonostante Tucidide che la considerava una “conquista per sempre”, nessuno sembra
imparare abbastanza – può aiutarci a considerare i problemi della democrazia contemporanea
con maggiore consapevolezza e spirito critico: un ottimo motivo per valorizzarne l’insegnamento,
nella scuola e nell’università.
Cinzia Bearzot
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
7
FATTI E OPINIONI
Il fatto
gatoria dei docenti, libri di testo, bonus della maturità… – e
niente altro. Nei numerosi interventi fatti ad apertura dell’anno scolastico, il Ministro Carrozza ha mostrato di avere
di Giovanni Cominelli
consapevolezza di questa contraddizione, ma anche confessato l’impotenza e l’inefficacia del governare alla giornata.
Un punto è largamente insoddisfacente: quello dell’assunNodi irrisolti
zione dei dirigenti e dei nuovi docenti. Buona, si intende, l’idea
di un concorso annuale, ma cattiva quella di far gestire l’intera
Che la scuola sia ripartita – a seguito delle misure adottate dal procedura per il reclutamento dei dirigenti alla Scuola nazioDecreto Legislativo n. 104 del 12 settembre 2013, a cui i media nale dell’Amministrazione. Non solo conferma l’opposizione
hanno dato il titolo La scuola riparte – è ancora presto per dire. centralistica a ipotesi di reclutamento praticate in altri Paesi,
La prima parte prevedeva: misure per il Welfare dello studente che tengano conto maggiormente della dimensione territoe per il diritto allo studio; l’introduzione, in una delle due classi riale e locale, ma soprattutto restituisce un profilo burocratico
del primo biennio dei tecnici e dei professionali, di un’ora di in- del dirigente, cui mancano totalmente le caratteristiche del
segnamento di “geografia generale ed economica”; la realiz- leader educativo. E suona demagogico anche il mantenere a
zazione di progetti didattici nei musei, nei siti di interesse ar- cinque anni di servizio il requisito per accedere al concorso per
cheologico, storico e culturale o nelle fondazioni culturali; il dirigenti, mentre non si stabilisce l’età massima. Così l’età mefinanziamento di laboratori scientifico-tecnologici di istituto dia dei presidi sta scivolando oltre il crinale dei 60 anni. Quanto
che utilizzano materiali innovativi; contributi alle scuole, singole al reclutamento dei docenti, il Ministro ha con tutta evidenza
o in rete, per l’acquisto di libri di testo e di dispositivi per la let- sposato la preferenza dei sindacati a favore del PAS (Percorso
tura dei materiali didattici digitali; sostegno al prolungamento Abilitante Speciale), che si ispira al principio di anzianità invece
dell’orario scolastico, secondo un programma di didattica in- che a quello di competenza professionale accertata, come integrativa, soprattutto nella scuola primaria, al fine di prevenire vece prevedeva il TFA di Profumo. Con ciò le giovani leve dola dispersione scolastica, nelle aree di maggior rischio di eva- vranno invecchiare parecchio. A monte sta l’intera filosofia delsione dell’obbligo; un impegno a incrementare le attività di l’Amministrazione statale-ministeriale e quella dei sindacati,
orientamento promosse dalle scuole secondarie di secondo concordi nell’affidare il reclutamento del personale a meccagrado, dichiarate attività funzionali all’insegnamento non ag- nismi centralizzati, costosi, inefficienti, quando non corruttibili
giuntive e riguardanti l’intero corpo docente.
o corrotti. Perciò non poteva stare nel testo neppure un’alluUn articolo fondamentale è il n. 15, in cui si annuncia un sione al fatto che i fenomeni di dispersione non sono sempre
piano triennale di assunzioni a tempo indeterminato di per- imputabili a cause esterne al sistema scolastico. D’altronde, il
sonale docente, educativo e ATA per gli anni 2014-16, che ri- rischio del finanziamento con l’art. 7 e l’art. 16 delle cosiddette
guarderebbe 69.000 docenti e 16.000 ATA. Quanto al percorso “aree a rischio” è evidente: se stare in un’area a rischio porta uldi reclutamento dei dirigenti scolastici, tormentato da ricorsi, teriori finanziamenti, perché uscirne? Ciò detto, difficile atcontroricorsi e invalidazioni, l’art. 17 stabilisce per il futuro che tendersi di più da un governo le cui componenti essenziali si
i dirigenti vengano scelti mediante corso-concorso selettivo affrontano quotidianamente in un reciproco assedio e che lo
annuale di formazione bandito dalla Scuola nazionale del- sostengono così come la corda “sostiene” l’impiccato.
l’Amministrazione.
Giovanni Cominelli
Che dire del Decreto? È denso di provvedimenti – qui consiEsperto di sistemi educativi
deriamo solo quelli relativi alla scuola – con uno stanziamento
complessivo di 400 milioni di Euro. Gocce nel deserto, si dirà.
PAZIO CUOLA
Ma sono le prime gocce da qualche anno a questa parte,
a cura di Francesco Magni
dopo la siccità dei tagli orizzontali. Tuttavia, esso rispecchia la
http://nuovasecondaria.lascuolaconvoi.it
labilità del quadro politico italiano, che è causa ed effetto
S
della mancanza di una volontà politica riformatrice forte e decisa. Così che il testo non può alludere, neppure nella forma retorica dell’impegno futuro, ai nodi strutturali irrisolti. Affronta
alcuni aspetti dell’emergenza – diritto allo studio, dispersione,
reclutamento dei dirigenti e dei docenti, formazione obbli-
8
S
Il sito di Nuova Secondaria (sezione Panorama) propone a dirigenti
scolastici e docenti una rubrica con notizie e commenti dalla stampa,
aggiornamenti sulla legislazione e rassegna giurisprudenziale. Il lettore vi può trovare informazioni utili per il quotidiano lavoro nella
scuola e ha la possibilità di collaborare inviando domande, notizie e
segnalazioni all’indirizzo email: [email protected].
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
FATTI E OPINIONI
Pensieri del tempo
di Giuseppe Acone
Istantanee sull’adolescenza
postmoderna
Negli ultimi tempi si legge frequentemente sui giornali che,
ad esempio, in una metropoli come Milano, ci sono cooperative-ronde di genitori, che nella notte del sabato, ogni settimana, percorrono le strade cittadine nei pressi dei locali notturni, alla ricerca dei loro figli adolescenti.
Gli adolescenti di questa persistente lunga obsolescenza
della modernità dormono di giorno e vivono di notte (si divertono, si stordiscono). Ormai sono tanti anni che accade, ma,
negli ultimi tempi, la cosa è diventata fonte di angoscia sociale e causa di sofferenze per le famiglie che ancora avvertono sentimenti di paternità e di maternità.
Ancora. Leggiamo nell’ultimo Rapporto OCSE che l’Italia vede
i propri adolescenti allievi della scuola secondaria all’ultimo
posto in Europa per capacità di lettura e per conoscenze matematiche. È un’altra immagine di adolescenza postmoderna
in un Paese, che ha, però, il primato assoluto per numero di cellulari in dotazione a ciascun ragazzo (e il primato di cellulari
per abitante in Europa), come si apprende da altre statistiche.
Il futuro alle spalle
di Carla Xodo
Due istantanee sull’adolescenza mentre siamo nella pienezza
stanca ed estenuata della modernità occidentale.
Pedagogicamente, si potrebbe ancora affrontare l’argomento
in termini di eccesso di permissivismo. Ma, forse, bisogna approfondire il discorso.
Forse la crisi è più profonda e vede in discussione tutti i sistemi e i modelli di vita della nostra società. E, come insegnava
Durkheim, i sistemi di funzionamento e i modelli simbolici diventano sempre, anche nella modernità stanca ed estenuata,
modelli formativi (nel bene e nel male).
Giuseppe Acone
Università di Salerno
Asterischi di Kappa
Abusi e buon senso
Vale la pena investire in istruzione?
Alla domanda si sarebbe indotti a dire di no, per l’Italia. La recente pubblicazione dell’indagine PIAAC (Programe for the international assessment of adult competencies) a cura dell’Ocse
(Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), che ha provocato utili discussioni, almeno per gli addetti ai lavori, fa emergere un dato rilevante e preoccupante
insieme: la posizione “di coda” occupata dal nostro Paese.
Riassumiamo: per la literacy proficiency (capacità di comprendere, valutare, usare testi scritti per essere partecipi a liNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
La preside di una scuola di Roccapalumba (PA), alcuni anni
fa, chiamata dall’insegnante di una classe perché un’alunna,
sorda ad ogni richiamo, si divertiva a dileggiare un
compagno, ritenendo di fare cosa riparatoria nei confronti
dell’alunno mortificato, intimò all’alunna di ripetere dieci
volte davanti a tutta la classe «Io sono una bulla». I genitori
dell’alunna hanno denunciato la preside alla magistratura
per abuso dei mezzi di correzione. Il tribunale ha
condannato la preside a 20 giorni di carcere commutati
successivamente in una pena pecuniaria di 700 euro. La
preside insomma avrebbe dovuto avviare la procedura
disciplinare prevista dal Regio Decreto n. 1927 del 1928 (artt.
412-415), anziché applicare una sanzione considerata oggi
una violenza psicologica. Segno dei tempi.
9
FATTI E OPINIONI
vello sociale, conseguire i propri obiettivi e sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità), tra i 24 paesi dell’Ocse, i nostri connazionali dai 15 ai 65 anni si collocano all’ultimo posto. Siamo inoltre al penultimo posto in fatto di numeracy
proficiency, ossia la capacità di accedere, leggere, utilizzare, interpretare informazioni numeriche, oggi trasmesse frequentemente attraverso grafici e tabelle.
Per completare il quadro, ci sono i dati sul livello di istruzione: tre quarti degli italiani tra i 55 e i 65 anni hanno un
tasso di scolarità inferiore al diploma di scuola media superiore, contro il 30% dei diplomati degli altri Paesi Ocse: dati
che ritornano più o meno anche nella fascia di età tra i 25 e i
34 anni, dove il 30% degli italiani non ha il diploma, contro il
10% degli altri paesi europei.
Basso da noi anche l’uso delle tecnologie digitali.
Si parla, e con pertinenza, di analfabetismo funzionale, conseguente, come è logico immaginare, alla difficoltà del nostro
sistema formativo ad affrontare la sfida delle competenze.
La questione, ovviamente complessa, meriterebbe di essere indagata in tutte le sue componenti. Ma vi è un aspetto sul quale
vale la pena soffermarsi. Senza esagerare, si può sostenere che
nel nostro Paese la “retorica della formazione” abbia sostituito
la “realtà della formazione” . Per una sorta di dissociazione diffusa tra il dire e il fare, capita a molti di affermare una cosa come
fosse già fatta. Il gap si spiega solo con le convinzioni tacite che
determinano i nostri comportamenti. La spiegazione, a mio parere, consiste in questo: a differenza di altri paesi, per noi istruzione e formazione non sono considerate l’investimento più
importante, né per capitalizzare risorse per lo sviluppo, né più
in generale per uscire dalla crisi in cui ci dibattiamo da anni. Le
incongruenze che si determinano sono macroscopiche. Le più
evidenti possono essere così sintetizzate:
1. diminuzione (dal 10 all’8%) della spesa per l’ istruzione in
controtendenza rispetto ai paesi più progrediti;
2. incompletezza della riforma del nostro sistema educativoformativo, per due ragioni principalmente: il mancato investimento in una seria formazione iniziale degli insegnanti
e il sostanziale annullamento della formazione in servizio;
3. il pregiudizio diffuso del nesso tra scolarità e competenza,
e conseguente sottovalutazione del ruolo delle aziende, sostanzialmente misconosciute per il ruolo attivo che dovrebbero svolgere in un sistema formativo teso a promuovere “il saper fare esperto”;
4. il riconoscimento del merito: la difesa di rendite di posizioni
ha finito troppo spesso per privilegiare l’incompetenza alla
competenza.
Il guaio è che quest’ultimo punto, che rappresenta la più
odiosa discriminazione sociale, è anche la sfida più importante, che ci ha visto finora disarmati o forse incapaci di liberarci della retorica che promette di cambiare tutto per lasciare tutto come prima. Il primo passo verso un serio
investimento in istruzione dovrebbe partire proprio da qui.
Carla Xodo
Università di Padova
10
Asterischi di Kappa
Il romanzo siciliano della FP
La Sicilia è nota perché ha riununciato alle sue prerogative di
promuovere corsi triennali di qualifica e quadriennali di
diploma di istruzione e formazione, a partire dai 15 anni, per
assegnarli del tutto, tramite la formula della sussidiarietà
integrativa, all'istruzione professionale statale quinquennale.
In compenso, chiuso l’obbligo di istruzione a 16 anni, gli
studenti siciliani senza qualifica hanno la tradizionale
disponibilità della formazione professionale. Finora questa è
stata affidata a centri privati. Alcuni numeri: a 400 Enti di
formazione professionale siciliani sono stati attribuiti ogni
anno 260 milioni di euro, pari a 650.000 euro a Centro in
media. Alle 900 scuole statali siciliane sono stati attribuiti 32
milioni di euro, pari a 36.000 euro per scuola in media. I CFP
hanno assunto 7.500 dipendenti senza concorso pubblico per
un costo gravante prima sulla Regione e poi sui Fondi Europei
di 206 milioni annui. Le Procure siciliane hanno accertato
l’esistenza di 200 corsi fantasma e di 140 milioni andati in
fumo, in un contesto di “controlli impossibili”. Le Forze
dell’ordine hanno trovato numerosi registri di corsi con firme
false di studenti fantasma, firme naturalmente falsificate col
consenso dei dipendenti e dei docenti.
Nonostante fosse prescritto il numero minimo di 20 alunni per
corso, la Magistratura ha verificato che settanta corsi con meno
di cinque allievi sono costati alla Regione 3,1 milioni di euro. A
Catania, dove la Magistratura ha operato 10 arresti, 1,5 milioni
sono serviti a pagare dipendenti immaginari. Tutto questo e
altro ancora è avvenuto mentre si negavano le risorse ai CFP
salesiani di grande tradizione e di grande qualità, mentre si
escludeva dal finanziamento il CEDIFOP, ente di formazione
eccellente per palombari accreditato persino in Norvegia
(quando arrivano grandi navi a Palermo per la manutenzione,
come la Nave Solitaire, è necessario far arrivare i palombari
dall’Olanda). Adesso alcuni Centri di formazione sono
commissariati e i commissari, privi della copertura finanziaria,
licenziano il personale. Ma la Magistratura del lavoro li
reintegra prontamente. I Commissari sono quindi costretti a
riassumerli senza assegnare loro incarichi e pagandoli a vuoto
contraendo debiti che non potranno essere ripianati se non nel
solito modo: qualche sanatoria a carico dell’erario pubblico.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
FATTI E OPINIONI
Vangelo
docente
di Paola Bignardi
La grandezza viene
da dove non te l’aspetti
Tra gli incontri più belli del Vangelo vi
è quello di Gesù con una donna
cananea (Mt 15,21-28), cioè con una
donna che viveva in Fenicia, terra
pagana. Era una madre e aveva la figlia
gravemente ammalata.
Che cosa non fa una madre che non sa
più a chi rivolgersi? Che si sente
annientata dall’impotenza che prova
di fronte al male che la ferisce nei suoi
affetti più profondi? Così si rivolge a
Gesù: «Pietà di me, Signore, figlio di
Davide. Mia figlia è crudelmente
tormentata da un demonio».
Gesù risponde alla drammatica
invocazione con il silenzio; poi, per
l’insistenza della donna e dei discepoli
che vorrebbero zittirla, dà una risposta
scoraggiante, trattandola da
cagnolina. Ma si commuove davanti
all’umiltà e all’amore di questa madre,
e la esaudisce: «Donna, davvero
grande è la tua fede! Ti sia fatto come
desideri».
Gesù cambia parere, davanti a una
donna straniera che gli mostra di
quale umiltà sia capace l’amore e
soprattutto di quale coraggio sia
capace il cuore di chi sa condividere il
dolore delle persone che ha care.
Gesù, il maestro, non teme di
modificare la sua decisione, di
manifestare la sua ammirazione per
chi mostra questa fede inaspettata.
Non importa se è donna, e straniera, e
pagana: Gesù sa guardare alla
sostanza, sta all’oggettività delle
parole, degli atteggiamenti, dei moti
dell’animo.
È un bell’insegnamento per noi
educatori, tentati di valutare in base a
idee preconcette e persino tentati di
catalogare i nostri studenti in base a
etichette difficilmente modificabili.
La grandezza delle persone, la loro
intuizione, la loro intelligenza possono
sorprenderci: l’importante è che noi
siamo persone libere e in ascolto della
realtà senza pregiudizi.
Paola Bignardi
Pubblicista, già presidente nazionale
dell’Azione Cattolica Italiana
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
Asterischi di Kappa
Università e mondo del lavoro in Francia
Il dualismo del sistema post-diploma francese, diviso tra università, concentrate
sulla ricerca e i saperi fondamentali, e grandes écoles, rivolte invece verso i saperi
applicati e le imprese, comporta atteggiamenti diversi nei confronti dell’inserimento
professionale degli studenti. Questa sfida è un vero punto di debolezza per le
università francesi, che faticano a trovare un modello che salvaguardi il proprio
carattere di formazione teorica senza cedere alla vocazione professionalizzante delle
grandes écoles. Aziz Mouline, professore all’Università di Rennes, pone alcune
condizioni per affrontare la difficoltà, come mettere in relazione studenti e imprese
attraverso una politica di partenariati o inserire dei moduli obbligatori nel corso
degli studi che insegnino a cercare uno stage o un lavoro («Les Echos», 18 settembre
2013). Anche i Francesi, insomma, se non fanno fatica a stare meglio di noi, hanno
pure loro i grattacapi che conosciamo con il sapere accademico troppo accademico.
11
FATTI E OPINIONI
La lanterna di Diogene
Occhio alla scienza
di Fabio Minazzi
di Matteo Negro
Evoluzione storica della spesa
pubblica per l’istruzione
Razionalità, scelte e vita quotidiana
Se si vuole comprendere la situazione effettiva della scuola e
dell’università nei paesi occidentali e nell’Unione europea è
doveroso studiare l’evoluzione complessiva della spesa pubblica per l’istruzione. Considerando gli ultimi dieci anni, dal
2000 al 2010 e facendo pari a 100 il dato dell’anno 2000, il
confronto dell’andamento delle differenti voci di bilancio
per scuole e università delle economie occidentali è oltremodo indicativa.
Nel 2001 l’Italia si attestava alla percentuale 108,91, ben al di sopra della Francia (100,35), della Germania (101,95), della Spagna
(102,48) e anche della media europea (104,54), ma, naturalmente, ben al di sotto della percentuale degli Stati Uniti
(114,39). Tuttavia, proprio a partire dal 2001, tutti questi paesi
hanno intrapreso (Stati Uniti inclusi!), un trend decisamente
ascendente, moltiplicando, progressivamente, i propri investimenti nella scuola e nell’università, mentre l’Italia, pur con un
andamento a zig-zag, con cali e flebili tentativi di ripresa, inizia
un trend complessivamente discendente, che le fa registrare,
nel 2010, una percentuale (103,24), inferiore a quella della sua
partenza! Non solo l’Italia, sempre nel 2010, è nettamente superata dalla Francia (108,47), dalla Germania (119,15, del 2009),
dalla Spagna (141,91) e, naturalmente, dagli Stati Uniti (130,23).
Ma l’Italia risulta essere nettamente inferiore anche rispetto alla
media dell’Unione Europea che nel 2009 si attesta alla percentuale del 126,22.
I dati documentano come il degrado complessivo della scuola
italiana trovi una sua radice specifica anche nella diminuzione
costante delle somme stanziate dallo Stato per il suo sviluppo. Uno sviluppo che, appunto, non si è mai realizzato, perché, semmai, si registra una palese regressione, proprio mentre tutti gli altri paesi occidentali danno invece alle loro scuole
più risorse. Sono dati che devono essere ricordati all’intera società civile da coloro che insegnano nella scuola, onde sottolineare che il mancato sviluppo del nostro paese ha una radice precisa nel disinteresse della politica per il futuro dei
nostri studenti.
Fabio Minazzi
Università dell’Insubria
12
Quanto conta la razionalità nel nostro vivere quotidiano,
nelle scelte piccole o grandi che lo contraddistinguono? C’è
da premettere, prima di tentare una risposta al quesito, che
non si deve dare troppo per scontato che il termine “razionalità” sia sufficientemente chiaro. In molti esso evoca una dimensione non sempre compatibile con la sfera del vissuto
quotidiano, che quasi per forza di cose non sempre può essere soggetta ai freddi criteri del calcolo dei costi e dei benefici o al potere delle deduzioni e delle controdeduzioni. Si
sente spesso ripetere che l’esistenza dell’uomo debba invece lasciare il giusto spazio all’emotività, alla compassione,
alla vitalità dei sentimenti, allentando le briglie troppo strette
della ragione. Così, quando si prendono decisioni importanti
relative, ad esempio, all’impegno affettivo e matrimoniale,
all’accoglienza dei figli e alla loro educazione, alla scelta delle
amicizie o dei percorsi di studio, si tende a privilegiare il ruolo
guida dei sentimenti e delle passioni. Sullo sfondo permane
però un’idea nebulosa e opaca di razionalità: sembra quasi
più semplice il dire a che cosa non corrisponda (o non debba
corrispondere), che non il fornire di essa una definizione
chiara e accettabile intersoggettivamente.
Eppure a nessuno dovrebbe sfuggire che, anche inconsapevolmente, noi non possiamo evitare di fare uso della nostra
capacità razionale, benché quest’uso non sia sempre corretto o efficace. Si tratta in ultima analisi di una capacità di natura pratica, che consiste nel mettere in relazione i mezzi
con i fini, con gli obiettivi. La relazione mezzi-fini corrisponde,
adoperando altri termini, alla relazione tra azioni e motivazioni o tra scelte e motivazioni. Se ho un obiettivo davanti a
me, per perseguirlo devo utilizzare i mezzi idonei, operare
delle scelte, cioè agire in funzione di quello scopo. Se non lo
facessi, non solo non centrerei l’obiettivo, ma l’obiettivo stesso
in fin dei conti non si rivelerebbe poi tale. La dinamica si reitera continuamente, mutando di contenuto, nel corso della
nostra esistenza. Se abito a Torino e ho l’obiettivo di presentarmi a un colloquio di lavoro alle 10 del mattino a Milano,
devo mettere in campo i mezzi adeguati per raggiungere
quello scopo: non posso dirigermi a piedi verso la meta partendo alle 9,45, ma devo fare delle scelte precise, cioè svolgere
una serie combinata di azioni che si rivelino efficaci. L’obietNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
FATTI E OPINIONI
tivo raggiunto con successo, a sua volta, altro non è poi che
un mezzo per raggiungerne un altro; nella fattispecie un contratto di lavoro, che ancora è mezzo di uno scopo ulteriore, e
via di seguito. Il fatto che gli scopi siano o diventino mezzi per
altri scopi – ciò che dà alla razionalità la connotazione di
“strumentale” – non deve essere subito valutato negativamente. Si tratta appunto di un fatto, cioè di una dinamica effettiva cui, anche volendo, nella maggior parte dei casi non
possiamo sottrarci e che, nella sua attuazione, può prescindere da valutazioni di carattere etico o morale. Si può essere
razionali, anche perseguendo scopi eticamente inaccettabili.
Hilary Putnam ha efficacemente analizzato il caso del “nazista razionale”1. Altra cosa è invece la “ragionevolezza”, che include la razionalità, ma non la esaurisce.
Il vero nodo problematico relativo al tema della razionalità e
al suo ruolo nelle scelte della vita quotidiana riguarda però la
riflessione attorno ai fini dell’agire, cioè non tanto al “che
cosa” scegliere, ma al “perché” scegliere. È il tipico caso di chi,
in procinto di contrarre matrimonio, prestasse la massima
attenzione all’organizzazione delle nozze, alla scelta dei luoghi e dei testimoni, alla predisposizione accurata del banchetto e della luna di miele, ma poi non sapesse, in cuor suo,
rispondere alla domanda fondamentale: «Perché sposare
quest’uomo/questa donna?» La chiarezza sul senso e sul valore dell’obiettivo permette di perseguirlo razionalmente.
L’insufficiente riflessione sui fini rischia invece di rendere irrazionali e inadeguate le azioni dispiegate, persino quelle
più attentamente vagliate. Più in generale questo appare
maggiormente evidente quando ci si confronti con obiettivi
non strumentali, detti “ultimi”, perché non possono essere a
loro volta considerati funzionali a scopi di valore inferiore. Paradigmatico può essere in questo senso il riferimento allo
scopo del vivere, se per vivere non si intende appena la condizione biologica, ma soprattutto lo svolgersi delle azioni
nelle quali si manifesta la struttura profonda della persona,
dell’essere “qualcuno”. Sotto questo profilo è paradossale che
il “qualcuno” che vive, e che spesso agisce convulsamente inNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
seguendo una grande varietà di interessi, ignori del tutto il
fine ultimo del flusso delle sue stesse scelte. Non è questo
forse il segno di un’irrazionalità lucidamente vissuta?
A ben poco vale l’attenuante, di chiara derivazione economica,
che la razionalità della scelta dipenda dall’ordinamento delle
alternative disponibili. Come dire che, a fronte di un’incertezza
epistemica sui fini, la razionalità della scelta può essere comunque garantita dalla libertà posizionale, cioè dalle reali opportunità di preferenza e di scelta a disposizione del soggetto,
che in questo modo “emergerebbe” dal confronto con altri
soggetti. Sappiamo però che sorte toccò all’asino di Buridano.
Riportiamo qui da un bellissimo volume di Dan Ariely, un noto
economista comportamentale, il resoconto commentato di
un evento storico emblematico: «Nel 210 a.C. il comandante cinese Xiang Yu attraversò con le sue truppe il fiume Yangtze per
affrontare l’esercito della dinastia Qin. Giunto sull’altra sponda
del fiume fece accampare i soldati per la notte. La mattina seguente, al loro risveglio, i soldati si accorsero terrorizzati che le
imbarcazioni con le quali avevano attraversato il fiume erano
in fiamme. Balzarono in piedi per gettarsi all’attacco del nemico
ma scoprirono ben presto che era stato il loro stesso comandante a ordinare l’incendio delle navi e che aveva anche fatto
frantumare le pentole di terracotta che servivano a cucinare il
rancio. Xiang Yu spiegò alle truppe che senza pentole e senza
navi non avevano altra scelta che vincere o morire. Questo
stratagemma non gli guadagnò un posto nel novero dei comandanti cinesi più amati ma ebbe un effetto straordinario
sulle truppe: i soldati, determinati all’estremo, afferrarono le
lance e gli archi e si lanciarono contro il nemico con tutta la ferocia che avevano in corpo vincendo nove battaglie consecutive e annientando gran parte dell’esercito della dinastia Qin.
La storia di Xiang Yu è degna di nota perché è completamente
antitetica rispetto al comportamento usuale degli esseri umani.
Noi, di solito, non riusciamo a sopportare di escludere le varie
alternative che ci si presentano»2.
In realtà, quotidianamente il numero delle nostre alternative
è per lo più molto ristretto, e al nostro stesso vivere non c’è
alternativa (se non il non-vivere, che però non è una vera alternativa, giacché non è un “altro” vivere), ma ciò non può impedirci, se solo lo vogliamo, di fare un investimento di razionalità sui fini e, dunque, sulle scelte che essi possono
adeguatamente motivare.
Matteo Negro
Università di Catania
1. Cfr. H. Putnam, Ragione, verità e storia, Il Saggiatore, Milano 1985.
2. D. Ariely, Prevedibilmente irrazionale, Rizzoli, Milano 2008, p. 160.
13
FATTI E OPINIONI
Didattica del classico
In Italia il Liceo Europeo è il prodotto tangibile degli obiettivi
di integrazione culturale dell’Europa. Se sul piano pedagogico
esso mira alla formazione di una coscienza europea in linea
di Augusta Celada
con la necessità di garantire una pacifica e proficua convivenza
dei popoli dell’Europa, sul piano cognitivo il nucleo della cultura europea viene ricercato nelle radici comuni dei diversi poL’esperienza del liceo classico europeo poli con la finalità di giungere alla comprensione delle ragioni che sostengono un’unione anche politica dell’Europa.
C’è una sperimentazione che il riordino dei licei, che sarà a re- Nel curricolo che vent’anni fa si costruì, e che ora necessita
gime nell’anno scolastico 2014-2015, anziché sopprimere, di una revisione che lasciare solo all’autonomia delle scuole
ha stralciato con l’intento di rinviarne la revisione a un distinto ne farebbe perdere l’identità sotto la spinta di esigenze losuccessivo regolamento, finora non intervenuto: il liceo clas- calistiche, peraltro legittime, le radici comuni della civiltà
sico europeo1.
europea risiedono in un’eredità condivisa della classicità,
La sperimentazione del liceo classico europeo è stata av- intesa come visione unitaria del mondo classico e progresviata negli anni ’90 e interessa oggi una quarantina di classi, siva trasformazione ed elaborazione del suo articolato corso
meno di un migliaio di alunni in tutta Italia, all’interno di di- storico.
ciassette istituzioni educative, Convitti Nazionali ed Educan- La civiltà romana, fin dalle origini dell’espansione territoriale
dati dello Stato che propongono nella propria offerta for- dell’impero, ha costituito il modello comune della formamativa questo percorso di forte capacità attrattiva, in netta zione, grazie alla funzione veicolare del latino che è stata la
crescita negli ultimi anni. Nonostante i numeri siano ridotti, il lingua dell’istruzione, del diritto, della riflessione filosofica e
curricolo del liceo europeo rappresenta un percorso liceale di della ricerca scientifica fino al XVII secolo.
grande interesse, soprattutto sul versante dell’insegnamento L’impero romano ha veicolato all’occidente la cultura della
delle discipline classiche. La relativa sperimentazione risale al Grecia antica e delle civiltà del vicino Oriente e, se il più
1993: il processo di unificazione europea, la libera circolazione grande contributo della Grecia antica alla civiltà è rappredelle persone e delle merci mise in evidenza, alla fine del se- sentato dall’invenzione della filosofia e del pensiero scienticolo scorso, la necessità di uno spazio europeo dell’educa- fico, il più grande contributo della civiltà latina è la nascita del
zione, non all’interno di un ordinamento comune, ma con un diritto che in Roma trovò la sua culla. Su questi due pilastri, la
impegno comune degli Stati membri.
scienza, legge della natura e il diritto, legge degli uomini, è
Il progetto di un “Liceo Europeo”, infatti, prese le mosse dal cresciuta la civiltà occidentale, caratterizzata dalla fondaTrattato di Maastricht, nello spirito del quale la dimensione mentale unità della cultura declinata nei differenti statuti ereuropea dell’insegnamento tende prioritariamente al mi- meneutici che fanno capo alle discipline liceali.
glioramento della conoscenza e alla diffusione della cultura
e della storia dei popoli europei.
In particolare gli articoli 126, 127 e 128 del Trattato affermano il «pieno rispetto della responsabilità degli Stati mem- 1. Il DPR 89/2010 al’’art. 2 comma 3 stralcia il Liceo europeo dal processo di riforma:
bri per quanto riguarda il contenuto dell’insegnamento, l’or- «Alla riorganizzazione dei percorsi delle sezioni bilingue, delle sezioni ad opzione internazionale, di liceo classico europeo, di liceo linguistico europeo e ad indirizzo sporganizzazione del sistema istruzione e le diversità culturali e tivo, si provvede con distinto regolamento adottato ai sensi dell’articolo 17, comma
linguistiche» e contribuisce a rafforzare «il retaggio cultu- 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, sulla base dei criteri
previsti dal presente regolamento».
rale comune» privilegiando l’uso di strumenti di mobilità, di 2. La dichiarazione di Bologna del 19 giugno 1999 che avvia l’omonimo processo si
in sei azioni: un sistema di titoli accademici facilmente riconoscibili e comcooperazione, di scambi di informazioni e di esperienze in- articola
parabili con l’adozione di un supplemento al diploma condiviso per migliorare la trasparenza; un sistema fondato essenzialmente su due cicli; un sistema di cumulo e
terculturali degli studenti.
trasferimento di crediti; la mobilità degli studenti, degli insegnanti e dei ricercatori
Successivamente il processo di Bologna introdusse l’inte- mediante l’eliminazione di tutti gli ostacoli alla libertà di circolazione; la cooperazione;
resse e l’impegno dell’Unione Europea a sviluppare la di- la dimensione europea nell’insegnamento superiore. La dichiarazione di Bologna è un
impegno volontario di ciascun paese firmatario a riformare il proprio sistema di inmensione europea nell’istruzione mediante l’insegnamento segnamento. Per quanto riguarda gli Stati membri dell’Unione europea (UE), l’artie la diffusione delle lingue degli Stati membri, a favorire la colo 165 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea stipula che l’Unione
«contribuisce allo sviluppo di un’istruzione di qualità incentivando la cooperazione tra
mobilità degli studenti e degli insegnanti incoraggiando il ri- Stati membri e, se necessario, sostenendo ed integrando la loro azione». Tuttavia gli
conoscimento accademico dei titoli e dei periodi di studio, a Stati membri restano totalmente responsabili del contenuto dell’insegnamento e dell’organizzazione del loro sistema di istruzione nonché della loro diversità culturale e
promuovere la cooperazione tra gli istituti di insegnamento2. linguistica.
14
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
FATTI E OPINIONI
Il curricolo del liceo europeo, fondato su una forte dimensione
di licealità, integra le tre principali aree del sapere: umanisticoletterario, matematico-scientifico, storico-filosofico con una sicura padronanza di due lingue europee che permette la veicolazione di due discipline non linguistiche, le scienze
insegnate in lingua inglese e la geostoria o il diritto insegnati nella seconda lingua europea.
Tuttavia il vero core curriculum del liceo classico europeo risiede nella unitarietà dell’insegnamento del latino e del greco
accorpate in unica disciplina denominata “Lingue e letterature
classiche”. Essa ha per oggetto la conoscenza della civiltà classica considerata nella unitarietà della sua eredità e viene proposta agli studenti nell’ottica di un’acquisizione organica del
patrimonio culturale della civiltà classica. Prospettiva che
esalta il tema, pur controverso, delle radici cristiane dell’ Europa, proprio in quanto il cristianesimo per primo vide l’antico come un tutto unico, premessa e preparazione della rivelazione, di cui anticipò valori civili e modelli etici.
Certo alla base della riunificazione didattica delle due discipline classiche sta anche un’idea romantica, molto funzionale
alla prospettiva europeista, che affonda le sue radici nella
glottologia e nella linguistica storica e nell’uso del metodo
comparativo per lo studio sull’origine delle lingue.
Sul versante didattico tuttavia la sfida è ardua a cominciare
dalle 25 ore complessive di insegnamento nel quinquennio
contro le 39 del liceo classico, all’interno di un curricolo dove
tutte le discipline, tranne questa che pure ne costituisce la caratteristica innovativa, hanno un monte ore maggiorato rispetto ai corrispettivi percorsi liceali ordinamentali.
Inoltre l’approccio comparato è più suggestivo a dirsi che fa-
cile a realizzarsi in classe: infatti, se la letteratura può essere insegnata per generi con forti nessi tra le due civiltà letterarie,
la lingua, solo per taluni argomenti sintattici e per approfondimenti sul lessico, si presta ad un approccio comparato; è di
tutta evidenza che non vi si presta lo studio morfosintattico
del sistema verbale che segna la distanza di prospettiva simbolico-culturale tra le due civiltà.
Una metodologia che fa proprie le acquisizioni della linguistica storica e un modello grammaticale improntato alla didattica breve sono la chiave dell’insegnamento delle lingue
classiche da adottarsi nel liceo europeo.
La centralità del lavoro didattico va riservata alla traduzione
intesa, in un quadro di valutazione delle competenze maturate dagli studenti, come prova esperta di comprensione che
deve però essere contenuta in spazi quantitativi commisurati
al tempo scuola.
Del tutto inadatto alla struttura del liceo europeo l’uso del
metodo Ørberg con il quale i tempi di apprendimento si allungherebbero e si sacrificherebbe, alla naturalità vera o presunta del processo di apprendimento, l’aspetto metacognitivo dello studio delle lingue classiche; ma altrettanto
inefficace risulta il ricorso alla grammatica normativa che registra più aporie che punti di forza offuscando agli occhi degli studenti, che sono i cittadini della nuova Europe 2020, la
dimensione storico-culturale e il peso della cultura greco-latina e cristiana nella costruzione della civiltà europea.
Augusta Celada
Dirigente Educandato Statale “Agli Angeli”, Verona
Tempo perduto
tempo ritrovato
quella di una privatizzazione aperta a una contrattualizzazione autentica.
La riforma ebbe il via libera dall’art. 2 della legge delega n.
421/1992, per la sua asserita capacità di contribuire a contedi Franco Carinci
nere la spesa e a migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione. E solo quattro mesi dopo avrebbe trovato piena
attuazione nel decreto legislativo n. 29/1993, «razionalizzaLa privatizzazione del pubblico impiego zione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche
e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego»,
Alla fine del decennio ’80, l’alternativa che si presentava al le- destinato a costituire il testo di riferimento della successiva
gislatore con riguardo all’impiego alle dipendenze delle pub- decretazione correttiva emanata a’ sensi della prima delega,
bliche amministrazioni, già regolato dalla legge quadro n. nonché della seconda, di cui all’art. 11, c. 4 L. n. 59/1997.
93/1983, era fra tornare indietro sulla strada di una pubbli- Sarà il D.Lgs. n. 165/2001, c.d. T.U. del pubblico impiego, a recizzazione tutta chiusa dentro la legge, o procedere avanti su stituirci la riforma in quella che sembrava doverne costituire
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
15
FATTI E OPINIONI
la versione definitiva, cioè come una nuova regolazione delle
fonti attuata sulla base di una distinzione di massima: a monte
la macro-organizzazione, mantenuta pubblica; e, a valle, la micro-organizzazione e la disciplina del personale, resa privata,
con un’ampia riserva a favore della contrattazione collettiva.
Chiamata a pronunciarsi, la Corte costituzionale elaborò tutta
una giurisprudenza favorevole alla ratio ancor prima che alla
lettera della riforma. Se la sent. n. 359 del 1993 si limitò a sindacare la insufficiente partecipazione regionale alla procedura di contrattazione, la sent. n. 88 del 1996, si espresse per
l’abrogazione delle rappresentanze del personale nei consigli di amministrazione delle P.A.; e, di lì a poco, nel breve
tratto di un biennio, intervennero due decisioni destinate a
“costituzionalizzare” la riforma: la sent. n. 313 del 1996, a pro
della legittimità della privatizzazione del rapporto di lavoro dirigenziale (limitatamente alla dirigenza di seconda fascia); e,
infine, la fondamentale sent. n. 309 del 1997 a favore della sottoposizione dell’impiego pubblico “privatizzato” alla legislazione del lavoro e alla contrattazione collettiva.
Se il T.U. del 2001 fosse rimasto il testo di riferimento, non per
questo sarebbe stato lasciato immodificato nel corso del
decennio successivo, ma ritoccato e rivisto nel senso di un
riequilibrio del rapporto legge/contrattazione a tutto vantaggio della prima. In tal senso si muove il Governo Berlusconi, già nel suo secondo mandato, con la L. n. 145/2002, che
riscrive la disciplina della dirigenza dettata dal T.U.; ma, poi,
soprattutto nel suo terzo, con la L. n. 133/2008, che, in vista
di un contenimento della spesa pubblica, prevede non solo
una forte stretta sull’organizzazione e sul personale, ma anche una nuova normativa in materia di controllo della contrattazione, specie di quella integrativa ormai largamente
sfuggita di mano.
La L. n. 133/2008 anticipa la L. n. 15/2009 destinata a passare
alla storia come riforma Brunetta, che rappresenta per ora l’ultima tappa significativa di una vicenda iniziata con la legge
delega del 1992, peraltro a tutt’oggi rimasta largamente lettera morta. Senza soffermarsi sulla non piena corrispondenza
fra la legge delega e il D.Lgs. n. 150/2009 che vi ha dato attuazione, c’è da offrire una breve rappresentazione della filosofia e dell’impostazione del decreto stesso.
Se pur la legge delega faceva prevedere una ipertrofia regolativa, nondimeno impressiona la dimensione assunta dal
decreto, ricco di ben 74 articoli, suddivisi in cinque Titoli, che
già di per sé testimonia l’ormai definitiva primazia assegnata
alla legge rispetto a una contrattazione che avrebbe fallito la
sua missione di restituire trasparenza ed efficienza alla amministrazione pubblica.
16
Ma ri-legificazione non equivale affatto a ri-pubblicizzazione,
perché resta del tutto ferma la scelta iniziale per la c.d. privatizzazione, addirittura enfatizzata come funzionale a una diffusione di una vera e propria cultura d’impresa: ma c’è più
legge e meno contrattazione collettiva. La più incisiva e pervasiva presenza della legge è vista proprio come una difesa
contro una espansione impropria della contrattazione collettiva, rivelatasi tale da intaccare e snaturare la stessa organizzazione. Una difesa, questa, attuata col sottrarre alla negoziazione formale e informale un’ampia area decisionale
riservata alla dirigenza; peraltro non senza una buona carica
di incoerenza, al tempo stesso vincolandola ad una rigida disciplina eteronoma e caricandola di una responsabilità gestionale pesantemente sanzionata.
Solo che tale ri-legificazione accresce la specificità del diritto
sindacale dell’impiego pubblico privatizzato; proprio nel
mentre è in piena fioritura tutta una legislazione riservata al
solo lavoro privato, dalla riforma “Biagi” alla riforma “Fornero”.
Sicché, da una esperienza ormai ventennale, esce alquanto ridimensionata l’aspettativa coltivata all’inizio che la privatizzazione potesse servire a ricondurre a una casa effettivamente comune l’intero universo del lavoro subordinato a
prescindere dal carattere pubblico o privato del datore.
Il decreto delegato n. 150/2009 è articolato su due parti fisicamente e logicamente distinte, anche se correlate: la prima
(Titoli II e III) - destinata alla misurazione/valutazione e premiazione della performance, individuale e collettiva, con una
ricezione tanto monocorde quanto discutibile della metodologia applicabile a un’impresa - rimane consegnata allo
stesso decreto; mentre la seconda (Titolo IV) - dedicata alla dirigenza, all’organizzazione degli uffici e alla mobilità, alla contrattazione collettiva nazionale e integrativa, alle sanzioni disciplinari e alla responsabilità dei dipendenti, finisce per
essere incorporata nel T.U. del 2001 - costituendone altrettante modifiche.
Per quanto ambiziosa la riforma Brunetta non è mai decollata
perché per tutta la prima parte sulla misurazione/valutazione
e premiazione della performance, individuale e collettiva, è rimasta pressoché lettera morta; mentre per la seconda, in
particolare per la sua componente più importante e significativa, cioè la rivisitazione della contrattazione collettiva, è
stata per così dire sterilizzata dai continui e perduranti blocchi dei rinnovi contrattuali dovuti alla politica della lesina, cui
il Governo è stato costretto dall’osservanza dei rigidi criteri decisi in quel di Bruxelles.
Franco Carinci
Università di Bologna
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI
L’integrazione che non c’è
Disabilità, DSA, BES (1)
Giuliana Sandrone
L’ INTEGRAZIONE DEGLI ALLIEVI DISABILI NELLA SCUOLA SECONDARIA DI II GRADO PRESENTA OGGI, DOPO 25 ANNI
DALLA C.M. 262/881, UNA SERIE DI LUCI E OMBRE CHE LEGITTIMANO PIÙ CHE MAI LA DOMANDA: È VERA
INTEGRAZIONE QUELLA CHE STIAMO PRATICANDO?
O
ltre che a promuovere l’integrazione degli alunni disabili,
la scuola secondaria di II grado,
negli ultimi tre anni, è stata chiamata a
mettere in campo azioni educative
volte a garantire il diritto all’istruzione
e il pieno sviluppo della persona agli allievi con potenzialità cognitive nella
norma, ma che presentano Disturbi
Specifici di Apprendimento, così come
previsto dalla L. 170/10 e dal successivo D.M. 5669/2011 con le relative Linee guida2. Da quest’anno scolastico,
inoltre, come previsto dalla Dir.Min. 27
dicembre 2012, l’attenzione si allarga,
dagli allievi con Disturbi Specifici di Apprendimento a quelli con difficoltà di
apprendimento che, senza presentare
un quadro che giustifichi una certificazione, necessitano «che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta»3. Per questi, i cosiddetti allievi con
Bisogni Educativi Speciali (ragazzi con
disturbi di attenzione e iperattività, o
più semplicemente ragazzi border line
rispetto a un “regolare” apprendimento,
sottolinea la Direttiva) occorrerà definire un PDP, attivare percorsi metodologici particolari, sempre con l’occhio
attento alla classe, al gruppo uniforme
che dovrebbe rispondere alle aspettative “regolari” del sistema. Gruppo uniforme sempre più esiguo, riflette chi
quotidianamente lavora nella scuola,
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
che porta a chiedersi se esista ancora;
ma che, soprattutto, porta a tema la riflessione cruciale sulla diversità, a
scuola, e sui portatori di diversità: chi è
diverso? Qualche allievo, molti allievi, o
tutti gli allievi? È questa l’inclusione che
le scuole sarebbero chiamate a realizzare? Se sì, in quale rapporto sta con
l’integrazione che ha guidato, dagli anni
‘70 in poi, la via della scuola italiana
«per portare a maturazione, sotto il profilo culturale, sociale, civile, le possibilità
di sviluppo di ogni bambino e di ogni
giovane»4?
Per rispondere a queste domande,
messe a fuoco proprio perché paiono
strettamente connesse tra di loro, procederemo attraverso due passaggi:
1) l’analisi delle linee generali della
scelta italiana per l’integrazione della
disabilità, con particolare attenzione
alla scuola secondaria di II grado;
2) i rapporti di significato tra i termini integrazione e inclusione, indistintamente utilizzati nei documenti normativi dedicati agli allievi con DSA e,
più in generale, con BES.
L’integrazione degli allievi
con disabilità. La via italiana
e le sue criticità
Osservare che cosa accade oggi nella
scuola secondaria di II grado rispetto all’integrazione degli allievi con disabilità
è operazione che fa emergere una serie
complessa di criticità.
Le criticità evidenti. Nella prassi quotidiana si evidenzia una elevata disomogeneità delle prassi, alcune di straordinaria efficacia (poche!) e altre di profonda negligenza educativa (molte!);
queste criticità non sono certo legate a
carenze della legislazione scolastica che,
a partire dagli anni ‘70 del secolo scorso,
ha definito norme e procedure precise
culminate, per quanto riguarda la scuola
secondaria di II grado, nella già citata
C.M. 262/88 e, per tutti gli ordini e i gradi
di scuola, nella Legge Quadro 104/92 e
nel successivo D.P.R. 24 febbraio 19945.
1. La C.M. traduce amministrativamente la sentenza
della Corte Costituzionale n. 215 del 1987 con cui si
corregge una parte dell’art 28 della L. 118/71 e si afferma che la frequenza della scuola media superiore è
«assicurata» e non solo «facilitata» agli allievi con disabilità.
2. Si tratta delle Linee guida per il Diritto allo studio degli
alunni e degli studenti con Disturbi specifici di apprendimento allegate al D.M. 5669/2011.
3. È uno dei passaggi centrali della Dir.Min. del 27 dicembre 2012 Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per
l’inclusione scolastica.
4. È uno dei passaggi iniziali della Relazione conclusiva
della Commissione Falcucci che, nel 1975, diede avvio
alla riflessione sulla scelta di integrazione degli allievi
con disabilità nella scuola italiana.
5. Le Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni
con disabilità, pubblicate nel 2009 dal MIUR, presentano
un’efficace sintesi delle politiche scolastiche italiane in
tema di integrazione della disabilità.
17
PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI
Negli ultimi vent’anni, quindi, docenti e
dirigenti hanno dovuto affrontare il
sempre più massiccio fenomeno della
presenza degli allievi con disabilità nella
scuola secondaria di II grado; presenza
che, secondo una pubblicazione del
MIUR del 20096, alla fine del primo decennio del nostro secolo, ha registrato
un incremento a livello nazionale che
sfiora, e a volte supera7, il 200% portando nella scuola superiore la presenza
di oltre 42 mila allievi con disabilità, pari
a un quarto dell’intera popolazione scolastica con disabilità presente nel sistema educativo statale.
Altra criticità particolarmente evidente
in questo fenomeno, oltre alla diversità
delle prassi e alla cronica disomogeneità
quantitativa dei disabili presenti nelle
varie parti del territorio nazionale, è data
dalle significative differenze quantitative della presenza degli allievi disabili all’interno dei diversi ordini della scuola secondaria di II grado. L’evidenza del
problema si è recentemente avuta nell’individuazione di istituti scolastici in
grado di accogliere i corsisti del TFA per
il previsto tirocinio diretto8 relativamente
alle classi di concorso proprie di alcuni
ordini di scuola secondaria di II grado: accanto a istituti professionali e tecnici che
hanno potuto accogliere senza problemi
i corsisti grazie alla presenza massiccia di
allievi con disabilità9, ci si è trovati di
fronte a numerosi licei (primi fra tutti gli
indirizzi classico e scientifico) che non
hanno mai registrato, nella loro anche
recente storia istituzionale, la presenza di
un allievo con disabilità.
Scontate (e superficiali) ragioni sembrano dare spiegazione della situazione
e molto spesso guidano i criteri di orientamento scolastico praticati al termine
del primo ciclo di istruzione: alcuni ordini di scuola secondaria di II grado sembrano accogliere, più agevolmente di altri, allievi con disabilità, specie con
compromissione cognitiva, grazie ai loro
percorsi più orientati alla operatività che
non all’astrazione; non ultimo, la loro possibilità di creare un contatto più diretto
con ambienti di lavoro alimenta la speranza di garantire un successivo inserimento lavorativo anche all’allievo con disabilità. Ragioni diffuse ma, appunto,
inequivocabilmente superficiali, che partono dal presupposto non dichiarato che
la scuola superiore e i suoi indirizzi non
possano essere organizzati diversamente,
e che i metodi didattici e le modalità d’intervento in essi praticati non possano essere altrimenti, nonostante tentativi di riforme falliti e ri-ordini realizzati10.
6. Si tratta del documento curato e pubblicato dal MIUR
Dieci anni di scuola statale, a.s. 1998-99-a.s. 2007-2008,
rintracciabile in www.istruzione.it
7. Nel documento ministeriale del 2009, viene registrato
un incremento dei disabili nella scuola secondaria di II
grado pari al 244% nel Nord-Ovest e al 254% nelle Isole.
8. Il D.M. 249/10 che regola il percorso di Tirocinio Formativo Attivo (TFA), necessario per l’abilitazione ordinaria dei futuri docenti, prevede all’art.10 un’attività di
tirocinio diretto e indiretto, una parte del quale deve necessariamente essere dedicato a situazioni di integrazione della disabilità.
9. A titolo esemplificativo riportiamo i dati di un ISIS di
un capoluogo di provincia lombardo: su c.a.1500 frequentanti, circa 80 hanno una disabilità dichiarata e
circa 110 una diagnosi DSA.
10. È noto che si è arrivati al Riordino della scuola secondaria di II grado, così come previsto dai Regolamenti del
15 marzo 2010, dopo decenni di sperimentazioni mai
portati a sistema e dopo l’affossamento del D.Lgs. 226/05,
regolativo della L. 53/03 che prevedeva una nuova e innovativa organizzazione del secondo ciclo d’istruzione.
Per approfondire cfr. G. Bertagna, Pensiero manuale. La
scommessa di un sistema di istruzione e di formazione di
pari dignità, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006.
18
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI
Esattamente il contrario di ciò che veniva scritto a chiare lettere nella relazione conclusiva della Commissione Falcucci che, nel lontano 1975, connetteva
in modo inscindibile la possibilità dell’integrazione, su cui si stava all’epoca
avviando la riflessione, con «la realizzazione di un nuovo modo di essere della
scuola». Come dire: attenzione, perché
per integrare ( e non solo inserire) un allievo che presenta una disabilità certificata occorre essere pronti a cambiare
l’organizzazione della scuola, ma non
solo: occorre rivedere senza incongruenze lo scopo per cui quel determinato tipo di scuola esiste.
Un importante “campanello” premonitore, che avrebbe dovuto ricordare, fin
dall’inizio del processo avviato nei confronti degli allievi con disabilità, un principio fondamentale, che vale per tutti
gli studenti che frequentano tutti gli ordini e i gradi della scuola pubblica: all’interno di un sistema educativo nazionale, costituzionalmente volto allo
sviluppo della persona, sempre si incrociano i temi che riguardano le regole
generali che garantiscono l’uguaglianza
(il tutti) con quelli che affrontano le situazioni personali (il ciascuno), i punti
“deboli”, le difficoltà, gli svantaggi, o,
molto più semplicemente, le diversità
individuali (dalla disabilità certificata,
alle diversità funzionali dell’apprendimento, all’iper-dotazione cognitiva, alla
diverse provenienze geografiche, sociali
e culturali…) che, di fatto, impediscono
qualsiasi automatica corrispondenza tra
il tutti e il ciascuno. Si tratta di una non
facile dialettica, che un sistema educativo nazionale democratico ha il compito di portare a una complessa ma indispensabile sintesi, specie quando da
più parti matura la consapevolezza che
il ciascuno non riguarda solo l’allievo
con disabilità, ma ogni allievo che vive
all’interno della scuola, in quanto perNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
sona che nella diversità, intesa come ricchezza e potenzialità personale, trova
la cifra che, nel solco delle norme generali dettate dallo Stato, deve indirizzare
la sua educazione.
Consapevolezza non nuova, che troviamo presente, ancora una volta, nella
relazione conclusiva della Commissione
Falcucci che così giustificava l’integrazione e non solo l’inserimento di tutti gli
allievi nei percorsi educativi comuni:
«[…] i soggetti con difficoltà di sviluppo,
di apprendimento e di adattamento devono essere considerati protagonisti
della propria crescita. In essi infatti esistono potenzialità conoscitive, operative e relazionali spesso bloccate dagli
schemi e dalle richieste della cultura corrente e del costruire sociale. Favorire lo
sviluppo di queste potenzialità è un impegno peculiare della scuola, considerando che la funzione di questa è appunto quella di portare a maturazione,
sotto il profilo culturale, sociale, civile, le
possibilità di sviluppo di ogni bambino
e di ogni giovane». Da sottolineare come
nella relazione non si parlasse solo di
allievi handicappati, ma di «soggetti con
difficoltà di sviluppo, di apprendimento
e di adattamento». Eppure, l’attuale normativa scolastica sugli allievi con DSA e
con BES era lontana decenni.
Per cercare di capire come si sia arrivati
alle urgenze educative che hanno
spinto alla produzione di questa normativa, ripercorriamo, sia pur rapidamente, i passaggi fondamentali che
hanno caratterizzato la via italiana all’integrazione della disabilità nei diversi
gradi di scuola.
La scelta italiana per l’integrazione
della disabilità. Dagli anni ‘70 del secolo scorso in poi, l’Italia ha compiuto
una scelta coraggiosa e antesignana,
quella che gli studiosi di pedagogia speciale chiamano la scelta dell’opzione
unica, vale a dire l’eliminazione di tutte
le scuole speciali, siano esse indirizzate
a disabilità sensoriali, fisiche, cognitive o
psichiche, e la definizione di precisi dispositivi che tutelino, all’interno del sistema educativo ordinario, dalla scuola
dell’infanzia all’Università, il percorso di
chi presenta una disabilità certificata11.
Si tratta di una scelta che non è diffusa
negli stati UE, nei quali spesso troviamo
ancora oggi opzioni meno radicali12, ma
che ha permesso alle politiche scolastiche italiane di individuare e rendere
operativi strumenti normativi, ruoli professionali, modelli organizzativi che
sono entrati a far parte della vita e del
linguaggio delle nostre scuole: Diagnosi
Funzionale, Profilo Dinamico Funzionale,
Piano Educativo Individualizzato, Docente di Sostegno, Assistente educatore,
Gruppi di lavoro interni ed esterni alla
scuola…
Tutti insieme, questi strumenti costituiscono un’importante tutela per la garanzia della frequenza scolastica di ciascun allievo disabile all’interno delle
classi ordinarie e se consideriamo, oltre
a quelli del secondo ciclo già citati, i dati
quantitativi anche del primo ciclo, in
quarant’anni la via dell’opzione unica ha
raggiunto a pieno il suo obiettivo: nell’anno scolastico 2011-12, nel primo ciclo della scuola italiana, erano presenti
circa 145 mila alunni con disabilità e più
di 65 mila insegnanti di sostegno13, vale
11. Soluzioni ispirate al principio dell’opzione unica
sono state adottate, oltre che dall’Italia, dalla Grecia, dall’Islanda, dal Portogallo, dalla Spagna, dalla Svezia, dalla
Norvegia e da Cipro. Ulteriori informazioni in questo
senso possono essere reperite in A. Lascioli (a cura di),
Pedagogia speciale in Europa. Problematiche e stato della
ricerca, FrancoAngeli, Milano 2007, p. 300.
12. Cfr. G. Sandrone (ed.), Pedagogia speciale e personalizzazione. Tre prospettive per un’educazione che “integra”,
La Scuola, Brescia 2012, pp. 317 ss.
13. Dati reperibili nel report dell’ISTAT, pubblicato il 25
gennaio 2013, in ordine all’integrazione degli alunni con
disabilità nelle scuole primarie e secondarie di I grado
statali e non statali.
19
PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI
a dire circa il 3% della popolazione scolastica totale, con una sovrapposizione
pressoché totale tra dati epidemiologici
e dati di frequenza scolastica. Come dire:
nel 2012, in Italia, tutti i bambini e i ragazzi con disabilità certificata “stanno
dentro” il sistema comune e, con l’ausilio di alcuni dispositivi garantiti dalla
norma, frequentano le stesse scuole e le
stesse aule e hanno gli stessi docenti
dei loro compagni.
“Stanno dentro”: precisa preoccupazione del legislatore, dagli anni ’70 in
poi, era proprio la sottolineatura del
principio per cui occorre andare oltre il
semplice inserimento fisico dell’allievo
con disabilità certificata nelle classi ordinarie, ma occorre “agganciare” i percorsi previsti per gli allievi della classe in
cui il disabile è inserito, ritagliando un
percorso “diverso”, pensato per lui, individualizzato appunto, per quanto riguarda la quantità dei contenuti e le
modalità di insegnamento, ma sempre
avendo cura che, in qualche modo o in
qualche aspetto, specie affettivo e sociale, questo percorso si connetta con il
percorso comune di tutti gli altri allievi.
Per questo, allora, si utilizzò intenzionalmente la parola integrazione, per distinguerla nettamente dal semplice inserimento, operando una forzatura semantica (su cui torneremo), che risulterà via
via più evidente con il cambiare della situazione nelle nostre scuole. Da un
punto di vista etimologico, infatti, la parola integrazione significa tenere insieme
elementi diversi e, all’interno di un sistema, evidenzia la sua capacità di destrutturarsi e ristrutturarsi flessibilmente
per consentire a tutte le diversità in esso
presenti di portare a termine lo scopo
del sistema stesso. Si tratta, è evidente, di
un concetto di diversità inteso come positività che, riferito alle persone, esalta la
diversità ontologica di ciascuno e la presenza potenziale in ciascuno di noi di
20
aspetti più o meno deficitari, così come
di eccellenza.
Contestualizziamo questa riflessione
nella scuola italiana degli anni ‘70 e dei
decenni immediatamente successivi:
come poteva il concetto di integrazione,
correttamente utilizzato da un punto di
vista etimologico, trovare piena realizzazione in una scuola in cui era presente
un solo percorso diversificato in mezzo a
tanti percorsi uguali tra di loro, dove veniva riconosciuta una sola discriminante,
allievo disabile/allievo normodotato,
dove non esisteva che un solo percorso
“speciale” possibile, quello per l’allievo
con disabilità certificata, all’interno di un
percorso uniforme, comune a tutti coloro che disabili certificati non sono?
La scuola italiana di quegli anni, destabilizzata da fenomeni travolgenti come
l’istruzione di massa e i cambiamenti culturali e sociali seguiti all’onda sessantottina, era fortemente radicata nella convinzione politica che la recente impostazione curricolare, acquisita dalla tradizione anglosassone e artificialmente
innestata nella scuola italiana, storicamente e culturalmente centralistica ed
esecutiva, potesse dar vita a una nuova
scuola che, attraverso l’uniformità dei
percorsi, la separatezza fordista delle discipline, l’organizzazione rigida e predefinita dei tempi e dei modi di insegnamento potesse garantire l’uguaglianza
dei risultati per tutti14. La prospettiva comeniana del tutto a tutti uguale rappresentava, in quegli anni, la risposta sicura
e unica alla richiesta costituzionale di
uguaglianza dei cittadini, ma certamente
metteva in secondo piano l’attenzione
costituzionale alla «rimozione degli ostacoli che impediscono lo sviluppo della
persona umana». Per questo, avere Piani
Educativi Individualizzati (PEI) per gli allievi con disabilità, percorsi diversi (individualizzati, appunto) che ritagliavano
spazi “diversi” ma fisicamente e social-
mente “connessi” all’interno di questa
uniformità, sembrava, allora, una scelta
opportuna sia dal punto di vista dell’educazione individuale, sia dal punto di
vista della convivenza civile.
Le trasformazioni sociali e culturali, che
negli anni ’80 e ’90 hanno portato alla
crisi del sistema scolastico centralistico
(ricordiamo, ad esempio, che in Italia alla
fine degli anni ’90 la dispersione scolastica a 15 anni superava il 30%) e spinto
a percorrere la strada dell’autonomia
delle scuole, hanno messo in evidenza
proprio questi problemi: la diversità degli allievi con disabilità è l’unica a essere presente nella nostra scuola? Le
mille “diversità” che convivono nelle nostre classi, sempre più omogenee solo
da un punto di vista anagrafico, hanno
diritto di trovare attenzioni e risposte
educative o sono destinate irrimediabilmente a “scomparire” agli occhi
dell’habitus15 proprio dell’istituzione esistente e dei suoi docenti?
Dare risposta alle diversità di ciascuno. Dare risposte di sistema a queste
domande avrebbe richiesto, nei primi
anni del decennio scorso, il coraggio culturale, prima ancora che istituzionale, di
rompere i vecchi schemi della separatezza, della rigidità e dell’uniformità dei
percorsi di insegnamento e aprire a una
prospettiva di personalizzazione dei
piani di studio, a una flessibilità organizzativa, governata in responsabile autonomia dalla scuola stessa, che consentisse, attraverso Piani di studio
personalizzati16, di dare risposte diverse
14. Per approfondire questa affermazione cfr. la voce Individualizzazione in G. Bertagna - P.Triani (eds), Dizionario di didattica. Concetti e dimensioni operative, La Scuola,
Brescia 2013, pp. 209-220.
15. P. Bourdieu, Ragioni pratiche (trad. it.) il Mulino, Bologna 1995.
16. Per approfondire cfr. G. Sandrone, Personalizzazione
in G. Bertagna - P.Triani (eds), Dizionario di didattica, cit.,
pp. 283-295.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI
a bisogni e a potenzialità diversi, garantendo, però, a tutti una base comune, un
percorso condiviso che rappresentasse
il collante indispensabile per un sistema
educativo nazionale unitario. In una
scuola che offrisse una pluralità di percorsi volti a rispondere alla diversità dei
suoi allievi, allora, avrebbe finalmente
potuto realizzarsi per davvero il concetto di integrazione che, a questo
punto, avrebbe riguardato non più
esclusivamente gli allievi con disabilità,
ma avrebbe, secondo la sua corretta etimologia, riguardato tutti i bambini e i ragazzi presenti nelle nostre scuole: disabili, dislessici, stranieri, superdotati,
demotivativi, molto motivati, iperattivi…, ciascuno con le proprie diversità,
i limiti, più o meno gravi, e le ricchezze,
più o meno sviluppate, che sempre le
accompagnano. I primi anni del decennio scorso erano gli stessi in cui l’Europa
metteva a tema la personalizzazione
dell’insegnamento; era il 2004 quando
l’OCDE titolava la sua Conferenza internazionale Personalizzare l’insegnamento17; in Italia erano gli anni in cui
l’ideologia affossava lo sforzo normativo che, con la L. 53/03 e i suoi regolamenti, aveva cercato di percorrere questa strada, facendo dell’autonomia delle
scuole, della sussidiarietà e della personalizzazione dei percorsi di insegnamento-apprendimento la leva strategica per il suo cambiamento.
Dal 2006 ad oggi, nella scuola italiana,
sperimentazioni, ri-ordini, parole d’ordine più o meno imposte dall’Europa e
dai suoi apparati si sono susseguiti e
confusamente mescolati a problemi
economici e strutturali del sistema educativo stesso; tutti questi tentativi più o
meno portati a termine, anziché tentare
di riconsiderare e percorrere la strada
della personalizzazione, precedentemente misconosciuta, sembrano aver
dato vita a una “nuova” stagione di cenNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
tralismo, a un “nuovo” impulso di burocratizzazione, alla produzione centralizzata di norme e di indicazioni che non
fanno ben sperare per quel che rimane
dell’autonomia delle scuole.
È successo questo soprattutto nel
campo della disabilità e delle difficoltà
di apprendimento. Anziché favorire l’autonoma e responsabile assunzione di
questi problemi e della loro soluzione
da parte delle scuole e dei docenti che
vi lavorano, attraverso la prospettiva di
una personalizzazione dei percorsi rispettosa dei riferimenti e dei vincoli nazionali, il più che mai vivo e attivo Ministero dell’Istruzione ha intrapreso e
confermato la strada di indicare, attraverso normative di primo livello (è il
caso della L. 170/10) ma anche di secondo e terzo livello (è il caso del D.M.
5669/2011 recante le già citate Linee
guida sui DSA, così come della direttiva
sui BES resa operativa dalla C.M. 8/13)
che intendono indirizzare e regolare
l’azione delle scuole, dei docenti e dei dirigenti nei confronti degli allievi che presentano difficoltà di apprendimento anche al di fuori delle situazioni di
disabilità certificata. Per questo, anziché
andare verso il decentramento alle
scuole, o alle reti di scuole, delle risorse
professionali ed economiche necessarie
per realizzare un’azione integrativa reale
e rispondente alle loro necessità, si è
scelto di continuare a gestire centralisticamente questi aspetti, a dare minu-
17. CERI-OCSE, Personalizzare l’insegnamento, tr. it., Il Mulino, Bologna 2008.
21
PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI
ziose indicazioni eterodirette rispetto
alle professionalità e alle azioni da mettere in campo per perseguire la magnificata “politica per l’inclusione”.
È sufficiente scorrere, nella citata
Dir.Min. 27 dicembre 2012, l’ampio
elenco delle indicazioni date a ciascuna scuola per attivare il Gruppo di
lavoro per l’inclusione, il Piano Annuale
per l’Inclusività, la necessaria presenza
del tema nel POF…, per trovare conferma di quale sia l’idea di autonomia,
ancorché funzionale, che il Ministero
pratica nei confronti delle scuole e, in
questo caso, della loro responsabilità
nei confronti delle difficoltà di apprendimento degli allievi.
Sono indicazioni, si dirà, non certo vincoli normativi; ma chi si occupa della
nostra scuola sa come il continuare a
fornire indicazioni esterne e centralistiche sia lo strumento più efficace per allontanare qualsiasi realizzazione di autonomia, neppure funzionale.
Giuliana Sandrone
Università di Bergamo
22
Valutazione e
certificazione delle
competenze:
a che punto siamo?
Maria Giovanna Fantoli - Ornella Gelmi
A DUE ANNI DALL’INTRODUZIONE DELLA CERTIFICAZIONE DELLE COMPETENZE
ALLA FINE DEL PRIMO BIENNIO DEL SECONDO CICLO DI ISTRUZIONE E A MENO
DI UN ANNO DALLA STESSA CERTIFICAZIONE DA PRODURRE ALLA FINE DEL
SECONDO BIENNIO, SI RITIENE OPPORTUNO, SULLA BASE DI QUANTO RICHIESTO
DALLA NORMATIVA, PROPORRE UNA RIFLESSIONE CHE NASCE DALLA DIRETTA
ESPERIENZA DI DOCENTI.
L’
attenzione al concetto di competenza con i conseguenti concetti di “insegnamento per competenze” e “valutazione e certificazione
delle competenze acquisite” è richiesta
ai docenti sia dalle indicazioni europee1
in materia di istruzione e formazione,
sia dalla normativa italiana2 che ha recepito, condiviso e fatti propri i suggerimenti dell’Unione europea. Tuttavia la
ragione per la quale ciascun insegnante
dovrebbe operare avendo come fine
della sua azione la maturazione, nei suoi
studenti, delle competenze personali,
non può e non deve ridursi alla mera
ottemperanza esecutiva della norma.
Pena la perdita di una significativa opportunità offerta ai docenti per favorire
un apprendimento autentico nelle persone in formazione a loro affidate, con
un auspicabile miglioramento della futura società italiana.
Del resto ai docenti non si richiede solo
di essere «molto professionalizzati sul
piano tecnico, pedagogico-didattico. Ma
anche molto scrupolosi sul piano deon-
tologico, capaci cioè di rispondere delle
proprie scelte educative e didattiche, e
di darne ragione agli allievi, alle famiglie, al territorio e alle istituzioni»3. Tale
considerazione è strettamente correlata
con quanto vorremmo sviluppare in
questo articolo dal momento che prendere in esame la valutazione per competenze e applicarla nella pratica didat-
1. Raccomandazione del Parlamento europeo e del
Consiglio del 23 aprile 2008 sulla costituzione del Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente (2008/C 111/01).
2. D.P.R. 15 marzo 2010, n. 87, Regolamento recante
norme per il riordino degli istituti professionali, a norma
dell’articolo 64, comma 4, del decreto-legge 25 giugno
2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6
agosto 2008, n. 133, art. 2, comma 1.
D.P.R. 15 marzo 2010, n. 88, Regolamento recante norme
per il riordino degli istituti tecnici, a norma dell’articolo
64, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112,
convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008,
n. 133, art. 2, comma 1.
D.P.R. 15 marzo 2010, n. 89, Regolamento recante revisione dell’assetto ordinamentale, organizzativo e didattico dei licei a norma dell’articolo 64, comma 4, del
decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con
modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, art. 2,
comma 2.
3. G. Bertagna, Valutare tutti valutare ciascuno, La scuola,
Brescia 2004, pp. 89-90.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI
tica significa assumere costantemente
come riferimento deontologico l’esigenza morale di spiegare e dare conto
del proprio operato a chicchessia, ma
in maniera particolare agli studenti e
alle famiglie. Infatti l’agire competente,
in primo luogo dell’insegnante, si qualifica in termini di autonomia e responsabilità personali in tutte le situazioni
professionali e di vita.
Procederemo con una sorta di pars destruens confrontando un ipotetico scenario di scarsa o nulla attenzione nei
confronti del dettato normativo con lo
scenario opposto allo scopo di scoprire
come la legge sia animata dalla finalità
di potenziare la libertà di progettazione
del docente. Come categoria professionale ci siamo forse a tal punto adagiati
sull’idea di essere esecutori di disposizioni provenienti dall’apparato ministeriale da non sfruttare adeguatamente
lo spazio di autonomia e creatività che
abbiamo nello svolgimento del nostro
lavoro scolastico. Ora, la Riforma della
scuola secondaria di secondo grado
viaggia decisamente sul doppio binario dell’autonomia e della responsabilità
personale. La pars construens emergerà
dunque prendendo in esame il testo
delle Linee Guida per gli istituti tecnici e
professionali e delle Indicazioni nazionali per i Licei.
In sostanza, per quanto riguarda il problema della valutazione e certificazione
delle competenze sembrerebbero esserci solo due strade: l’una è rappresentata dall’esame serio e attento della Riforma nelle sue ragioni di fondo; l’altra è
costituita dall’accettazione non sempre
approfondita e condivisa delle istanze
pedagogiche sottese alla normativa. In
questo secondo modo, si adempirebbe
formalmente a quanto richiesto, ma con
una sorta di distacco rispetto a ciò che si
fa. Ciò renderebbe possibile trovare
nella norma stessa, ritenuta inadeguata,
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
il motivo di un eventuale insuccesso del
processo di insegnamento-apprendimento declinando in tal modo qualsiasi
responsabilità professionale e personale. Inoltre, come conseguenza ancor
più grave, il docente perderebbe l’occasione propizia per intraprendere tutte
le possibili strade che favoriscono un
autentico processo di apprendimento
nei suoi studenti. Se il docente non cogliesse tali opportunità, verrebbe meno,
proprio da un punto di vista deontologico, la ragione stessa dell’essere insegnante.
L’idea di competenza promuove la formazione delle nuove generazioni, senza
ridurla a un mero passaggio di nozioni,
e aiuta gli insegnanti a valorizzare la loro
professionalità, impedendo che essa si
esaurisca nell’adempimento delle richieste di una burocrazia sentita come
sempre più invasiva.
Quadro ipotetico circa
le modalità di valutazione
delle competenze
Ma che cosa potrebbe accadere e che
cosa potrebbe essere già accaduto nelle
scuole in questi due anni di valutazione
e certificazione delle competenze alla
fine del primo biennio del secondo ciclo
di istruzione e formazione?
Un primo comportamento potrebbe essere costituito dalla ricerca, effettuata
in rete, di modelli di valutazione e certificazione prodotti da altri istituti o da
esperti nel settore. I format, in questo
caso, rischierebbero sic et simpliciter di
essere applicati alla propria situazione
scolastica con buona pace di ogni preoccupazione per declinare in un preciso
contesto ciò che è nato in un altro. In
procedure di tal genere, si presenterebbe dunque il vecchio vizio tipico di
una visione centralista e riduttiva del
processo di insegnamento-apprendimento che, rispetto a qualsivoglia solle-
citazione personale e professionale di
assunzione di responsabilità, preferisce
la sicurezza del «così fan tutti» e si “accomoda” nella mera compilazione di
documenti e procedure.
Di fronte a questa ipotesi è la stessa normativa a fornirci i chiarimenti necessari.
Per esempio, si legge nelle Linee Guida
per gli istituti tecnici, ma lo stesso vale
per ogni istituzione scolastica, che
per diventare vere “scuole dell’innovazione”, gli istituti tecnici sono chiamati
ad operare scelte orientate permanentemente al cambiamento e, allo stesso
tempo, a favorire attitudini all’autoapprendimento, al lavoro di gruppo e alla
formazione continua […]. In sintesi, occorre valorizzare il metodo scientifico e
il sapere tecnologico, che abituano al rigore, all’onestà intellettuale, alla libertà
di pensiero, alla creatività, alla collaborazione, in quanto valori fondamentali
per la costruzione di una società aperta
e democratica.
Come si può pretendere di insegnare
agli allievi i valori di cui sopra se il corpo
docente sceglie l’adeguamento a qualcosa di pre-confezionato, ignorando lo
specifico della ricerca al fine di trovare
soluzioni idonee al proprio contesto di
lavoro?
Anche le Indicazioni Nazionali per i licei
mettono al centro la libertà di sperimentare e progettare del docente.
Le Indicazioni non dettano alcun modello didattico-pedagogico. Ciò significa
favorire la sperimentazione e lo scambio
di esperienze metodologiche, valorizzare il ruolo dei docenti e delle autonomie scolastiche nella loro libera
progettazione e negare diritto di cittadinanza, in questo delicatissimo ambito,
a qualunque tentativo di prescrittivismo.
La libertà del docente dunque si esplica
non solo nell’arricchimento di quanto
previsto nelle Indicazioni, in ragione dei
percorsi che riterrà più proficuo mettere
in particolare rilievo e della specificità
dei singoli indirizzi liceali, ma nella scelta
23
delle strategie e delle metodologie più
appropriate, la cui validità è testimoniata non dall’applicazione di qualsivoglia procedura, ma dal successo
educativo.
Dunque, se affidarsi a ricette costruite da
altri in contesti diversi dai propri non
sembra essere la via migliore per realizzare una buona pratica valutativa delle
competenze, una seconda modalità di
affronto della questione affidata all’oggettività dei numeri è ancor più inadeguata. È noto, infatti, che gli studi pedagogici recenti e gli sforzi profusi, a livello
nazionale e internazionale, sono orientati a mettere in risalto gli aspetti qualitativi della valutazione e la centralità
della persona. Nella vasta letteratura
scientifica sull’argomento tralasciamo il
punto di vista accademico, proprio per
la natura del nostro articolo ispirato alle
pratiche didattiche dei docenti, per riportare un aforisma quanto mai opportuno. La citazione è ricavata da Heinz
von Foester e si riferisce alla complessità
dell’azione valutativa che non può e non
deve essere ridotta alla sola componente oggettiva: «È sintatticamente e
semanticamente corretto dire che le as-
24
serzioni soggettive sono fatte da soggetti. Allora, in modo corrispondente,
potremmo dire che le asserzioni oggettive sono fatte da oggetti. Disgraziatamente queste dannate cose non fanno
asserzioni»4. La considerazione piuttosto provocatoria serve a ribadire, in generale, che la valutazione formativa
delle conoscenze e abilità non deve essere effettuata solo mediante test e verifiche “oggettive”, ma deve tener conto
di una pluralità di fattori, come affermano le ultime disposizioni normative5.
Se questo principio vale per i contenuti
(conoscenze e abilità), vale ancora di più
per la valutazione delle competenze
che, per loro natura, sono personali,
quindi si manifestano in maniera unica
e qualitativamente connotata. Tuttavia
nel caso in cui si decidesse di ridurre la
valutazione delle competenze a una
questione di medie matematiche, basterebbe un algoritmo molto semplice
per risolvere la questione: ogni disciplina calcola la media numerica dei voti,
senza alcuna preoccupazione, peraltro
di natura quantitativa, di considerare
per esempio, anche la varianza, il verso,
la frequenza… e poi si procede a calco-
lare la media delle diverse medie delle
discipline riunite per assi culturali. Con
tale sistema qualsiasi docente (ancor
meglio se a farlo è il computer in automatico) potrebbe “comodamente” certificare le competenze maturate alla fine
del biennio con la convinzione di aver
ben operato nell’interesse della norma,
del sistema scolastico, delle famiglie e
degli studenti. Con questa procedura
però non si capisce quale differenza di
fatto esista tra conoscenze, abilità e
competenze, dal momento che le ultime altro non sarebbero che una “diluizione” ripetitiva della valutazione attribuita in precedenza a conoscenze e
abilità. Del resto è impossibile esaurire
tutto il contenuto delle competenze in
algoritmi quantitativi, «impedisce quest’esito il carattere contestuale e distribuito di ogni competenza e, inoltre la ribadita circostanza che essa si riferisce
4. G. Armellini, Valutazione (didattica), in sito Cespbo, pag.
web Controlessico.
5. Cfr. Regolamento sulla valutazione degli alunni, emanato con D.P.R. n. 122 del 22 giugno 2009; Valutazione
periodica degli apprendimenti, C.M. n. 89 del 18 ottobre
2012.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI
sempre all’essere integrale di un soggetto dinanzi ai problemi che deve risolvere, ai compiti che deve eseguire e
ai progetti che intende personalmente
formulare e poi concretizzare»6. Su questa linea è anche, per esempio, l’USR del
Piemonte che in un format predisposto
dichiara che «è sbagliato ricodificare i
voti scolastici in livelli»7. Valutare così sarebbe operazione scorretta almeno per
due aspetti: verrebbe a mancare un archivio di prove di competenza indispensabile per progettare e interpretare l’intero percorso di insegnamento-apprendimento e vi sarebbe incoerenza fra dispositivi di misurazione numerica e natura personale e qualitativa
della competenza che, invece, richiede
strumenti diversi.
Anche questa tipologia di valutazione
delle competenze è perciò assai lontana
dalla lettera e dallo spirito della norma
che, sempre nelle Linee Guida, è molto
precisa in proposito:
Occorre anche aggiungere che non è
possibile decidere se uno studente possieda o meno una competenza sulla
base di una sola prestazione. Per poterne cogliere la presenza, non solo genericamente, bensì anche specificatamente e qualitativamente, si deve poter
disporre di una famiglia o insieme di sue
manifestazioni o prestazioni particolari.
[…]. Di qui l’importanza di costruire un
repertorio di strumenti e metodologie
di valutazione, che tengano conto di
una pluralità di fonti informative e di
strumenti rilevativi.
È inoltre opportuno ricordare che in un
processo valutativo un conto è la raccolta di elementi informativi, di dati, relativi alle manifestazioni di competenza,
un altro conto è la loro lettura e interpretazione al fine di elaborare un giudizio comprensivo […].
L’elaborazione di un giudizio che tenga
conto dell’insieme delle manifestazioni
di competenza, anche da un punto di
vista evolutivo, non può basarsi su calcoli di tipo statistico, alla ricerca di
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
alle materie e, quindi, la possibilità di
una valutazione comune.
In questo caso, diversamente dai precedenti, ci sarebbe l’indubbio merito di
un lavoro sviluppato dall’intero consiglio di classe diviso per assi culturali;
nell’esito valutativo però si ritornerebbe
ad appiattire le competenze sulle conoscenze e abilità.
Nel quadro ipotetico delineato non può
Rispetto alla valutazione delle compemancare la situazione limite – e in assotenze, un’ulteriore ipotesi seguita da un
luto la meno coerente con la deontoloeventuale consiglio di classe diviso in
gia del docente – che si attua, molto
sottogruppi di docenti, con riferimento semplicemente, nell’ignorare la normaai diversi assi culturali, è quella di predi- tiva. L’istituzione scolastica tuttavia deve
sporre a priori una prova comune come produrre un certificato, pertanto, senza
modalità di osservazione, valutazione e aver fatto in precedenza alcun percorso
certificazione delle competenze. Essa di osservazione e registrazione delle
sarebbe l’esito finale della trattazione competenze, in sede di scrutinio, pardi un argomento che presenti tangenze, tendo dal voto attribuito nella propria
intersezioni e affinità con tutte le disci- disciplina, “a occhio” ogni docente si
pline dell’asse considerato o magari an- esprime in merito al livello di compeche di più assi, in modo da avere la pos- tenza sviluppata dal singolo studente
sibilità di valutare alcune competenze e, per alzata di mano, si decide, all’unaritenute trasversali. Ad esempio intorno nimità o maggioranza, quale livello cerall’argomento “I diritti civili”, gli inse- tificare. È evidente che siamo assai longnanti delle diverse discipline realizzano tani dalla norma e dai criteri pedagogici
diversi moduli didattici: in storia si con- che la sostengono.
siderano, con il taglio indicato dall’elemento comune dei diritti civili, le civiltà Spunti per una riflessione
greca e latina; in italiano si propongono Rispetto alle ipotesi sopra formulate baletture di articoli o saggi inerenti ai pro- sterebbe assumere un atteggiamento
blemi attuali sempre sullo stesso tema; positivo di ricerca e di progettazione rianalogamente nell’ambito della geo- flessiva per orientare, in maniera coegrafia antropica si sottolinea il valore di rente con la normativa e i principi petali diritti in rapporto ad altri indici di svi- dagogici ad essa sottesi, il processo di
luppo (indice economico, sociale…) e valutazione delle competenze. Non si
così via per le altre materie.
tratta di introdurre nuove istanze o agLa prova finale potrebbe essere costi- giungere nuovi dispositivi al percorso
tuita da un questionario comune (a di insegnamento e apprendimento, che
struttura aperta, chiusa o ibrida) in rife- la maggior parte dei colleghi svolge con
rimento alle conoscenze e alle abilità serietà e dedizione, ma di valorizzare
acquisite durante il percorso. Il voto assegnato segnalerebbe anche il livello di
competenze raggiunto. Con questa modalità lo sforzo maggiore consisterebbe 6. G. Bertagna, Valutare tutti, valutare ciascuno. Una pronell’individuare un tema tale da per- spettiva pedagogica, La Scuola, Brescia 2004, p. 49.
7. R. Trinchero, Valutazione e certificazione delle compemettere il maggior numero di agganci tenze, in sito USR Piemonte, pag. web In evidenza.
medie: assume invece il carattere di un
accertamento di presenza e di livello,
che deve essere sostenuto da elementi
di prova (le informazioni raccolte) e da
consenso (da parte di altri). Si tratta, infatti, di un giudizio che risulti il più possibile degno di fiducia, sia per la
metodologia valutativa adottata, sia per
le qualità personali e professionali dei
valutatori.
25
una terza dimensione, quella delle competenze appunto, che già esiste. I nostri
studenti, infatti, alla fine del quinquennio superiore maturano personali competenze che potrebbero non essere valorizzate adeguatamente e che rischiano di non costituire la finalità ultima e
decisiva dello stesso percorso di studio.
La scuola invece si qualifica come istituzione formativa davvero valida se è
in grado di “fare sintesi” ragionata di
tutte le esperienze che ciascuno studente vive all’interno e fuori di essa. In
tal modo si scongiura il rischio di operare inconsapevolmente addirittura in
contrasto con quanto richiesto dalla
normativa. Se per esempio a un ragazzo
si richiede per cinque anni, in ciascuna
disciplina, di esprimere in modo individualistico esclusivamente quanto sa o
sa fare, difficilmente lo studente in questione svilupperà la competenza di cittadinanza del “collaborare e partecipare”.
L’esempio, anche se banale, serve a sottolineare il fatto che la certificazione
delle competenze non si improvvisa, né
può essere ridotta a una pratica burocratica, ma è l’esito di una progettazione
di cui il docente è consapevole e di cui
sa rendere conto in ciascuna fase oltre
che, quotidianamente, nel suo lavoro didattico. Il presupposto di questo impegno del docente è la conoscenza di
26
quanto si legge nella normativa, vale a
dire il Profilo educativo culturale e professionale dello studente in uscita dal
secondo ciclo di istruzione e formazione,
le Linee guida per gli istituti tecnici e per
gli istituti professionali e le Indicazioni
nazionali per i licei. Sullo stesso concetto
di valutazione occorre avere chiarezza
circa i termini, anche normativi, del problema, considerando le recenti disposizioni ministeriali in tale materia8.
Il secondo passo, acquisita la conoscenza
non solo della norma, ma anche dei principi pedagogici che la ispirano, consiste
nel progettare per competenze, vale a
dire condividere con i colleghi del consiglio di classe la preoccupazione di spostare l’accento da contenuti e abilità –
che sono sempre strumenti parziali e mai
fini – a un sapere che è anche un modo,
tutto personale, di integrare, possedere e
soprattutto utilizzare nell’agito le conoscenze e le abilità acquisite in un determinato contesto di vita, di studio o di lavoro. Da questo punto di vista si tratta di
capovolgere il modello del “modulo interdisciplinare”: non si dovrebbe partire
da un argomento a priori visto come
contenitore di discipline, ma da contesti
di vita, di lavoro, di esperienza vissuti dagli studenti all’interno dei quali ciascun
docente rintraccia le competenze che si
possono manifestare in azione. In tale
ottica assume grande importanza molto
di ciò che già si realizza nella scuola in
termini di progetti, alternanza, stage, iniziative culturali… Sempre per valorizzare l’esistente, l’accento posto sulle
competenze non significa “inventarsi”
strategie o situazioni didattiche particolari, ma supportare il lavoro quotidiano
con una riflessività più affinata che
chiama in causa da protagonisti gli studenti e il docente con loro. Insieme, nella
relazione educativa, insegnanti e alunni
costruiscono una modalità di fruizione
del sapere organica e personale per cui
ciò che di nuovo si acquisisce diventa
parte di un patrimonio di cultura e di
esperienza originale e duraturo nel
tempo. In tal senso ogni persona diventa
risorsa per se stessa e per gli altri in un
orizzonte di collaborazione e condivisione di comuni responsabilità.
Maria Giovanna Fantoli, IIS “Maironi da
Ponte”, Presezzo (BG)
Ornella Gelmi, ISIS “Valleseriana”,
Gazzaniga (BG)
8. D.P.R. 22 giugno 2009, n. 122 Regolamento recante
coordinamento delle norme vigenti per la valutazione
degli alunni e ulteriori modalità applicative in materia,
ai sensi degli articoli 2 e 3 del D.L. 1 settembre 2008, n.
137, convertito, con modificazioni, dalla L. 30 ottobre
2008, n. 169.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI
Il Consiglio di Stato afferma
che copiare alla maturità è lecito?
Francesco Magni
L’ARTICOLO COMMENTA LA SENTENZA DEL CONSIGLIO DI STATO (N. 4834/2012) SUGLI ESAMI CONCLUSIVI DEL II
CICLO: NON SI TRATTA PROPRIAMENTE DI LEGITTIMAZIONE DI COMPORTAMENTI SCORRETTI.
U
na recente sentenza del Consiglio di Stato (la n. 4834/2012)
ha ribaltato un precedente verdetto del Tar della Campania (n.
3726/2012), annullando il provvedimento di esclusione dall’esame di Stato
di una studentessa che era stata sorpresa a copiare da uno smartphone durante le prove. La candidata è stata immediatamente esclusa dalla procedura
in applicazione dell’articolo 12, comma
5, dell’O.M. n. 41 del 20121, nonché dell’articolo 13 del D.P.R. n. 323/1998 che disciplina la materia dei concorsi pubblici.
In verità, durante la fase cautelare del
giudizio, la ragazza è stata comunque
ammessa a sostenere le prove suppletive, riuscendo a superarle con il punteggio di 75/100. Nel frattempo, però, il
TAR della Campania rigettava il ricorso
della giovane, confermando così l’esclusione dagli esami. La ragazza ha deciso
quindi di adire il Consiglio di Stato il
quale ha ribaltato il verdetto.
I giudici di Palazzo Spada, infatti, hanno
in primo luogo contestato l’esatta «applicabilità agli esami di stato delle sanzioni previste per i pubblici concorsi, in
caso di violazione delle regole per lo
svolgimento della prova».
Nel caso dell’esame di maturità, infatti, la
commissione si trova a giudicare un
candidato che deve essere valutato per
tutti i risultati registrati nel corso degli
anni della scuola secondaria: il sistema
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
dei crediti, non a caso, ha la finalità di
rappresentare la qualità dei progressi e
la resa del candidato “maturata” nel
corso degli anni. Altro accade in sede
concorsuale, dove i candidati vengono
giudicati per le sole capacità dimostrate
nel corso delle prove di selezione: il tentativo di copiatura, in questo caso, non
può che comportare l’immediata esclusione perché sia garantita la parità di
trattamento tra i candidati.
Il supremo giudice amministrativo evidenzia innanzitutto la diversità del c.d.
esame di maturità rispetto a qualsiasi altro concorso pubblico, sancendo quindi
una sorta di specialità della prima fattispecie. Al contrario, il Tar campano aveva
confermato l’esclusione fondando la sua
decisione proprio sull’esatta coincidenza delle due tipologie di prove, richiamando la normativa in materia (si
vedano in particolare il D.Lgs. n.
297/1994; l’art. 3 della L. 425/1997 e il già
citato art. 13 del D.P.R. 323/1998). Inoltre,
i giudici amministrativi campani avevano fatto discendere una diretta vincolatività delle sanzioni previste (in questo
caso l’esclusione), portando a sostegno
di questa interpretazione anche alcune
precedenti sentenze dello stesso Consiglio di Stato2.
Pur di fronte a questi riferimenti alla sua
stessa (recente!) giurisprudenza, il Consiglio di Stato ha mutato indirizzo, accogliendo la tesi della difesa della ragazza
che aveva evidenziato il carattere non
vincolante della sanzione in questione.
Quest’ultima interpretazione appare più
coerente con lo stesso dettato normativo che, in verità, nulla dice sulle eventuali sanzioni da applicare3. La misura
repressiva prevista nella sola O.M.
avrebbe quindi carattere «non vincolante»: da ciò deriverebbe una «conseguente esigenza» di una «più approfondita valutazione, in rapporto alle
circostanze di fatto in concreto rilevabili
ed all’intero curriculum scolastico della
candidata, pacificamente rilevante in
sede di esame di maturità».
1. L’O.M. intitolata Istruzioni e modalità organizzative ed
operative per lo svolgimento degli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria di secondo
grado nelle scuole statali e non statali. Anno scolastico
2011/2012, all’art. 12 comma 5 prevede testualmente: «I
candidati saranno pertanto invitati a consegnare alla
commissione, nei giorni delle prove scritte, telefoni cellulari di qualsiasi tipo […]. I candidati medesimi saranno
avvertiti che nei confronti di coloro che fossero sorpresi
ad utilizzare le suddette apparecchiature è prevista, secondo le norme vigenti in materia di pubblici esami, la
esclusione da tutte le prove».
2. Si fa riferimento in particolare alla sentenza n.
6102/2008 con cui la VI sezione del Consiglio di Stato
aveva sostenuto che «la commissione non gode di discrezionalità (neppure quella di tipo tecnico di cui essa
dispone in sede di valutazione delle prove di esame) ma
la sanzione dell’esclusione è un atto del tutto vincolato».
3. Come ha riconosciuto anche lo stesso Tar campano
nella sentenza già menzionata, «le norme che disciplinano le prove dell’esame di Stato (in particolare, la L.
425/1997) nulla prevedono circa le sanzioni da adottare
in caso di violazione delle regole di svolgimento della
prova, sicché è del tutto ragionevole applicare le norme
di cui al D.P.R. 323/1998».
27
PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI
Nel caso di specie, perciò, non si può
ignorare né da una parte «il brillante
curriculum scolastico della candidata,
(ammessa all’esame con un giudizio che
ne evidenziava «le notevoli capacità, il
personale vivace interesse e il costante
costruttivo impegno»); né, dall’altra, «le
peculiari circostanze, che caratterizzavano il fatto contestato (svolgimento di
una delle tracce previste per la prova di
italiano e solo al termine di tale prova
inizio di un nuovo elaborato, con l’ausilio appunto del palmare, per uno stato
d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute)».
La notizia di una tale decisione è stata accolta dai media con grande sdegno4, i
giudici di Palazzo Spada sono stati accusati di legittimare e giustificare “per legge”
gli studenti “copioni”, in spregio alle normali regole di civile comportamento.
In realtà, il carattere non vincolato della
sanzione in subiecta materia non
esclude – di per sé – la bocciatura finale
all’esame di Stato e consente comunque, nei casi limite, di arrivare anche all’esclusione del candidato che incorra
in condotte fraudolente. Ma tale decisione non può essere automatica ed è rimessa al giudizio della commissione che
«non dovrà prescindere dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente» tenendo conto, inoltre, delle circostanze
del singolo caso concreto5.
Insomma, con questa decisione, il Consiglio di Stato non legittima chi trova
facili scorciatoie durante gli esami di
maturità; molto più semplicemente evidenzia l’importante e insostituibile
ruolo della commissione d’esame,
l’unica in grado di svolgere la delicata
valutazione che deve sempre essere collegata a «un’ampia ed esaustiva motivazione» di tutte le circostanze ed elementi che concorrono a stabilire il grado
di maturità o meno degli studenti.
28
Palazzo Spada (Roma), Sede del Consiglio di Stato.
Il Consiglio di Stato con questa sentenza, anche correggendo una propria precedente giurisprudenza forse un po’ contraddittoria6, ricolloca al posto giusto l’intera
fattispecie, evitando così di scadere in un orientamento iper-formalistico, che
avrebbe realizzato il “tremendo” principio summum jus summa iniuria.
Francesco Magni
Università di Bergamo
4. Su tutti si veda il quotidiano Libero che il 3 ottobre 2013 riportava in prima pagina un articolo a firma di Alessandro Dell’Orto intitolato Copiare alla maturità si può. Per legge. Basta essere studenti modello.
5. Questo conformemente alla stessa normativa che, all’art. 3 della L. 425 del 10 dicembre 1997, precisa come la
prova sia finalizzata ad accertare «le competenze e le conoscenze acquisite […] in relazione agli obiettivi generali
e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capcità critiche del candidato» e
all’art. 13 del D.P.R. 323 del 1998 secondo cui il superamento dell’esame di Stato costituisce attestazione «delle
competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite», considerando anche i crediti formativi acquisiti nel corso degli studi.
6. Si fa qui riferimento in particolare alla sentenza n. 391 del 27 gennaio 2012, con la quale la VI sezione del Consiglio di Stato aveva ritenuto legittima l’esclusione di un candidato il cui telefono cellulare aveva squillato durante la prova d’esame in conseguenza dell’attivazione della sveglia, senza che fosse stato ritenuto necessario
dimostrarne l’utilizzo al fine di mettersi in contatto con l’esterno. L’esclusione in questo caso era stata giudicata
corretta perché il presidente della commissione d’esame, in apertura della prova, aveva invitato tutti i candidati
«alla consegna obbligatoria di qualsiasi strumento di comunicazione con l’esterno», segnalando le specifiche
conseguenze della violazione di tale prescrizione. In quest’ultimo caso il collegio aveva adottato un criterio di
giudizio molto rigido in quanto da un lato la sanzione dell’espulsione veniva ritenuta inderogabile ed immediata;
dall’altra veniva de facto equiparata la mera detenzione del cellulare al suo effettivo utilizzo per fini comunicativi
e, quindi, fraudolenti.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI
Potenzialità di una riforma dal basso
Paolo M. Pumilia - Helga Fiorani - Angelo Chiarle
È IMPORTANTE CHE SIANO RESE NOTE LE ESPERIENZE SIGNIFICATIVE CHE, IN MOLTE SCUOLE SECONDARIE DI SECONDO
GRADO, COINVOLGONO LA SOCIETÀ LOCALE NELL’EDUCAZIONE DI ADOLESCENTI E GIOVANI. LA DIFFUSIONE DELLE
INFORMAZIONI E LA DISCUSSIONE COLLETTIVA RENDEREBBERO TALI PRATICHE PIÙ EFFICACI E DURATURE.
R
iconoscere che sono molte le
parti in gioco nella costruzione
di un ambiente educativo per
adolescenti e giovani porta necessariamente a ripensare l’intera impostazione
dell'attuale sistema, nel quale tutta la
attività formativa e valutativa si svolge in
un unico luogo ed è affidata a un ristretto insieme di professionisti.
Coinvolgere le risorse culturali della comunità e stimolare nei giovani l'impegno personale a favore della realtà sociale in cui vivono dovrebbero essere
priorità, rispetto alle questioni di aggiornamento dei contenuti delle materie di insegnamento e alla modernizzazione di metodologie e strumenti
didattici.
Quale sia la strada da percorrere per una
reale trasformazione del sistema educativo non è possibile stabilirlo, al momento, ma certo faremmo meglio a
guardare lontano, impegnandoci per la
costruzione di un ambiente in grado di
far scaturire motivazioni e di far sentire
ciascuno parte attiva della comunità che
abita.
Progetto di “Service learning” a Batam (Indonesia), 15 gennaio 2009.
nenti ad associazioni culturali, enti civici locali.
In ogni sperimentazione, sono comunque i singoli docenti a svolgere il ruolo
di punto di riferimento, di perno attorno
a cui l’attività educativa si sviluppa. Si
comprende perciò quanto sia importante che i docenti particolarmente sensibili all’impegno educativo, incoraggiati dalle realtà sociali e dalle istituzioni
civiche locali, si rendano disponibili per
un coinvolgimento diretto.
Una comunità civile più strettamente
La situazione di oggi
legata alla educazione dei giovani, proCertamente non esiste un solo percorso, durrebbe diversi importanti vantaggi.
ma diversi, come ci viene indicato dalle Per prima cosa, l’operare del docente
molte sperimentazioni in corso, nelle sarebbe maggiormente apprezzato alquali le responsabilità educative sono l'esterno; inoltre crescerebbero di molto
condivise tra docenti, in prima persona, le opportunità per impegnare i giovani
studenti, istituzione scolastica, coordi- in ruoli di responsabilità, e si aprirebbe
namenti dei genitori, adulti apparte- la strada a nuove metodologie didattiNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
che, tra cui quella già sperimentata del
“service learning”1.
Infine, nei casi in cui si attuasse una riorganizzazione del sistema scolastico, ai
docenti si aprirebbero oppurtunità per
contribuire alla crescita culturale della
società locale in cui operano.
Valorizzare le esperienze
in corso
Nonostante l’urgenza della priorità educativa sia ormai avvertita da molti, le risposte, ancora disperse, poco collegate
e spesso di breve durata sono insufficienti ad innescare un cambiamento deciso e diffuso. Per accrescerne l’effica-
1. Sulla metodologia del “service learning”, si veda M.
Nieves Tapia, Educazione e solidarietà. La pedagogia dell’apprendimento-servizio, Città Nuova, Roma 2006.
29
cia, sarebbe necessario il riconoscimento di principi fondamentali comuni
e la condivisione di un orizzonte entro
cui armonizzarsi e trovare forza.
Un centro di osservazione delle iniziative in corso potrebbe servire allo scopo.
Esso avrebbe il compito di diffondere e
di sostenere gli esempi educativi migliori, evidenziando le potenzialità del
tessuto sociale e le risorse che possono
essere risvegliate entro la comunità civile in cui la scuola si trova.
Le questioni da prendere in considerazione nel lavoro analitico potrebbero
essere condensate nei due gruppi seguenti:
Didattica in classe
- Individuare le modalità didattiche che
favoriscono la formazione del carattere, coltivano il senso di responsabiltà
e incoraggiano il lavoro dello studente
in autonomia.
- Individuare le attività nelle quali ogni
studente mette le proprie attitudini e
competenze al servizio dei compagni.
Relazioni con l'esterno
- Individuare come le instituzioni civiche locali (municipio, consorzi di comuni, unità sanitaria e altro) e culturali
30
possano contribuire all’educazione e
alla formazione in autonomia dei giovani.
- Incoraggiare il ruolo culturale dei docenti nella società in cui operano.
- Incoraggiare l'impegno degli studenti
a favore della società civile in cui vivono.
Un’impresa del genere potrebbe partire solo dalla base, da un accordo tra chi
opera sul campo, poiché è a questo livello che ritrovarsi intorno a principi di
fondo comuni, indipendentemente da
credenze e culture, è più facile, con la
conseguenza che le proposte saprebbero essere rapidamente adattate alle
più diverse situazioni.
La formazione tra pari
Un esempio di riorganizzazione della
didattica scolastica entro cui si potrebbero svolgere attività con rilevante valore educativo, senza perdere di vista le
finalità formative dello specifico percorso curricolare, potrebbe basarsi sulla
formazione tra pari.
Se infatti è possibile apprendere con
buon profitto anche in assenza del docente, come sperimentato in molte
scuole2, allora niente ci impedisce di
pensare che simile risultato possa essere ottenuto anche in spazi diversi da
quelli istituzionali.
Al di fuori del perimetro scolastico, gli
studenti potrebbero organizzarsi secondo tempi e modi stabiliti autonomamente: ad esempio, in casa dei genitori o di un adulto vicino alla famiglia di
uno studente, oppure nelle sedi messe
a disposizione dall’amministrazione comunale o da associazioni culturali, convenientemente presidiate da persone
di fiducia.
Soluzioni di questo tipo, oltre a responsabilizzare maggiormente gli studentitutor, rafforzare i rapporti di fiducia e alleggerire notevolmente l’impegno
diretto del docente con gli studenti,
avrebbero anche il vantaggio di coinvolgere attivamente altre persone ed enti.
In tale ambiente educativo esteso, le realtà locali (sia private che pubbliche) potrebbero chiedere in contraccambio agli
studenti l’assunzione di incarichi precisi,
all’interno della propria organizzazione,
secondo un piano didattico concordato
con il docente di riferimento. Le occasioni, le più varie: un’associazione sportiva può offrire ad alcuni studenti un impegno educativo nei confronti dei soci,
un’associazione caritativa può chiedere
l'aiuto per l’assistenza a persone in difficoltà, la Usl può aver necessità di un impegno di “service learning”, come per la
analisi dell'acqua pubblica. E così via.
Paolo M. Pumilia
Istituto “Mattei”, Rho (MI)
Helga Fiorani
“Greenleaf ” Primary School Londra
Angelo Chiarle
Liceo Scientifico “Darwin”, Rivoli (TO)
2. Cfr. Miur Veneto, Noi ci Siamo! Percorsi di peer education, 2011.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
Studi
STUDI
Studio sui terremoti
di Mariabianca Cita Sironi
Non si è mai parlato tanto di terremoti in Italia quanto negli ultimi anni, con una copertura mediatica che ha rivelato gravi mancanze ed errori in un paese ad altissimo rischio sismico, con un
record storico straordinariamente lungo e ben documentato, ma ignorato o male interpretato.
Geologi, sismologi e ingegneri, ossia tre diverse categorie di esperti sono coinvolte nel problema e purtroppo rivelano una mancanza di sinergie e di interdisciplinarità del tutto deprecabili e dannose:
- i geologi – che sono gli unici a conoscere la storia della Terra e del territorio studiandone la composizione e l’evoluzione – sono accusati dai sismologi di non conoscere la matematica e di essere dei pressapochisti,
- i sismologi ignorano spesso completamente la struttura geologica del territorio e non contestualizzano le loro misurazioni delle accelerazioni massime superficiali realizzate con i sismografi in un realistico quadro geodinamico ricavato dalle sezioni geologiche prodotte dai geologi,
- gli ingegneri, che sono responsabili della stabilità degli edifici e di altri manufatti, sono spesso
fuorviati dalla mancanza di dati disponibili sulla pericolosità sismica dei siti e dal variare della
normativa riguardante la categorizzazione prodotta nell'ultimo decennio dall’INGV (Istituto
Nazionale di Geofisica e Vulcanologia).
Scopo di questo studio è quello di cercare di fare chiarezza su quanto si sa e non si sa su questo
spinosissimo argomento, su quanto è scientificamente certo e quanto è ancora paradigma, su
Earthquakes are a natural phenomenon that is typical of the Earth and testify of a dynamic
nature of our planet. They are very common in Italy, because of its complicated and
relatively young geological evolution, and its still active neotectonic activity. More than
10.000 earthquakes occur each year in our country.
This study is articulated in three parts: the first is a general introduction to the origin of the
so called plate tectonics model that in the sixties revolutionized the Earth related sciences,
from Volcanology to Geochemistry, from Geophysics lato sensu to Mineralogy, from
Oceanography to marine Geology, from Astrophysics to Stratigraphy, from Petrology to
Physiography. The oceans, that represent more than 70% of the Earth surface, were almost
unknown prior to the initiation of the Deep Sea Drilling Program in 1968, which has been
(and still is) so successful that we now have a record of 1380 drillsites located in all the worlds
oceans and a collection of rocks and sediments from deep sea cores some 350 km long.
The second part is concentrated in the earthquakes, their characters expressed in various
geodynamic settings, their predictability, the difference between risk and hazard, the
probabilistic approach and its shortcomings (generalized understimation). Italy has a long
historical record, because of ancient civilations that used stones for their constructions.
Comments on several important earthquakes occurred in Italy in the last 160 years (even
with magnitude higher than 7), with special attention to the more recent ones, L’Aquila
2009 and Emilia-Romagna 2012 , both revealing important mistakes in the planning and
control of antiseismic buildings. A comparison of the situation in Italy and Japan, the latter
32
Studi
STUDI
quanto è stato studiato e documentato, ma è ignorato dalle stesse autorità competenti che hanno
commissionato le varie ricerche.
Dei tre articoli, due escono dalla mia penna, dopo lunghe consultazioni con parenti, colleghi e
amici appartenenti a diverse generazioni per trovare un tono adatto sia agli studenti che frequentano le scuole secondarie che ai loro insegnanti di materie scientifiche, vecchi e giovani.
Il primo, La rivoluzione delle geoscienze degli anni Sessanta, commenta le conoscenze di base
della geologia moderna, indispensabili per affrontare e capire i vari scenari riguardanti l’origine
degli eventi sismici. È accompagnato da un sintetico glossario di lemmi ritenuto utile poiché a queste materie è data scarsa importanza nella scuola e negli adulti si nota una diffusa ignoranza. (In
questo numero.)
Il secondo articolo, intitolato La mitigazione del rischio sismico: mito o realtà futura?, affronta
i seguenti argomenti:
Commenti sui principali terremoti italiani avvenuti negli ultimi 160 anni (in questo numero)
- Prevedibilità dei terremoti e rischio sismico (nel prossimo numero) - Terremoti e maremoti
(nel prossimo numero) - Confronto fra Italia e Giappone (nel prossimo numero) - Epilogo (nel
prossimo numero).
Il terzo articolo (nel prossimo numero) intitolato semplicemente Terremoti è scritto dal professor Carlo Doglioni che insegna Geologia strutturale e Geodinamica all'Università di Roma La Sapienza ed è Presidente della Società Geologica Italiana. Si articola nei seguenti capitoli:
Cosa è la magnitudo? - Quanti terremoti? - Modello - Terremoti e rotazione terrestre - C’è
modo di prevederli? - Perché cadono gli edifici.
subject to more frequent and much more energetic earthquakes, demonstrates that the
present procedures used in the construction of maps of seismic risk are inadequate because
are founded only on a single parameter measured by seismographs (maximum horizontal
acceleration at ground surface). Seismic engineering made important progress in the last
several years, and the adoption of modern techniques allows to build tall buildings
everywhere. But generally speaking, and with special reference to the italian situation, a
better cooperation among geologists, seismologists and engineers is required.
The third part is an updated synthesis of the state-of-the-art of the research on earthquakes
with an optimistic attitude because of the important results obtained after the 25 years long
experience of GPS observations that allow to discriminate continuous, unidirectional
movements of the ductile upper mantle from the parossistic events caused by the sudden
release of energy accumulated in tens or hundreds of years in the brittle continental crust.
Statistical analysis demonstrates that the higher energy occurs in areas of low deformation
recorded along active faults which are locked and loading energy. The magnitude of
earthquake depends on the depth at which rocks change behavior from elastic to plastic, the
volume involved by movement and the amount of displacement during the seismic event.
The present probabilistic approach followed for the prediction of seismic events might be
improved in the near future so that not only the location, but also eventually the
approximate timing of the event may be anticipated if a careful monitoring of the sources
close to the seismogenetic faults recognized at the surface is available.
33
STUDI
La rivoluzione delle geoscienze
degli anni Sessanta
L
a Geologia è nata come scienza naturale insieme alla
Botanica e alla Zoologia ma, a differenza di queste, studia oggetti inanimati come le rocce e i fossili. Non è
quindi una scienza sperimentale all’origine, ma lo sta diventando da quando si è riusciti a riprodurre in laboratorio condizioni altissime di temperatura e di pressione (per esempio
in Petrologia sperimentale e in Geologia strutturale) mai misurate precedentemente in natura, ma riconosciute in rocce
formatesi in condizioni eccezionali, come la stisciovite nei crateri di impatto o le pseudotachiliti lungo i piani di faglia.
Nel mondo occidentale lo sviluppo storico della Geologia è
stato ritardato dall’atteggiamento della Chiesa cattolica riguardo alla creazione del mondo secondo la Genesi. Man
mano che si accumulavano le osservazioni geologiche, e che
le successioni degli strati fossiliferi venivano ricostruite nei
vari continenti, il tempo necessario al loro accumulo appariva enormemente maggiore di quello stimato, e presentato
come verità inconfutabile.
Poi vennero fatte scoperte importanti come quella della radioattività naturale che rese possibile datare anche rocce
non fossilifere e non stratificate, ma contenenti minerali radioattivi, dei quali si conosceva il tempo di decadimento. Nonostante queste scoperte e altre pure importantissime che vedremo più avanti, è bene ricordare che ancora oggi vi sono
negli Stati Uniti istituti universitari che rifiutano l’evoluzione
del mondo organico e rifiutano il Darwinismo. Non vogliamo certo fare qui la storia della Geologia, ma è bene ricordare che molte persone istruite non hanno idea di quale
sia l’età della Terra e si rifiutano di considerare significativa
questa nozione, come se la previsione del futuro non dovesse
derivare dalla conoscenza e dalla corretta interpretazione
del passato…
La Geologia oggi comprende numerose subdiscipline, e si è
arricchita cooperando con scienziati provenienti da scienze
esatte come la Fisica (con la Geofisica), la Chimica (con la
Geochimica), la Matematica (con la Geomeccanica e la Geodinamica).
È importante qui ricordare che oltre il 70% della superficie
terrestre è ricoperto dal mare e che tutte le ricostruzioni del
passato erano limitate alle parti esplorate delle terre emerse.
34
In altre parole, prima che iniziasse l’esplorazione degli oceani
la base conoscitiva era limitatissima. Basti ricordare che
quando Alfred Wegener pubblicò nel 1912 la sua importante
teoria sulla deriva dei continenti proponendo come modello
l’Oceano Atlantico per l’analogia fra l’andamento delle linee
di costa nei due lati opposti dell’oceano e le analogie geologiche e delle faune fossili riscontrate in Africa e in sud America, non si aveva alcuna idea dell’esistenza della Dorsale medio-atlantica, e i paleontologi erano costretti a ipotizzare
improbabili ponti continentali per spiegare la supposta migrazione di faune che non erano capaci di attraversare a
nuoto un oceano…
La storica circumnavigazione degli oceani effettuata dalla
britannica Challenger (1872-1876) è stata fondamentale per
lo sviluppo scientifico della Geologia marina e dell’Oceanografia. Ma il salto di qualità è avvenuto dopo la fine della seconda guerra mondiale, terminata con il primo uso della
bomba atomica a Hiroshima e Nagasaki. Alla guerra guerreggiata seguì la guerra fredda, con l’uso di sommergibili nucleari e lo sviluppo rapidissimo di nuove tecnologie.
Navi oceanografiche appartenenti alle maggiori istituzioni
oceanografiche inglesi e americane come la Woods Hole
Oceanographic Institution (WHOI) e il Lamont-Doherty
Earth Observatory (L-DEO) della Columbia University sul
versante atlantico, e la Scripps Institution of Oceanography
(SIO) sul versante pacifico cominciarono sistematicamente
a percorrere rotte parallele ed equidistanti fra loro dirette estovest e ovest-est, registrando tutto quello che si riusciva a registrare con le tecnologie e con gli strumenti disponibili inventati ad hoc (radar, sonar, magnetometri, sonde geotermiche) e sistemi di navigazione d’avanguardia. La prima
importante pubblicazione che proponeva il modello conosciuto come Seafloor Spreading è del 1963 (Vine e Matthews,
1963) e descriveva l’esistenza di anomalie magnetiche in
corrispondenza delle dorsali oceaniche.
Nello stesso anno von Herzen e Uyeda (1963) affrontavano
un altro problema utilizzando delle sonde lanciate da una
nave oceanografica, che misuravano il flusso di calore nei
metri più superficiali dei sedimenti che ricoprono il fondo
del Pacifico orientale rivelando grosse anomalie geotermiche.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
STUDI
Come esempio significativo dell’ambiente culturale nel quale
si andavano sviluppando le nuove idee che – partendo da serie di osservazioni in diversi campi delle geoscienze e apparentemente indipendenti l’una dall’altra – arriveranno alla
formulazione della cosiddetta Plate Tectonics, ricorderò l’ammiraglio Herry Hess che si era laureato in Geofisica e durante
la guerra aveva comandato una nave mercantile, usando per
la prima volta i sonar che registravano in continuo mediante riflettori acustici la fisiografia del fondale marino.
Passato a un istituto di ricerca alla fine della guerra, e aggiungendo alla strumentazione di bordo un magnetometro
che misurava l’intensità del segnale magnetico impresso
nelle rocce, Hess rivelò che, lungo le rotte parallele e ravvicinate perpendicolari all’allungamento delle dorsali, si osservavano anomalie magnetiche alternativamente positive e
negative del tutto simmetriche sui due lati della depressione
centrale (rift valley). Ricordo benissimo una memorabile
conferenza di Herry Hess tenuta nel 1966 all’Accademia dei
Lincei che gli aveva conferito per la prima volta il premio internazionale Feltrinelli per la Geologia sulla nuova teoria del
Seafloor Spreading.
Nello stesso tempo Bruce Heezen e Marie Tharp al Lamont
si dedicavano a raccogliere sistematicamente tutti i dati batimetrici registrati in tutti gli oceani del mondo per compilare le magnifiche carte interpretative, a colori, di grande impatto visivo.
Si veniva così costruendo negli anni sessanta la grande teoria riformatrice che rinnovò dalle fondamenta le scienze
geologiche.
Si conoscevano già molti dati essenziali riguardanti il nostro
pianeta come dimensione, densità media, presenza di un
campo magnetico bipolare, parametri orbitali, costituzione
interna formata da involucri concentrici con un nucleo centrale metallico ad alta temperatura e pressione, differenza fra
crosta e mantello e differenza composizionale, di densità e di
spessore fra crosta continentale e crosta oceanica. A partire
da quando divenne operativa una rete sismica internazionale,
la distribuzione degli ipocentri dei terremoti sembrava cadere in corrispondenza di quelli che logicamente potevano
rappresentare i limiti fra le grandi placche litosferiche. Anche la presenza di vulcani attivi (sottomarini o subaerei) e la
composizione dei fusi che li alimentano forniscono degli importanti segnali geodinamici.
La registrazione sismologica di ipocentri molto profondi
(fino a un massimo di 700 km) in stridente contrasto con lo
spessore della litosfera (che di regola non supera i 100 km,
costituendo l’involucro esterno della Terra) ha rappresentato
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
un grosso problema interpretativo finchè non si è arrivati a
ipotizzare una inflessione della litosfera, chiamata successivamente Piano di Benioff accompagnata da una forte anomalia geotermica negativa con un gradiente tale da originare
delle correnti convettive nel mantello .
In questa visione globale del pianeta, dove fisiografia, vulcanesimo, sismicità, distribuzione delle anomalie magnetiche e geotermiche contribuivano a delineare i limiti fra le
maggiori placche o zolle litosferiche, la parte di gran lunga
meno conosciuta era quella nascosta sotto il fondo del mare
(il 70% della superficie terrestre). Venne ideato il progetto
Mohole, che si proponeva di raggiungere la discontinuità di
Mohorovicic (al limite crosta/mantello) partendo da uno
zatterone sul quale era stata montata una sonda come quelle
usate nella ricerca petrolifera. L’esperimento fu effettuato nel
Golfo del Messico, non raggiunse la Moho, ma dimostrò la
fattibilità del progetto e fu così convincente da meritare il
pieno appoggio della National Science Foundation degli
Stati Uniti sostenuto dalle Joint Oceanographic Institutions
Deep Earth Sampling (JOIDES). Nel giro di pochi mesi
venne attrezzata una nave petrolifera semovente, con velocità di crociera di 10 nodi, dotata di un innovativo sistema
di posizionamento dinamico (figura 1) in grado di operare
su battenti d’acqua fino a 5000 m, dotata di un derrick (torre
di perforazione) alto 50 metri e di una sonda a rotazione in
grado di raggiungere il basamento oceanico dopo avere attraversato e carotato la copertura sedimentaria.
Furono finanziati inizialmente diciotto mesi di operazioni da
effettuare in nove crociere di due mesi ciascuna, quattro
Fig. 1. La nave da perforazione Glomar Challenger che ha perforato
i primi 624 pozzi del grandioso programma (Deep Sea Drilling
Program) dal 1968 al 1983.
35
STUDI
nell’Atlantico e cinque nel Pacifico. L’impresa (chiamata
DSDP per Deep Sea Drilling Project) ebbe inizio nel 1968. Fu
un successo fulminante, e la piena riuscita è provata dalla
quasi incredibile longevità del programma, ancora attivo
oggi dopo diversi cambiamenti, nonostante la gravissima
crisi economica che ha colpito i paesi occidentali.
Già le prime due crociere (Leg 2 New York-Dakar e Leg 3 Dakar-Rio de Janeiro) diedero piena conferma alla teoria della
tettonica globale, per aver raggiunto il basamento oceanico
dopo aver attraversato i sedimenti pelagici che lo ricoprivano
in siti ubicati sui due lati della Dorsale Medio-Atlantica sia a
nord che a sud dell’equatore, con età progressivamente più antica man mano che ci si allontanava dalla cresta della dorsale.
Sono 1380 i pozzi perforati finora, in tutti gli oceani del
mondo. I sedimenti e le rocce raccolti dai carotaggi hanno
una lunghezza di oltre 350 km. Sono conservati in grandi
celle frigorifere e sono disponibili per ulteriori studi da parte
di tutti gli scienziati del mondo
In conclusione, negli ultimi 40/50 anni sono stati fatti enormi
progressi nel campo delle scienze cosiddette naturali e si è arrivati alla conclusione che la Terra è un sistema complesso,
che comprende biosfera, atmosfera, idrosfera, criosfera, litosfera, mantello e nucleo.
L’esplorazione diretta e mediante satelliti dei pianeti più vicini del Sistema solare, che hanno la stessa origine e la stessa
età della Terra, ha permesso agli astrofisici di fare confronti
molto ben documentati con Venere e Marte (Flamini, 2013,
vedere la tabella 1).
L’esplorazione delle calotte glaciali in Antartide e in Groenlandia mediante perforazioni che hanno attraversato i ghiacciai, spessi fino a tre chilometri, fino al basamento e gli studi
dettagliatissimi compiuti sui componenti atmosferici intrappolati nelle carote di ghiaccio hanno permesso di ricostruire la parte più recente della storia climatica della Terra
(Frezzotti e Orombelli, 2013).
L’esplorazione degli oceani ha dimostrato che tutti gli oceani
del mondo (Atlantico, Pacifico, Indiano, Artico) sono relativamente recenti e le loro porzioni più antiche non superano
il Giurassico medio (160 milioni di anni), che le parti più antiche degli oceani sono anche le più profonde e si trovano in
prossimità delle fosse oceaniche dove avviene la subduzione
oppure – dove gli oceani sono in espansione – nelle parti distali rispetto alle dorsali.
Detto questo, prima di addentrarci nella trattazione dei terremoti storici e in particolare di quelli recenti avvenuti in Italia e per facilitare la comprensione di una terminologia che
non è familiare a molte persone colte e per richiamare dati
e concetti essenziali per mettere a fuoco un grosso problema
tipicamente interdisciplinare come quello dei terremoti e
della loro prevedibilità, ho scelto di fare seguire una specie di
Glossario con un numero limitato di lemmi, presentati in ordine alfabetico.
Glossario
Astroblemi. Sono chiamati i crateri di impatto creati dalla
caduta di meteoriti di grandi dimensioni che, provenendo
dallo spazio a grande velocità, sono in grado di attraversare
l’atmosfera fino a schiantarsi sulla superficie terrestre. Crateri di questo tipo differiscono dai crateri vulcanici per la
forma, il rilievo, la mancanza di lave e anche per la presenza
di shatter cones (coni di esplosione) e di metamorfismo di
altissima pressione. Questi caratteri sono stati riconosciuti
sulla superficie terrestre a partire dal 1906, quando fu ipotizzata una origine extraterrestre per il Meteor Crater vicino
a Phoenix, in Arizona, nel plateau del Colorado. La conferma
venne nel 1960 da una perforazione effettuata al fondo del
cratere dove si era formato un lago temporaneo, poi disseccato, durante l’ultimo periodo di espansioni glaciali, circa
50.000 anni fa. Oggi sono noti 182 crateri di impatto sulla
Terra (Flamini, in stampa), specialmente in aree desertiche.
Da lunghissimo tempo era nota invece la presenza di astroblemi sui pianeti solidi Marte e Luna.
Distanza dal Sole Raggio Densità Temperatura Temperatura
(in milioni di km) (in km)
(in gradi K°)
(in gradi C°)
36
Atmosfera
Venere 108 200
6 052
5.2
737
+474°C
molto spessa
CO2 96%
Terra
149 600
6 378
5.5
290
+17°C
Azoto 78%
Ossigeno 21%
Marte
227 240
3 398
3.9
220
-57°C
molto sottile
Azoto 95%
Tab. 1: (da Flamini 2013, modificato)
Confronto fra le caratteristiche che
differenziano alcuni pianeti solidi del
sistema solare (Venere, Terra e Marte)
elencati in ordine di distanza
crescente dal Sole. La temperatura
inaspettatamente elevata di Venere
è stata misurata dal robot lanciato
dalla missione Curiosity nel 2012.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
STUDI
Autoctono, alloctono. Si dice di terreni e unità di diverso
tipo (litologico, stratigrafico, tettonico) che giacciono nello
stesso sito dove si sono formati (autoctono) oppure in un sito
diverso (alloctono). Il meccanismo di trasporto dei terreni alloctoni può essere vario, e la traslazione può avere dimensioni chilometriche o anche di diverse decine di chilometri.
Calore terrestre. La temperatura media della Terra misurata in superficie è di 17C° e fino alle profondità raggiunte
dalle perforazioni il gradiente geotermico, ossia l’aumento di
temperatura in funzione della profondità, è di circa 3°C
ogni 100 m, a partire da uno strato superficiale dello spessore
di pochi m, che risente della temperatura esterna e delle variazioni stagionali. Il pozzo più profondo perforato per scopi
scientifici è quello della Penisola di Kola in Siberia. Iniziato
nel 1970, è continuato fino al 1989 raggiungendo la profondità-record di 12.560 m, che rappresenta circa il 2% del raggio terrestre. Quindi la conoscenza diretta è molto limitata,
ma si stima che all’interno del mantello terrestre, sotto la crosta, l’aumento di temperatura sia molto basso, dell’ordine di
0.1°C al km. La temperatura di fusione delle rocce (di tutte
le rocce, sia magmatiche che sedimentarie e metamorfiche)
varia a seconda della loro composizione, ma generalmente
oltre i 350-650°C si ha un cambiamento dello stato fisico, e
il comportamento cambia da rigido a plastico. In questo
caso non si tratta di paradigmi, ma di dati sperimentali, basati sullo studio reologico, sperimentale, delle rocce rispetto
a quello dei materiali artificiali. Le rocce del mantello a circa
1300°C (a seconda delle condizioni di pressione e la composizione chimica) iniziano a fondere (figura 2). Negli ultimi
Fig. 2. Schema della struttura interna della Terra
(da www.bo.astro.it).
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
anni il magma fuso è stato raggiunto per la prima volta
nella storia, in perforazioni effettuate sulle pendici del Kilauea nelle isole Hawaii (punto caldo appartenente alla placca
pacifica) e in Islanda (al limite divergente fra le placche euroasiatica e nordamericana).
Campo magnetico terrestre. La Terra possiede un campo
magnetico bipolare e i poli magnetici sono vicini, ma non
coincidono con i poli di rotazione geografici, e sono soggetti
a variazioni nel tempo e nello spazio. Il concetto di cuore
magnetico della Terra si è fatto strada con le conoscenze acquisite dall’Astrofisica e dalla Geofisica. Le onde sismiche S
non si propagano oltre la superficie di Gutenberg che è
identificata a 3470 km dal centro della Terra. Questa osservazione strumentale implica che il nucleo esterno è liquido,
mentre il nucleo interno, nonostante la temperatura presumibilmente altissima a causa dei minerali radioattivi, si
comporta come un solido per l’altissima pressione a cui è
sottoposto. Il campo magnetico terrestre è soggetto a inversioni non periodiche di difficile interpretazione ma molto
importanti perché rappresentano un segnale globale, e permettono la correlazione fra il record geologico oceanico e
quello continentale. Non si sa bene perché avvengano (la teoria più accreditata è quella della dinamo autoeccitante che
avrebbe sede nel nucleo esterno) né con quale velocità avvengano, perché nessuna inversione è stata registrata da quando
è nata la Geofisica.
Crosta terrestre. Si chiama crosta terrestre l’involucro più
esterno della Terra. Si distinguono una crosta continentale e
una crosta oceanica che hanno composizione, spessore ed età
diversa. La crosta continentale ha composizione granitica o
granodioritica, spessore di oltre 25-40 km fino a circa 60-70
in aree di catena montuosa. All’interno dei continenti, in aree
corrugate ed età anche molto antiche di oltre un miliardo di
anni, la crosta è spessa circa 40-45 km. Ognuna delle sei
grandi placche litosferiche distinte nella Plate Tectonics (Nord
America, Sud America, Eurasia, Africa, Australia, Antartide)
contiene porzioni più o meno estese di terreni antichissimi,
formatisi oltre un miliardo di anni fa. La crosta oceanica ha
composizione basaltica, è più densa e notevolmente più sottile di quella continentale (circa 5-7 chilometri). La composizione della crosta oceanica è caratterizzata dalla cosiddetta
suite ofiolitica che comprende, dall’alto in basso, al di sotto di
eventuali sedimenti pelagici, basalti (MORB ossia Mid Ocean
Ridge Basalt), filoni magmatici e gabbri stratiformi e massicci
fino a raggiungere la cosiddetta Moho petrografica, che corrisponde al passaggio dai gabbri alle peridotiti del mantello.
Alcune placche litosferiche sono costituite solamente da cro-
37
STUDI
sta oceanica, come quella Pacifica, Nazca, Cocos, Juan de
Fuca e altre microplacche. Lungo i margini continentali passivi la transizione fra crosta oceanica e crosta continentale
si riconosce in corrispondenza del continental rise alla base
della scarpata continentale.
Discontinuità sismiche. All’interno della Terra si distinguono due discontinuità fondamentali, che prendono il
nome dallo scienziato che le ha scoperte: la Discontinuità di
Mohorovicic (dallo scienziato serbo che la descrisse nel
1909) spesso abbreviata in Moho, separa la crosta dal mantello ed è caratterizzata da un rapido incremento della velocità di trasmissione delle onde sismiche P che raggiungono
gli 8 km/s. Il tutto avviene all’interno della litosfera (crosta
più mantello litosferico) che ha uno spessore complessivo di
circa 100 km e un comportamento rigido. Nonostante i reiterati tentativi di raggiungere la Moho petrografica nel Pacifico orientale presso le Isole Galapagos rioccupando a varie riprese il pozzo ODP 704bis fino a raggiungere la
profondità record di 2000 metri, al costo di diversi milioni
di dollari, questo obiettivo è stato raggiunto solamente nell’Oceano Indiano, dove però era entrato in gioco un sollevamento successivo alla messa in posto originaria. La Discontinuità di Gutenberg, è immateriale, nel senso che
nessuno riuscirà mai a raggiungerla e a documentarne con
precisione la natura. È stata scoperta dopo la messa in funzione della rete sismica mondiale, che registra in tempo
reale su sismografi attivi ininterrottamente 24 ore su 24, per
365 giorni all’anno, i treni d’onda originati dai forti terremoti. Le onde S (vedi diversi tipi di onde sismiche) sono
onde trasversali che si propagano soltanto in mezzi rigidi, solidi, non penetrano oltre i 2900 km di profondità (perché al
di sotto il nucleo esterno è fuso), mentre le onde P attraversano sia il nucleo esterno che quello interno, al cui interno
si riformano anche le onde S. Le onde sismiche rallentano al
di sotto della litosfera, tra 100 e 200 km, in quello che viene
definito canale a bassa velocità.
tanto meno dense, tanto più vanno veloci. Si trasmettono sia
in mezzi solidi che in mezzi fluidi, e per i grandi terremoti
vengono registrate dappertutto, dimostrando che attraversano il nucleo. Sono onde sferiche, di compressione. Le onde
S (seconde) sono onde trasversali che si trasmettono come
se uno facesse oscillare una corda fissata a un estremo. Queste onde si trasmettono soltanto nei mezzi solidi, ma non in
quelli fluidi, e non attraversano il nucleo esterno terrestre. Le
onde che arrivano dopo le P e dopo le S sono dette onde superficiali, e sono di tipo diverso (Lowe, Rayleigh), e si attenuano rapidamente, allontanandosi dall’epicentro. Sono
queste onde superficiali che provocano i maggiori disastri
come morti e crolli di edifici, perché viaggiando più lentamente hanno un’ampiezza maggiore.
Duttile/fragile. Sono termini usati per indicare il comportamento di una roccia quando è sottoposta a deformazione
(strain) in seguito a compressione o a trazione (stress). Nelle
rocce solide come il granito, il calcare, la dolomia, il basalto,
il comportamento è fragile, ossia la roccia si frattura o si
spezza non potendo deformarsi plasticamente. Con l’aumento della temperatura però il comportamento cambia, diventando visco-plastico, cioè di tipo duttile. In genere la
transizione tra un comportamento fragile e duttile di una
roccia avviene a circa la metà della sua temperatura di fusione. Per esempio se un granito fonde a circa 700°C, fino a
350°C circa si comporterà in modo fragile, da 350 a 700 in
modo progressivamente sempre più duttile.
Epicentro/ipocentro. Si chiama epicentro il punto di massima intensità di un terremoto, situato sulla verticale della
struttura geologica sepolta che lo ha generato, e che viene chiamato ipocentro o fuoco. Secondo la scala Mercalli (che è empirica) corrisponde al punto dove si sono registrati i maggiori
danni. Secondo i sismologi è il punto dove viene calcolata la
massima accelerazione acustica superficiale. Si chiama ipocentro il punto della crosta terrestre dove si è originato il sisma
in seguito a un evento isolato che consiste nel rilascio istantaneo di energia accumulata nel corso del tempo in un mezzo
rigido ed elastico. Quasi tutti i terremoti disastrosi hanno un
ipocentro non più profondo di 10-20 km. I terremoti che arrivano a dislocare il fondo del mare possono provocare tsunami disastrosi, a distanza anche di migliaia di chilometri. In
corrispondenza delle grandi fosse oceaniche come quella delle
Marianne dove il piano di subduzione (o di Benioff) la sismicità raggiunge profondità anche di 670 km, I terremoti
profondi provocano per fortuna meno danni in superficie.
Diversi tipi di onde sismiche. Nella sismica passiva, ossia
quando si tratta di registrare eventi naturali come i terremoti,
gli sciami sismici, le scosse di assestamento (aftershocks), gli
strumenti che registrano le scosse, detti sismografi, permettono di distinguere diversi tipi di onde acustiche: le onde P
(prime), le più veloci, sono onde acustiche che si trasmettono
perpendicolarmente al fronte d’onda. La velocità di queste
onde varia in funzione del mezzo in cui si propagano. Nell’aria è di 300 m/sec. Nell’acqua di 1500 m/sec. Nel terreno
varia in funzione della composizione dei sedimenti e delle Faglie. Sono fratture che si formano nei corpi rocciosi con
rocce e della loro rigidità e densità: tanto più sono rigide e spostamento relativo dei due lati. Il piano di faglia può essere
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Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
STUDI
comportamento plastico. Variano da millimetri a diversi
centimetri all’anno.
Fig. 3. Faglia normale (indicativa di un regime distensivo)
e faglia inversa (indicativa di un regime compressivo).
Limiti fra placche litosferiche. Possono essere divergenti,
convergenti o trasformi. Sono divergenti quelli in corrispondenza dei quali due placche si allontanano e il mantello
sottostante risale per riequilibrare il deficit di massa e lo squilibrio gravitazionale. Durante la risalita, il mantello si trova
a pressione minore. Dato che le rocce hanno scarsa conducibilità termica, il mantenimento della temperatura del mantello (anche oltre 1300 °C) e la diminuzione di pressione, permettono la formazione di fusi magmatici che risalgono a
formare la crosta oceanica lungo le dorsali. La sismicità è superficiale. Come esempio si può indicare il Mid Atlantic
Ridge con la rift valley mediana, che separa la placca nordamericana dalla placca europea. L’isola vulcanica dell’Islanda
fa parte di questa zona di rift. Si chiamano slow spreading
ridges le dorsali che si allargano di 1-4 cm all’anno, mid
spreading ridges quelle fra 5 e 10 cm, fast spreading ridges
quelle oltre i 10 cm/anno, fino a 18 cm/a. Sono convergenti
i limiti fra placche che convergono fra loro e sono caratterizzati da forti dislivelli, da attività sismica molto intensa e di
origine profonda (subduzione), e da attività plutonica e vulcanica caratteristiche. Come esempio si possono indicare i sistemi arco-fossa-bacino retroarco delle Marianne, delle Filippine, del Giappone che orlano la grande placca pacifica,
il maggiore oceano del mondo. I limiti trasformi sono quelli
dove non si registra né convergenza né divergenza fra le
placche, ma soltanto scorrimento laterale, come ad esempio
la linea Azzorre-Gibilterra.
verticale o inclinato. Se è inclinato, si chiama tetto quello che
sta sopra al piano di faglia, letto quello che ne sta al di sotto
(si veda la figura 3). Sono inverse le faglie nelle quali il tetto
viene rialzato rispetto al letto, occupando dopo la dislocazione uno spazio orizzontale ridotto (regime compressivo).
Sono dirette le faglie dove il tetto viene ribassato rispetto al
letto (regime distensivo), e lo spazio è maggiore dopo
l’evento (vedere terremoto dell’Aquila, dove tutte le faglie sismogenetiche sono dirette). Il piano di faglia può contenere
delle striature che permettono di ricostruire la direzione e il
verso del movimento. Il piano di faglia in certi casi non è un
vero piano, ma una superficie concavo-convessa e si chiama
faglia listrica, ed è caratteristica delle fasi iniziali (rifting) di
apertura di un nuovo oceano, come ad esempio la Rift Valley dell’Africa centro-orientale. Si chiamano faglie sismoge- Mantello. Il mantello è il secondo degli strati concentrici che
netiche quelle interpretate come in grado di produrre un ter- costituiscono l’interno del nostro pianeta ed è composto da
remoto (vedere più avanti).
rocce dette peridotiti, oppure lherzoliti e harzburgiti, ricche
GPS. Global Positioning System è chiamato un sistema di na- di minerali quali l’olivina e il pirosseno. Ha uno spessore che
vigazione satellitare entrato in funzione venticinque anni fa, va dalla base della crosta (Moho) a circa 5-50 km, fino alla
che ha avuto un rapidissimo sviluppo e un grande successo, profondità di circa 2900 km (discontinuità di Gutenberg). È
facilitando il posizionamento sempre più preciso sia in mare suddiviso in mantello superiore fino a 670 km (dove termiche a terra. In Italia sono state installate molte decine di sta- nano i terremoti) ed inferiore. Nel mantello superiore si
zioni permanenti con capisaldi fissi in tutto il territorio na- possono distinguere il mantello litosferico (LID), che aszionale, comprese le isole maggiori. I dati registrati danno le sieme alla crosta costituisce la litosfera (spessa fino a 100-200
direzioni dei vettori e la loro lunghezza, che permette di km), la quale scivola al di sopra del canale a bassa velocità
calcolare l’entità dello spostamento di quella porzione della (che è la parte superiore dell’astenosfera, fino a 400 km). Del
crosta terrestre (vedere più avanti limiti convergenti, diver- mantello si hanno informazioni per lo più indirette perché
genti, trasformi fra le placche litosferiche). A differenza dei non è mai stato raggiunto in sito dalle perforazioni. Tuttaterremoti, che sono eventi discontinui, prodotti dal rilascio via alcune rocce mantelliche del passato geologico, sono
improvviso di energia accumulata nel tempo nelle porzioni state esumate dalle varie orogenesi e affiorano in superficie.
superficiali della crosta, queste deformazioni sono continue Il vulcanismo terrestre che è alimentato dal mantello supee sono provocate dai movimenti continui del mantello, con riore ci permette di conoscerne la composizione. Le onde siNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
39
STUDI
smiche ci aiutano poi a studiarne la struttura. Esistono diverse ipotesi sulle dimensioni delle celle di convezione del
mantello che secondo alcuni hanno dimensioni radiali di migliaia di chilometri, secondo altri sono suddivise in celle più
piccole. Il mantello inferiore per la sua maggiore densità
deve avere moti convettivi molto più rallentati.
Margini continentali. I grandi continenti che talvolta sono
il risultato dell’unione di altri continenti precedenti terminano in mare con margini che possono essere attivi o passivi.
Nei margini passivi che orlano gli oceani in espansione come
per esempio l’Atlantico, la fisiografia è caratterizzata dalla
curva ipsografica che comprende la piattaforma continentale
(shelf), la scarpata continentale (escarpment), il rialzo continentale (rise) fino a raggiungere la piana abissale (abyssal
plain) con profondità comprese fra 4000 e 5000 m. La discontinuità di Mohorovicic ha un andamento opposto a
quello della curva batimetrica e la crosta cambia di composizione in corrispondenza del rialzo. Nei margini attivi che orlano gli oceani che si stanno restringendo (tipicamente il Pacifico) oppure gli archi insulari di sviluppo locale (come le
Barbados e le Falkland nell’Atlantico occidentale) la curva batimetrica è molto più irregolare, e si raggiungono le massime
profondità oceaniche (Fossa delle Marianne nel Pacifico occidentale, fossa delle Aleutine nel Pacifico settentrionale), e
possono contenere un prisma di accrezione più o meno importante, a seconda della velocità di spostamento della placca
che va in subduzione, della profondità del piano di scollamento e dell’apporto sedimentario derivato dal continente.
Qui va in subduzione la parte più antica e più fredda della
crosta oceanica, formatasi milioni di anni prima in corrispondenza di una dorsale medio-oceanica.
Nucleo terrestre. È la parte più interna della Terra, la più
densa, la più calda, anche la meno conosciuta, quella dove ha
origine il campo magnetico terrestre. È la parte della terra,
dove nella fase iniziale di formazione (stadio di magma ocean
durato solo qualche centinaia di milioni di anni), si è accumulato gran parte del ferro e del nichel provenienti dai planetesimi che hanno formato il nostro pianeta. Il suo raggio
è di 3470 km, derivato dalla profondità della discontinuità di
Gutenberg oltre la quale le onde S non si trasmettono, dimostrando la natura liquida del nucleo esterno (che va da
2900 a 5100 km di profondità). Ma il nucleo interno deve essere solido, a causa dell’altissima pressione, e deve consistere
di minerali molto densi, come nickel e ferro e forse anche radiogenici come il potassio, per poter disperdere del calore
verso l’esterno, assecondando il primo principio della termodinamica. Del resto anche i vari tipi di meteoriti (condriti,
40
marziane, lunari ecc.), corpi extraterrestri provenienti dal sistema solare che sono stati catturati dal campo gravitazionale,
hanno composizione metallica (nife).
Piano di Benioff o di subduzione. È chiamata la superficie della litosfera oceanica che si inflette verso il basso nel
mantello sprofondando al di sotto della placca adiacente in
corrispondenza dei limiti di placca di tipo convergente (margine continentale attivo). La crosta oceanica, formata da
rocce basiche o ultrabasiche, è più antica e più fredda di
quella circostante, e si verifica una vistosa anomalia geotermica negativa. Quando il serpentino raggiunge la temperatura di 700°C espelle l’acqua e si innescano fenomeni di risalita del magma che può consolidarsi in profondità
originando plutoni tipicamente di composizione andesitica,
o raggiungere camere magmatiche superficiali e dar luogo a
edifici vulcanici caratterizzati da eruzioni fortemente esplosive, con nubi ardenti e ignimbriti a composizione trachi-andesitica. Perforazioni effettuate nel 1989 sul lato verso
l’oceano dell’arco insulare Izu-Bonin, che fa parte del grande
sistema di subduzione delle Marianne, hanno carotato un
vulcano di fango, chiamato Conical Seamount, consistente di
fango inconsolidato di composizione serpentinitica contenente clasti di harzburgite e dunite. Le acque interstiziali
sono estremamente alcaline (pH 12.5). Il grande interesse di
questa scoperta ha suscitato nuove ricerche con il sottomarino Alvin e nuove perforazioni nel 2001 durante l’ODP
Leg 195 (vedi figure 4 e 5). Se il piano di Benioff ha un’inclinazione di 45°, la profondità alla quale si verifica la disidratazione del serpentino si trova a circa 150 km di profondità e quindi a una distanza di circa 150 km dalla fossa dove
inizia l’inflessione della crosta oceanica. Come esempio di
questa situazione geodinamica ricordiamo le Montagne Rocciose, dove la cordigliera esterna (Cascade Range) presenta
una serie di vulcani, distanti una cinquantina di chilometri
l’uno dall’altro, tutti della stessa altezza (circa 3000 m) e di
analoga composizione, fra cui il Mount St. Helen che ebbe
una disastrosa eruzione nel 1980 documentatissima dal National Geographic. Una importante scoperta fatta da uno
studioso italiano, dapprima contestata ma ora accettata da
tutta la comunità scientifica internazionale, riguarda l’inclinazione del piano di Benioff (Doglioni et al., 1999). Se essa
è conforme alla direzione di rotazione della Terra, che ruota
da ovest a est, mentre la litosfera ruota con un leggero ritardo
verso ovest, allora l’inclinazione del piano di Benioff è alta
nelle subduzioni verso ovest (60-90°), mentre è più bassa per
le subduzioni verso est o nordest (20-50°). Le catene montuose che si formano a ridosso sono di conseguenza molto
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
Fig. 4. Rilievo tridimensionale del Conical Seamount nel
bacino delle Filippine del Pacifico nord-occidentale, con
l’ubicazione dei tre pozzi eseguiti nel 1989 che
incontrarono per la prima volta fango serpentinitico
contenente clasti di rocce mantelliche, estruso da
grande profondità nell'avanarco. In basso è una
ricostruzione prospettica della struttura, ricavata dai
risultati scientifici dell’ODP Leg 125 (da
serc.carleton.edu/margins/).
diverse, poco elevate sopra le subduzioni verso
ovest (per esempio Marianne o Appennini), molto
elevate per le subduzioni opposte (Ande o Alpi).
Subduzione e obduzione. Quando si arriva alla
collisione continentale, e le placche litosferiche
arrivano a scontrarsi con velocità che possono
raggiungere i 5-10 cm/anno (contro i pochi
cm/1000 anni con cui si accumulano i sedimenti
pelagici) come è avvenuto con la collisione fra
l’India e l’Asia, si formano le catene montuose
più alte del pianeta (Himalaya), dove la valle dell’Indo nel suo tratto diretto E-W rappresenta la
zona di sutura fra due placche continentali precedentemente separate da un oceano, la Tetide. Ma
in certi casi la subduzione non può essere realizzata per l’esistenza di grosse masse continentali rigide. In questi casi le ofioliti della crosta oceanica
possono venire spinte al di sopra della crosta continentale, formando estese coltri ofiolitiche al di
sopra della crosta continentale (obduzione).
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
Fig. 5. L’arco Izu-Bonin del Pacifico nord-occidentale è stato rivisitato dalla nave da
perforazione nel 2001. In a) è raffigurata l’ubicazione generale, in b) lo schema
geodinamico della zona di subduzione, accompagnato dall’anomalia geotermica
che porta alla disidratazione del serpentino e alla formazione dell’arco vulcanico,
in c) l’ubicazione di nove diversi seamounts ai quali sono stati dati dei nomi. Il Sito
1200 (South Chamorro), perforato durante l’ODP Leg 195, consiste di sei pozzi
molto vicini, in uno dei quali (1200C) è stata raggiunta la profondità massima di
202 m sotto il fondo del mare (a -2930 m) ed è stato attrezzato con il reentry cone
e un laboratorio per campionamenti geochimici, geotermici e microbiologici. Una
nuova scoperta di questi pozzi è che – oltre ai fluidi ad altissima alcalinità
analoghi a quelli del Conical Seamount di origine profonda (stimata a 25-30 km)
– nei 20 m superficiali è presente un secondo tipo di acqua interstiziale che
contiene una nuova comunità microbica di estremofili in accordo con la presenza
di una megafauna sul fondo marino (da D’Antonio e Kristensen, 2004).
BIBLIOGRAFIA
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clasts from the South Chamorro Seamount (Ocean Drilling Program Leg
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Orogens and slabs vs. their direction of subduction, «Earth Sciences Reviews», 45 (1999), pp. 167-208.
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M. Frezzotti - G. Orombelli, Glaciers and ice sheets: current status and
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Ocean Drilling Program, Initial Reports, volume 195 (2002). College Station, TX (Ocean Drilling Program).
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P.P. von Herzen - S. Uyeda, Heat flow through the eastern Pacific ocean floor,
«Journal of Geophysical Research», 68/14 (1963), pp. 4219-4250.
41
STUDI
La mitigazione del rischio sismico:
mito o realtà futura?
I
terremoti (earthquakes in inglese, tremblement de terre in
francese) sono fenomeni naturali che provocano effetti disastrosi sugli umani, ancora più pericolosi delle eruzioni
vulcaniche anche perché meno prevedibili. I terremoti e gli
eventi sismici ad essi correlati (sciami sismici, aftershocks, la
maggior parte dei maremoti) sono provocati dai movimenti
che avvengono nella crosta terrestre e nel mantello litosferico,
sono del tutto indipendenti dalle attività umane, esistono da
quando il pianeta Terra ha acquisito una consistenza solida
nelle sue parti periferiche, oltre 4 miliardi di anni fa.
I terremoti attualmente possono essere previsti in modo
molto approssimativo nello spazio, ma non nel tempo. Non
ha senso invece parlare di prevenzione o disinnesco, essendo
assolutamente impossibile impedire che un movimento tellurico si realizzi quando le condizioni fisiche lo impongono.
La storia d’Italia è lunga e complessa e la sua preistoria è ben
documentata, con i primi ominidi arrivati dall’Africa dopo
essere migrati tutto intorno al Mediterraneo orientale nel
Pleistocene inferiore.
Passando alla storia, troviamo testimonianza di terremoti in
Sicilia, dove i templi dorici diroccati di Selinunte nella Magna
Grecia mostrano i pesanti rocchi tutti allineati nella stessa direzione. Nella stessa valle del Belice, non lontano da Selinunte,
un violento terremoto nel 1968 ha semidistrutto il paese di
Gibellina, che è stato abbandonato dai sopravvissuti e ricostruito altrove, con strascichi giudiziari ancora in atto.
A Roma nel periodo imperiale sono state erette due colonne
marmoree quasi contemporanee: la colonna Traiana nel
Foro Romano e la colonna di Marco Aurelio nel piazzale del
Parlamento. Esse distano circa 700 metri l’una dall’altra, furono erette negli stessi anni e sono costruite con lo stesso
marmo. Ma la prima appare integra mentre la seconda è stata
dislocata da una vistosa faglia orizzontale con un rigetto di
10 centimetri nella parte superiore lungo un giunto fra i rocchi (cilindri di pietra che compongono la colonna) (Heiken
et al., 2005), vedi figura 1. Il diverso comportamento è dovuto al substrato solido sul quale è costruita la colonna di
Traiano, mentre il substrato è soffice e inconsolidato sotto la
colonna di Marco Aurelio che ha amplificato l’accelerazione
del suolo (effetto di sito, da tenere sempre presente).
42
Nel passato pre-industriale e pre-scientifico i terremoti, che
non si sapeva bene che cosa fossero, erano considerati una
specie di castigo di Dio, una punizione divina per dei cattivi
comportamenti come ad esempio il terremoto che provocò
danni estesissimi alla città di Ferrara nel 1570 fu attribuito
al cattivo esempio dato dagli Estensi che dominavano il territorio… Ma in quella occasione lo storico Pirro Ligorio
Fig. 1. Due colonne celebrative dei trionfi ottenuti dall'imperatore
Traiano contro i Daci e dall'imperatore Marco Aurelio nelle guerre
contro i Germani e i Sarmati. Le colonne furono costruite in tempi
vicini, hanno circa lo stesso peso, sono costruite con lo stesso
marmo e distano fra loro solo circa 700 metri, ma hanno reagito in
modo assai diverso allo stesso evento sismico. La colonna traiana,
nel foro omonimo, è costruita su un basamento formato da tufo
vulcanico che appoggia su arenarie e argilliti consolidate, mentre la
colonna di Marco Aurelio è costruita su depositi inconsolidati del
Tevere, che hanno amplificato le onde sismiche superficiali (vedere
modello nella parte inferiore della figura) provocando una
dislocazione di circa 10 cm documentata dal fregio illustrato in alto
a sinistra (da G. Heiken, R. Funiciello et al., 2005, leggermente
modificato).
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
STUDI
fece una descrizione molto accurata dei danni subiti dai vari
tipi di costruzioni e propose suggerimenti che sembrano
un primo prontuario per una edilizia antisismica.
Un altro primato italiano da ricordare è quello dell’Osservatorio Vesuviano. Nel 1841, ossia vent’anni prima dell’Unità
d’Italia con Roma capitale, venne inaugurato dal Re delle due
Sicilie Ferdinando di Borbone, il primo Osservatorio vulcanologico al mondo, sulle pendici del Vesuvio. Il vulcano era già
celebre fin dall’antichità per la descrizione accuratissima dell’eruzione del 79 dopo Cristo fatta da Plinio il Giovane. Primo
direttore dell’Osservatorio, che esiste ancora ed è ora gestito
dall’INGV, fu il fisico Macedonio Melloni, destituito pochi
anni dopo per aver partecipato a moti rivoluzionari. Alla direzione si alternarono fisici e geologi di chiara fama. Fra questi va ricordato il geologo Giuseppe Mercalli che lo diresse dal
1911 al 1914. In questo periodo egli studiò e propose una scala
tuttora in uso per valutare l’intensità dei terremoti, e dei criteri per la classificazione delle eruzioni vulcaniche.
Il profondo sud, spesso criticato per inefficienza e arretratezza, realizzava nel passato lontano iniziative veramente
innovative, come la prima linea ferroviaria italiana: la Napoli-Portici!
Con l’unità d’Italia furono creati una serie di Servizi statali
sul modello francese, dove Quintino Sella si era formato
presso l’Ecole des Mines: Servizio Geologico, Servizio Idrografico, Servizio Meteorologico. Se i due grandi protagonisti dell’Unità d’Italia (il Conte di Cavour 1810-1861 e Quintino Sella 1827-1884), entrambi morti prematuramente,
fossero vissuti più a lungo, forse la vistosa carenza di senso
dello stato che caratterizza la maggior parte degli italiani oggi
non sarebbe così accentuata..Mancava ancora un Servizio sismico, mentre sia il Regno delle due Sicilie sia lo Stato della
Chiesa, che comprendevano aree altamente sismiche, ave-
vano abbozzato qualche cosa di simile. Le prime iniziative furono prese dai piemontesi in occasione del devastante terremoto di Messina, seguito da maremoto, del 1908, che è tuttora il più grave di tutti i tempi.
I terremoti venivano distinti all’inizio in sussultori e ondulatori, ma oggi questo criterio è stato abbandonato. Quello che
i sismografi moderni misurano è l’accelerazione massima di
scuotimento del suolo, e questo sta alla base della scala Richter.
I sismografi in uso oggi sono molto diversi dai lunghi pendoli
del passato, come quello ancora conservato e visitabile oggi
presso la Grotta Gigante sul Carso triestino, all’ingresso dell’Osservatorio Geofisico Sperimentale. Vi sono stazioni fisse,
e altre mobili che vengono usate in gran numero per monitorare le aree colpite subito dopo l’evento sismico principale.
Vi sono oggi reti sismiche locali, regionali, nazionali, internazionali, mondiali. Si trovano su internet e le più utili per
questa trattazione sono quelle EUROMED, dell’EMSC e dell’USGS (http://www.emsc-csem.org/#z; http://earthquake.
usgs.gov), vedi figura 2.
Da esse risulta chiaramente che quasi tutta l’Italia è caratterizzata da una elevata sismicità, e che le uniche aree a bassa
sismicità sono la Sardegna e la penisola del Salento, in Puglia.
Anche la parte nord-occidentale dell’Italia, in Piemonte,
non registra terremoti importanti, perché le fasi parossistiche dell’orogenesi alpina (le Alpi sono una catena collisionale
complessa, a doppia vergenza, con movimenti trasversali
importanti e faglie litosferiche) sono passate da tempo.
Nella figura 3 è illustrata la più recente carta della pericolosità sismica dell’Italia prodotta dall’Istituto Nazionale di
Geofisica e Vulcanologia (INGV).
A questo punto è opportuno presentare un elenco commentato dei principali terremoti verificatisi in Italia negli ultimi 160 anni.
Fig. 2. Distribuzione dei
terremoti di magnitudo
superiore a 4 registrati dal 1960
al 2012 nella regione
Mediterranea
(da http://www.isc.ac.uk/isc
bulletin/search/).
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
43
STUDI
1853 Campania
1857 Basilicata e Campania. Morte circa dodicimila persone.
Molti paesi furono rasi al suolo
1883 Casamicciola (Isola d’Ischia), morirono 2313 abitanti, oltre la metà della popolazione
1887 Bussana, presso Imperia (Liguria) con distruzione e abbandono dell’antico paese
1908 Messina (Sicilia) il più grave evento sismico di tutta la storia italiana, sia per numero di morti (58 000 secondo alcune fonti, 120 000 secondo altre fonti). Magnitudo stimata 7.2. I primi e più efficaci interventi in aiuto della
popolazione vennero dall’incrociatore russo Roskov e da
tutta la flotta russa che era alla fonda presso Augusta.
L’incrociatore Roskov è conservato e visitabile ancora
oggi sulla Neva a San Pietroburgo. Studi recentissimi di
alta precisione, con linee sismiche tridimensionali sulla
identificazione della faglia sismogenetica che avrebbe
originato l’evento (Doglioni et al, 2012), vedere figura 4,
dimostrano come il tanto atteso ma tanto discutibile
progetto sul ponte attraverso lo stretto di Messina necessita di ulteriori approfondimenti per la sua vulnerabilità
1915 Avezzano (Marsica, Abruzzo). 32.610 morti, magnitudo
6.8. Il grosso paese ai bordi del Lago del Fucino fu distrutto e le perdite umane furono ingentissime (per oltre il 90% della popolazione residente)
1920 Garfagnana (Toscana). 174 morti, magnitudo 6.2
1928 Carnia (Friuli)
44
Fig. 3. Mappa della pericolosità sismica d’Italia (da INGV, 2004),
supponendo un tempo di ritorno di 475 anni, e un suolo rigido.
Questa mappa è un utile strumento di partenza, ma può portare ad
una sottostima degli eventi.
Fig. 4. Profilo sismico a riflessione ad alta risoluzione TIR 10/01
registrato secondo una rotta che percorre lo Stretto di Messina dal
Mar Tirreno al Mare Ionio. L'ubicazione del tracciato è visibile nel
piccolo inserto a destra del profilo superiore, che non è interpretato.
L'interpretazione geologica, stratigrafica e strutturale si trova nel
profilo inferiore. Partendo da sinistra,
ossia da NE, si osservano due canyons
incisi nei depositi Plio-Pleistocenici. La
discordanza messiniana (linea verde
continua, M) copre un basamento
indifferenziato e tettonizzato. La linea
gialla è una discordanza
intrapleistocenica. Nella parte centrale
della sezione un'anticlinale a scala
crostale deforma sia il fondo marino
che tutta la sezione sottostante. La
faglia di Capo Peloro si suppone sia
attiva, poichè deforma il fondo marino.
Lo Stretto di Messina si sviluppa al di
sopra di una sinclinale delimitata da
faglie normali, che determinano la
morfologia dello stretto. Le sequenze
pleistoceniche mostrano geometrie di
crescita, che suggeriscono che la
sedimentazione sia avvenuta durante
la defomazionr tettonica lungo tutta la
sezione trasversale. Nella zona
coesistono faglie distensive e strutture
transpressive e compressive(da C.
Doglioni, M. Ligi et al., 2012,
semplificato).
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
STUDI
1930 Vulture (Basilicata e alta Irpinia). Il Vulture è un vul- 1997-98 Umbria e Marche. Questo terremoto, che colpì una
zona ricca di antichi borghi costruiti quando il cecano appartenente inattivo da circa 100.000 anni. Al
mento armato non era stato ancora inventato, lasciò
contrario del Vesuvio, si trova in posizione anomala al
senza casa 10 000 persone che due anni dopo
fronte della catena appenninica. Le faglie sotto al vull’evento sismico vivevano ancora in containers. Ma
cano generano un terremoto con 1404 morti, magnila precedenza alla ricostruzione venne data alla Batudo 6,7.
silica di San Francesco d’Assisi, dove due volte af1962 Irpinia (Campania). 236 morti, magnitudo 6
frescate erano state lesionate. È una storia da rac1968 Belice (Sicilia) con distruzione e abbandono dei paesi
contare perché dimostra l’importanza e l’impredi Gibellina, Santa Ninfa, Salaparuta. Ben 37 comuni
vedibilità degli aftershocks. Infatti il crollo della volta
sono stati colpiti. 351 vittime, 100 000 sinistrati, nuovo
è
stato trasmesso in diretta televisiva mentre gli
paese ricostruito altrove.
esperti (fra cui un architetto e il priore dei frati ca1976 Friuli. Violento terremoto con gravi danni a Udine, Gepuccini che morirono sotto le macerie) stavano vemona e altri centri storici. Circa mille i morti. Magnitudo
rificando la fattibilità dell’intervento, a pochi giorni
6.6, intensità ammissibile massima X. Molte frane di
dal terremoto. A quel tempo Ministro dell’Ambiente
crollo nelle Alpi Carniche, che hanno versanti ripidi e
era Giovanna Melandri e Presidente della Repubuna tettonica sud vergente con rampe e sovrascorriblica Carlo Azeglio Ciampi. Nel 2000 era stato inmenti. Crollo di capannoni recenti costruiti senza tener
conto delle norme antisismiche (tetti orizzontali semplicemente appoggiati sulle pareti, ma non legati alle
strutture portanti). Pronta ed efficace ricostruzione.
Nel settembre 1976, quattro mesi dopo il terremoto, un
aftershock di magnitudo molto elevata provocò la
morte istantanea dei due noti geologi Riccardo Assereto di Milano e Giulio Pisa di Bologna che stavano rilevando sul Monte Bivera in Carnia e furono colpiti da
una rovinosa frana di crollo in un canalone dove perse
la vita anche il figlio dodicenne di Assereto.
1980 Irpinia (Campania). Terremoto molto violento (magnitudo 6.9, intensità massima X, 3000 morti), ed esteso arealmente. Testimoni oculari riferiscono che non si sapeva dove consegnare le bare per seppellire i morti,
perché non era ancora stata individuata la posizione
dell’epicentro. La prova che il Servizio sismico nazionale
non funzionava a dovere. Da qui ebbe inizio l’escalation
dell’INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia)
che – sotto la guida prolungata del sismologo Enzo
Boschi – si prese carico dei terremoti, delle carte del rischio sismico e di tante altre cose, assorbendo gran
parte delle risorse disponibili per la ricerca sul territorio.
La valutazione del rischio sismico cambiò radicalmente a
partire dal 1981, con un vistoso aumento dei comuni dichiarati a rischio (ad esempio, in Emilia-Romagna il numero
dei comuni a rischio cambiò da 12 a 89). La figura 5 mostra
un moderno e aggiornato schema strutturale, che sintetizza
i risultati ottenuti da diversi rilevatori sui campi di stress dell’Italia meridionale.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
Fig. 5. Schema strutturale della parte meridionale della penisola
italiana che sintetizza i dati di osservazione raccolti e interpretati da
diversi autori negli ultimi dieci anni; lo schema comprende le zone
colpite dagli eventi sismici del Molise (2002), dell'Irpinia (1980) e di
Potenza (1990-91). La linea ondulata diretta NW-SE lungo l'asse
della catena indica il limite approssimativo fra le aree a regime
distensivo (come l'Irpinia) e a regime compressivo (come il Molise)
(da F. Visini, 2012, semplificato).
45
STUDI
2002
2009
detto l’Anno Santo e la Basilica di Assisi rappresentava una meta imperdibile. Il progetto della ricostruzione delle volte crollate e del ripristino dei 5000
metri quadrati di affreschi fu chiamato Cantiere Utopia e fu realizzato a tempo di record, con l’inaugurazione ufficiale avvenuta il 27 novembre 1999, giusto in tempo prima dell’inizio dell’Anno Santo. Il
costo dell’operazione fu di 72 miliardi di lire.
Molise. Prima di passare ai due ultimi terremoti
(l’Aquila 2009 e Emilia-Romagna 2012) val la pena di
ricordare un altro terremoto avvenuto in Molise (San
Giuliano di Puglia) nel 2002. Le scosse non furono
particolarmente forti (magnitudo 5.4) ma morirono
27 bambini e una maestra per il crollo di una scuola
che era stata sopralzata di recente. Queste sono
cose che non devono accadere in un paese civile.
Non si può certo pretendere che tutta l’Italia venga
messa in sicurezza essendo in gran parte ad alto rischio sismico, ma si deve esigere che gli edifici pubblici, come appunto le scuole, non vengano manomesse senza una verifica accurata delle condizioni di
sicurezza da parte degli esperti (ingegneri e geologi)
che devono operare congiuntamente.
L’Aquila, Abruzzo. La scossa principale avvenne il 6
aprile, ma fu preceduta da una lunga serie di sciami
sismici protrattasi per diversi mesi allarmando la popolazione residente, pure avvezza ai terremoti trattandosi di un’area ad alta sismicità, come tutte le
conche intramontane situate lungo l’asse appenninico appenninico.
stato delle costruzioni del centro storico della città avevano
pervicacemente mostrato un totale disinteresse per quanto
era stato fatto al riguardo, ignorandolo del tutto.
Venne presentata una denuncia da parte dei familiari che si
costituirono parte civile, e ne seguì un processo a carico di
tutti i componenti della Commissione Grandi Rischi per
omicidio colposo plurimo e disastro colposo plurimo. Il
processo fu celebrato all’Aquila nel settembre 2012 e fu seguito da molte televisioni straniere. Era la prima volta nella
storia che veniva intentato un processo a degli scienziati
non perchè non avevano saputo prevedere per tempo il verificarsi dell’evento sismico, ma apparentemente per non
aver studiato adeguatamente la situazione in atto in qualità
di membri della Commissione Grandi Rischi. Tutti i sette imputati furono condannati a sei anni di reclusione, una pena
superiore a quella richiesta dalla pubblica accusa.
Al terremoto seguirono studi dettagliatissimi di carattere
geologico, geofisico, geochimico, idrologico, sulla portata
delle sorgenti, sulle emissioni di radon, sulle faglie attivate e/o
riattivate, sugli aftershocks, tutti scritti in inglese e coordinati
da Pantosti e Boncio, pubblicati su un numero speciale dell’Italian Journal of Geosciences nel numero di ottobre 2012.
La figura 6 è riprodotta da questo importante volume; dimostra al di là di ogni dubbio che tutte le faglie attive sono
normali e denuncia un regime distensivo. Di conseguenza
l’affermazione che gli sciami sismici pre-terremoto provocano dissipazione di energia è errata. È invece la trazione che
provoca tanti strappi parziali, finché si arriva alla rottura. Fra
gli studi di dettaglio post-terremoto che aiutano a interpretare correttamente i messaggi impressi nei sedimenti vi è
l’esecuzione di trincee nella immediata prossimità delle faglie considerate sismogenetiche in affioramento. I nuovi sedimenti (dislocati dalla faglia) messi in luce dovrebbero testimoniare del ripetersi di eventi sismici che potrebbero
essere datati col radiocarbonio. Nel caso del terremoto dell’Aquila, si tratta di sedimenti continentali.
Disastrosa fu l’iniziativa presa dall’allora presidente della
Protezione Civile di convocare una riunione fuori programma
della Commissione Grandi Rischi per rassicurare la popolazione. Diffusa dai mezzi audiovisivi senza essere stata verbalizzata adeguatamente, e aggravata dall’erronea affermazione
che gli sciami provocavano dissipazione di energia, questa riunione fu seguita dalla scossa principale col risultato di oltre 2012 Emilia-Romagna. Di questo terremoto, che è avvenuto
300 morti in parte in seguito al crollo di edifici antichi e amin due fasi distinte a distanza di pochi giorni, il 29 magmalorati, in parte di edifici pubblici ampliati e ristrutturati di
gio e il 6 giugno 2012, ha già parlato diffusamente da
recente, come ad esempio l’ospedale. Il terremoto dell’Aquila
queste pagine G.B. Vai e non vogliamo ripetere quanto
ebbe una grande copertura mediatica anche per l’improvvisa
già discusso e figurato (Anno XXX, n. 5, pp. 99 ss.). Non
decisione presa dall’allora Presidente del Consiglio di spostare
fu un terremoto particolarmente violento (magnitudo
il G8 dall’Isola della Maddalena all’Aquila post-terremotata.
5.9), ma colpì il fatto che edifici ad alto rischio, come
La reazione dei residenti fu negativa, mentre le autorità locali
torri e campanili, caddero solo alla seconda scossa,
che avevano in mano corposi e dettagliati documenti prepamentre nuovi capannoni industriali costruiti in cerati da componenti della Commissione Grandi Rischi sullo
mento armato in risposta a una fiorente industria far-
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Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
STUDI
Fig. 7. In corrispondenza degli affioramenti delle faglie
attive, interpretate come sismogenetiche, vengono scavate
delle trincee per mettere in evidenza eventuali dislocazioni.
In questo caso relativo alla faglia di Paganica, il rigetto della
faglia è stato di 70 cm (frontespizio dell’Italian Journal of
Geosciences, foto di R. Civico).
Fig. 6. Modello digitale del rilievo (risoluzione di 20 m) dell'area
epicentrale del terremoto dell'Aquila dell'aprile 2009. Le stelle
bianche indicano gli epicentri della scossa principale del 6 aprile a
L’Aquila e del forte aftershock del 7 aprile fra Fossa e Onna con
faglie normali o normali/oblique che documentano attività durante
il Quaternario superiore. In basso sono riprodotte sezioni
geologiche che attraversano le faglie attive del Monte Stabiata
(diretta E-W, in alto nella carta) e della faglia di Paganica (da G.
Lavecchia et al., 2012, semplificato).
maceutica provocarono quasi tutti gli incidenti mortali
(18). Il fatto è che la pericolosità sismica del territorio fu
dichiarata solo nel 2004, nonostante l’esistenza di faglie
inverse e sovrascorrimenti nel sottosuolo fossero ben
documentati dagli studi geologici e geofisici effettuati
nei decenni precedenti, a partire dagli anni del secondo dopoguerra, con l’esplorazione petrolifera della
Pianura Padana iniziata da Enrico Mattei.
Oggi esistono centinaia di profili sismici che attraversano in
tutte le direzioni la Pianura Padana, e che sono stati calibrati
da centinaia di pozzi esplorativi e/o di sfruttamento (vedi figure 8 e 9).
Finora abbiamo parlato di sismica passiva, ma esiste anche
una sismica attiva che permette di studiare l’assetto struttuNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
rale e la geometria degli strati sepolti, registrando lungo
stendimenti predisposti a terra (geofoni) o in acqua (idrofoni) gli echi di ritorno di scoppi provocati artificialmente
con aria compressa o con esplosivi.
Era ben noto che il limite della pianura non coincideva con
il fronte di deformazione della catena appenninica, che la vergenza della catena era verso N, e che le faglie sismogenetiche
erano dirette E-W. Era pure ben nota l’esistenza di un importante rilievo sommerso chiamato dorsale ferrarese o anticlinale ferrarese.
Grande sorpresa è stata espressa dai mezzi di comunicazione per la fuoriuscita di fango fluido da crepe negli edifici,
da fratture nelle strade e nei campi… ma questo è ben noto
e caratteristico dove si hanno fenomeni di sovrapressione nel
sottosuolo, e le Salse di Nirano (vicino a Modena e all’area
terremotata) sono visitatissime come un geoparco. Si tratta
di vulcani di fango ricchi di fluidi in pressione con metano
e anidride solforosa che vengono espulsi da profondità di
centinaia fino a migliaia di metri e si formano tipicamente
nei prismi di accrezione lungo le zone di subduzione, come
è appunto l’Appennino settentrionale sul versante padano.
La comparsa di fango in pressione nelle crepe degli edifici disastrati, nelle strade e nei campi coltivati fa parte di uno scenario naturale coerente con il contesto geodinamico del sito.
47
STUDI
Fig. 8. In alto è raffigurata una carta semplificata della parte centrale della Pianura Padana e l'ubicazione dei pozzi studiati. Nell'inserto in
alto a destra vi è uno schema strutturale che mostra la convergenza fra il fronte alpino e quello appenninico. I cerchi sono raggruppati in
classi a seconda della profondità massima raggiunta. Lungo il transetto b, il più vicino all'area colpita dai terremoti del 2012, i pozzi Cn (la
sigla sta per Castelnovo1) e Nn (per Nonantola 1) la profondità è compresa fra 5000 e 7500 metri sotto il livello del mare. In basso è
riprodotta la sezione geologica interpretata lungo il transetto orientale (b) (da A. Viganò, B. Della Vedova et al., 2012).
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Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
STUDI
Fig. 9. La stessa area centrale della Pianura Padana è raffigurata con l’indicazione, oltre ai pozzi ENI, delle principali faglie, delle isobate
della base del Pliocene (datata a 5.3 milioni di anni) e dei terremoti registrarti dal 1970 al 2010 dall’International Seismological Centre,
raggruppati in due categorie, con magnitudo superiore o inferiore a tre. Le frecce indicano la direzione dei movimenti continui misurati nei
capisaldi fissi dal Global Positional System (GPS) e la loro velocità, espressa in mm all’anno. Le frecce più lunghe indicano maggiori
spostamenti e appaiono indipendenti dalla frequenza dei terremoti (da A.Viganò, B. Della Vedova et al., 2012).
Conoscenza e coerenza sono indispensabili a tutti i livelli per tempestivamente e in modo chiaro, e vanno controllate efdefinire delle regole, e per farle rispettare. Le norme per ficacemente.
rendere antisismico un capannone industriale monopiano
Mariabianca Cita Sironi
non prevedono grossi investimenti, ma vanno promulgate
Università di Milano
BIBLIOGRAFIA
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data, Nature Science, Scientific Reports, December 2012. Url: http://www.nature.com/srep./2012/121213.
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pp. 264.
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D. Pantosti - P. Boncio, Understanding the April 6th,2009 L’Aquila earthquake – the rheological contribution: an introductory note to
the special issue, «Italian Journal of Geosciences», 3 (2012), 131, pp. 303-308.
A. Viganò - B. Della Vedova - G. Ranalli - S. Martin - D. Scafidi, Geothermal and rheological regime of the Po plain sector of Adria (Northern Italy), «Italian Journal of Geosciences», 2 (2012), 131, pp. 228-240.
F. Visini, Seismic crustal deformation in the Southern Apennines (Italy), «Italian Journal of Geosciences», 2 (2012), 131, pp. 187-204.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
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PERCORSI DIDATTICI
Letteratura e archeologia
Il caso dell’epigramma IV, 44 di Marziale
e di un affresco pompeiano
Nicola Fiorino Tucci
UN TESTO LETTERARIO PUÒ RISULTARE PIÙ INTERESSANTE E STIMOLANTE SE LETTO IN UN’OTTICA INTERDISCIPLINARE,
CHE NE VALORIZZI LA DIMENSIONE STORICO-SOCIALE CONFRONTANDOLO CON MATERIALE ARTISTICO DI VALORE
ARCHEOLOGICO. È IL CASO DI UN EPIGRAMMA DI MARZIALE (IV, 44), NEL QUALE CON TONO COMMOSSO E
NOSTALGICO SI RICORDA LA DISTRUZIONE DEL TERRITORIO POMPEIANO AD OPERA DEL VESUVIO, CHE VIENE
CONFERMATO DA UN AFFRESCO POMPEIANO DEL IV STILE IN CUI SONO RAPPRESENTATI DIONISO E IL CELEBRE
VULCANO A TESTIMONIARE UNA RINASCITA DI QUELLA REGIONE POCHI ANNI DOPO LA CELEBRE ERUZIONE DEL 79 D.C.
C
apita molto raramente, nella
scuola italiana, che una lezione
di Storia si avvalga di un contributo archeologico, che non sia quello
fornito da qualche foto o immagine o
da una (spesso improponibile) lettura
critica, mentre quasi mai accade che un
argomento letterario possa essere letto
alla luce di un’indagine o di una scoperta archeologica, che ne confermi gli
aspetti storico-sociali più interessanti.
Eppure un rapporto stretto fra archeologia e letteratura, per il tramite dell’arte, è offerto dallo studio stesso della
letteratura latina, che, in quest’ottica,
risulta più interessante e più completo:
si pensi ad un celebre passo delle Tusculanae Disputationes (V, 23) in cui Cicerone racconta la sua esperienza di archeologo dilettante a Siracusa; o a
Virgilio, che presenta, nell’Eneide, il sacerdote Laocoonte così come questo
personaggio è immortalato nella famosa statua di età ellenistica, che possiamo ammirare ancor oggi; o ad Ovidio (Fasti, I, 697-722), la cui descrizione
Affresco dal larario della Casa del Centenario a Pompei con raffigurazione di
dell’Ara Pacis Augustae ha contribuito
Dioniso in forma di grappolo d’uva presso il Vesuvio; in alto un festone con bende
alla ricostruzione moderna del monued uccelli; in basso il serpente agatodemone.
mento augusteo o, infine, a Simmaco
Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
50
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PERCORSI DIDATTICI
questo di uva famosa riempì le umide
[botti:
questi i rilievi, che Bacco amò più dei
[colli di Nisa,
su questo monte i Satiri un tempo
[intrecciarono danze.
Questa era la sede di Venere, a lei più
[gradita di Sparta,
questo il luogo famoso per il nome
[di Ercole.
Tutto giace (ora) coperto dalle fiamme
[e dalla triste lava:
né gli dei avrebbero voluto che ciò
[piacesse loro.
(traduzione di N. Fiorino Tucci)
Mosaico con raffigurazione di Dioniso e una pantera (II sec. d.C.),
Brescia, Museo di Santa Giulia.
grazie al quale possiamo immaginare
con molta precisione l’Altare della Vittoria della Curia senatoria a Roma nel
IV sec. d.C.
Insomma, l’analisi dei testi letterari e
l’indagine archeologica si possono integrare, sollecitando nell’alunno un atteggiamento più aperto e critico nei
confronti di un passato, che spesso vien
presentato stereotipato e, al più, suggestivo ma non suscettibile di un’indagine più approfondita e critica. In questa prospettiva di valorizzazione di un
rapporto proficuo fra letteratura, arte
ed archeologia si colloca il caso specifico qui proposto, che permette di leggere una poesia di Marziale alla luce di
un affresco pompeiano conservato al
Museo Archeologico di Napoli.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
Si tratta dell’epigramma IV, 44 di Marziale, una delle testimonianze relative
all’eruzione del Vesuvio avvenuta nel
79 d.C., di cui, per opportunità, riportiamo di seguito testo e traduzione:
Hic est pampineis viridis modo Vesbius
[umbris,
presserat hic madidos nobilis uva lacus:
haec iuga, quam Nysae colles plus
[Bacchus amavit,
hoc nuper Satyri monte dedere choros.
Haec Veneris sedes, Lacedaemone gratior
[illi,
hic locus Herculeo nomine1 clarus erat.
Cuncta iacent flammis et tristi mersa
[favilla:
nec superi vellent hoc licuisse sibi.
Questo è il Vesuvio un tempo
[verdeggiante per le pampinee ombre,
Ad una prima lettura del testo si nota
subito il ricorrere insistente del dimostrativo hic, proprio della letteratura funeraria2, che ne sottolinea il valore
commemorativo mentre la presenza
della coppia Bacco-Venere serve a dare
una chiara indicazione geografica: sappiamo, infatti, che gli abitanti della zona
vesuviana, in cui si produceva un ottimo vino3, veneravano Bacco4 e tributavano un culto particolare a Venere5,
divinità protettrice di Pompei, adorata
appunto come Venus Pompeiana. Bisogna precisare, però, che nei versi non risulta molto chiaro se ci si riferisce a
Pompei o, forse, ad Ercolano, città evocata col nome del suo presunto eponimo, l’eroe greco Ercole6, che, si diceva, l’avesse fondata durante il suo
passaggio in Italia.
1. Probabilmente nel testo il termine nomen andrebbe
emendato in numen (si veda R. Moreno Soldivila, Martial, Book IV: a Commentary, Leiden-Boston 2006, p. 330).
2. Si veda R. Moreno Soldivila, Martial, cit., p. 328.
3. Cfr. A. Dosi - F. Schnell, Pasti e vasellame da tavola. Vita
e costumi dei Romani antichi, Roma 1986.
4. Bacco/Dioniso era molto venerato a Pompei: si veda
E. Cantarella - L. Jacobelli, Un giorno a Pompei. Vita quotidiana, cultura, società, Electa, Napoli 2003, pp. 39-41.
5. A Pompei nell’80 a.C. era stata dedotta una colonia di
veterani per volontà di Silla, che era devoto a Venere
(Colonia Cornelia Veneria Pompeianorum): si veda E. Cantarella - L. Jacobelli, Pompei, cit., p. 12.
6. Cfr. Serv. ad Aen. VII 662: veniens autem Hercules de
Hispania per Campaniam in quadam Campaniae civitate pompam triumphi sui exhibuit: unde Pompei dicitur
civitas.
51
PERCORSI DIDATTICI
Inoltre, l’epigramma, dopo aver tristemente constatato che tanta (passata)
felicitas della zona è ormai sommersa da
uno strato di lava (flammis et tristi favilla), si chiude esprimendo la certezza
che gli dei sono profondamente dispiaciuti per il cataclisma verificatosi in
quella regione, che essi non hanno potuto impedire perché era loro contraria
la volontà del Fato.
Sul piano letterario, il testo di Marziale
presenta anche forti motivi di interesse
per la sua raffinatezza e per i riferimenti
eruditi, che permettono, in questa sede,
di confrontarlo con un dipinto ritrovato a Pompei nel lontano 1879: si
tratta di un affresco7 presente su un larario8 della Casa detta del Centenario,
nella regio IX. L’affresco, in chiaro IV
stile, raffigura Bacco/Dioniso sulla sinistra e, al centro, isolato, un alto monte
verdeggiante, con le pendici ricoperte
da filari di viti a spalliera9, identificato
nel Vesuvio prima dell’eruzione del 79
d.C., perché contraddistinto da una sola
cima.
Il dio, in piedi, in una posa da doriforo,
ha il corpo ricoperto da un enorme
grappolo d’uva quasi alla maniera dei
ritratti dell’Arcimboldi, eccetto testa,
mani e piedi, volge la testa verso destra
ed è caratterizzato dai suoi classici atStatua in bronzo di Dioniso ritrovata
nel Tevere (II sec. d.C.), Roma, Museo
Nazionale Romano,
Palazzo Massimo alle Terme.
tributi: regge nella mano sinistra il tirso,
mentre nella destra un kantharos da cui
scorre del liquido; un giaguaro o, più
probabilmente, una pantera è al suo
fianco destro.
La scena è delimitata in alto da una ghirlanda curva con nastri, su cui poggia
un uccello (una colomba o una tortora),
mentre, poco più sotto, un altro uccello
simile è raffigurato in volo verso destra;
in basso un serpente agatodemone10 si
snoda tra rami di mirto in direzione di
un altare in colore giallo con un uovo.
Menade in volo che porta offerte su un vassoio, dettaglio di un affresco dal
triclinio della Casa del Centenario a Pompei,
Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
52
7. L’affresco è conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (Primo piano, Sala LXXV; n. 112286); dimensioni: 140 cm x 102 cm.
8. Il larario è un altare privato dedicato ai Lari, protettori
della casa romana, ma anche ai Penati o ad altre divinità
protettrici; spesso si presenta nelle forme di un sacello
domestico. Si veda F. Giacobello, Larari pompeiani. Iconografia e culto dei Lari in ambito domestico, Milano
2004, pp. 34 ss.
9. Cfr. Cass. Dio LXVI, 21, 3.
10. Questo termine indica lo Spirito buono e benefico
contrapposto a quello cattivo, Kakodemone. Nei Misteri
Bacchici era rappresentato da un serpente eretto su un
palo.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PERCORSI DIDATTICI
Il dipinto è datato al periodo 68-79
d.C.11, collocandosi, quindi, poco dopo
il terremoto del 62 d.C., che tanti danni
fece nell’area campana12, ma soprattutto
trova alcune significative analogie nell’epigramma, che può esserle accostato
quasi come una didascalia. Infatti, nel
testo si parla del Vesuvio celebrandolo
per una caratteristica che evidentemente
non ha più ai tempi di Marziale: il verde
dei suoi vigneti; proprio questo colore
viene utilizzato nell’affresco pompeiano
per connotare il vulcano, ritratto con la
sua cima conica. Inoltre, Marziale afferma in maniera decisa che Bacco ed il
suo corteggio, cioè i Satiri, un tempo
avevano scelto come loro dimora preferita il Vesuvio; nel dipinto la figura
stante è certo il dio del vino come chiaramente attestato dal fatto che sia ricoperto da un enorme grappolo d’uva13.
Se nell’epigramma, infine, si ricorda
anche che Venere ha addirittura preferito come sua sede il Vesuvio all’amata
Sparta, nell’affresco si può individuare
un riferimento implicito a Venere nella
presenza di un uccello svolazzante da
identificare in una colomba, animale a
lei sacro.
Quelle individuate, pertanto, fra poesia
ed affresco sono affinità troppo evidenti per non dedurre che facciano
parte di un immaginario collettivo,
piuttosto diffuso nell’arte come nella
letteratura dell’epoca, nel quale dei ed
elementi della natura (il vulcano, la
terra fertile, gli animali) siano in perfetta corrispondenza interpretativa: in
una chiave positiva prima del disastro
(l’affresco di Pompei), molto negativa
dopo di esso (l’epigramma di Marziale)14.
In conclusione, se datiamo l’epigramma
di Marziale, e tutto il IV libro, all’87- 89
d.C.15, esso rappresenta una testimonianza di molto anteriore a quella di
Plinio il Giovane, nella quale non viene
attestata la rinascita della zona sia sul
piano agricolo che su quello del culto
dopo il terremoto del 62 d.C. ma la rovina susseguente la terribile eruzione
del 79 d.C.16.
Infatti, l’area vesuviana, a pochi anni
dal terremoto del 62 d.C., sembra aver
recuperato alcuni dei suoi prodotti più
tipici e la sua naturale propensione a ricondurli alle divinità tradizionalmente
collegate ad essi. A ciò si può aggiungere
l’intento del poeta di alludere alla ripresa almeno dei culti religiosi dopo il
cataclisma più grave e di lodare indirettamente la politica della dinastia Flavia, anche se è improbabile che Marziale, appena assurto agli onori della
corte, indicasse con intento encomiastico futuri progetti riedificativi di Domiziano17.
In conclusione, proporre agli alunni un
confronto così articolato può dare allo
studio della letteratura latina e dell’arte
classica una prospettiva storica più ampia ed interessante grazie al contributo
determinante dell’archeologia.
Nicola Fiorino Tucci
Liceo Scientifico Statale “G. Galilei”,
Bitonto (Ba)
Menade e Satiro in volo, affresco dalla Casa del Naviglio a Pompei,
Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
11. Cfr. la nota di presentazione del reperto nel catalogo
a cura del Museo Archeologico di Napoli, n. 112286.
12. Cfr. Seneca, Nat. Quaest. VI, 1 e Tacito, Ann. XV, 22.
13. In altre pitture pompeiane Dioniso è ricoperto da
un grappolo d’uva: si veda E. Cantarella - L. Jacobelli,
Pompei, cit., p. 39.
14. Non è da escludere, a nostro avviso, che la vicinanza
temporale fra il terremoto del 62 d.C. e l’eruzione del 79
d.C. abbia probabilmente ingenerato qualche confusione nell’interpretazione dei posteri.
15. Si conferma così la datazione proposta per il IV libro
degli Epigrammata di Marziale: si veda R. Moreno Soldivila, Martial, cit., p. 327.
16. Plinio il Giovane, Ep. VI, 20, 18.
17. Si veda G. Galàn Vioque, Martial, Book IV, A commentary, Leida 2002, p. 173.
53
PERCORSI DIDATTICI
Il madrigale: quando la musica
si accoppia alla poesia
Paolo Fabbri
V
enezia, 1544. Nel suo Dialogo
della musica – lì stampato in quell’anno – il frate fiorentino Antonfrancesco Doni immaginò gli svaghi
di una brigata di amici: una congrega di
fantasia ma del tutto verosimile, concepita non solo a imitazione di Boccaccio,
ma a somiglianza di quanto realmente si
faceva, a Firenze come nella Serenissima.
Il Dialogo si apre con gli interlocutori che
rifiatano dopo aver ballato.
Michele: Da poi che i piaceri del danzare
ci sono in istanchezza ritornati, è bene
che ci posiamo, e si diamo a qualche
altro diletto piacevole, che quiete ci apporti e dalle noie sostenute ci sollievi.
[…]
Grullone: Vorrei, signori miei, per passare il rimanente di questo giorno con
uguale piacere, che facessimo altro essercizio così sedendo, come novellare,
giocare o cantare, e come più v’aggrada.
Michele: Il novellare non mi pare al proposito, per esser cosa più tosto da femine
o fanciulli.
Grullone: Per dar materia bene spesso
d’alterarsi, il giocare mi garba.
Oste: Et io danno il gioco in tutto, ma
non così le novelle. Pur, per non parere
che vogliamo rubbare o imitare il Boccaccio, se vi governarete a modo mio
cantaremo e novelleremo a un tempo
[…].
Bargo (alias Bartolomeo Gotifredi).
Grullone propone di dedicarlo alla
donna della quale avevano parlato poco
prima, di cui Bargo è infelicemente innamorato. Quest’ultimo distribuisce
poi le parti («Grullone, pigliate il vostro
basso, Michele l’alto e l’Oste il canto»),
riservandosi quella del tenore.
La scena delinea una situazione tipica di
certi ambienti italiani di pieno Cinquecento: il gusto di far musica assieme
per puro diletto, il desiderio di coniugare il canto a espressioni di poesia alta,
il piacere – fisico e intellettuale – che si
alimenta nella realizzazione di trame
sonore complesse, in cui più voci (po-
lifonia) s’intrecciano realizzando un
tessuto continuamente screziato. Cose
simili si ascoltavano in chiesa, in latino,
nelle occasioni liturgiche festive. In ambito profano, una veste sonora di tale
ricchezza – ma in versione più “facile” –
la si poteva trovare applicata a chansons francesi: un repertorio internazionale, originato in terre francofone ma
ormai diffuso dalle Fiandre alle corti
italiane, da Parigi alle città tedesche. All’epoca in cui scriveva Doni, da un paio
di decenni erano però sempre più frequenti i testi in volgare italiano rivestiti in polifonia di quel tipo: anzi, perfino più ambiziosa.
«Faccisi musica», esorta poco dopo Michele. Ci si accorda su quello che viene
definito un madrigale a 4 voci («Donna,
per acquetar vostro desire»): musica del
compositore Claudio Veggio, versi che
si fingono di uno degli interlocutori, Gerrit Van Honthorst, Concerto (1626-30), Dublino, National Gallery of Ireland.
54
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PERCORSI DIDATTICI
Gerrit van Honthorst, Concerto,
particolare (1626-30),
Roma, Galleria Borghese.
Metamorfosi e sdoppiamenti
Il fenomeno è documentato da composizioni raccolte in manoscritti redatti
verosimilmente in area fiorentina negli
anni ’20 del Cinquecento. Quei brani
erano opera di musicisti prevalentemente franco-fiamminghi presenti in
loco (per esempio, del maestro di cappella del Battistero, il francese Philippe
Verdelot), oppure d’ambiente romano,
ecclesiastici che erano cantori presso la
cappella papale: tutti compositori abituati a maneggiare le tecniche polifoniche della musica liturgica, ma anche in
dimestichezza con la loro versione light
propria della chanson.
Nel presentare a stampa (a Venezia,
presso Ottaviano Petrucci) una scelta di
versi di Petrarca – poeta ormai in piena
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
canonizzazione letteraria – intonati polifonicamente a 4 voci, nel 1520 Bernardo Pisano intitolò genericamente
Musica quei suoi pezzi. Dieci anni dopo,
una miscellanea di brani analoghi stampata a Roma nel 1530 (e lì ristampata
nel 1533) porterà l’intestazione Madrigali de diversi musici. Libro primo de la
Serena. I canti melodiosi di quella ipotetica Sirena erano dunque definiti con
un termine – madrigale – che teoria e
pratica del volgare letterario italiano
avevano impiegato già nel Trecento, ma
che da tempo era entrato in un cono
d’ombra.
La scelta si dimostrò quanto mai felice.
Da allora in poi, sarà quello il termine
che connotò stabilmente il nuovo genere musicale, ben diverso dalle precedenti intonazioni di versi in volgare
(frottole, laudi, canti carnevaleschi che
fossero), e che riapparirà sistematicamente sui frontespizi delle centinaia e
centinaia di raccolte a stampa: quasi
2000 quelle attualmente censite, nel secolo dal 1550 al 1650, concentrate per la
maggior parte nei decenni che vanno
dal 1560 al 1620 (quelli in cui il fiume
del madrigale musicale ebbe la sua massima portata).
Fu una metamorfosi vera e propria: un
termine letterariamente obsoleto, esangue, rinasceva in ambito musicale per
indicare un genere che si proponeva di
miscelare l’alta poesia in volgare italiano con le sofisticate tecniche della
polifonia. Venne coinvolto qualsiasi
tipo di morfologia poetica elevata: sonetti, canzoni, ottave, ballate, terzine,
episodi in versi sciolti e – da un certo
punto in poi – anche madrigali, cioè
quei flash lirici o galanti, spesso arguti,
che si consumano nel giro breve di una
decina di endecasillabi e/o settenari
non legati da schemi prevedibili di
rime, in voga nel pieno e secondo Cinquecento. Insomma, dopo la meta-
morfosi, uno sdoppiamento: il termine
“madrigale” designa in musica un genere di polifonia vocale che intona uno
spettro di morfologie letterarie tra le
quali si annovera anche il madrigale
(letterario).
Lirica d’arte in veste nobile
Impossibile non leggere questi sviluppi
entro il quadro di più generali tendenze
del coevo clima culturale italiano, che
vedeva il prepotente emergere del volgare come strumento linguistico anche
colto, e il suo sostituirsi al latino: negli
atti amministrativi ma ancor più nelle
esperienze d’arte. Certo, era un volgare
passato attraverso processi di raffinamento, secondo codici linguistici e stilistici messi a fuoco da Pietro Bembo
nelle Prose della volgar lingua (avviate
nel 1502, pubblicate a Venezia nel
1525). Non occorreva immaginare
astratte costruzioni di laboratorio, dato
che erano disponibili aurei modelli cui
uniformarsi. Come lingua, il toscano
letterario del Trecento; come concrete
realizzazioni, le opere dei suoi campioni: Petrarca, Boccaccio, Dante.
Per una poesia alta in volgare, una veste
musicale altrettanto elevata. E questa
non poteva che essere la polifonia, con
le sue regole e sottigliezze tecniche, ben
diversa dal repertorio frottolistico in
voga suppergiù tra il 1480 e il 1520,
d’abito magari accattivante quanto a
melodia, ma contrappuntisticamente
spoglio. Per quanto trattate anche in
polifonia, nelle frottole la loro natura
originaria di poesia intonata estemporaneamente si avvertiva: nell’egemonia
della voce superiore, nel sostegno di un
contrappunto essenziale e spesso solo
realizzato da strumenti, nel procedere
per strofe applicando le medesime formule musicali a versi differenti.
Niente di tutto questo nel madrigale
musicale, che richiedeva tutte le voci
55
senza di contemporanei (Torquato
Tasso e Battista Guarini, per dire) si fa
più rilevante nei decennî finali del Cinquecento, indice di evoluzioni del gusto
che vedevano insidiare primati fin lì indiscussi. A partire dal nuovo secolo la situazione è ribaltata in favore della contemporaneità, con l’irrompere di nuove
esperienze: Marino e il marinismo (invece di Petrarca e il petrarchismo),
Chiabrera e la lirica anacreontica.
Anima e corpo
Quale fosse, per il compositore di madrigali musicali, il rapporto tra versi e
musica, lo delinea come meglio non si
potrebbe Marc’Antonio Mazzone nella
lettera di dedica del suo Primo libro de’
madrigali a quattro voci (1569): «il
corpo della musica son le note, e le parole son l’anima, e sì come l’anima per
esser più degna del corpo deve da
quello esser seguita ed imitata, così anco
le note devono seguire ed imitare le paValentin de
role». Entra più nel dettaglio un comBoulogne,
Concerto
positore e teorico come Giuseppe Zar(1622-25),
lino (Istitutioni harmoniche, Venezia
Parigi, Louvre.
1558: si cita dall’edizione 1573):
effettivamente cantate, nessuna egemo- bienti, climi culturali, contingenze o –
nia di una sulle altre, contrappunto ela- perché no – a volontà d’autore, questo
borato, niente modularità strofica.
bisognerà valutarlo caso per caso.
Ad ogni modo, la hit parade dei poeti
Le scelte poetiche
(quelli identificati, che sono solo una
Maneggiando intenzionalmente testi porzione della massa di quelli intonati)
d’arte, e proponendosi di potenziarne vede dominare Petrarca e il suo Canzoper via musicale i contenuti espressivi, il niere fino agli anni ’90 del Cinquecento:
madrigale è un campo privilegiato per un Classico metatemporale, seguito da
verificare scelte, inclinazioni e prefe- autori di più recente canonizzazione
renze letterarie. Anzi, uno dei primi (l’Ariosto del Furioso, grande serbatoio
compiti che gli studiosi si sono posti è di ottave; Sannazaro e la sua Arcadia;
stato – ed è tuttora – individuare gli au- Bembo lirico), affiancati dagli autori
tori dei versi intonati: per ovvie ragioni contemporanei più in voga (Luigi Casdi maggior conoscenza, ma soprattutto sola, i cui 364 Madrigali letterari usciin quanto rivelatori di gusti e tendenze. rono a Venezia nel 1544). Senza dimenChe poi si tratti di “scelte” da ascrivere a ticare i tanti autori non individuati,
commissioni, obblighi di servizio, am- verosimilmente perlopiù coevi. La pre-
56
la musica fatta sopra parole, non è fatta
altro se non per esprimere il concetto et
le passioni et gli effetti di quelle con l’armonia; et se le parole parleranno di modestia, nella compositione si procederà
modestamente, et non infuriato; et
d’alegrezza, non si facci la musica mesta;
e se di mestitia, non si componga allegra; et quando saranno d’asprezza, non
si farà dolce; et quando soave, non s’accompagni in altro modo, perché pareranno difformi dal suo concetto, et
quando di velocità, non sarà pigro et
lento: et quando di star fermo, non si
correrà; et quando dimostreranno di andare insieme, si farà che tutte le parti si
congiugneranno […].
Li compositori moderni hanno per costume (il che non è da biasimare) che
quando le parole dinotano cose gravi,
basse, profunde, discesa, timore, pianti,
lagrime et altre cose simili, fanno contiNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PERCORSI DIDATTICI
nuare alquanto le loro modulationi nel
grave, e quando significano altezza, acutezza, ascesa, allegrezza, riso et altre simili cose, le fanno modulare nell’acuto.
Un esempio lo può fornire l’attacco di
un celeberrimo sonetto petrarchesco,
«Solo e pensoso i più deserti campi / vo
misurando a passi tardi e lenti», intonato da un non meno famoso compositore come Luca Marenzio e compreso
nel suo Nono libro di madrigali a cinque
voci (1599). Mentre 4 voci ingaggiano
un serrato contrappunto presentando
sfasate, una dopo l’altra, un medesimo
motivo che discende vivacemente per
salti, la voce superiore sale sistematicamente di semitono in semitono, con
implacabile e uniforme lentezza: sola,
appunto, e «misurando a passi tardi e
lenti» tutto lo spazio sonoro di sua
competenza.
Regole ed eccezioni
Un campo fecondo di significazione era
quello della dialettica tra regole ed eccezioni, tra normale aspettativa e inopinato disorientamento introdotto per
dare risalto a un punto nevralgico della
poesia. Lo dice bene Adriano Banchieri
(Conclusioni nel suono dell’organo, Bologna 1609), rilevando come il rispetto
delle leggi compositive fosse opportuno
per la musica strumentale, ma meno
obbligante in quella vocale, nel caso il
testo lo suggerisse: «Insomma la musica
deve osservarsi con gli buoni precetti
senza parole, come sono toccate, recercari e quando le parole nelle compositioni non ricerchino inosservanza, la
quale inosservanza devesi usare per
imitare la parola».
Certo, così si socchiudeva la porta all’arbitrio e alla discrezionalità individuale. In pieno Cinquecento, per esempio, Cipriano de Rore fu maestro di
deroghe prontamente ricondotte alla
norma. Ma negli anni successivi, i madrigali del fanatico musicofilo Carlo
Gesualdo principe di Venosa sono un
accumulo di eccezioni che offuscano
la regola, un piatto così speziato che il
peperoncino tende a coprire il sapore
della vivanda. Per altro verso, ciò che
era raffinata escogitazione per qualcuno (Claudio Monteverdi e la cerchia
della corte gonzaghesca per cui lavorava, tra Cinque e Seicento), ad altri
suonava come intollerabile abuso (il
compositore e teorico bolognese padre
Giovanni Maria Artusi, che attaccò
pubblicamente quelle che considerava
astruserie).
L’Italia musicalmente unita,
potenza artistica europea
lungo tutta la Penisola. Alla Venezia di
Adriano Willaert, Rore, Monteverdi,
possono fare da contrappeso geografico i reami spagnoli di Napoli (con
Jean de Macque, Rocco Rodio, Scipione
Dentice, Montella, Gesualdo) e della Sicilia (Gian Domenico Martoretta, Pietro Vinci, Antonio Il Verso, Pietro Maria Marsolo). In mezzo, le corti degli
Este a Ferrara (con Luzzasco Luzzaschi)
e dei Gonzaga a Mantova (con Wert e
Monteverdi), la Roma delle corti nobiliari e cardinalizie (con Marenzio): per
non dire di decine di altri centri urbani, grandi e piccoli. Per la prima
volta, un genere di musica vocale in lingua italiana unificava idealmente tutta
la Penisola.
Ma il madrigale è stato anche il primo
genere di musica italiana a godere di
ampia rinomanza europea e avere una
sua precisa identificabilità: il punto
d’avvio di un primato che poi l’opera in
musica rafforzerà e consoliderà su scala
ancora maggiore. Forse cominciò lì a
prender corpo lo stereotipo dell’italiano
sentimentale: prima che melodrammatico, nella raffinata estroversione dell’espressività madrigalesca.
Paolo Fabbri
Università di Ferrara
Diffuso in aree sociali e su livelli plurimi, nel giro di pochi decennî il fenomeno “madrigale” s’irradiò in pratica
BIBLIOGRAFIA
L. Bianconi, Il Cinquecento e il Seicento, in Letteratura italiana, VI (Teatro, musica, tradizione dei classici), Einaudi, Torino 1986, pp. 319363.
L. Bianconi, Il Seicento [1982], Storia della musica, IV, EDT, Torino 19912.
A. Einstein, The Italian Madrigal, Princeton University Press, Princeton 1949.
P. Fabbri - M.C. Bertieri (a cura di), Musica e società. Dall’Alto Medioevo al 1640, McGraw-Hill, Milano 2012 (Capitoli V e VII).
P. Fabbri (a cura di), Il madrigale tra Cinque e Seicento, Il Mulino, Bologna 1988.
I. Fenlon - J. Haar, L’invenzione del madrigale italiano, Einaudi, Torino 1992.
J. Kerman, The Elizabethan Madrigal, American Musicological Society, New York 1962.
E. Vogel - A. Einstein - F. Lesure - C. Sartori, Bibliografia della musica italiana vocale profana pubblicata dal 1500 al 1700, StaderiniMinkoff, Pomezia-Genève 1977.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
57
PERCORSI DIDATTICI
Fra musica, letteratura e immagine
L’oratorio musicale attraverso i “trionfi” di Giuditta
Maria Rosa De Luca
L’
oratorio musicale, genere piuttosto trascurato dai manuali
scolastici, consente di affrontare
in prospettiva multidisciplinare argomenti cruciali di storia culturale.
Derivato da pratiche devozionali e musicali del primo Seicento, l’oratorio (dal
latino oratorium, luogo destinato alla
preghiera) è un piccolo dramma per
musica1, un’azione di contenuto edificante, su soggetto morale, biblico o
agiografico, condotta in dialogo tra pochi personaggi (mediamente da tre a
cinque), in prosa latina o in versi italiani,
senza rappresentazione scenica. Dialoghi e monologhi sono realizzati in musica con recitativi e arie: nell’oratorio
italiano, i recitativi intonano sillabicamente le parti in versi sciolti (endecasillabi e settenari senza schema di rime);
le arie espandono in un canto più florido brevi strofe tessute in versi lirici.
Ci occuperemo qui di un oratorio di soggetto biblico. La Bibbia – il libro per eccellenza – ha offerto al pensiero occidentale moderno un copioso serbatoio di
narrazioni simboliche in dimensione storico-religiosa, evocando temi universali
(quali la lotta fra il Bene e il Male) profondamente incisi nella mentalità, nella
cultura e nell’arte europee. Le varie forme
di divulgazione dei contenuti biblici, nei
diversi linguaggi artistici, permettono
d’impostare un percorso didattico che
raccordi la storia della musica con la storia dell’arte e la storia della letteratura.
Il percorso qui proposto verte sulla storia di Giuditta, tratta dall’omonimo li-
58
Michelangelo
Merisi, detto il
Caravaggio,
Giuditta e
Oloferne (ca.
1599),
Roma, Galleria
nazionale
d’Arte antica.
bro della Bibbia2: la felice impresa della
bella ebrea che per salvare il suo popolo affronta il terribile Oloferne, sgozzandolo nel sonno, rappresenta un vero
e proprio “mito”, che per la sua esemplarità ha fornito spunti poetici e drammatico-musicali a numerosi oratorii; è
anche un soggetto frequente nelle arti
figurative. In quanto contenuto «esteticamente ed epistemologicamente rilevante», ben si adatta al contesto educativo: radicato a fondo nella tradizione
culturale, consente all’allievo la costruzione del sapere attraverso una rete di
conoscenze e la partecipazione attiva
alla cultura in cui vive.
figurazione dell’acme della vicenda: la
cruenta decapitazione di Oloferne da
parte di Giuditta, accompagnata dalla
fida ancella.
Si sintetizza la trama: il Libro di Giuditta, databile al sec. II a.C., narra l’assedio di Betulia, città della Giudea, da
parte dell’esercito di Oloferne, luogotenente del re assiro, e il salvataggio del
popolo giudaico per mano di Giuditta.
È un racconto “esemplare” in forma di
breve romanzo; già il nome ‘Giuditta’
richiama la radice della parola ‘giudeo’,
ossia israelita: Giuditta è per eccellenza
“donna della Giudea”. L’anonimo estensore delinea i profili dei due personaggi
principali: Oloferne è il conquistatore,
La storia di Giuditta
Il primo passo sta nell’introdurre i ragazzi al racconto biblico. Tele famose –
qui una del Caravaggio e una di Artemisia Gentileschi – propongono la raf-
1. L. Bianconi, Il Seicento, EDT, Torino 1991, p. 142.
2. Cfr. La Bibbia TOB. Nuova versione CEI, Elledici, Leumann-Torino 2009.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
l’oppressore, Giuditta una giovane vedova, bella, valorosa, timorata di Dio.
Nel racconto biblico, e dunque nell’iconografia cristiana, Giuditta è accompagnata da un’ancella, che la affianca prima, durante e dopo l’impresa,
raccoglie in un sacco il capo reciso di
Oloferne, e scorta il ritorno della protagonista a Betulia.
Illustrata la vicenda, converrà alludere
alla cosiddetta esegesi figurale delle Sacre Scritture, in uso sin dai primordi del
Cristianesimo: l’Antico Testamento veniva letto come prefigurazione del
Nuovo Testamento; in senso figurale,
per esempio, la favola di Abramo e
Isacco anticipa e spiega il sacrificio di
Cristo, Figlio di Dio. In quest’ottica,
Giuditta è un typus Mariae, simboleggia
cioè la Madre di Cristo, esaltata nella
sua supremazia sul Male. Perciò Giuditta – come prima di lei Ester, Debora,
Giaele – spiccò nell’insegnamento della
dottrina cristiana.
L’oratorio musicale
Anche l’oratorio in musica, nel Seicento
cattolico, offre spesso una lettura figurale
delle storie bibliche, in forme e stili congeniali ai valori della società italiana
coeva. Se da un lato il genere discende
alla lontana dalle pratiche pie favorite
dal Concilio di Trento (1545-1563), dall’altro il suo sviluppo nel Seicento è legato all’evoluzione del contesto sociale:
da esercizio devoto in un luogo di preghiera divenne evento mondano atteso
da un pubblico d’élite. Specialmente in
Quaresima, a teatri d’opera chiusi, l’oratorio fu spesso considerato un corrispettivo spirituale del melodramma,
condividendone stile e struttura. L’oratorio ha nondimeno una drammaturgia
particolare: privo di costumi, scene e
gesti, esso comunica l’azione solo con le
parole e col canto. La storia viene narrata dai personaggi, i libretti abbondano
dunque di passi illustrativi e descrittivi,
giacché il racconto deve stimolare l’immaginazione di chi ascolta, la facoltà di
“vedere” con gli occhi della mente –
come se avvenisse lì per lì – una scena
che in realtà è riferita a parole.
Due donne e un guerriero:
la “Giuditta” di Scarlatti
Dal gran numero di “Giuditte” del Seicento scegliamo quella composta intorno al 1697 da Alessandro Scarlatti
(1660-1725), su libretto italiano di Antonio Ottoboni (1646-1720), nobile veneziano, nipote di papa Alessandro VIII
(1689-1691) e genitore d’un cardinale,
Pietro Ottoboni, che fu mecenate fastoso (1667-1740). Il compositore palermitano scrisse più di trenta oratorii
(quasi tutti in volgare), prevalentemente a Roma, ossia nella città che ha
dato origine al genere e l’ha assiduamente coltivato, in confraternite di laici,
Artemisia Gentileschi, Giuditta e
Oloferne (1625-30), Napoli, nobili e patrizi che promuovevano eseMuseo di Capodimonte. cuzioni in chiese, cappelle, palazzi.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
Ai tre personaggi del racconto biblico
(Giuditta, Nutrice e Oloferne) l’oratorio
scarlattiano accosta un organico costituito da archi e basso continuo. Il libretto
è suddiviso in due parti: nella prima,
l’azione drammatica verte sull’arrivo di
Giuditta e della nutrice nel campo
d’Oloferne; nella seconda, sulla scena di
seduzione e uccisione del tiranno.
Trattiamo qui due brani della prima
parte, in due momenti di didattica dell’ascolto3: il duetto Giuditta-Nutrice
«Deh, rifletti al gran cimento», e l’aria
di Oloferne «Togliti da quest’occhi».
L’ascolto critico e riflessivo dei due
brani, preceduto dalla lettura del testo
poetico, condurrà gli studenti a impossessarsi di due momenti importanti
nell’azione: l’attimo in cui le due donne
stanno per varcare il recinto del campo
nemico; e la reazione di Oloferne nel
vedere Giuditta.
(1) Giuditta-Nutrice: Duetto «Deh, rifletti al gran cimento»
La Nutrice esorta Giuditta a ponderare i
rischi dell’audace impresa:
Nutrice: Deh rifletti al gran cimento.
Giuditta: Vien dal Ciel ciò ch’opro e
tento.
Nutrice: Danna il Ciel l’arti profane.
Giuditta: Non è soggetto il Cielo a leggi
umane.
Il dialoghetto a botta e risposta esplicita
il contrasto di sentimenti e atteggiamenti: apprensione nella Nutrice, che
esorta alla prudenza, e sicumera in Giuditta, conscia di agire per volontà divina. Abbiamo un dualismo di affetti
(oggi diremmo “stati d’animo”) che
culmina nel verso «Danna il Ciel l’arti
profane»: il contrasto tra la minacciosa
sentenza della Nutrice e lo slancio fideistico di Giuditta si traduce, in senso
3. Sulla Didattica dell’ascolto, cfr. gli studi di G. La Face in
bibliografia.
59
PERCORSI DIDATTICI
simbolico, nell’opposizione fra legge
dell’uomo e legge divina. Si osservi l’iterazione della parola ciel(o), pronunciata
da entrambe le donne ma in modo diverso, in funzione oppositiva.
In musica, il contrasto si coglie nel diverso andamento della linea melodica.
L’apprensione della Nutrice si manifesta
in una melodia sillabica che procede
dapprima per gradi congiunti – il testo
poetico incita alla riflessione e alla cautela –, indi per salti discendenti: la parola rifletti, ripetuta per due volte, conduce a una chiusa (cadenza) su «al gran
cimento». La risposta di Giuditta è melodicamente dissimile: squillante, vibrante, denota determinazione nel personaggio. La melodia culmina in un
salto baldanzoso su ciel, sottolineato dal
vocalizzo che prolunga la sillaba.
Sull’ammonimento «Danna il Ciel» la
Nutrice incalza Giuditta: le fioriture vocali danno risalto, oltre che a ciel, anche
ad arti, alludendo simbolicamente alla
seduzione che promana dalle opere dell’uomo (e del demonio). Per converso,
la replica di Giuditta è franca, su note
nettamente scandite; per quanto la Nutrice la inciti a riflettere, nulla distoglie
la protagonista dal suo proposito.
(2) Oloferne: aria «Togliti da quest’occhi»
Al cospetto delle due donne, il violento
Oloferne, abbagliato dalla bellezza della
giudea, cade in un profondo turbamento interiore:
Oloferne: Togliti da quest’occhi
per non ferirmi il cor,
bellezza infida.
Dei dardi che tu scocchi
si ride il mio valor,
ma non si fida.
Il poeta rappresenta l’inquietudine del
personaggio mediante un contrasto di
affetti e atteggiamenti: al comando imperioso di Oloferne, «Tògliti da quest’occhi», si contrappongono i versi se-
60
guenti, «per non ferirmi il cor, /bellezza
infida». Alle frecciate dell’amore (dardi)
si oppone il valor del guerriero. Il carattere bellicoso confligge con la vulnerabilità dell’animo alla seduzione sensuale.
Nella prima parte dell’aria (da «Tògliti
da quest’occhi» a «bellezza infida»),
Scarlatti scolpisce il contegno di Oloferne mediante una melodia dalla scansione baldanzosa. L’indole guerriera è
esplicitata nel motto iniziale, quell’imperativo Tògliti tradotto in musica con
un “gesto” in battere, l’attacco su una
nota acuta, il ritmo puntato e il ribattuto. Il canto procede sillabico e ritmato anche sui versi «per non ferirmi il
cor, / bellezza infida».
La seconda parte dell’aria (da «Dei dardi
che tu scocchi» a «ma non fida») mantiene alta l’enfasi declamatoria: il motivo
dei dardi gira e rigira intorno a una nota
(Re3); l’iterazione su si ride effigia l’inquietudine di Oloferne; il risalto conferito alla congiunzione avversativa ma –
una nota più lunga, seguita da pausa –
tiene sospeso il discorso musicale; dopo
la cesura, una serie discendente di note
conduce alla clausola cadenzale (ossia
alla formula melodico-armonica che
chiude la frase), esprimendo l’intimo
cedimento di Oloferne di fronte a Giuditta.
Ma la ripresa della prima parte ripristina e assevera il tono sprezzante del
condottiero.
In sede di rielaborazione andrà evidenziato come il conflitto drammatico si
colga negli affetti musicalmente rappresentati: al compositore spettava in
quest’epoca il compito di “muovere” attraverso la musica gli animi degli ascoltatori suscitando affetti consoni al significato verbale. Il tono squillante della
voce di soprano e la prevalenza dello
stile fiorito, che enfatizza determinate
parole, conferiscono a Giuditta una
certa qual alterigia rispetto all’atteggia-
mento ponderato della Nutrice (nel registro del contralto, più grave in ragione dell’età e della posizione sociale
subalterna); a loro volta, le due donne
costituiscono un ‘polo’ drammatico indissolubile contrapposto alla boria brutale del guerriero Oloferne.
Un’eroina e il suo popolo:
la “Juditha” di Vivaldi
Se nella pittura del Seicento prevale –
ed è una scelta che presuppone il realismo radicale del Caravaggio – lo spettacolo in atto della decapitazione, nel quale
sovente l’ancella funge da comprimario,
un modello iconografico prediletto nel
Settecento mostra Giuditta che esibisce
la testa di Oloferne nel trionfale ritorno
a Betulia. Nell’affresco di Luca Giordano
nella Certosa di S. Martino a Napoli,
l’eroina, raffigurata in posizione di
spicco e contornata da quattro donne
(la figlia di Faraone, Ruth, Jaele, la vedova di Sarepta), assurge ad allegoria del
Bene che sconfigge il Male. A questo dipinto si rifecero molti pittori nel trattare
il soggetto di “Giuditta che mostra al
popolo la testa di Oloferne” (Paolo de
Matteis, Francesco Solimena, Giambattista Tiepolo).
Da questa immagine allegorico-trionfale può prendere avvio un’altra articolazione del percorso didattico, attraverso
l’accostamento alla Juditha triumphans
de victa Olofernis barbarie, composta nel
1716 da Antonio Vivaldi (1678-1741)
su libretto latino di Giacomo Cassetti.
Universalmente noto per i suoi concerti,
Vivaldi scrisse quattro oratorii, due latini e due volgari, durante il suo servizio
come «maestro de’ concerti» all’Ospedale della Pietà di Venezia (1714-1722),
un orfanatrofio femminile specializzato
in esecuzioni musicali.
Spesso l’oratorio latino ha una parte di
natura epico-narrativa, il cosiddetto
“Testo”, che parafrasa la narrazione biNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PERCORSI DIDATTICI
blica. Nella Juditha di Cassetti e Vivaldi, struttura e stile del libretto sono
però del tutto simili a quelli di un oratorio in volgare in due parti: la vicenda
è resa mediante il dialogo diretto tra cinque personaggi (Giuditta, l’ancella
Abra, Oloferne, il servo Vagans, il sacerdote Ozias). Cassetti avverte però che
alcuni versi vanno interpretati in chiave allegorica: Giuditta rappresenta Venezia, la fida ancella simboleggia la Fede, Oloferne è il Sultano. Conviene
spiegare perché.
Il contesto storico è quello del decennale conflitto veneto-ottomano: nel 1716
la flotta veneta si prende una rivincita sui turchi conquistando l’isola di
Corfù; nello stesso anno Eugenio di Savoia, a capo della Santa Alleanza tra
Venezia, Polonia e Austria, batte l’esercito ottomano a Petrovaradin. A Venezia i festeggiamenti per le due vittorie prevedono un momento celebrativo,
situato in uno dei quattro ospedali grandi della città (Derelitti, Incurabili,
Mendicanti, Pietà). Sia il genere sia la forma dell’oratorio si attagliavano a un
“saggio da collegio”; fu infatti un’occasione di spicco per le figlie di coro della
Pietà: sostenuto da una grande orchestra, a cinque riprese il coro femminile
rappresentò il popolo inneggiante, vero interlocutore dell’eroina della fede
e della donna sensibile agli affetti, sostenuta da Dio e dalla sua gente.
In una situazione didattica, un buon esempio su cui accertare il “senso” dell’opera lo potrà offrire il coro d’apertura, «Arma, caedes, vindictae, furores»:
dal ritmo impellente, propulsivo, imprime un bel risalto sonoro al significato dei versi, incitamento all’azione indirizzato dal popolo di Betulia alla
bella giudea; per converso, il suggello sul trionfo lo porrà il solenne coro conclusivo, «Salve, invicta Juditha formosa».
Luca Giordano, Trionfo di Giuditta
(1703-04), Napoli,
Certosa di San Martino.
Maria Rosa De Luca
Università di Catania
BIBLIOGRAFIA
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piccolo-glossario-di-drammaturgia-musicale).
A. Bonora, Giuditta, in G. Canfora - P. Rossano - S. Zedda (a cura di), Il messaggio della salvezza. Corso completo di studi biblici, Elledici, Leumann-Torino 1990, vol. V, pp. 268-287.
K.R. Brine - E. Ciletti - H. Lähnemann (a cura di), The Sword of Judith. Judith Studies Across Disciplines, Open Book, Cambridge 2010.
N. Dubowy, Le due ‘Giuditte’ di Alessandro Scarlatti: due diverse concezioni dell’oratorio, in P. Besutti (a cura di), L’oratorio musicale italiano e i suoi contesti (secc. XVII-XVIII), Olschki, Firenze 2002, pp. 259-288.
G. La Face, Le pedate di Pierrot. Comprensione musicale e didattica dell’ascolto, in F. Comploi (a cura di), Musikalische Bildung.
Erfahrungen und Reflexionen / Educazione musicale. Esperienze e riflessioni, Weger, Bressanone/Brixen 2005, pp. 40-60.
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H.E. Smither, L’oratorio barocco. Italia, Vienna, Parigi, JacaBook, Milano 1986.
M. Talbot, The Sacred Vocal Music of Antonio Vivaldi, Olschki, Firenze 1995.
DISCOGRAFIA
A. Scarlatti, La Giuditta. Oratorio a 3 voci, CD (Alessandro Stradella Consort; dir. E. Velardi, Bongiovanni, GB 2197-2).
A. Vivaldi, Juditha triumphans, RV 644, CD (Kammerorchester Berlin; dir. V. Negri, Philips, 473 898-2).
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
61
PERCORSI DIDATTICI
Chi ben comincia…
Incipit della narrativa italiana otto-novecentesca (2)
Rossana Cavaliere
IL PERCORSO, INIZIATO SU NS N. 3 (NOVEMBRE 2013), PROSEGUE CON L’ANALISI DEGLI INCIPIT DI TESTI NARRATIVI DEL
NOVECENTO: IL FU MATTIA PASCAL DI PIRANDELLO, LA COSCIENZA DI ZENO DI SVEVO, MA CHE COS’È QUEST’AMORE DI
CAMPANILE, GLI INDIFFERENTI DI MORAVIA, QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DE VIA MERULANA DI GADDA, L’ISOLA DI ARTURO
DELLA MORANTE, IL GATTOPARDO DI TOMASI DI LAMPEDUSA E, INFINE, IL GIORNO DELLA CIVETTA DI SCIASCIA.
Novecento
Arriviamo al nuovo secolo, carico di
novità e di contraddizioni sempre più
laceranti, e ci imbattiamo in innovative tecniche di scrittura (alcune delle
quali provocatoriamente eversive, come
quelle futuriste, volte a scardinare ogni
ordine costituito, a partire dalla sintassi), altri motivi, intrecciati a quelli
tradizionali, rinnovate maniere di svolgere il “discorso”. Non è questa la sede
per contestualizzare le opere oggetto
della nostra peculiare indagine, ma va
quantomeno ricordata en passant la ricaduta che i nuovi indirizzi di pensiero,
la psicoanalisi, l’avvento del cinema, la
deflagrazione delle vicende belliche e
della “modernità”, gli esiti di una tarda
industrializzazione e una nuova consapevolezza femminile avranno anche
sulla letteratura italiana. La forza dirompente di tante idee diverse e di
eventi eccezionali spesso si coniugherà
con le specificità degli autori, dando
humus a un grande rigoglio anche nel
campo della narrativa.
Problemi di identità
Una delle poche cose, anzi forse la sola
ch’io sapessi di certo era questa: che mi
chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de’
62
Fotogramma dal film Il fu Mattia Pascal di Marcel L’Herbier (1926).
miei amici o conoscenti dimostrava
d’aver perduto il senno fino al punto di
venire da me per qualche consiglio o
suggerimento, mi stringevo nelle spalle,
socchiudevo gli occhi e gli rispondevo:
- Io mi chiamo Mattia Pascal.
- Grazie, caro. Questo lo so.
- E ti par poco?
Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa
volesse dire il non sapere neppur questo,
il non poter più rispondere, cioè, come
prima, all’occorrenza:
- Io mi chiamo Mattia Pascal.
È il 1904 quando, pubblicato prima a
puntate sulla rivista «Nuova Antolo-
gia», poi in volume, esplode il primo
grande successo (di pubblico, essendo la
critica divisa) di Pirandello, Il fu Mattia
Pascal1, come a parziale compensazione,
proprio in un anno in cui la vita lo
1. Prima edizione: L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Milano
Garzanti, 1904. Numerose sono le trasposizioni cinematografiche del capolavoro di Pirandello: dopo la più famosa, quella di Marcel L’Herbier del 1926, che può
vantare l’entusiastico favore dello stesso autore del romanzo, vanno menzionate almeno quella del 1937 del
francese Pierre Chenal (titolo originale: L’homme de nulle
part), che ebbe anche una versione in italiano, e Le due
vite di Mattia Pascal, di Mario Monicelli, del 1985, ambientato nella seconda metà del ’900 e interpretato da
Marcello Mastroianni.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PERCORSI DIDATTICI
aveva assediato con attacchi concentrici
(il crollo economico, la semiparalisi e le
manifestazioni di follia della moglie).
L’incipit è il primo delle due premesse
(artificio alquanto insolito): l’una introduttiva, in cui l’io narrante allude al
suo caso «tanto diverso e strano» che
forse è «tale da poter servire d’ammaestramento a qualche curioso lettore»,
se mai un lettore dovesse capitare nella
biblioteca dove Mattia lavora (più che
altro ingaggiando strenue battaglie coi
topi); la seconda è giustificativa («filosofica, a mo’ di scusa»), perché, se pure
alcune delle cose che racconterà non
gli «faranno molto onore», egli si trova
«in una condizione così eccezionale, che
[può] considerar[s]i come già fuori
della vita, e dunque senza obblighi e
senza scrupoli di sorta». Un attacco fulminante questo di Pirandello, di quelli
che lasciano stupefatti, sconcertati, che
costringono ad andare avanti per condividere la storia; e capirla. Il narratore
omodiegetico ricorre a un espediente
“nuovo”, almeno nella nostra carrellata:
una sequenza mista, in cui compaiono
anche battute dialogiche. Il dialogo è,
tuttavia, fittizio, strumentale ad avvicinare alla portata del lettore anche poco
avvezzo ai cerebralismi di sottili ragionamenti filosofici, con l’immediatezza
del discorso diretto, mimetico del parlato, la sconvolgente verità che sta per
rivelare: il problema dell’identità nella
nostra complessa e ipocrita società e
della sua perdita. D’altra parte egli mostra di sapere che di libri se ne leggono
ben pochi (e, verrebbe da aggiungere,
parafrasando Manzoni, «o almeno così
succedeva nella sua Miragno»), tant’è
che, nella finzione narrativa, Mattia diffida sia di poter arrivare in fondo alla
sua fatica autobiografica, sia che qualcuno la legga (ma se dovesse succedere,
pone il vincolo che ciò non accada
prima di cinquant’anni dalla sua «terza,
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
ultima e definitiva morte»), mentre
nella pratica di scrittura il narratore-autore si premura di agevolare la comprensione al suo lettore. Inutile precisare che, malgrado le intenzioni di
rendere massimamente fruibile il testo,
permane qualche elemento di complessità, insito alla poetica stessa di Pirandello, il quale si avvale di una struttura doppia per il suo romanzo
rivoluzionario che rompe col passato e
che troverà al cinema una sintesi mirabile nel film muto di Marcel L’Herbier
del 1926 e nel suo interprete, Ivan Mosjoukine: la storia dell’insolito caso si
dipana in flash back all’interno di una
prima “cornice” circolare, ambientata
nella biblioteca, laddove inizia e si conclude il racconto in un piano temporale
immaginato come “in presa diretta”, in
cui cioè il narratore dà avvio alla stesura
delle sue memorie e le chiude, dopo i
«circa sei mesi» che gli sono occorsi per
narrare tutta la storia. L’incipit analizzato, pertanto, si colloca appunto nel
momento dell’esordio di scrittore per
l’io narrante, non a caso chiamato
“Mattia”, “matto”, come l’autore stesso
suggerisce, attraverso una battuta posta
sulla bocca del fratello del protagonista,
e “Pascal”, cognome che, evocando la
Pasqua, allude alla “resurrezione” e rimanda a filosofi francesi (la critica non
concorda sull’identificazione, optando
o per il celebre Blaise Pascal o per il
meno noto Théophyle Pascal, le cui
opere, tuttavia, figurano nel romanzo,
nella biblioteca di Anselmo Paleari, il
personaggio esperto di occultismo). Il
tono è pacato, quasi di lucida follia, ma
è anche confidenziale, sì da indurre all’immedesimazione e al dubbio che la
storia narrata sia talmente assurda da
poter perfino essere “vera”, perché «la
vita, per tutte le sfacciate assurdità, piccole e grandi, di cui beatamente è piena,
ha l’inestimabile privilegio di poter fare
a meno di quella stupidissima verosimiglianza, a cui l’arte crede suo dovere
obbedire»2, e che, in quanto “vera”,
possa capitare a ognuno. Il significato
della comunicazione di questo incipit,
insomma, lascia talmente frastornati e
increduli che la sua ineguagliabile capacità catturante consiste appunto in
quest’effetto-sorpresa e nel conseguente
stimolo per il lettore a verificare “coi
suoi occhi” la realizzazione, nel prosieguo, dell’asserto d’apertura.
Labirinti dell’animo
Io sono il dottore di cui in questa novella
si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psico-analisi s’intende, sa
dove piazzare l’antipatia che il paziente
mi dedica.
È il primo dei due incipit de La coscienza di Zeno3, che, come la precedente opera firmata dal grande drammaturgo e scrittore agrigentino, si
complica di un duplice inizio, una prefazione e un preambolo, i quali, tuttavia, non segnalano tanto la progressione del tempo della storia all’interno
della cornice, quanto il raddoppiamento del narratore (il dottore e il suo
paziente che ha interrotto la cura), per
quanto il protagonista sia il secondo, o
piuttosto la sua coscienza:
Vedere la mia infanzia? Più di dieci lustri
me ne separano e i miei occhi presbiti
forse potrebbero arrivarci se la luce che
ancora ne riverbera non fosse tagliata da
ostacoli d’ogni genere, vere alte montagne: i miei anni e qualche mia ora.
2. Così si legge nell’«Avvertenza sugli scrupoli della fantasia», che Pirandello scrive in appendice a Il fu Mattia
Pascal, in un’edizione successiva (quella fiorentina di
Bemporad del 1921), chiarendo la sua teoria riguardo al
rapporto che intercorre tra verità e verosimiglianza.
3. Prima edizione: I. Svevo, La coscienza di Zeno, Bologna,
Cappelli, 1923. È del 1988 la seguitissima versione filmica per la RAI di Sandro Bolchi, con Jonny Dorelli nei
panni di Zeno e Ottavia Piccolo in quelli di sua moglie
Augusta.
63
PERCORSI DIDATTICI
Il dottore mi raccomandò di non ostinarmi a guardare tanto lontano. Anche
le cose recenti sono preziose per essi e
sopra tutto le immaginazioni e i sogni
della notte prima.
Così esordisce Zeno Cosini, l’inetto per
antonomasia, antieroe abulico che
scrive un memoriale non certo con intenti civili, per testimoniare un’italianità conquistata o altro che possa servire come exemplum, ma solo perché la
scrittura autobiografica rappresenta un
metodo di cura impostogli dal suo medico4, convinto assertore delle teorie
freudiane in base alle quali i comportamenti degli uomini scaturiscono da
complessi psichici stratificatisi già dall’infanzia nell’inconscio, di cui i sogni
sono spie rivelatrici. L’io narrante ha
più di cinquant’anni ed è affetto da una
malattia insinuante, un malessere misto
a inettitudine perenne, che sembra indurlo a vivere solo attraverso la ricostruzione della sua vita, le cui tessere la
memoria prova a ricomporre, benché
nemmeno l’oggettivazione della scrit-
tura sembri riuscire a fare ordine nel
guazzabuglio di quella coscienza ambivalente, incerta, tesa a trovare giustificazioni per se stessa, mentendo e mentendosi. È l’irruzione delle teorie
psicoanalitiche nella nostra narrativa,
dopo la ricerca sull’identità (e insieme
con questa) condotta da Pirandello:
l’incipit rivela come la nuova disciplina
venga utilizzata, per la prima volta,
come movente della scrittura e sostegno
dell’intero ingranaggio narrativo, mentre il sogno e la sua interpretazione costituiscono l’asse portante di tutta l’impalcatura di pensiero. Il cinema
internazionale divulgherà la psicoanalisi nel 1929, con Un chien andalou di
Luis Buñuel e, soprattutto, con Alfred
Hitchcock e il suo Spellbound (Io ti salverò) del 1945, ma la letteratura lo precede anche in Italia, per merito dell’antesignano Italo Svevo, che all’analisi
freudiana del mondo onirico aveva dedicato studi e abilità traduttive. La simbologia contenuta nel secondo incipit è
evidente e, se può risultare più scoperto
l’intento dottrinale del narratore verso
il lettore, pur tuttavia costui è sollecitato
a percorrere questo moderno sentiero
di conoscenza attraverso la prosecuzione della lettura di una storia insolita,
che non segue un ordine cronologico
progressivo e vettoriale, né si avvale di
accurate analessi da cui si ricavi senza
sforzo la corretta successione degli
eventi, bensì procede per nuclei narrativi, mescolando i piani temporali: il
vizio del fumo, da cui Zeno non riesce
a liberarsi, la morte del padre con cui
confliggeva, il matrimonio, le relazioni
(di tipo amoroso e non, tra cui quella
sofferta con il cognato), la psicoanalisi.
Il lettore alla fine dubiterà di quanto
l’io narrante-Zeno sembra gli abbia rivelato di sé e forse avvertirà sapore di
inganno, ma non si può negare che, seguendo le prime “confessioni” dell’incipit (i limiti di una allegorica presbiopia,
un passato lontano alla cui ricomposizione si oppongono ostacoli grandi
come montagne, l’apparente sudditanza al medico curante, le cui parole
della prefazione, tuttavia, indicano rapporti inquinati da veleni e la rottura finale) sia fortemente attratto dalla possibilità di scandagliare i meandri
dell’animo di quell’io che ha affidato
alla carta il suo mondo interiore, la sua
esistenza, e si disponga, analizzando il
tortuoso percorso di Zeno, a provare a
scoprire qualcosa di sé.
L’assurdo italiano
Ed ecco ora un incipit singolare che potrebbe disorientare nell’individuazione
dell’opera di appartenenza, se i segnali
inconfondibili dello stile non indirizzassero verso un autore che resta tuttora
un unicum nel panorama italiano:
Fotogramma dal film Spellbound (Io ti salverò) di Alfred Hitchcock (1945).
64
4. Nella premessa il dottore già preannuncia di aver «indotto il [suo] paziente a scrivere la sua autobiografia» a
scopo terapeutico, sia pure sperimentale («gli studiosi
di psico-analisi arricceranno il naso a tanta novità»).
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PERCORSI DIDATTICI
Alle 7 del mattino Carl’Alberto entrò
nella stazione di Roma e gridò: «Facchino!»
Un facchino si voltò risentito.
«Dice a me?» fece. «Facchino sarà lei».
È il 1927 quando il giovane editore Enrico Dall’Oglio riprende un romanzo5
pubblicato a puntate due anni prima su
un giornale romano, «Il Sereno», e ne
stampa duemila copie che vanno a ruba,
quindi ne allestisce una ristampa a pochi giorni di distanza e poi ancora altre,
per soddisfare la grande richiesta di un
pubblico galvanizzato (il favore della critica specializzata, dopo Silvio D’Amico e
Pirandello, convinti estimatori dell’autore, arriverà con nomi illustri, tra cui
Oreste Del Buono, Geno Pampaloni,
Umberto Eco, Enzo Siciliano). Il racconto si intitola Ma che cos’è quest’amore?6 (tradotto in francese nel più
esplicito La Gifle du Kilomètre 40) e reca
la firma di Achille Campanile, scrittore,
commediografo (e personaggio)7 eccentrico e dissacrante, che già in questo
primo successo editoriale fa sfoggio della
sua copiosa vena umoristica, declinando
la commedia brillante alla Feydeau in
modo del tutto personalizzato.
L’attacco, come si vede, condotto all’apparenza in ossequio alla regola delle cinque W (sebbene le limiti a quattro), secondo la lezione del giornalismo, ha un
effetto straniante, in virtù del dialogo
surreale e della reazione imprevedibile
del facchino. Andando avanti nella storia, Carl’Alberto si imbatterà, nello
stesso treno sul quale viaggia, in un altro Carl’Alberto e poi sarà circondato
dai Carl’Alberto, ma il nucleo della vicenda ruota intorno a uno schiaffo assestato nell’oscurità da un’avvenente
viaggiatrice, concupita dai compagni di
scompartimento: da un episodio di supposto becero gallismo scaturisce un carosello di equivoci esilaranti, ottenuti
non tanto dalla situazione, quanto dal
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
Achille Campanile (1899-1977).
gioco linguistico (per lo più grazie al ricorso al significato letterale delle parole), dall’assurdo verbale elevato a sistema, che crea una sorta di cortocircuito nella comunicazione. Come afferma Carlo Bo, Campanile è uno dei
rarissimi inventori di un genere, con
qualche affinità con Pirandello, per gli
effetti paradossali della consequenzialità
di una logica stringente, ma con un’originalità tutta sua nell’opera non già di
demolizione (di matrice futurista) delle
convenzioni sociali, di cui la parola è
veicolo primario, bensì di ridicolizzazione delle stesse e, in primis, del linguaggio, sottoposto a operazioni di tipo
metalinguistico imperniato su di una
ineccepibile semantica. L’incipit prescelto ne è una chiara esemplificazione
e il lettore, un po’ spiazzato, molto incuriosito, si lascerà attrarre dalle possibilità di divertimento e di riso.
Morire a poco a poco
Trascorrono appena due anni da questa
sommessa e circoscritta rivoluzione di
stile ed ecco che, nel 1929, viene dato
alle stampe un libro-evento, che rivelerà
il suo ventiduenne autore, catapultandolo nella Repubblica delle Lettere e fa-
5. Non è univoca la definizione di romanzo né per questo
né per altre opere di Campanile: qualche critico, come
Enzo Siciliano, opta per definire le sue storie «antiromanzi»; qualcun altro, come Guido Almansi, ricorre all’espressione «pretesti sotto forma di romanzo, perché
l’artista possa manifestare la sua grazia». Enzo Siciliano,
tuttavia, fa una diagnosi precisa, quando afferma che «in
Campanile c’è l’eco di un futurismo disinnescato da qualsiasi miccia superoministica. È il futurismo che se la
prende con la logica del linguaggio comune». Per maggiori in formazioni al riguardo, si consulti il sito dell’autore.
6. Prima edizione: A. Campanile, Ma che cos’è quest’amore?, Milano, Corbaccio, 1927. Il libro fu trasposto
in un film per la televisione da Ugo Gregoretti nel 1979.
Nel cast figurano, tra gli altri, Roberto Benigni e Stefano
Satta Flores. Campanile partecipò alla sceneggiatura.
7. Viene spesso ricordata, per esempio, la sua abitudine
a inforcare un monocolo decisamente rétro.
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PERCORSI DIDATTICI
cendogli guadagnare una notorietà che
non sempre con la stessa forza potrà
conservare, malgrado la prolificità e
malgrado la potente operazione di divulgazione ottenuta con i numerosi
film tratti dalle sue opere8. Il giovane
prodigio si chiama Alberto Moravia e il
romanzo d’esordio è il corrosivo Gli indifferenti9: ancora un racconto incentrato sulla lenta dissoluzione di una famiglia, questa volta borghese, gli
Ardendo, e sul tratteggio psicologico
dei suoi componenti, uno a uno vivisezionati dalla penna-bisturi del narratore, che ne fa emergere bassezze, ipocrisie, inerzia morale.
Entrò Carla; aveva indossato un vestitino di lanetta marrone con la gonna
così corta, che bastò quel movimento di
chiudere l’uscio per fargliela salire di un
buon palmo sopra le pieghe lente che le
facevano le calze intorno alle gambe; ma
ella non se ne accorse e si avanzò con
precauzione guardando misteriosamente davanti a sé, dinoccolata e malsicura; una sola lampada era accesa e
illuminava le ginocchia di Leo seduto sul
divano; un’oscurità grigia avvolgeva il
resto del salotto.
Carla è la giovane donna che, insidiata
dall’amante della madre, è insieme infastidita e attratta dall’uomo, Leo Merumeci, che, pur nella sua totale assenza
di scrupoli, nel suo bieco cinismo e
abietto opportunismo, appare l’unico
in grado di sollevarla dalla condizione
di torpore e trarla fuori dal baratro della
temuta decadenza socio-economica alla
quale la famiglia appare fatalmente destinata. L’attacco, in medias res, magistralmente d’effetto, ce la mostra mentre avanza con fare incerto, guardingo,
eppure con un pizzico di naturale civetteria, misto a una contraddittoria
trascuratezza: ha scelto di indossare un
abito dalla gonna a pieghe troppo corta,
che, come da copione, si solleva al
primo alito di vento, ma le calze sono
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lente. Leo, invece, è in un cono d’ombra,
solo le ginocchia illuminate dall’unica
lampada accesa nel salotto, a simboleggiare i molti aspetti di oscurità del personaggio che circuisce la ragazza, disgustata (non solo idealmente, come
dimostra la celebre scena in cui la nausea e i conati di vomito vanificano il
tentativo di Leo di sedurla), incerta e
non in grado di riappropriarsi di una
sua dignità e della sua vita. Nell’incipit
ci sono già vari segnali indicatori della
personalità di Carla: guarda «misteriosamente» davanti a sé e cammina «dinoccolata e malsicura», come nella vita,
perché sa che il mondo dell’infanzia è
seppellito per sempre, ma non sa muoversi a suo agio nel presente, nel quale le
sembra di interpretare un ruolo falso,
ridicolo. Nessun aiuto dal fratello Michele, come lei annichilito dall’indifferenza, dalla noia, dall’inerzia morale,
tanto da non caricare la pistola con cui,
nell’unico atto pensato per ridare un
senso – sia pure discutibile – alla sua
vuota e falsa esistenza, avrebbe dovuto
far fuori il seduttore di Carla. Gli Ardendo, dunque, appaiono, analogamente agli Uzeda, una sorta di carosello di personaggi negativi, a volte
patetici e grotteschi, come la mamma, la
fatua Maria Grazia (non a caso fotografata dal narratore vestita in maschera
nella sua ultima apparizione sulla scena
del dramma), per lo più contaminati
da una cronica irresolutezza, dalla malattia del vedersi vivere, con la coscienza
di non saper trovare antidoti. E il narratore, dopo aver incuriosito il lettore
con un attacco giocato sulla penombra
e su messaggi contrastanti (Carla indecisa e quasi involontariamente provocante; Leo seminascosto, come un felino
pronto a ghermire la preda), lo beffa
lasciandolo a un passo da un finale annunciato: Leo chiede a Carla di sposarlo, Michele passivamente acquie-
scente, ma nessuno rivelerà a Maria
Grazia, ancora ignara del doppio tradimento subito, cosa sta per succedere.
Un giallo “assoluto”
Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio…
Don Ciccio: basta il curioso nomignolo
perché il meraviglioso meccanismo
della memoria faccia scattare la molla
che fa visualizzare il detective che la rivoluzione gaddiana ha portato nella letteratura gialla come una bomba a orologeria10, che ancora oggi fa discutere.
Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati
funzionari della sezione investigativa:
ubiquo ai casi, onnipresente sugli affari
tenebrosi. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po’ tozzo,
di capelli neri e folti e cresputi che gli venivan fuori dalla fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sole
d’Italia, aveva un’aria un po’ assonnata,
un’andatura greve e dinoccolata, un fare
un po’ tonto come di persona che combatte con una laboriosa digestione: vestito come il magro onorario statale gli
permetteva di vestirsi, e con una o due
macchioline d’olio sul bavero, quasi impercettibili però, quasi un ricordo della
8. Circa una trentina sono le pellicole tratte dai suoi testi,
in virtù di una sorta di predisposizione della sua scrittura, e della padronanza delle tecniche di scrittura cinematografica che Moravia mostra, in virtù della sua
attività anche di sceneggiatore e soggettista.
9. Prima edizione: A. Moravia, Gli indifferenti, Milano,
Alpes, 1929. Dal libro sono stati tratti due film omonimi:
il primo, di Francesco Maselli, nel 1964, con Claudia Cardinale a interpretare il ruolo di Carla, nella fase più intensa della sua carriera, quando era ritenuta la musa dei
registi. Al riguardo, si veda S. Masi, Il divismo europeo
dagli anni sessanta, in G.P. Brunetta (a cura di), Storia del
cinema mondiale, vol. I, L’Europa, 1. Miti, luoghi, divi, Torino, Einaudi, 1999, pp. 970-972. Il secondo, di Mauro Bolognini, nel 1987, con Liv Ulman nei panni di Maria
Grazia.
10. Il romanzo uscì a puntate sulla rivista «Letteratura»
già nel 1946, ma fu l’edizione in volume del 1957, con il
testo completo in dieci capitoli, a deflagrare, costituendo un caso letterario dei più singolari e vivaci. C.E.
Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Milano,
Garzanti, 1957.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
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collina molisana. Una certa praticaccia
del mondo detto “latino”, benché giovine
(trentacinquenne), doveva di certo avercela: una certa conoscenza degli uomini:
e anche delle donne.
Don Ciccio, così come il pastiche linguistico del libro, sembra mettere insieme retaggi letterari di altri noti ritratti, dal giudice D’Andrea de La
patente, con quei «capelli crespi gremiti
da negro», frutto di «mostruosi intrecci
di razze» che si perdono negli abissi del
tempo, così somiglianti, anche fonologicamente, ai «capelli neri e folti e cresputi» del nostro detective, al capitano
di giustizia e al vicario di provvisione de
I promessi sposi: il primo, per la fronte
che viene colpita da un sasso scagliato
dalla folla in tumulto, proprio sulla
«protuberanza […] della profondità
metafisica» molto prossima ai «bernoccoli metafisici» di don Ciccio; il secondo, per la «digestione laboriosa e
lenta». A completare il quadro, una
certa trascuratezza nell’abbigliamento
(le macchioline d’olio sul bavero anticipano quelle, più cospicue, del tenente
Colombo – 1968 –, dall’analogo «fare
un po’ tonto»), un’andatura un po’
ciondolante, e una necessaria «praticaccia del mondo detto “latino”» che si
sostituisce all’acume infallibile del detective del giallo classico. E, d’altra parte,
com’è noto, Quer pasticciaccio brutto de
via Merulana11 è un poliziesco sui generis, che contraddice, per così dire, la
stessa ontologia del giallo, in quanto
non rivela il colpevole12, ma si ferma
nel punto in cui il dottor Francesco Ingravallo ha risolto l’enigma, senza però
partecipare le sue conclusioni al lettore,
tradito perciò doppiamente, dalla guida
a cui si è affidato (il detective, appunto),
e dal narratore che, pur presente in
modo massiccio nella narrazione, non
intende svelargli il mistero, ma lasciarlo
nel dubbio. Una beffa ben più grave di
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quanto abbiamo osservato per il precedente romanzo di Moravia. La frase
conclusiva del romanzo, infatti, con
quel fermarsi a riflettere di Ingravallo di
fronte alla bellissima Tina, la serva dell’affascinante e ricca signora trovata assassinata, con l’equivoco riferimento al
pentirsi del detective e quel «quasi»13
che chiude il libro, in realtà schiudendo
il passo a una ridda di ipotesi, ha davvero rivoluzionato la maniera di scrivere il giallo: merito dei funambolismi
linguistici dell’“ingegner fantasia”
(come si autodefinì Gadda); della filosofia dello «gnommero», che così icasticamente realizza il senso del perenne
garbuglio della vita; di una storia di delitti che si trasforma in una investigazione sui misteri della vita e della morte,
sugli oscuri sentieri dell’eros, e in una
“gioiosamente disperata” ricerca non
tanto della verità (quella dei fatti narrati) quanto di Verità (la possibilità che
all’umanità è concessa di giungervi); di
una troncatura finale che trasmette perfettamente l’incompiutezza e l’irrisolvibilità della vita; merito anche di un
incipit che già qualifica il testo, con la
sua molteplicità14 programmatica di
echi e di giochi, e che subito intriga.
Incantesimo
Uno dei miei primi vanti era stato il mio
nome. Avevo presto imparato (fu lui, mi
sembra, il primo ad informarmene), che
Arturo è una stella: la luce più rapida e
radiosa della figura di Boote, nel cielo
boreale! E che inoltre questo nome fu
portato da un re dell’antichità, comandante a una schiera di fedeli: i quali
erano tutti eroi, come il loro re stesso, e
dal loro re trattati alla pari, come fratelli.
A raccontare in prima persona una storia dai toni fiabeschi, in un’epoca di
neorealismo imperante, è il protagonista de L’isola di Arturo15 (1957), il secondo romanzo importante di Elsa Mo-
rante (il primo era stato Menzogna e
sortilegio, che aveva ottenuto il premio
Viareggio nel 1948), che le fece conquistare il premio Strega, con prestigio
maggiore del consueto, perché mai
prima d’allora assegnato a una donna.
L’incipit proietta nella dimensione del
sogno e del mito: Arturo, diversamente
da Mattia, che si sarebbe accontentato
di poter rivendicare un nome come
proprio e distintivo, in virtù del proprio
nome evocativo, scala lo spazio, fino a
raggiungere la sommità dei cieli e le
stelle, e si addentra in un tempo remoto, andando a recuperare una storia
circondata da un alone di leggenda, di
un re così perfetto, così saggio e “democratico” da trattare fraternamente
tutti i suoi eroici, fedeli cavalieri. Potenza di un nome e beffa di un destino
che non acconsentirà a realizzare l’omen
che in esso avrebbe dovuto essere inscritto: il giovane Arturo non sarà re,
dopo aver estratto la sua spada dalla
11. Nel 1959 Pietro Germi trasse dal testo di Gadda il
film Un maledetto imbroglio, che terminava tuttavia con
la scoperta del colpevole, secondo i dettami del giallo
tradizionale. Gadda non collaborò alla sceneggiatura,
ma diede il suo plauso. Cfr. nota seguente.
12. In verità, nella prima edizione a puntate veniva indicato il nome del personaggio colpevole, ma nella successiva versione Gadda maturò una nuova concezione
del giallo “assoluto”, più coerente con la filosofia del
nodo inestricabile e del mistero irrisolvibile. Chi legge
la seconda stesura, tuttavia, può essere condizionato
dalla rivelazione contenuta nella prima, malgrado le variazioni apportate dall’autore, anche sul piano onomastico.
13. La frase ultima suona così: «Quella piega nera verticale tra i due sopraccigli dell’ira, nel volto bianchissimo
della ragazza, lo paralizzò, lo indusse a riflettere: a ripentirsi, quasi».
14. Per quanto concerne il laboratorio di Gadda e le sue
peculiarità linguistico-lessicali, si è abusato dell’espressione “barocco”, ma si tratta di una vera e propria “questione della lingua” ancora dibattuta, che trae alimento
nella filosofia dell’autore, che qui si sintetizza per brevità con un richiamo alla teoria delle “combinazioni infinite” del mondo.
15. Prima edizione: E. Morante, L’isola di Arturo, Torino,
Einaudi, 1957. Dal romanzo Damiano Damiani, in un secondo tempo connotatosi come regista “di mafia”, trasse,
nel 1962, un delicato film in bianco e nero dal medesimo titolo, in cui anche il linguaggio simbolico della
Morante trova un suo correlativo oggettivo nella visione
cinematografica.
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PERCORSI DIDATTICI
roccia, né brillerà come la stella omonima nel firmamento, ma avrà la capacità affabulatrice per condurre con
mano il lettore nel magico mondo dell’isola di Procida, nelle cui acque le ceneri della scrittrice trovarono approdo
reale, e il lettore può scoprire un approdo ideale. Spazio e tempo, dunque,
si dilatano a dismisura e si fondono in
questo attacco che fa intuire subito che
la narrazione è effettuata in focalizzazione su un adolescente, ancora capace
di sognare a occhi aperti, ma che dovrà
scontrarsi con la durezza disincantante
della realtà su ognuna di quelle che riteneva certezze: innanzitutto il padre
tanto amato, che compare come il “lui”
per antonomasia in apertura, non è
quell’essere superiore né il viaggiatore
solitario e coraggioso che egli ha creduto, ma un uomo egoista, assai poco
affidabile (non manterrà la promessa
di portare con sé il ragazzo al compimento del suo sedicesimo anno d’età),
bugiardo (si è inventato un’altra vita
per nascondere squallide e forse equivoche esperienze, volutamente lasciate
nell’ombra e nel dubbio dall’autrice);
l’isola è sì una sorta di ventre materno
che l’ha custodito, in assenza di una
madre deificata dalla morte e di un padre colpevolmente latitante, ma solo il
distacco definitivo da quella terra d’incanto rappresenta la ri-nascita, l’inizio
di una vita non solo immaginata ma
concretamente vissuta, pur con tutta la
carica di incertezze e di sofferenze potenziali. Arturo sull’isola conosce le
contraddizioni più profonde dell’amore, ma il suo è un sentimento impossibile: solo di là dalle acque azzurre
della sua terra potrà tuffarsi nel mondo
reale e cominciare a vivere una vita non
solo virtuale. Declinazione nuova del
romanzo di formazione, dunque, questo della Morante, ma interrotto proprio quando la storia sta per perdere,
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come il protagonista, le illusioni del sogno e le connotazioni della atemporalità mitizzante della fiaba e della poesia.
Impronte d’autore
«Nunc et in hora mortis nostrae. Amen».
La recita quotidiana del Rosario era finita. Durante mezz’ora la voce pacata
del Principe aveva ricordato i Misteri
Dolorosi; durante mezz’ora altre voci,
frammiste, avevano tessuto un brusio
ondeggiante sul quale si erano distaccati
i fiori d’oro di parole inconsuete: amore,
verginità, morte; e mentre durava quel
brusio il salone rococò sembrava aver
mutato aspetto; financo i pappagalli che
spiegavano le ali iridate sulla seta del parato erano apparsi intimiditi; perfino la
Maddalena, fra le due finestre, era sembrata una penitente anziché una bella
biondona, svagata in chissà quali sogni,
come la si vedeva sempre.
Memorabile l’incipit di un romanzo cult
della nostra letteratura, Il Gattopardo16
(pubblicato postumo nel 1958), del
principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa: la recita del rosario17, rigorosamente in latino com’era ancora d’uso, e
l’altra recita, quella consumata di alcuni
dei personaggi della storia, come la
bionda Maddalena, compunta per l’occasione, e perfino dei pappagalli, insolitamente in soggezione, tutti formalmente devoti e insieme rispettosi dei
comandi del direttore d’orchestra, don
Fabrizio Corbera, principe di Salina.
L’ironia si legge già dalle prime righe:
ironia di situazione e di parole, con quel
campeggiare della triade di «amore, verginità e morte», quasi a racchiudere e
proteggere la verginità all’interno dell’abbraccio degli indissolubili eros e thanatos. Vengono riaffermate le tecniche
del narratore onnisciente, che tutto
vede, tutto sa e giudica, intervenendo a
commentare, ma presto la focalizzazione si sposterà sul protagonista, ondeggiando, o si sdoppierà in alcuni si-
L’isola di Procida.
gnificativi passaggi nei quali la critica
ha voluto vedere il pensiero dell’autore
che delega il narratore ad esprimerlo,
distintamente dal suo personaggio, o si
moltiplicherà in una pluralità di voci,
dopo la morte del principe. Il racconto,
paradossalmente, non necessita di… essere raccontato, data la sua fama e diffusione, visto che già nel ’59, ottenuto il
premio Strega, divenne un best-seller
16. Prima edizione: G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Milano, Feltrinelli, 1958. Del film tratto dal romanzo si dirà nel corso della trattazione.
17. È necessario rilevare, anche in ottica intertestuale,
che certamente Tomasi di Lampedusa aveva ben presente la splendida novella di Federico De Roberto, intitolata Il rosario, nella quale, durante la recita ad opera di
una famiglia matriarcale, con sole donne, di cui due figlie zitelle e succubi, e un’altra “scandalosamente” andata sposa a un uomo non gradito, si consumano le più
sottili cattiverie. La «novellina» fa parte della citata raccolta Processi verbali.
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PERCORSI DIDATTICI
venze audacemente cinematografiche,
che prenderemo in toto, per meglio evidenziarne gli aspetti probanti:
Fotogramma dal film Il Gattopardo di Luchino Visconti (1963).
della narrativa italiana e tuttora viene
letto e studiato anche nelle scuole: basterà ricordare che, sulla scia18 dei romanzi I Viceré e I vecchi e i giovani
(1913) di Pirandello, viene descritto il
fallimento storico del risorgimento in
Sicilia, visto da una precisa prospettiva,
coincidente con quella di una decadente
classe aristocratica che fa capo al principe di Salina. Che si tratti di romanzo
storico (come afferma Lukács)19 o piuttosto di romanzo antistorico (come sostiene Vittorio Spinazzola)20, in questa
sede preme rimarcare non solo la forza
ammaliatrice dell’incipit, che immette
in un mondo cristallizzato nel passato
(la formula in latino d’apertura, e quel
brusio due volte ripetuto, quasi a farne
sentire, con l’onomatopea duplicata, il
suono crescente), e appunto per questo
tutto da scoprire, ma anche come sia
stato il cinema ad aver fatto amare ancora di più il romanzo di Lampedusa,
oltre che accrescerne la fama, con la sua
efficace cassa di risonanza. La scena del
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ballo, in particolare, in cui l’esuberante
bellezza di Claudia Cardinale-Angelica
Sedara irrompe a illuminare la scena,
popola le fantasie di milioni di spettatori, molti dei quali, probabilmente, si
sono avvicinati al libro, proprio perché
conquistati dalle eleganti e raffinate immagini del film di Luchino Visconti
(1963), vincitore della Palma d’oro al
festival di Cannes. A conferma dell’importanza di un approccio anche didattico alle varie dimensioni della narratività, non più rimandabile.
Effetto cinema
Abbiamo aperto la carrellata con la regia di Manzoni che fa planare la sua
macchina da presa sul ramo del lago di
Como e termineremo, circolarmente,
sulla medesima falsariga, ma con un vistoso balzo in avanti nel tempo e una
giustificazione di interferenze effettivamente possibili tra cinema e letteratura
e non solo di suggestioni precorritrici,
analizzando un altro incipit dalle mo-
L’autobus stava per partire, rombava
sordo con improvvisi raschi e singulti. La
piazza era silenziosa nel grigio dell’alba,
sfilacce di nebbia ai campanili della Matrice: solo il rombo dell’autobus e la voce
del venditore di panelle, panelle calde panelle, implorante e ironica. Il bigliettaio
chiuse lo sportello, l’autobus si mosse
con un rumore di sfasciume. L’ultima
occhiata che il bigliettaio girò sulla piazza
colse l’uomo vestito di scuro che veniva
correndo; il bigliettaio disse all’autista
“un momento” e aprì lo sportello mentre
l’autobus ancora si muoveva. Si sentirono due colpi squarciati: l’uomo vestito
di scuro, che stava per saltare sul predellino, restò per un attimo sospeso, come
tirato su per i capelli da una mano invisibile; gli cadde la cartella di mano e sulla
cartella lentamente si afflosciò.
L’incipit è quello de Il giorno della civetta21 (1961), il best seller di Leonardo
Sciascia, che già cinquant’anni fa svelava all’Italia gli intrighi e le connivenze
di una mafia insinuante e tentacolare,
18. Va opportunamente ricordato che i tre romanzi appaiono imparentati tra loro, ma non sono frutto di uno
spirito di emulazione scattato in grazia del successo ottenuto, come comunemente accade, in quanto non solo
I Viceré non ebbe fortuna immediata, ma anche I vecchi
e i giovani fu a lungo considerato una prova fallimentare del grande Pirandello. V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, Roma, Editori riuniti, 1990, p. 7. Le poetiche dei
tre autori presentano, tuttavia, oggettive analogie.
19. G. Lukács, Il romanzo storico, Torino, Einaudi, 1965.
20. V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, cit.
21. Prima edizione: L. Sciascia, Il giorno della civetta, Torino, Einaudi, 1961. Un anno prima, il 9 ottobre 1960, il
testo era stato pubblicato sulla rivista «Nuovo Mondo».
Damiano Damiani trasse dal best seller di Sciascia il film
omonimo nel 1968, a distanza di un anno dal primo
film ispirato a un libro dello scrittore di Racalmuto (Elio
Petri aveva, infatti, realizzato la pellicola A ciascuno il
suo nel 1967). Il film rispetta globalmente l’impianto del
libro, ma si avvale spesso di “equivalenze d’invenzione”
significative; sono inoltre riconoscibili le modalità
espressive del genere western, appena abbozzate nel
testo. Va sottolineato che la scrittura di Sciascia mostra
una particolare vocazione per la trasposizione cinematografica (una ventina i film, anche per la televisione, finora tratti dalla sua opera), così come si è detto per
quella di Moravia.
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PERCORSI DIDATTICI
prima d’allora negata perfino da autorità civili ed ecclesiastiche. Anche in
questo caso la storia è nota: una vicenda
di delitti intrecciati sui quali indaga un
capitano dei carabinieri, Bellodi, venuto
dal Nord a tentare di ripristinare la legalità nel paesello siciliano infestato da
una criminalità organizzata, già collusa
con le alte classi dirigenti. La partenza
del vecchio autobus che apre il racconto
è ansimante, e i «raschi e singulti» lo
umanizzano: nell’arrancare del vecchio
mezzo di locomozione che non ce la fa
più a trasportare il peso dei suoi numerosi passeggeri – e che simboleggia
l’affanno di una quotidianità ripetitiva
ed estenuante – sembra di riconoscere
una scena da film di animazione, di matrice fumettistica, con un autobus-persona che avanza a fatica e stride (la figura etimologica formata dalle parole
«rombo» e «rombava» ne potenzia il
sonoro), prende l’abbrivio, prima di
iniziare una corsa destinata a essere
bruscamente interrotta sul nascere. Nel
silenzio circostante di quell’alba dal
cielo sfilacciato di nuvole leggere aleggia un vago presentimento di sventura:
la pennellata di scuro dell’abito dell’uomo che rincorre l’autobus appena
partito. Colonna sonora le voci: prima
quella del panellaro (da notare l’assenza
di virgolettato per le parole pronunciate dal personaggio a mo’ di richiamo
per possibili acquirenti), dopo quella
del bigliettaio che esorta l’autista ad
aspettare «un momento» l’uomo in leggero ritardo. Poi, improvvisi e violenti,
i due spari «squarciati» che, cacofonicamente, detonano nell’immaginario
del lettore, prima turbativa alla pace
apparente del luogo: l’uomo vestito di
scuro, che stava per saltare sull’autobus, viene freddato con due colpi di lupara. La sua caduta all’indietro, ripresa
dalla macchina del narratore, è impre-
Due percorsi didattici a cura di E. Andreoni Fontecedro
Nel sito di Nuova Secondaria (Sezione Materiali didattici per abbonati / Discipline umanistiche) sono disponibili due Percorsi didattici: L’ambiguo segno dei campi arati e il mito
dell’età dell’oro (sulla base scientifica offerta dall’articolo così intitolato di E. Andreoni
Fontecedro, «Aufidus» 68, 2009, pp. 7-30) e La grande Dea ovvero i volti della Natura (della
stessa autrice, «Aufidus» 32, 1997, pp. 7-22). I Percorsi didattici sono stati curati da E. Andreoni Fontecedro, M. Agosti, C. Senni e si rivolgono a docenti di Latino, Greco, Italiano,
Filosofia.
ziosita da un accorgimento tecnico che
ne dilata la durata: il ralenti22, che si
configura, in quanto trattamento del
tempo, come elemento connotante una
scrittura cinematografica. Dapprima va
rimarcato un fermo-immagine che
blocca il fotogramma dell’uomo che,
mentre «stava per saltare sul predellino,
restò per un attimo sospeso, come tirato
su da una mano invisibile»: a spiegarne
l’effetto-cinema, la teoria di Jean Marie
Clerc, secondo la quale «il ralenti appare
spesso in rapporto con il tema della
morte […]. L’immobilizzazione della
durata ritarda il momento fatale, accentua la suspense drammatica e immerge il personaggio in un universo altro»23.
Poi la visualizzazione della cartella che
gli cade di mano e lui che «sulla cartella
lentamente si afflosciò»24, laddove l’avverbio polisillabico traduce la forza
espressiva di un amplificante effetto
moviola. I movimenti acquistano ieraticità e tutta la scena appare solennizzata, proiettandosi dinanzi agli occhi
del lettore che vi riconosce stilemi del
cinema e si sente perciò confortato a
proseguire; a conferma che non è solo
letteratura.
Rossana Cavaliere
Liceo Scientifico “Gramsci-Keynes”, Prato
L’ambiguo segno dei campi arati e il mito dell’età dell’oro
Il primo Percorso, che si fonda soprattutto su testi di Lucrezio e Virgilio, ripercorre le posizioni di chi esaltò il lavoro dei campi sino ad assumere il durus labor come una redenzione, o un segno di felicità sulla terra, e chi invece lo interpretò come una vera e propria
condanna. L'esame coinvolge la Bibbia, S. Agostino, Arato fino a Hobbes, con particolare
attenzione a Vico.
La grande Dea ovvero i volti della Natura
Il secondo Percorso risale al volto trino della grande Dea preindoeuropea (la Dispensatrice di vita, la Reggitrice di morte, la Rigeneratrice) per esaminarne le tracce che, nei secoli,
ha lasciato nella speculazione filosofica relativa alla Natura, entro i termini sempre sfuggenti di un deliberato dualismo. I testi messi a confronto sono soprattutto di Lucrezio, Seneca e Plinio, con ogni riferimento opportuno al relativo pensiero dei Greci e alle
testimonianze poetiche.
70
22. Sciascia conosceva le teorie dell’école du regard, che,
nata in Francia negli anni ‘’50, ambiva a creare un Nouveau roman, basato su una narrazione puramente percettiva (di Alain Robbe-Grillet, massimo esponente del
genere, è nota l’”ossessione del visivo”). In uno dei suoi
saggi sul genere poliziesco, inoltre, commentando lo
stile minuzioso del famoso giallista d’oltreoceano Dashiell Hammett, il cui detective Sam Spade popolava il
grande schermo, Sciascia scrive che ne Il falcone maltese
(1930), lo scrittore fa seguire «le azioni […] come al rallentatore» e che «più sono violente e più sono rallentate». L. Sciascia, Breve storia del romanzo poliziesco, in
Id., Cruciverba, Torino, Einaudi, 1983, pp. 226-227.
23. J.M. Clerk, Littérature et cinema, Paris, Nathan, 1993, p.
178.
24. I corsivi sono nostri.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PERCORSI DIDATTICI
L’attualismo gentiliano
come prassismo trascendentale
Salvatore Ragonesi
La genesi marxiana
dell’attualismo secondo
Ugo Spirito
L’attenzione di Giovanni Gentile per la
praxis ha una genesi marxiana segnalata
inizialmente da Ugo Spirito in virtù
della traduzione delle famose Tesi su
Feuerbach pubblicate in appendice ai
due saggi costituenti il volume edito da
Spoerri di Pisa nel 1899 su La filosofia di
Marx :«Nel secondo saggio su La filosofia della prassi, il problema si allarga e il
Gentile procede ad una ricostruzione
sistematica della filosofia di Marx. Qui
l’assunto del primo saggio si chiarisce
nei particolari e Marx è portato sul
piano della più alta tradizione speculativa. La ricostruzione è condotta principalmente sulle famose undici tesi di
Marx sulla filosofia di Feuerbach […]
La chiave di volta di questa costruzione
filosofica, osserva il Gentile iniziando
uno schizzo del nuovo filosofare, sta
nel concetto di prassi. Ecco, dunque, il
principio fondamentale che ci consente
di comprendere davvero il materialismo storico. Non si tratta più di interpretare il mondo, ma di cambiarlo, perché verum et factum convertuntur»1.
Sulla base della ricostruzione filosofica di Marx, Gentile edifica il suo attualismo. Dice ancora Ugo Spirito:
«Ecco la via per la quale si incamminerà il Gentile per la costruzione del
suo attualismo. Nella prassi è già un
qualche germe dell’atto puro. La chiave
d’oro è la stessa»2. E la passione per la
praxis di estrazione marxiana si manNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
tiene costante nel filosofo siciliano
dalla giovanile opera su Marx alla sua
riedizione nel 1937 «per corrispondere
all’insistente desiderio degli studiosi» e
riudire «voci che non si sono mai
spente in me e qualche cosa di fondamentale in cui ancora mi riconosco e
in cui altri forse meglio di me potrà
ravvisare i primi germi di pensieri maturati più tardi»3. Essa perdura fino all’estremo limite del testamento spirituale Genesi e struttura della società,
«scritto di getto tra l’agosto e i primi di
settembre del 1943 a Troghi», nei
pressi di Firenze, e, cosa assai più importante, attraversa le opere maggiori
in cui si esprime l’elaborazione sistematica dell’attualismo.
L’interpretazione spiritiana
e delnociana contestata
da Gennaro Sasso
Appare davvero strano che un grande
studioso come Gennaro Sasso voglia
negare continuità e profondità all’interesse gentiliano per la prassi marxista,
il cui studio non può essere sbocciato
all’improvviso per la semplice ambiziosa volontà di partecipare ad un prestigioso dibattito di fine Ottocento o di
impartire al vecchio Antonio Labriola
una sonora lezione di storia della filosofia: «Non è difficile avvedersi che la
lezione hegeliana che in queste pagine
Gentile impartiva a Labriola proseguiva a lungo. Andava oltre e al di là di
Hegel; e rischiava a tratti di trasformarsi, addirittura, in una lezione di fi-
losofia e di storia della filosofia. Così, in
un punto della trattazione, non senza
qualche volontaria o involontaria perfidia, arrivò ad obiettargli che non vedeva proprio perché si dovesse cercare
in Engels ciò che non solo da Hegel, ma
già da Eraclito era stato affermato e
chiarito»4. No, il marxismo è per Gentile una cosa seria, come chiarisce il
suo più acuto interprete, e non è una
pura “leggenda” come vorrebbe Gennaro Sasso. Questi ammette che Gentile
traduce e commenta le Tesi su Feuerbach, ma non attribuisce all’operazione
alcun effetto che possa rappresentare
una qualche novità non contenuta nel
suo idealismo5.
Nella varietà delle interpretazioni, la
primazia marxiana arride al più illustre allievo di Gentile, Ugo Spirito, dal
quale poi altri studiosi prendono le
1. U. Spirito, Gentile e Marx, «Giornale critico della filosofia italiana», XXVI (1947), pp.153-154. Il fascicolo è interamente dedicato a Gentile e presenta, oltre a quello
di Spirito, altri pregevoli interventi.
2. Ibi, p. 161. Sulla correttezza interpretativa di Ugo Spirito, vedi A. Del Noce, Appunti sul primo Gentile e la genesi dell’attualismo, «Giornale critico della filosofia
italiana», XLIII (1964), pp. 508-556; E. Centineo, Attualismo e marxismo, «Giornale critico della filosofia italiana», XLIII (1964), pp. 139-147; E. Garin, Cronache di
filosofia italiana, vol. I, Laterza, Bari 1975, soprattutto le
pp. 211-220.
3. G. Gentile, Avvertenza, in La filosofia di Marx, Le Lettere, Firenze 2003, pp. 9-10.
4. G. Sasso, Giovanni Gentile: gli scritti su Marx, «La Cultura», XXXV, n. 1 (1977), p. 77.
5. G. Sasso, Giovanni Gentile, cit., e particolarmente la p.
65. Secondo Del Noce, invece, l’attualismo è vicino al
marxismo nel suo processo di formazione e nel suo sviluppo; esso rappresenta la forma critica del marxismo,
«la forma più rigorosa di filosofia della prassi» (A. Del
Noce, Appunti sul primo Gentile, cit., p. 528).
71
PERCORSI DIDATTICI
Il prassismo attualista e il suo
distanziarsi dallo storicismo
Giovanni Gentile (1875-1944).
mosse in modo più o meno palese. Lo
stesso Del Noce gli è assai vicino e ne
viene influenzato, soprattutto dagli
scritti sul Comunismo o da quelli sul
Nuovo Umanesimo, e ne accetta l’interpretazione immanentistica, e ne riprende e perfeziona l’idea della secolarizzazione. Del Noce intacca rovinosamente la struttura oggettivistica del
materialismo storico. Su questa revisione, pure Gramsci può acquisire la
connotazione attualistica, liberare la dimensione pratico-attivistica della Rivoluzione contro il “Capitale” e rovesciare
la nota struttura materialistica (vedi
Suicidio della rivoluzione edito da Rusconi nel 1978 e Giovanni Gentile. Per
una interpretazione filosofica della storia
contemporanea pubblicato dal Mulino
nel 1990). Gentile diventa perciò il “suicida” della rivoluzione, il “notaio del
nichilismo” e il più severo teorico della
morte di Dio grazie ad una radicale
operazione di immanentizzazione, nella
quale lo Spirito è il “Dio cartesiano reso
immanente”.
72
Il momento più pregnante dell’interpretazione delnociana di Gentile consiste tuttavia nella sottolineatura dell’impossibilità di separare la teoria dalla
pratica e perciò nel riproporre lo stretto
legame scoperto da Ugo Spirito tra attualismo e praxis, che in concreto si risolve nel profondo e indissolubile intreccio tra attività speculativa e azione
politica,con l’ovvio primato che spetta
a quest’ultima, poiché il filosofo è anzitutto, marxianamente, un politico e la
verità del pensiero si pone solo nel suo
aspetto operativo. Mai la filosofia occidentale si era spinta tanto avanti sulla
via della prassi, dopo l’abbandono gorgiano della metafisica. Lo stesso incontro di Gentile con il fascismo di Mussolini è un evento puramente incidentale, come riconosce Daniela Coli nel
suo Giovanni Gentile edito dal Mulino
nel 2004, anche se poi la studiosa ne
individua il valore come teorico dello
Stato etico,anziché come sostenitore di
una praxis funzionale ad una serie di
obiettivi personali, non tutti fallimentari, prima che alla fedeltà fascista. Il binomio attualismo-fascismo non è dunque filosoficamente necessario, anche
se storicamente l’attualismo assume la
difesa dell’ideologia autoritaria, del
Capo carismatico e dello Stato etico.
Necessario filosoficamente è invece il
concetto di una prassi che è creazione,
che si fa storia, che rovescia l’oggettività
storica e che diviene soggetto di nuova
azione: «Questa è una delle più importanti verità scoperte dalla filosofia moderna, e bene fanno alcuni filosofi
odierni, che si dicono dell’azione, a difenderla calorosamente. La verità non è
spettacolo, a cui tutti sol che ne abbiano
un capriccio, possano assistere. No. È
nostra creazione, nostra conquista, che
addimanda tutte le forze dell’anima, e
prima di tutto una riforma morale, che
ci spogli del nostro naturale egoismo»6.
La mia opinione è che Gentile apprende
da Marx filosofo e rivoluzionario che
compito della filosofia non è più quello
di interpretare il mondo, bensì quello di
cambiarlo, poiché è impossibile ed inutile contemplare la realtà e fare un uso
disinteressato della scienza. Si tratta di
una conquista fondamentale, che
stringe in un solo blocco organico storia e filosofia. Nel Concetto della storia
della filosofia del 1907 Gentile afferma
infatti che non è la filosofia, in quanto
speculazione del reale, che entra nel
gioco delle forze operanti nel corpo
della storia, ma è la volontà che promuove il futuro e orienta sia la storia
che la filosofia. I veri rivoluzionari «non
sono, poniamo, gli elaboratori del materialismo storico, che è un concetto
speculativo, ma i compilatori del Manifesto dei Comunisti, che è un atto pratico»7. E poi vi è l’argomento di indubbia derivazione marxiana, secondo cui
a nessuno è dato scrivere la storia della
filosofia senza un orientamento operativo, «senza concepire in qualche modo
la filosofia, e farsi lume del proprio concetto alla ricerca e alla ricostruzione»8.
Sembra una formulazione idealistica,
ma in realtà essa proviene dal Marx che
concepisce la critica come una battaglia
meridiana consacrata pragmaticamente
a trasformare il mondo: «Ma, certo,
v’ha soggettività vera e v’ha soggettività falsa. Vera soltanto potrà dirsi
quella consistente nel concetto, che uno
storico abbia della filosofia, adeguato
al momento storico a cui egli appartiene […] La coscienza filosofica dello
6. G. Gentile, Il concetto della storia della filosofia, in La riforma della dialettica hegeliana, Principato, Messina
1913, p. 135.
7. Ibi, p. 134.
8. Ibi, p. 147.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PERCORSI DIDATTICI
storico deve rispecchiare la storia della
coscienza filosofica; sicché la stessa ricostruzione deve contenere già nel suo
andamento storico la critica progressiva dei sistemi; e la vera arte storica,
come quella del giardino incantato
d’Armida, è l’arte che tutto fa, nulla si
scopre»9. Anche la storiografia è insomma un’attività rivoluzionaria che
non sopporta la vacuità teoretica del
crepuscolo. Certo, così l’attualismo si
allontana dallo storicismo.
La chiusura
del circolo ermeneutico
Fabio Farotti e Salvatore Natoli appartengono ad una generazione più giovane di studiosi che si distinguono per
una poderosa volontà di reinterpretazione monolitica dell’attualismo. La
loro lettura converge nella riproposizione dell’immanentismo assoluto, anche se poi i due valenti studiosi si diversificano nel puntare, l’uno, sulla
vitalità “europea” della gentiliana filosofia della prassi10 e, l’altro, sulla incompiutezza dell’Atto, da cui deriverebbero la sua continua novità, la
“riforma della riforma” della dialettica
e il destino tragico dell’ineffabile divenire, che sopprime la staticità dell’essere
e nientifica inesorabilmente ogni orizzonte di eternità e di verità11. Ciò che tematizza plasticamente l’indimenticato
Antimo Negri nella sua Inquietudine
del divenire: «La dialettica hegeliana lascia ad un certo punto precipitare il divenire in un risultato calmo, spegnendone l’inquietudine […] Riformatore
di questa dialettica, Gentile opta per la
conservazione della inquietudine del
divenire che esalta lo spirito nella sua
ininterrotta processualità e dinamicità»12. Si tratta di quell’inquietudine
della dialettica che passa dalla tesi all’antitesi per non giungere mai ad una
sintesi definitiva in quanto il processo è
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
Giovanni Gentile e Leonardo Severi, Ministero della Pubblica Istruzione, Roma 1923.
eterno e non attinge in alcun modo e
luogo la sua meta. «Ora – commenta
Ugo Spirito – è chiaro che il senso più
profondo di questa dialettica è la stessa
esigenza della ricerca e ha lo stesso carattere drammatico di continuo sforzo
per raggiungere l’infinito»13. Il ritmo
vertiginoso della prassi sconfinata fa
cadere ogni punto di appoggio e procura un senso di angoscia e disorientamento e impedisce di raggiungere la
totalità, producendo indifferenza e grigiore e annebbiando la visione: «Se non
che, nel vorticoso procedere, tolto ogni
punto di appoggio e ogni criterio unitario di giudizio, l’esperienza si realizza
in uno stato d’animo di disorientamento, che non può non depauperarla
e farla scorrere in superficie. L’ideale di
totalità che la muove e che è ancora il
bisogno di superare l’antinomia e di
raggiungere Dio si converte via via nel
principio della sua progressiva indifferenziazione […] La totalità alla quale si
ispirava non è stata raggiunta e al suo
posto non rimane che il nulla»14.
Con Natoli si assiste ad un deciso ri-
torno alla prassi che riposiziona il “marxismo” gentiliano dentro la dimensione
pratico-attiva e configura l’attualismo
come un prassismo che reinterpreta la
modernità: «L’interpretazione gentiliana di Marx costituisce un punto di
non-ritorno e perciò costringe a ripensare il marxismo in termini di soggettività se non lo si vuol dissolvere in un
generico metodologismo […] In questo
senso la verità è qualcosa di voluto e
come tale è interpretazione»15. Trasformazione o interpretazione che sia, l’attualismo della prassi è in verità filosofia
della potenza volitiva illimitata che demolisce la stabilità dell’essere: «In Gentile, l’originarietà del divenire ha intac-
9. Ibi, pp. 147-148.
10. Cfr. S. Natoli, Giovanni Gentile filosofo europeo, Bollati Boringhieri,Torino 1989.
11. Cfr. F. Farotti, Senso e destino dell’attualismo, Pensa
Multimedia, Lecce 2000.
12. A. Negri, L’inquietudine del divenire. Giovanni Gentile,
Le Lettere, Firenze 1992, p. 63.
13. U. Spirito, La vita come ricerca, Sansoni, Firenze 1943,
p. 105.
14. Ibi, p. 115.
15. S. Natoli, Giovanni Gentile, cit., pp. 107-108.
73
PERCORSI DIDATTICI
cato definitivamente la stabilità dell’essere, ma non del tutto dissolto le certezze dell’Io. A fronte di questo non bisogna però dimenticare come
l’ipertrofia dell’Io sia una via attraverso
cui esso attinge la propria autodissoluzione»16. La strada al postmoderno è
aperta, anche se permane la potenza del
soggetto trascendentale, che può vivere
con la sola coscienza infelice del successo effimero e della manipolazione
del mondo. Torna di moda quel Protagora più volte evocato da Gentile e s’impone con tutta la sua drammaticità la
considerazione già rimarcata di una
storia che procede per gli sforzi del volere verso una libertà inafferrabile17.
ll dato più singolare e decisivo è dunque
che in Gentile,come nel Marx delle Tesi
su Feuerbach, il soggetto non è lo spettatore passivo, ma il creatore e costruttore della realtà nel processo dialettico
del suo atto, nel quale trova il suo luogo
di manifestazione e di realizzazione e
scopre la propria qualità attivo-volitiva.
Ecco il vero Marx di Gentile. Ed ecco il
vero Gentile: «Vero è quel che si fa; il
vero della natura è per l’intelligenza divina che è creatrice della natura stessa,
e il vero per l’uomo non può essere
quello della natura, che non è fatta da
noi, nei cui segreti perciò non possiamo
penetrare […] Ma di tutto quello che
noi intendiamo come fattura nostra,
evidentemente il criterio della verità sta
dentro di noi»18. E in Genesi e struttura
della società pure la natura si fa prodotto della prassi lavorativa.
L’esigenza attualistica di unificare uomo
e mondo attraverso la prassi presuppone la trascendentalità dell’Io, che è
capace di produrre tutte le strutture e di
dare un significato alla storia ricostituendo la realtà empirica e l’essere particolare nell’universalità del dover essere. Una pagina del secondo volume
del Sistema di logica come teoria del conoscere può fornire un’idea più puntuale del reale valore costitutivo della
prassi trascendentale: «La prassi nella
sua identità con la teoria, qual è qui intesa, non concetto di una realtà presupposta, non sintesi, ma autosintesi e
però autoconcetto, non è la prassi come
volgarmente s’intende, produzione di
un oggetto che si distingue dal soggetto,
e se ne rende indipendente […] La
prassi, come autoprassi dell’Io esattamente concepito, dell’Io creatore del
Tutto, cioè di se stesso, è quel medesimo pensiero divino che la teologia
cristiana ben vide coincidere con la divina attività creatrice»19.
Il prassismo attualista risolve drasticamente la molteplicità nell’unità dell’autocoscienza e cancella ogni “distinzione”.
Tale monolitismo prepara lo scontro con
Benedetto Croce, il cui liberalismo è proprio il frutto della teoria dei distinti. Egli,
nel recensire il secondo volume gentiliano del Sistema di logica come teoria
del conoscere, segnala il pericolo e fa notare il disaccordo con il suo amico: «Taluni si maravigliano che, col disaccordo
di sopra lumeggiato nella concezione filosofica, il Gentile ed io continuiamo a
collaborare; ma la loro maraviglia crescerebbe d’assai se apprendessero che
quel disaccordo c’è stato sempre, sin dai
primi tempi che io conobbi il Gentile, sin
dalle prime conversazioni tra noi. Senonché quella meraviglia si dissiperebbe
prontamente, se si volesse riflettere che
io non potevo certamente collaborare
con uno che fosse d’accordo con me,
perché avrei avuto a fianco, in tal caso,
un collaboratore inefficace e superfluo»20. Ma, come si sa, la rottura definitiva si verifica di lì a poco.
Salvatore Ragonesi
già preside nei licei
Giovanni Gentile, Il discorso agli Italiani del 24 giugno 1943.
74
16. Ibi, p. 93.
17. G. Gentile, Il concetto della storia della filosofia, in La
riforma della dialettica hegeliana, cit., p. 136.
18. G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro,
Mariotti, Pisa 1916, p. 15.
19. G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere,
II, Laterza, Bari 1923, pp. 215-216.
20. B. Croce, Giovanni Gentile. Sistema di logica come teoria del conoscere, vol. II, «La Critica» XXII (1924), pp. 54-55.
La risposta di Gentile, molto tagliente, si trova in «Giornale critico della filosofia italiana» V (1924), p. 71. Sulla
genesi e lo sviluppo di tali contrasti, cfr. la biografia di G.
Turi, Giovanni Gentile, UTET, Torino 2006.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PERCORSI DIDATTICI
Matematica e creatività
Roberto Lucchetti
RIFLETTERE SULLA MATERIA CHE SI INSEGNA PUÒ INFLUENZARE LA MODALITÀ DI INSEGNAMENTO? QUAL È LA VISIONE
CHE SI HA DELLA MATEMATICA? È REALMENTE UNA DISCIPLINA AUSTERA, PERFETTA E IMMUTABILE? L’AUTORE NE DELINEA
UNA VISIONE DIFFERENTE CHE COMPORTA UNA GRANDE IMPLICAZIONE NEL MODO IN CUI SI INSEGNA: LA CREATIVITÀ. LA
MATEMATICA NON COSTITUISCE SOLO UNA MERA TRASMISSIONE DI REGOLE, MA È PIENA DI IDEE E CONCETTI APPLICABILI
AL MODO DI PENSARE E DEL VIVERE QUOTIDIANO SU CUI RIFLETTERE IN MODO DEL TUTTO ORIGINALE.
H
o letto una volta un libro che
mi è molto piaciuto e nel quale
ogni capitolo era introdotto
con un incipit costituito da una breve
frasetta. Quella che mi ha colpito di più
diceva: non si pensa mai abbastanza.
Condivido questo concetto e mi piace
che sia espresso in modo così lapidario.
E sottolineo che per me pensare significa non solo fare ragionamenti di qualche tipo, ma soprattutto riflettere su
quel che si fa, sul perché facciamo quel
che facciamo, sul come lo facciamo. Figurarsi se questo non è tanto più vero
nel lavoro di insegnante, in particolare
quanto più sono giovani gli allievi. In
fondo, se si hanno le competenze tecniche, un corso di dottorato non è così
complicato, soprattutto per la buona
ragione che chi ascolta in genere è
molto interessato ad apprendere quel
che viene proposto. Al contrario a
scuola gli studenti sono per la maggior
parte poco inclini a imparare quanto si
fa in molte specifiche materie, e la loro
motivazione per studiare, posto che ci
sia, è legata al fatto che a scuola bisogna
andarci, che serve per il futuro, e ne tralascio altre che francamente suonano
ancora meno convincenti. Questo fenomeno è destinato ad accentuarsi, dal
momento che il mondo d’oggi offre
sempre più possibilità di informarsi e
imparare al di fuori della scuola, anche
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
se spesso la qualità dell’informazione
stessa lascia parecchio a desiderare. Dal
momento che insegno matematica, e
non da poco tempo, e che ho seguito da
vicino il suo apprendimento da parte
dei tre miei figli, su questo argomento
ho provato a fare negli anni un po’ di riflessioni, che a volte mi piace condividere, soprattutto per l’intenso legame
che sento col lavoro che faccio e con la
materia che di questo lavoro è il perno
fondamentale. E mi piace rendere esplicite le mie riflessioni anche perché
credo che a volte siano un po’ eretiche;
d’altra parte sono convinto che l’eresia
sia spesso fonte di buone riflessioni.
Un primo punto basilare che vorrei affrontare riguarda il fatto che riflettere
sulla materia che si insegna e la visione
che poi ne elaboriamo dovrebbe influenzare profondamente il nostro
modo di insegnare, anzi in effetti lo influenza sicuramente. Allora la prima
domanda che io mi pongo è: qual è la
mia visione della matematica? Che cosa
rappresenta per me la matematica? Ho
messo in corsivo mia e per me, in
quanto credo profondamente che in
queste cose non esista una sola risposta
possibile, al contrario; discuterne
quindi è importante, per un naturale
confronto di idee. Questo è un punto di
vista filosofico importante: se sostengo
un’opinione è perché ci ho pensato su e
penso di avere una visione corretta di
una cosa, ma sempre sapendo, e mai
dimenticando, che opinioni diverse
hanno stessa legittimità. Riprenderò in
seguito questo punto. Ritornando a
come vedo la matematica, comincio subito col dire che sono convinto che la
visione che i non addetti ai lavori hanno
di questa disciplina non sia la più adeguata. Non insisterò sui motivi per cui
questo accade, anche se penso che la
responsabilità più grande sia legata a
come una materia viene insegnata
(dalla Scuola Primaria all’Università, o
addirittura post Università, vedi vari
corsi di aggiornamento); piuttosto, vorrei concentrarmi su quel che credo sia la
percezione dei più, e sul perché secondo
me questa percezione è profondamente
sbagliata.
Nell’immaginario collettivo la matematica è una disciplina austera, algida, perfetta, immutabile, in cui ogni assunto,
ogni affermazione corrisponde a una
verità assoluta e immodificabile. Ora
non voglio sostenere che questo non
abbia un suo fondamento, ma sono
convinto che sia una visione troppo settaria delle cose. Che il ragionamento
matematico si basi su procedure standard (o quasi), universalmente riconosciute, che da certe premesse ne derivino
certe incontestabili conclusioni, non è
cosa da mettere in dubbio. Solo che
75
PERCORSI DIDATTICI
qualcuno fornito di un’intelligenza e di
una profondità sbalorditive, parlo di K.
Gödel, ci ha mostrato in maniera lampante quanto fragili siano le basi su cui
costruiamo le nostre certezze matematiche. Intanto, ci ha spiegato che esiste
un ineliminabile solco tra ciò che è vero
e ciò che è dimostrabile in ogni teoria
matematica che comprenda l’aritmetica1; però non si è limitato a questo: ha
anche dimostrato che una tale teoria
non potrà mai essere dimostrata coerente. Ora nessuno, credo, si sogna di
pensare che prima o poi qualcuno trovi
delle contraddizioni nell’aritmetica, ma
è evidente che il panorama disegnato
da Gödel è assolutamente diverso da
quello sognato da Hilbert, il rappresentante ufficiale della matematica della
prima parte del Novecento: «in mathematics there is no ignorabimus». Dalla
parte di Hilbert c’è la visone di una
scienza trionfante che pensa di poter
tutto spiegare e tutto controllare (è solo
questione di tempo); dalla parte di Gödel, invece, un profondo atto di umiltà,
che ci ammonisce che la matematica, e
tutta la scienza in genere, hanno dei limiti ben precisi e invalicabili. Anche se,
mi preme sottolinearlo, sto parlando,
soprattutto relativamente a Gödel, di
una mia interpretazione del suo risultato di incompletezza, non certo della
sua visione filosofica. E oggi credo che
non ci sia più nessun dubbio, visti i risultati di Gödel, rinforzati da Turing,
che una visione meno onnipotente della
scienza corrisponde più a un adeguato
modo di vedere le cose.
Ma la domanda che qui vorrei pormi è:
ha tutto questo un impatto sul nostro
modo di insegnare? Io credo proprio
di sì. Se spieghiamo le cose consci che
comunque quel che diciamo non sono
verità assolute, ma concetti veri all’interno di certe teorie, che potrebbero
però non esserlo in teorie altrettanto
76
efficaci, allora forse la forma mentis, il
modo di proporre le cose possono cambiare, e non poco. Perché chi pensa di
essere certamente sulla strada giusta, e
che il giorno della comprensione assoluta si sta avvicinando, non può che
avere un atteggiamento rigido di fronte
alla trasmissione della cultura in generale e della matematica in particolare,
mentre al contrario chi pensa che non
esistano strade giuste, ma modi più o
meno efficaci di descrivere e trasmettere
la nostra percezione del mondo, non
può che avere un atteggiamento aperto
alle novità, nonché una sorta di benedetta umiltà intellettuale, che gli ricorda
sempre quanto la giustezza di una teoria o di un modo di vedere le cose sia figlia del tempo che si sta vivendo: come
la nostra visione della matematica è
molto differente (e giustamente la riteniamo più efficace) di quella di 300
anni fa, altrettanto dovremmo ricordarci che tra 300 anni qualcuno potrebbe aver da ridire, a buon diritto,
sulla nostra visione delle cose.
Tutto questo può sembrare molto teorico, ma non lo è affatto. Chi non crede
che tutto sia già scritto nel grande libro
della realtà, insomma chi sta con Gödel
e non con Hilbert, si porrà qualche
volta il problema se quel che insegna o
ha insegnato per decine di anni non
possa essere visto anche in altro modo.
Forse, l’importanza che si dà agli argomenti svolti in classe o previsti dai programmi ministeriali assume una valenza diversa. Non voglio sostenere che
certe parti della matematica che si insegnano oggi siano inutili, non voglio
sostenerlo, però vorrei almeno insinuarne il dubbio: non è possibile non
rimarcare che argomenti come la trigonometria o i logaritmi oggi non solo vadano visti e spiegati in maniera molto
diversa, ma sostanzialmente ridimensionati. Dovremmo, credo, riflettere
Kurt Gödel (1906-1978).
sull’importanza, forse eccessiva, che nei
corsi si dà all’insegnamento della geometria euclidea, col suo metodo assiomatico così efficace sì, ma anche così
freddo e lontano dall’intuizione. E su
questo voglio subito rispondere all’obbiezione che più frequentemente mi si
fa a questi discorsi, e cioè che poi siamo
proprio noi che insegniamo in Facoltà
scientifiche a lamentarci della preparazione degli studenti. In realtà, negli ultimi anni in moltissime facoltà scientifiche sono stati istituiti dei corsi di
sostegno (i cosiddetti precorsi) proprio
per dare quelle nozioni tecniche su certi
argomenti (potenze e radici, funzioni
trigonometriche, esponenziali e loga-
1. Uno dei contributi più geniali di Gödel è stato di aver
formalizzato in maniera rigorosa, all’interno del mondo
matematico, i concetti di vero e di dimostrabile. Ovviamente qui non possiamo che appellarci all’intuizione.
Diciamo allora che vero è qualcosa che non contraddice
nessuna delle premesse della teoria; detto in parole
molto imprecise Gödel ha dimostrato che in ogni teoria
così ricca da contenere l’aritmetica esiste sempre un’affermazione vera non dimostrabile
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PERCORSI DIDATTICI
ritmi, e poco altro) che sono utili per
seguire i corsi di matematica e fisica. E
da chi segue questi corsi ci piacerebbe
trovare rispondenza non nel fatto che
queste cose le conoscano già, ma piuttosto che non facciano troppa fatica a
assorbire le nozioni. Per questo, è molto
più importante un allenamento al ragionamento logico che una conoscenza
approfondita dell’argomento che si
tratta. E il ragionamento logico si impara su tante cose, non solo sui programmi classici, e non solo in matematica2. Non sottovaluto il fatto che troppe
nozioni nuove non si digeriscono in
poche lezioni, ma se a me bastano e
avanzano due ore per fare la trigonometria, forse non è necessario che gli
studenti siano torturati per troppo
tempo su questa parte della matematica
nelle scuole. Né è troppo valida l’altra
obbiezione ricorrente che c’è l’Esame di
Stato in agguato. A parte il fatto che
questo riguarda solo una parte degli
studenti, per sostenere la prova di matematica non c’è bisogno di legarsi per
cinque anni a uno schema ben definito
e immutabile…
David Hilbert (1862-1943).
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
La visione della matematica che ho delineato precedentemente ha un’altra
grossa implicazione nel modo in cui si
insegna, ed è di questa che parlo nella
seconda parte di questo mio intervento.
Si tratta della creatività. Una visione dinamica della matematica, non solo
meccanicistica e algoritmica, non può
non lasciare grande spazio alla creatività. Certo, fare matematica veramente
creativa è prerogativa di pochi. Ma tutti,
a scuola, dovrebbero essere incoraggiati
a proporre un loro modo di vedere le
cose. A me sembra che troppo spesso
l’unica preoccupazione di chi spiega sia
di insegnare un metodo, cui ci si deve
sempre uniformare per risolvere un
certo tipo di problemi. Un esempio?
Uno che mi sembra significativo è lo
studio di funzione. Se fate una prova, la
maggior parte di quelli proposti all’Esame di Stato o anche nei compiti di
analisi al primo anno di Università si
possono fare, per la maggior parte,
senza l’uso del calcolo differenziale. Per lo
meno, intendo, farsi almeno un’idea intuitiva di come sia il grafico di una funzione data. Poi qualche nozione presa a
prestito appunto dall’analisi infinitesimale può darci informazioni ulteriori.
Eppure lo standard è quello di insegnare agli alunni un metodo ben preciso di procedere, magari punendo chi
divaga. Secondo me questo non va
bene. So benissimo, tra l’altro, che
spesso sono gli alunni stessi che chiedono un metodo, un metodo meccanico da applicare. Quante volte ci sentiamo dire «ci dia una regola per
procedere!» Ora non dico che un’anarchia senza regole sia la cosa giusta da
fare, ma in cinque anni di scuola secondaria superiore non mi pare debba
essere impossibile trovare i giusti spazi
per lasciare un po’ di campo libero alla
fantasia nell’affrontare i problemi. Questo è tanto più necessario se si riflette un
po’ meglio sul fatto, evidente sperimentalmente, che l’apprendimento è
cosa molto individuale: in altre parole,
non è affatto vero che spiegare una cosa
in un modo piuttosto che in un altro è
meglio o peggio per tutti. Ci sarà chi apprezza un certo approccio, e chi ne apprezza un altro. Ci sono persone che
hanno bisogno, quando gli spiegate una
regola, di dare motivazioni, di sottolineare intuizioni magari di tipo geometrico, e c’è chi invece è disturbato da
queste spiegazioni di contorno, e capisce bene solo se gli presentate la regola
algebrica senza tanti fronzoli3.
Mi pare di essere arrivato al punto cruciale del discorso. Io intendo la matematica come un qualcosa che è molto,
2. D’altra parte la matematica ha un modo suo così peculiare ed efficace di esibire un ragionamento logico,
che ritengo sia veramente utile per chiunque impadronirsene, almeno nei suoi aspetti di base. Chi ha imparato la logica in matematica scriverà meglio una
sentenza, saprà rigirarsi con disinvoltura nelle piaghe
del diritto, sarà un bravo psicologo…
3. Ho fatto questa riflessione spiegando (poche volte!)
matematica a uno dei miei figli. Con grande sorpresa,
devo confessarlo, mi sono accorto che meno mi soffermavo su motivazioni, e più mi concentravo su fatti puramente algebrici, più lui apprezzava e capiva realmente
le cose. Questo forse non è lo standard, ma, come ho
77
PERCORSI DIDATTICI
tempi molto recenti! Mostrare maquesto genio ha cercato di affrontare
molto di più dell’insieme delle sue regari un altro metodo (molto bello
e risolvere può suscitare la sorpresa e
gole. Queste sì che si possono considequello per gelosia) può forse in quall’interesse
degli
alunni.
rare intoccabili, almeno al livello in cui
che modo attirare la curiosità degli
deve essere trasmessa. Ma a me in fondo 2) Occorre sempre ricordarsi che dieallievi, e dare loro anche l’idea che le
tro
i
calcoli
ci
sono
delle
idee,
e
che
non interessa che della matematica
loro difficoltà sono naturali, se è vero
queste sono molto più importanti!
siano trasmesse delle regole, o soltanto
che prima di arrivare al sistema
Non
bisogna
stancarsi
mai
di
mettere
delle regole. Mi interessa che si capisca
odierno, che magari è più efficiente
in evidenza le idee, prima delle reche la matematica è piena di idee, di
di altri, questo non lo nego, ci sono
gole!
Le
menti
umane
possono
esconcetti, di modi di vedere le cose che è
voluti secoli e secoli!
sere molto diverse, ma penso che nesinteressante conoscere e capire, perché si
4)
Occorre
dare più spazio ai nuovi
suno
possa
ricordare
a
memoria
possono applicare anche al modo di
aspetti. La probabilità, ad esempio, è
dimostrazioni pazzesche, così come
pensare e di vivere giorno per giorno,
difficile, a volte sorprendente, ma si
nessuno
può
suonare
un
pezzo
di
perché ti danno un modo originale di
può avvalere di esempi interessanti, e
musica classica avendo solo memoriflettere. Così come sono convinto che
ha anche più ricadute pratiche, nel
rizzato
le
note:
è
evidente
che
dietro
un matematico migliori la sua commondo di oggi, della trigonometria.
c’è una trama, e non svelare questa
prensione delle cose, e in definitiva facSia ben chiaro, non è che a scuola si
trama
è
un
errore
terribile.
cia meglio il suo lavoro, se è persona
possa fare molto, ma darne un’idea
curiosa e ricca di interessi culturali e 3) La matematica non è nata come la
sì. Un altro esempio: parlare un po’
vediamo
oggi
noi,
e
tra
qualche
senon di tipo differente, così come allo
di strutture sarebbe molto imporcolo sarà enormemente diversa da
stesso modo credo che un non matetante, sono l’essenza della matemaquella di oggi. Come ho già ricormatico abbia grandi benefici a conotica, ed è vero che a un livello di codato, l’insegnamento tende secondo
scere un po’ di idee che la matematica gli
noscenza tecnica non molto elevato
me a rendere troppo assoluto l’appuò dare.
gli esempi non sono molti, ma qualproccio alla disciplina, dando l’imTutto questo è molto teorico, ma la teocosa si può fare. Un altro ancora: un
pressione che questa sia sempre stata
ria va messa in pratica. Per questo cerco
po’ di teoria dei grafi, che permettecosì, e che lo sarà per sempre. Ma ad
sempre di chiedermi come proverei io a
rebbe di fare qualche applicazione
esempio le moltiplicazioni, così
realizzare queste mie idee nell’insegnaforse più interessante e innovativa di
come vengono spiegate ai bambini,
mento. Ecco allora qualche spunto su
quelle che di solito si fanno vedere a
l’uomo le fa in questo modo solo da
cui lavorerei in classe.
scuola… sono solo esempi, ma possibilità da esplorare.
1) Ricordare sempre che di un pro5) L’insegnamento può procedere sia in
blema, o di una parte della teoria,
maniera deduttiva sia in maniera innon esiste soltanto l’aspetto tecnico.
duttiva. Il metodo principe (oggi!) è
Che ovviamente è una parte essenquello deduttivo, che spesso si moziale, ma non l’unico che va consistra di gran lunga più efficiente. È la
derato. Raccontare un po’ della stodeduzione che ci permette di apria di un problema, o della vita di
un personaggio importante del passato o del presente, che di quel prosperimentato in seguito a questa scoperta, è più coblema è stato un protagonista, momune di quel che si pensi. Ecco perché non hanno
senso, in didattica, le prese di posizioni troppo estreme.
strare a volte un film che parla di
C’è chi, per esempio, si trova a suo agio col metodo inmatematica (ce ne sono…) può esduttivo, e chi privilegia quello assiomatico deduttivo.
Chi è fortemente motivato, nella comprensione, dal vesere una via da seguire. La vita di
dere applicazioni e utilizzi specifici delle regole, e chi in
sede di apprendimento della stessa distratto e disturEvariste Galois è più bella e romanbato da tutto ciò che non concerne direttamente l’artica di un romanzo, dedicare un paio
gomento matematico in discussione. Può piacermi il
Bourbakismo, ma pensare che questo sia il solo metodo,
d’ore per raccontarla, passando poi
o il metodo più giusto, per presentare tutta la matemal’ora dopo a parlare dei problemi che
Évariste Galois (1811-1832)
tica, per me è pura follia.
78
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PERCORSI DIDATTICI
come funghi. Però è vero che l’atanche se non ne viene fuori quasi
prendere più in fretta, non solo in
tenzione delle persone si cattura più
mai qualcosa di originale, e spesso le
matematica: qualcuno risolve con
facilmente facendo vedere cose sorconclusioni non sono corrette. Pagrandi difficoltà un problema quaprendenti, non cose un po’ scontate.
zienza! E’ molto creativo discutere
lunque, gli altri poi dal suo sforzo
E questo è vero sempre. Con i bamanche degli errori, di come nascono
deducono che fare, e lo fanno con
bini, l’attenzione dei quali viene cate si sviluppano. Le persone incoragmaggiore facilità. Chi ha scritto un
turata con grande facilità facendo
giate a pensare con la testa loro, a
lavoro di matematica sa benissimo
vedere loro cose non scontate, con i
trovare soluzioni alternative avranno
che le cose alla fine sono presentate
ragazzi a scuola, se gli proponete
sempre un approccio meno negativo
in maniera ben diversa da come sono
qualcosa di insolito che magari ha
alla materia.
venute alla mente: quest’opera di ririsposte insolite. Ma succede anche
traduzione è essenziale ed utile agli 7) Incoraggiare anche il lavoro di
con gli adulti, succede con gli esperti.
gruppo. Dare compiti non solo ed
altri (se ben fatta, naturalmente).
L’ho sperimentato persino nel laesclusivamente standard. Ogni tanto
Quindi, nessuna obbiezione al mevoro: ho avuto la fortuna di essere
organizzare prove più impegnative
todo deduttivo. Ma occorre ribellarsi
invitato a pranzo da un (futuro) preche gli alunni devono provare a rise questo diventa l’unica maniera di
mio Nobel, che gentilmente mi ha
solvere in gruppi. E’ vero che in quepresentare le cose. Anche un matechiesto che cosa stavo studiando; ho
sto modo si formano dinamiche non
matico bravo, esperto e profondo, se
cominciato a dirgli che avevo fatto
sempre del tutto positive: c’è chi si dà
si trova a leggere o ascoltare cose lonnell’ultimo lavoro, che risultati avevo
da fare e chi segue passivamente, chi
tane dal suo campo di ricerca, spesso
trovato, e lui mi ha detto che erano
sfrutta il lavoro altrui. Ma questo
ha difficoltà a catturare le idee in un
risultati prevedibili. Ma quando gli
non succede solo in ambito scolaapproccio formale deduttivo che non
ho parlato dell’ultimo, che lui aveva
stico, queste meccaniche di gruppo si
spieghi da dove hanno origine certe
predetto in maniera un po’ diversa,
ritrovano in ogni ambiente, perché
astrazioni. Per questo a scuola ocsolo allora ho catturato davvero la
non cominciare a sperimentarle a
corre alternare le cose, occorre dedisua attenzione e il suo interesse!
scuola? Senza contare che l’insecare del tempo anche a impostare un
gnante ha la possibilità di interveproblema, e soprattutto ad ascoltare
nire, almeno in parte, di correggere e Non voglio qui trarre delle conclusioni
i tentativi, quasi sempre sbagliati, deprecise. Come insegnare la matematica
indirizzare.
gli studenti, su come affrontarlo.
8) Infine, forse questo è il punto cui è un tema eterno, che non si esaurisce
Non è tempo perso!
tengo di più, ed è la costante nelle mai. E renderla più appetibile una fatica
6) Occorre sempre incoraggiare lo stumie lezioni, mostrare il più spesso di Sisifo. Parlarne però serve a chi lo fa
dente a cercare le sue soluzioni a un
possibile quanto sorprendente può per lavoro a non appiattirsi nell’abituproblema. Occorre premiare lo stuessere la matematica. Quanti para- dine e nella noia. Ma se una morale dal
dente che va in cerca di una soludossi può portare con sé. Il para- mio discorso la devo tirare, vorrei sotzione sua, magari inefficiente, a volte
dosso attira l’attenzione. Stimola il tolineare come la cosa più importante
pure sbagliata, ma lo sappiamo bene
pensiero. Certo, lo standard è la re- sia un atteggiamento flessibile, mirato e
che nella vita si impara più dagli ergola, quella regola rassicurante, so- intelligente nei confronti della materia e
rori che osservando e ripetendo
prattutto per chi la insegna. Perché sa di coloro cui questa materia si insegna.
meccanicamente le cose spiegate!
maneggiarla, ne ha esperienza. Ma Occorre ricordarsi sempre che il comQuesto è un punto cruciale, troppe
non esiste solo lo standard, anzi! So pito di insegnante, credo, sia quello di
volte ho visto (allibito!) studenti puche la mia visione mi influenza mol- trasmettere il più possibile idee, culniti attraverso lo strumento del voto
tissimo. Sono curioso delle teorie di tura, voglia di sapere. Su quali argoper non aver utilizzato il metodo apGödel, che sono basate su un uso so- menti, in fondo non è il punto più impena spiegato in classe, pur avendo
fisticatissimo di uno dei più famosi portante.
trovato la soluzione corretta. A me
paradossi della logica, il paradosso
piacerebbe poter punire quegli inseRoberto Lucchetti
del mentitore. Mi occupo di teoria
gnanti! Lo studente che propone una
Università Cattolica del Sacro Cuore,
dei giochi, dove i paradossi nascono
soluzione sua fa qualcosa di creativo,
sede di Brescia
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
79
PERCORSI DIDATTICI
Sfasamenti tra grandezze
e metodi statistici
Il caso dell’inerzia termica nel sistema
riscaldamento solare e atmosfera terrestre
Carlo Genzo
Premessa
Le indagini sulle relazioni esistenti tra
grandezze diverse possono essere tra le
più fruttuose nella ricerca scientifica, anche nei casi in cui queste grandezze sono
di natura diversa ed esprimibili o in base
a formule matematiche o in sequenze di
valori desunti da dati empirici con metodi statistici. Una certa importanza è
offerta dai casi in cui le grandezze da
confrontare risultano periodiche o quasiperiodiche (ossia con periodi simili tra
loro), nei quali, con un metodo che qui
illustreremo, è possibile dedurre lo sfasamento tra le grandezze esaminate, interpretabile successivamente a livello fisico.
Il metodo, qui applicato al riscaldamento giornaliero medio dell’atmosfera
in relazione alla variazione della declinazione solare, si presenta quindi come
una esercitazione scolastica di notevole
valore didattico, utilizzabile, una volta
appresa, anche in contesti diversi. L’uso
del foglio elettronico, al quale gli allievi
sono indirizzati in modo concretamente operativo, consente numerose
indagini eseguibili in tempi brevi, con
rapide elaborazioni dei numerosi dati
raccolti in virtù dei programmi di calcolo qui inseriti.
molto simili tra loro), è possibile confrontare le loro oscillazioni. Le curve,
infatti, potranno essere in concordanza
di fase, coi massimi e minimi dell’una
coincidenti con quelli dell’altra, o in
opposizione di fase, con i massimi dell’una coincidenti con i minimi dell’altra, e viceversa, oppure, più in generale, in altri casi, potranno rivelare un
certo sfasamento.
Questo è apprezzabile già da una osservazione qualitativa dell’andamento
delle due curve, quando esse siano tracciate sullo stesso grafico. Ma è anche
possibile usare metodi forniti dalla statistica, per apprezzare meglio quantitativamente lo sfasamento delle due
curve. Il coefficiente di correlazione di
Pearson r può servire a questo.
Un esempio
applicativo
n
∑x y
i
r=
i
i =1
n
n
∑x ∑y
2
i
i =1
2
i
i =1
In questa formula xi e yi rappresentano
gli scostamenti dalla media aritmetica
delle due grandezze, ossia le differenze
dei singoli dati dalle rispettive medie
aritmetiche1.
Oltre che con laboriosi calcoli algebrici,
i valori di r possono essere dedotti immediatamente applicando programmi
La teoria
Se due curve oscillanti hanno la stessa già inseriti sui fogli elettronici, come
lunghezza d’onda (o lunghezze d’onde ad esempio Excel, Linux ed altri.
80
Se le due curve sono concordanti, il coefficiente tende al valore + 1, se sono in
opposizione il coefficiente tende a – 1,
se sono sfasate, ha un valore compreso
nell’intervallo tra questi due numeri
(figure 1 e 2). Valori prossimi a zero
(da r = – 0,3 a r = + 0,3) indicano assenza di correlazione tra le due grandezze esaminate.
Facendo slittare una delle due curve rispetto all’altra, prima di un solo posto
della sequenza, poi di due, di tre, e così
avanti, si otterranno via via valori diversi di tale coefficiente: il valore massimo coinciderà con un certo slittamento di una curva rispetto all’altra,
che corrisponderà allo sfasamento esistente tra le due curve stesse.
Abbiamo voluto ricercare se esiste uno
sfasamento tra l’oscillazione dell’altezza
del Sole nei singoli giorni dell’anno e la
variazione della temperatura media
giornaliera dell’aria in una determinata
località.
Com’è noto, il riscaldamento della
Terra dipende dall’inclinazione con cui
1. Per l’ applicazione di tali formule, vedi ad esempio gli
esempi numerici riportati in Genzo, 2012 (vedi bibliografia).
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PERCORSI DIDATTICI
Per comodità di calcolo, conviene trasformare i valori angolari sessagesimali
in numeri decimali, secondo il seguente
esempio:
Qual è l’altezza massima del Sole a
Roma il giorno 25 maggio?
Applicando la formula (2) si ha:
Altezza massima Sole = 90° – lat. di
Roma + 23,45° sen (360 × 65/365) =
= 90° – 41,92° + 21,09° = 69,17 ° = 69° 10’
Fig. 1. Se le curve sono in concordanza di fase il loro coefficiente di correlazione è r = +1. Nel calcolo, i minuti secondi sono stati
per semplicità trascurati.
Per calcolare le temperature medie giornaliere di una località è opportuno disporre dei valori non di un solo anno,
in quanto nelle singole annate le variazioni di temperatura possono essere
piuttosto notevoli, ma considerare piuttosto la media aritmetica giornaliera di
un numero consecutivo di molti anni,
preferibilmente almeno di 303. Per non
rendere eccessivamente noiosi i calcoli,
Fig. 2. Se le curve sono in discordanza di fase il loro coefficiente di correlazione è r = −1.
è possibile calcolare le medie aritmetiche giornaliere non di tutti i giorni dell’anno, ma solo di quelli presi a interFig. 3.
valli di 5, oppure di 4 giorni, o di un
Andamento
dell’altezza
altro intervallo breve a scelta.
massima del
Nell’esempio qui riportato ci siamo avSole (Serie 1) e
valsi di dati di temperatura giornaliera
della
temperatura
media già calcolati per i vari giorni delmedia a Trieste
l’anno per un periodo di 50 anni con(Serie 2) (in °C)
secutivi per la città di Trieste (Polli S.,
nel corso di un
1942).
anno.
Le curve dell’altezza massima del Sole
sull’orizzonte e delle temperature medie giornaliere sono riportate sullo
i raggi solari raggiungono la superficie Per determinare l’altezza massima del stesso grafico (figura 3).
del nostro pianeta, secondo la formula: Sole sull’orizzonte, per ciascun giorno
R’ = R cos a
(1) dell’anno, si può applicare la seguente
formula2, che è valida per qualsiasi lo- 2. Essa deriva dalla formula di Cooper, che riguarda le
dove a rappresenta l’angolo che ha per
variazioni giornaliere della declinazione solare in funcalità della Terra:
zione della data.
lati la verticale e la direzione del rag3. Le diversità di temperature giornaliere presenti in una
Altezza massima Sole =
determinata località nella stessa data in annate diverse
gio solare, R il riscaldamento solare
dipendono dalla variabilità delle condizioni meteorolo90°
–
latitudine
del
luogo
(2)
della superficie terrestre quando il
giche presenti, in conseguenza del fatto che l’atmosfera
+23,45° sen (360° × N/365)
costituisce un sistema complesso. Il numero 30 non è
Sole sia in posizione zenitale, ed R’ il
stato scelto arbitrariamente: esso segue la norma emriscaldamento quando il Sole occupi dove N rappresenta il numero dei pirica secondo cui il clima di una località viene caratteuna qualsiasi altra posizione sulla giorni a partire dall’equinozio di pri- rizzato sulla base dei valori medi degli elementi
meteorologici, registrati giornalmente per 30 anni conmavera (21 marzo).
volta celeste.
secutivi.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
81
Tabella 1.
82
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PERCORSI DIDATTICI
Si è quindi calcolato il coefficiente di
correlazione R per le due curve4. Esso
corrispondeva al valore di
R = + 0,853
che rappresenta un forte vincolo tra le
due grandezze.
Successivamente, si è fatta slittare di
una casella verso il basso la sequenza
della grandezza altezza max Sole, ricalcolando il coefficiente di correlazione
nella nuova situazione (tabella 1), ed
ottenendo ora il valore di R = + 0.8835
Si è quindi passati allo scivolamento
della prima grandezza (altezza massima
sole) di un’altra casella verso il basso,
Tabella 2. Valori del coefficiente di
correlazione in relazione allo
sfasamento in giorni.
calcolando ancora una volta il coefficiente di correlazione, che ora risultava
essere: R = + 0,914. E così avanti, con lo
scivolamento della prima sequenza di
casella in casella.
I dati così ottenuti, per uno scivolamento fino a 15 caselle, pari a un totale
di 60 giorni (tabella 2) sono stati riportati su un grafico, dando origine a
una parabola con la concavità rivolta
verso il basso (figura 4). Il vertice della
parabola corrisponde al valore massimo della correlazione (R = + 0,997), la
sua ascissa rappresenta lo sfasamento
esistente tra le due curve. Nel nostro
caso esso corrisponde a 32 giorni.
Quindi, il riscaldamento massimo solare si verifica il 21 giugno, al solstizio
d’estate, ma occorre attendere un mese
affinché l’aria raggiunga mediamente
le temperature massime. Analoga situazione si verifica nella stagione invernale: il riscaldamento minimo coincide col solstizio d’inverno (22
dicembre), ma le temperature più basse
si registrano circa un mese dopo6.
È necessario quindi un certo tempo affinché si producano gli effetti massimi
del riscaldamento e del raffreddamento
dell’aria, in seguito a fenomeni di inerzia termica.
Chi scrive determinò l’inerzia termica
per il sistema aria-mare nel golfo di
Fig. 4. Valori del coefficiente di correlazione in relazione allo sfasamento in giorni.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
Trieste, verificando che le temperature
massime e minime dell’acqua in tale
golfo hanno uno sfasamento (cioè ritardo) di 20 giorni rispetto alle temperature della sovrastante atmosfera7.
Altre applicazioni
e considerazioni
didattiche finali
È evidente che il metodo testé illustrato
può essere applicato per indagini di
qualsiasi tipo, purché si disponga di sequenze opportune, e abbastanza abbondanti, di dati. Vi sono influenze tra
il ciclo lunare e il numero dei nati, come
a volte si afferma? Oppure tra il numero dei nati e le varie stagioni? C’è
qualche relazione tra il traffico automobilistico extraurbano e il rispettivo
mese dell’anno? O tra i consumi di elettricità e i rispettivi mesi?
Tutte queste indagini, con dati facilmente ricavabili navigando per Internet, e calcoli eseguibili molto rapidamente attraverso i programmi inseriti
sul foglio Excel od altri similari, consentono di verificare se esistono corre-
4. Sul foglio Excel è inserito il programma per il calcolo
automatico del coefficiente di correlazione.
5. Ovviamente, in tal caso si è potuto calcolare il coefficiente di correlazione solo laddove per entrambe le sequenze si disponeva di un dato, trascurando il primo
valore in alto della sequenza temperatura e l’ultimo valore in basso della sequenza altezza max sole. La diminuzione di un valore per ogni slittamento non ha
portato a modifiche sostanziali, purché le sequenze
contengano un numero adeguato di dati, come nel nostro caso. Calcoli eseguiti con un raddoppio delle sequenze come numero dei dati portano a risultati e
considerazioni finali analoghe.
6. Questi giorni corrispondono popolarmente ai cosiddetti “giorni della merla”. Anche la durata del soleggiamento può avere importanza nei fenomeni di
riscaldamento e raffreddamento terrestre. In questa indagine non se ne è tenuto conto, anche perché essa risulta subordinata all’inclinazione dei raggi solari. Basti
pensare che, nelle zone polari, tale durata corrisponde,
per un periodo dell’anno, a 24 ore giornaliere; ciò nonostante le temperature rimangono estremamente
basse, in conseguenza della limitata altezza del Sole sull’orizzonte durante tutto il dì.
7. C. Genzo, 1990. Va tenuto conto che il Golfo di Trieste
è piuttosto chiuso, con profondità del mare non superiori generalmente ai 30 metri, e via via inferiori nel settore più occidentale.
83
PERCORSI DIDATTICI
lazioni (positive o negative) tra due
sequenze di fenomeni, o se esse risultino assenti.
È indispensabile tuttavia notare che
una correlazione tra due grandezze
non significa ancora necessariamente un loro rapporto diretto tra
causa ed effetto. Già nell’Ottocento
si era ad esempio notato che le cicogne nidificavano nei paesi nordici sulle case dei villaggi ove vi
erano bambini appena nati. Da
questa osservazione nacque probabilmente la poetica tradizione che
fossero le cicogne a portare i neonati. Una spiegazione più razionale
è quella che i focolari delle case con
bambini molto piccoli fossero più a
lungo riscaldati nella stagione invernale, per ottenere l’acqua calda
con cui accudire i bimbi, per cui i
pennuti preferivano disporre il proprio nido sui tetti e in prossimità
dei camini più caldi.
La rivoluzione informatica sta radicalmente modificando le nostre abitudini di vita. Come per ogni stru-
mento importante, anche il PC va
utilizzato in modo razionale ed adeguato. I programmi inseriti nel foglio elettronico, tra i quali il calcolo
del coefficiente di correlazione, consentono un’enorme rapidità e risparmio di fatica nello svolgimento
dei calcoli, mentre Internet consente
di trovare dati, tra i più disparati,
numerosi ed aggiornati, da ogni
parte del mondo. Questi strumenti
permettono quindi di poter svolgere ricerche interessanti, anche a
livello scolastico, appuntando l’attenzione degli studenti soprattutto
sui collegamenti (eventuali) tra i diversi fenomeni e l’individuazione di
possibili cause ed effetti tra essi. Il
che costituisce la spina dorsale della
scienza. Senza contare le possibili
smentite ad opinioni magari consolidate ma prive di fondamento, il
che può aiutare la crescita dello spirito critico.
Carlo Genzo
docente di scuola secondaria
BIBLIOGRAFIA
AA.VV., Valori normali del clima di Trieste relativi al trentennio 1973-2002. ISMAR-CNR. Sezione di Oceanografia fisica e chimica “F. Vercelli” Trieste.
AA.VV., Dati meteorologici di Trieste, RF 2002 e successivi, a cura di ISMAR-CNR Sezione di Oceanografia fisica e chimica “F. Vercelli” Trieste 2002-2009.
C. Genzo, L’inerzia termica del sistema aria-mare nel Golfo di Trieste. Atti Museo Civico Storia naturale di Trieste, Trieste 1990, Vol. 43, fasc.
1: 323-328.
C. Genzo, Correlazioni tra elementi meteorologici, «Nuova Secondaria» Anno X, n.4:81-82, Brescia 1992.
C. Genzo, La trasmissione termica nel sistema aria-suolo sul Carso triestino, Atti Museo Civico Storia naturale di Trieste, Trieste 1995, Vol.
46: 173-178.
C. Genzo, Meteorologia, climatologia e cambiamenti di clima. L’uso del foglio elettronico 1, «Nuova Secondaria», Anno XXIX, n. 6: 99-102,
Brescia 2012.
C. Genzo, Meteorologia, climatologia e cambiamenti di clima. L’uso del foglio elettronico 2, «Nuova Secondaria», Anno XXIX, n. 7: 105-110,
Brescia 2012.
S. Polli, Cento anni di osservazioni meteorologiche eseguite a Trieste (1841-1940), Parte I: Generalità e serie termometriche, «Boll. Soc.
Adriatica di Scienze», Vol. XL: 5 - 28, Trieste 1942.
S. Polli, Il clima della Regione, in Enciclopedia monografica del Friuli Venezia Giulia, Ist. Encicl. Regione Friuli Venezia Giulia, Udine 1971,
Vol. I, tomo 1.
F. Stravisi, Considerazioni statistiche sui valori medi mensili di cinque elementi meteorologici: Trieste 1841-1975, Ist. Talassografico TS,
Trieste 1976.
F. Stravisi, Climatic variations at Trieste during the last Century, CNR Istituto Talassografico TS, Trieste 1987, pp. 610.
84
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PERCORSI DIDATTICI
Sali: nomenclatura e formule
Gian Giacomo Guilizzoni
IN UN CORSO DI CHIMICA DI BASE, SOVENTE, GLI STUDENTI INCONTRANO DIFFICOLTÀ NELLO SCRIVERE LA FORMULA DI
UN SALE, E ANCOR DI PIÙ QUELLA DI UN IDROGENOSALE, RICORRENDO SPESSO AD ELENCHI DI CATIONI E ANIONI CHE
TROVANO SUI TESTI SCOLASTICI.
M
olte persone, anche colte, incappando in nomi e formule chimiche, di- desinenza –ICO e tutti i loro sali desichiarano candidamente: «io di chimica non ho mai capito niente; i ter- nenza –ATO.
mini chimici mi sembrano volutamente oscuri, per soli iniziati. Certe
formule di composti organici mi ricordano un dipinto astratto».
Esempi. HClO, acido ossoclorico(I) → ossoclorato(I); HClO3, acido diossoclorico(III) → diossoclorato(III); HClO3, acido
triossoclorico(V) → triosssoclorato(V);
HClO4, acido tetraossoclorico(VII) → tetraossoclorato(VII).
Tuttavia, poiché sono ancora largamente usate, per gli ossoacidi più comuni, le desinenze –OSO e –ICO e per
alcuni composti binari aventi carattere
acido la desinenza –IDRICO, è risaputo
che ai tre suffissi corrispondono, per i
sali, rispettivamente -ITO, -ATO, -URO.
Formula abbreviata dello spinetoram,
un insetticida
Ovviamente, la situazione non è questa:
al chimico, un nome o una formula dicono molto e gli ricordano una sostanza solida, liquida o gassosa, colorata
o incolore, profumata o di odore cattivo, pesante o leggera, che si può toccare, annusare, riscaldare, congelare,
ecc. La nomenclatura chimica non è la
chimica ma è indispensabile conoscerne
le regole. Ha scritto Isaac Asimov:
«Quando due persone si accingono a
parlare in modo che il loro dialogo sia
sensato, devono preventivamente accordarsi sui simboli che utilizzeranno
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
Esempi. HCl, acido cloridrico → cloruro;
HClO, acido ipocloroso → ipoclorito;
HClO2, acido cloroso → clorito; HClO3,
acido clorico → clorato; HClO4, acido percome mezzo di comunicazione (parole, clorico → perclorato.
ad esempio, o altri); tutte le loro affermazioni dovranno essere in accordo
con le norme relative al mezzo di comunicazione scelto».
È qui riportata la scaletta di un semplice
metodo per trovare la formula di un
sale, di un idrogenosale e di un idrossosale anche poco comune, conoscendo
quella del corrispondente acido.
Nomenclatura di un sale
Denominare un sale è semplice: tutti
gli ossoacidi, secondo la IUPAC, hanno
Si potrebbe a questo punto chiedere il
nome dei sali corrispondenti ad acidi
sconosciuti agli studenti, pronunciandoli a raffica.
Esempi. Acido talluridrico → tellururo;
acido telluroso → tellurito; acido tellurico → tellurato; acido ipofosforoso →
ipofosfito; acido malonico → malonato;
acido maleico → maleato; acido malico
→ malato; acido nitriloltriacetico → nitriloltriacetato; acido etilendiammino-
85
PERCORSI DIDATTICI
tetracarbossilico → etilendiamminotetracarbossilato; acido. 4-4’-dimetilamminoazobenzensolfonico → 4,4’-dimetilamminoazobenzensolfonato.
1,5-pentandioati (citrati) di potassio C3H5O(COOK)3, di magnesio
[C3H5O(COO)3]2Mg3 e di alluminio C3H5O(COO)3Al. Dall’acido 1,4-benzendioico
(acido tereftalico) derivano gli 1-2-benzendioati (tereftalati) di potassio, magnesio e alluminio
Formula di un sale
Poiché i sali sono composti costituiti da un
catione unito all’anione di un acido, per ricavare la formula di un sale si deve conoscere
la formula dell’acido da cui il sale deriva;
poi, si unisce il catione all’anione dell’acido.
Esempi
acido anione catione
+
K
HCl
Cl−
H2S
S2−
HClO4 ClO4−
H2SO4 SO42−
H3PO4 PO43−
catione
Mg
2+
catione
Al3+
KCl
MgCl2
AlCl3
cloruro
cloruro
cloruro
K2S
MgS
Al2S3
solfuro
solfuro
solfuro
KClO4
Mg(ClO4)2 Al(ClO4)3
perclorato perclorato perclorato
K2SO4
MgSO4
Al2(SO4)3
solfato
solfato
solfato
K3PO4
Mg3(PO4)2 AlPO4
fosfato
fosfato
fosfato
Idrogenosali
Gli idrogenosali (talvolta detti ancora impropriamente sali acidi) sono sali derivanti dagli acidi per sostituzione formale, soltanto in parte, degli atomi di
idrogeno con cationi. Per ricavare la formula degli idrogenosali si unisce il
catione con gli anioni dell’acido contenenti ancora atomi di idrogeno. I nomi
IUPAC indicano il numero di atomi di idrogeno presenti nell’anione dell’idrogenosale.
Esempi
acido
anione
catione
+
K
A questo punto, per controllare se gli studenti padroneggiano l’argomento, si potrebbero fornire le formule di alcuni acidi carbossilici, a loro sconosciute, chiedendo di
scrivere le formule e denominare i rispettivi
sali di sodio, magnesio e alluminio, avvertendoli che l’idrogeno sostituibile dal catione
è quello del gruppo carbossile -COOH.
Esempi
Dall’acido etanoico CH3COOH (acido acetico,
anione CH3COO−) derivano gli etanoati (acetati) di potassio CH3COOK, di magnesio
(CH3COO)2Mg e di alluminio (CH3COO)3Al.
Dall’acido esandioico HOOC(CH2)4COOH
(acido adipico, anione −OOC(CH2)4COO−) derivano gli esandioati (adipati) di potassio
KOOC(CH2)4COOK, di calcio (CH2)4(COO)2Ca e
di alluminio [(CH2)4(COO)2]3Al2. Dall’acido 3idrossi-3-carbossi-1,5,pentandioico
C3H5O(COOH)3 (acido citrico, anione
C3H5O(COO)33−) derivano i 3-idrossi-3-carbossi-
86
H2S
S2−
HS−
H2SO4
SO42−
HSO−4
H3PO4
PO43−
HPO2−
4
H2PO4−
K2S
solfuro
KHS
idrogenosolfuro
K2SO4
solfato
KHSO4
idrogenosolfato
K3PO4
fosfato
K2HPO4
idrogenofosfato
KH2PO4
diidrogenofosfato
catione
2+
Mg
MgS
solfuro
Mg(HS)2
idrogenosolfuro
MgSO4
solfato
Mg(HSO4)2
idrogenosolfato
Mg3(PO4)2
fosfato
MgHPO4
idrogenofosfato
Mg(H2PO4)2
diidrogenofosfato
catione
Al3+
Al2S3
solfuro
Al(HS)3
idrogenosolfuro
Al2(SO4)3
solfato
Al(HSO4)3
idrogenosolfato
AlPO4
fosfato
Al2(HPO4)3
idrogenofosfato
Al(H2PO4)3
diidrogenofosfato
Come si vede la nomenclatura IUPAC, a differenza di quella tradizionale, è
chiarissima ma purtroppo ancora poco usata. Valgano due esempi dell’ingannevole nomenclatura tradizionale; sono domande poste più volte dagli
studenti a chi scrive.
Esempi
1. Bicarbonato significa due volte carbonato? Per rispondere alla domanda
si deve tornare nel XVIII secolo, quando i sali venivano considerati come prodotti di addizione tra una «base» (l’attuale ossido metallico) e un «acido» (l’atNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PERCORSI DIDATTICI
tuale ossido non metallico) e talvolta
acqua. L’ossido di sodio Na2O veniva
detto soda e il diossido di carbonio CO2,
acido carbonico. Quindi, il sodio carbonato Na2CO3 veniva scritto in formula
dualistica Na2O·CO2 e chiamato carbonato di soda. Il sodio idrogenocarbonato NaHCO3 si scriveva Na2O·2CO2·H2O
e si chiamava coerentemente bicarbonato di soda. Nella formula NaHCO3 non
si vede nulla che possa giustificare il
prefisso bi-.
2. Perché il fertilizzante CaHPO4, pur
contenendo un solo atomo di calcio, è
chiamato fosfato bicalcico? Dall’acido
fosforico H3PO4 derivano tre sali di calcio, i cui nomi IUPAC non lasciano dubbi:
calcio fosfato Ca3(PO4)2, calcio idrogenofosfato CaHPO4 e calcio diidrogenofosfato Ca(H2PO4)2. Un tempo, per denominare gli idrogenosali, ci si riferiva
non agli atomi di idrogeno presenti
nella loro formula ma a quelli sostituiti
nell’acido, da cui i nomi di fosfato tricalcico, bicalcico e monocalcico. La confusione era aumentata da chi li chiamava
rispettivamente trifosfato, bifosfato e
monofosfato di calcio.
Idrossosali
Gli idrossosali (detti ancora impropriamente sali basici) si possono considerare come derivanti dagli idrossidi per
sostituzione formale di parte degli
idrossili con gli anioni di un acido.
Esempi
idrossido
catione
anione
Cl−
Cu(OH)2
Cu2+
HOCu+
Al(OH)3
Al3+
HOAl2+
(HO)2Al+
CuCl2
cloruro
HOCuCl
idrossocloruro
AlCl3
cloruro
HOAlCl2
idrossocloruro
(HO)2AlCl
diidrossocloruro
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
Sali complessi
2. Quando il coordinatore è un catione
I sali complessi sono composti di coordi- e i leganti sono molecole o aggruppanazione in cui nel catione, o nell’anione, menti elettricamente neutri, la carica
ad un atomo coordinatore sono uniti elettrica dello ione complesso è la stessa
atomi o aggruppamenti atomici o ioni, del coordinatore.
detti leganti, in numero superiore al numero di ossidazione del coordinatore. Esempi
(Ni2+ + 6H2O)
I leganti in grado di mettere a disposi- Ni(H2O)62+Cl2
tetraaquonichelio(II) cloruro
zione del coordinatore due o più dop2+
(Cu2+ + 4NH3)
pietti elettronici si dicono polidentati. Cu(NH3)4 Cl2
tetraamminorame(II) cloruro
Per alcuni di questi G.T. Morgan e H.D.
Drew hanno coniato il termine chelante,
e quindi i loro complessi si chiamano 3. Quando il coordinatore è un catione
chelati, perché il coordinatore si trova e i leganti sono anioni, la carica elettrica
come ghermito dalle chele di un artro- dello ione complesso è la somma algebrica delle cariche elettriche del coorpodo.
dinatore e dei leganti. Se il complesso
1. Secondo Alfred Stock, il nome di un risulta essere un anione, il nome del lecomplesso si scrive indicando prima il gante prende la desinenza -ato. Così ad
numero e il nome dei leganti, poi il esempio, ferro diventa ferrato; cromo,
nome del coordinatore e, se necessario, cromato, ecc. In alcuni casi si usa il
nome latino dell’elemento; così oro diil suo numero di ossidazione.
venta aurato; nichelio, niccolato;
Esempi di leganti e loro nomi IUPAC piombo, plumbato; rame cuprato; stagno stannato.
−
F
fluoroEsempi
aquoH2O
−
NaAlCl4
(Al3+ + 4Cl−)
cloroCl
sodio tetracloroaurato
amminoNH2
−
(Zn2+ + 4CN−)
CaZn(CN)4
idrossoOH
calcio tetracianozincato(II)
NO
nitroso−
(Fe2+ + 6CN−)
K4Fe(CN)6
mercaptoSH
potassio esacianoferrato(II)
nitritoNO−2
−
(Fe3+ + 6CN−)
K3Fe(CN)6
cianoCN
potassio esacianoferrato(III)
CO
carbonil−
(Hg2+ + 4CN−)
(NH4)2Hg(NH3)2(CN)4−
tiocianoSCN
ammonio diamminotetraciano
CS
tiocarbonilmercurato(II)
anione
anione
(Fe3+ + 5CN-)
Na2Fe(NO)(CN)5
SO42−
CHCOO−
sodio nitrosopentacianoferrato(III)
CuSO4
(CH3COO)2Cu
(Pb2+ + 3OH−)
NaPb(OH)3
solfato
acetato
sodiotriidrossoplumbato(II)
(HOCu) SO
HOCuOOCH
2
4
idrossosolfato
Al2(SO4)3
solfato
HOAlSO4
idrossosolfato
[(HO)2Al]2SO4
diidrossosolfato
3
idrossoacetato
(CH3COO)3Al
acetato
HOAl(OOCCH3)2
idrossoacetato
(HO)2AlOOCCH3
diidrossoacetato
Gian Giacomo Guilizzoni
ITIS “Cobianchi”, Verbania
87
PERCORSI DIDATTICI
La nave aerea di Lana Terzi
Ledo Stefanini
L’AUTORE IN QUESTO ARTICOLO PRESENTA L’INVENZIONE DEL GESUITA BRESCIANO FRANCESCO LANA TERZI CHE FECE
MAGGIOR SCALPORE E CIOÈ “UNA NAVE CHE CAMINI SOSTENTATA SOPRA L’ARIA A REMI” SOTTOLINEANDO CHE
L’ASPETTO CHE PIÙ PUÒ INTERESSARE GLI STUDENTI DI UN CORSO DI FISICA NON È TANTO IL PROGETTO STESSO, MA LE
PROBLEMATICHE E LE SITUAZIONI FISICHE CONNESSE ALLA SUA FATTIBILITÀ.
Come collocare la nave
volante di Lana Terzi in un
corso di fisica
teologia unì l’interesse per le scienze
naturali e, in particolare, per quelle che
oggi si chiamerebbero scienze applicate.
Francesco Lana Terzi, nato a Brescia nel L’opera che attirò l’attenzione delle ac1631 e quivi morto nel 1687, fu un ge- cademie scientifiche del tempo fu il
suita di multiforme ingegno che alla Prodromo overo Saggio di alcune inven-
tioni nuove premesso all’arte maestra…
per mostrare li più reconditi principi
della naturale filosofia, pubblicato a Brescia nel 16701.
Tra le inventioni nuove ritrovate dall’autore medesimo quella che fece maggior
scalpore fu il progetto di «Fabricare una
nave che camini sostentata sopra l’aria a
remi; & à vele; quale si dimostra poter
riuscire nella prattica» esposto nel capitolo sesto del trattato, corredato da una
bellissima figura esplicativa (figura 1).
In realtà, si tratta di quello che oggi sarebbe uno studio preliminare; ma Lana
Terzi non ha dubbi sulla sua fattibilità:
Hor’io che sempre habbi genio di ritrouare inventionhi di cose le più difficili,
dopo lungo studio sopra di ciò, stimo
hauere ottenuto l’intento di fare una
machina più leggiera in specie dell’aria
si, che non solo essa con la propria leggerezza stia sololevata in aria, ma possa
portare sopra di se huomini, e qualsivoglia altro peso; ne credo d’ingannarmi,
essendo che dimostro il tutto con esperienze certe, e con una infallibile dimostrazione del libro undecimo di Euclide,
riceuuta per tale da nittidi matematici.
Fig. 1. La nave volante di Lana Terzi illustrata in una figura del Prodromo (1670).
88
1. Prodromo, overo Saggio di alcune invenzioni nuove
premesso all’arte maestra. Opera che prepara il P. Francesco Lana bresciano della Compagnia di Giesù. Per mostrare i più reconditi principij della Naturale Filosofia,
riconosciuti con accurata Teorica nelle più segnalate
inuentioni, ed esperienze fin’hora ritrouate da gli scrittori di questa materia & altre nuoue dell’ autore medesimo. Dedicato alla Sacra Maesta Cesarea del Imperatore
Leopoldo I. In Brescia, M.DC LXX, per li Rizzardi.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PERCORSI DIDATTICI
Il fatto che un secolo prima dei fratelli
Mongolfier un oscuro gesuita bresciano
probabilmente influenzato dall’opera
di Blaise Pascal sulla pressione atmosferica2 concepisse il progetto di una
nave aerea è cosa di grande interesse
per gli storici della tecnologia; ma non
è questo l’aspetto che può interessare
nell’ambito di un corso introduttivo di
fisica, ma piuttosto i problemi che si
presentano a chi voglia seriamente affrontare un siffatto progetto con le conoscenze scientifiche di quel tempo.
Le questioni fisiche
preliminari
La prima questione che Lana Terzi si
trova ad affrontare è quella della densità
dell’aria. Il metodo sperimentale che
utilizza è il seguente. Preso un gran vaso
di vetro, al collo del quale ha applicato
un rubinetto a tenuta, lo pesa con cura.
Indi, lo riscalda al fuoco, in modo che la
maggior parte dell’aria che contiene ne
esca e, chiuso il rubinetto lo pesa di
nuovo. La differenza dei pesi è pari al
peso dell’aria che è uscita dal vaso. Rimane da determinarne il volume. Si immerge la bocca del vaso in acqua e si
apre il rubinetto, con la conseguenza
che l’acqua invade di nuovo il recipiente. Una nuova pesata ci fornisce la
massa (quindi il volume) dell’acqua
passata nel vaso che è uguale al volume
dell’aria che ne era uscita.
La differenza delle masse nel primo
caso risultava di un’oncia, nel secondo
640 once (1 oncia equivaleva a 28,35 g
circa). Ne segue che il rapporto delle
masse dell’aria e dell’acqua è 1/640.
Lana Terzi ci informa che un piede cubico di acqua pesa 80 libre ovvero 960
once, come risulta dalle esperienze
compiute da Villalpando3.
Ora, poiché
Il valore della densità dell’acqua, seNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
condo Villalpando (confermata da Lana
Terzi), dev’essere
e poiché
in unità moderne
Ne segue che la densità dell’aria per
Lana Terzi è
sorprendentemente vicina al valore accettato a 0 °C:
Come fare il vuoto
senza una pompa
La possibilità di estrarre l’aria da un recipiente a tenuta senza far uso di una
pompa è il primo problema che si presenta. Infatti, la prima pompa pneumatica di cui si abbia notizia è quella
realizzata da Robert Boyle, descritta in
un saggio pubblicato 12 anni dopo
quello di Lana Terzi4.
Si tratta di una trovata audace dal
punto di vista concettuale e delicata dal
punto di vista operativo, tenuto conto
che, nel momento in cui Lana Terzi sviluppa le sue riflessioni sull’aria, sono
passati poco più di vent’anni dai primi
esperimenti di Torricelli (1644) e dalle
già citate ricerche di Pascal (1648). Dice
dunque il nostro gesuita:
Piglisi qualsivoglia gran uaso, che sia
tondo, & abbia un collo, e al collo sia
connessa una canna di rame, o di latta
lunga almeno 47. palmi Romani moderni, conforme alla misura che è registrata verso il fine di questo libro, nel
trattato de cannocchiali; & essendo più
lunga l’effetto sarà più sicuro; uicino al
lato A. sia una chiavetta B. che chiuda per
tal modo il uaso, che non ui possa entrare
aria: si riempia di aqua per tal modo il
uaso, che non ui possa entrare aria: si
riempia di aqua tutto il uaso con tutta la
canna; poi chiusa la canna nella parte
estrema C. si rivolti il uaso sì. Che stia
nella parte di sopra, e la parte estrema C.
della canna, si sommerga dentro all’aqua;
e mentre è immersa nell’aqua si apra,
acciò esca l’aqua dal vaso, la quale uscirà
tutta, restando piena la canna fino all’altezza di palmi 46. minuti 26. e tutto il rimanente di sopra sarà voto, non potendo
entrar aria per alcuna parte; all’hora si
chiuda il collo del uaso con la chiavetta
B. e si hauerà il uaso uoto; che se alcuno
non lo crede lo pesi, e ritroverà, che
quanti piedi cubici d’acqua sono usciti
da esso, altre, e tante oncie, e mezze oncie
di meno pesarà di quello pesaua prima,
quando era pieno di aria…
Ciò che Lana Terzi suggerisce è di fare
con l’acqua ciò che negli esperimenti di
Torricelli si fa col mercurio. Posto che il
palmo romano moderno equivalga a circa
22 cm, si tratta di applicare alla bocca di
una damigiana di vetro una canna di
rame lunga almeno 11 m; riempire il
tutto di acqua e rovesciare il sistema
avendo cura che l’estremità della canna
peschi nell’acqua contenuta in una vasca.
Operazione tutt’altro che agevole che gli
storici ci dicono sia stata realizzata da
Gasparo Berti (1600-1643) a Roma nell’anno della sua morte5 (figura 2).
Lana Terzi non può immaginare che
l’acqua che rimane nel tubo abbia un
comportamento fisico molto diverso da
quello del mercurio nel tubo barometrico. Infatti, alla temperatura ambiente
e alla bassa pressione che con questa
tecnica si raggiunge, l’acqua comincia a
bollire in maniera tale che il vaso si
riempie di vapore.
2. B. Pascal, Traitez de l’Equilibre des Liqueurs et de la Pésanteur de la Masse de l’Air, Desprez, Parigi 1663.
3. Juan Bautista Villalpando (Cordoba, 1552 - Roma,
1608) fu padre gesuita, matematico e architetto.
4. R. Boyle, New Experiments Physico-Mechanical touching the Spring of the Air, Londra 1682.
5. P. Gasparis Schotti, Regiscuriani e Societate Jesu, Technica curiosa sive mirabilia artis, libris XII comprehensa,
Herbipol 1687, p. 202.
89
onde il pallone può sollevare 2,3 kg ovvero 5 libbre circa. Il risultato di Lana
Questa è la condizione che deve essere Terzi è più ottimistico: 25 libbre e 7
soddisfatta ai fini del galleggiamento in once, equivalenti a 11,5 kg circa, ma rimane troppo modesto.
aria.
Il materiale scelto da Lana Terzi è il
Ma – osserva – accio che si possa alzar
rame (rm =8,9 g/litro), per cui la conmaggior peso, e solleuare huomini in aria
dizione precedente diventa
Il nostro gesuita parte dall’ipotesi di
utilizzare rame di spessore tale che una
lastra quadrata di lato un piede pesi tre
once: ‘il che non è cosa difficile’, aggiunge. Ora, poiché
e
Fig. 2. Esperimento di Gaspare Berti [da
Gaspar Schotti, Technica curiosa, sive,
Mirabilia artis, Würzburg 1664].
lo spessore della lastra di rame sarà
Per il diametro Lana Terzi sceglie 14
L’idea di base
piedi, cioè un raggio R= 2,14 m, per
Non sono i particolari tecnici a preoc- cui
cupare il nostro visionario scienziato;
l’idea che lo guida è che «se noi potessimo fare un vaso di vetro o d’altra ma- è appena al di sopra della condizione di
teria, il quale pesasse meno dell’aria, galleggiamento. In effetti, il peso del
che vi stà dentro, e poi ne cavassimo rame è
tutta l’aria, nel modo insegnato di sopra; questo vaso restarebbe più leggiero e la spinta aerostatica
in spezie dell’aria medesima; si che …
galleggiar ebbe sopra l’aria, & andrebbe
in alto».
Consideriamo una sfera e siano R il suo
raggio ed s lo spessore (Figura 3).
La massa della boccia (vuota) è
dove r indica la densità dell’aria e rm
quella del materiale con cui è realizzata. La condizione di galleggiamento è
che
90
Con ciò Lana Terzi riprende (in maniera meno brillante) il discorso sulle
leggi di scala che Galileo sviluppa nella
Giornata Seconda dei Discorsi6.
Per dirlo in linguaggio moderno, la
spinta aerostatica è data da
che mette in evidenza che aumenta più
del quadrato del raggio. La conclusione
è che è possibile realizzare palloni volanti di rame, a condizione che si facciano grandi a sufficienza.
Perché non si possono fare
palloni di rame
Qui si pone – per noi posteri – un problema ineludibile: la resistenza del pallone alla pressione atmosferica è indipendente dalle dimensioni?
Lana Terzi mostra di averne consapevolezza quando parla delle difficoltà che
si presentano nella realizzazione:
mentre la spinta aerostatica è
da cui
pigliaremo il doppio di rame, cioè piedi
1232. Che sono libre di rame 308.con il
qual rame duplicato potremo fabricare
un vaso, non solo al doppio più capace,
ma più capace quattro volte del primo,
per la ragione più volte replicata della
quarta supposizione; e per conseguenza
l’aria, che si conterrà in detto vaso sarà
libre 718.oncie 4 e due terzi, si che cauata
quest’aria dal vaso, questo resterà
410.libre, & oncie 4. e due terzi, più leggiero di altretant’aria, e per conseguenza
potrà solleuare tre uomini, o due almeno;
ancor che pesino più di otto pesi per uno.
Fig. 3. Una sfera metallica di raggio R e
spessore s.
6. G. Galilei, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno
a due nuove scienze, Elzeviri, Leida 1638.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PERCORSI DIDATTICI
… si può fare difficoltà in ordine alla
sottigliezza del vaso; poiché facendo
gran forza l’aria per entrar dentro ad
impedire il vacuo, o almeno la violenta
rarefattione, pare che dourebbe comprimere esso vaso, e se non romperlo, almeno schiacciarlo, e guastare la sua
rotondità.
tuttavia, la pressione è quella esercitata
dall’atmosfera esterna e l’involucro è
soggetto a compressione piuttosto che
ad una tensione.
Pertanto, più il pallone è grande, maggiore è il rischio che collassi sotto la
pressione atmosferica.
È questo un problema che preoccupa
Lana Terzi, se fa osservare che:
Ma si tratta di una difficoltà superabile:
A questo rispondio, che ciò auuenirebbe
quando il vaso non fosse tondo; ma essndo sferico l’aria lo comprime ugualmente da tutte le parti sì, che più tosto
lo rassoda, che romperlo: cio si è veduto
per esperienza in vasi di vetro, li quali
anchor che fatti di vetro grosso, e gagliardo, se non hanno figuran rotonda,
si rompono in mille pezzi; doue all’incontro i vasi tondi di vetro ancor che
sottilissimi, non si rompono; ne è necessariam una perfe4ttissima rotondità; ma
basta, che non si scosti molto da una figura sferica.
A questo proposito, conviene ragionare
su una situazione di cui abbiamo esperienza e che ne è, per così dire, speculare:
quella di un pallone nel vuoto, tenuto
gonfio dalla pressione interna dell’aria.
Immaginiamo allora di aver praticato
un taglio nel pallone e di volerne tenere
uniti i lembi. La forza da applicare sarà
tanto maggiore quanto più lungo è il taglio (figura 4).
Quindi, conveniamo di chiamare tensione della superficie la forza per unità di
lunghezza che occorre applicare per tenere uniti i lembi del taglio (come in
una cucitura):
Fig. 4. Un taglio nell’involucro del
pallone.
Si vede dunque manifestamente, che
quanto più grande si farà la palla, o vaso
si potrà anche adoperare lastra di rame,
o di latta più grossa, e soda; Impercioche se bene crescerà il peso di esso, crescerà pero sempre più la capacità del
medesimo vaso, e per conseguenza il
peso dell’aria; onde potrà sempre alzare
in aria maggior peso.
Il progetto operativo
Risolti che siano i problemi di fondo,
Lana Terzi passa alla parte progettuale:
Fig. 5. La tensione su un elemento della
superficie di un pallone.
Se gonfiamo il pallone facendone passare il raggio da R ad R + DR, il volume
aumenta di 4pR2DR e il lavoro compiuto sarà p×4pR2DR, se p è la pressione all’interno. Contemporaneamente la superficie della sfera aumenta
di 8pRDR. Per la conservazione dell’energia
Alla stessa grandezza si può dare un’altra interpretazione, se la scriviamo nella da cui
forma
Da cio si raccoglie facilmente, come si
possa formare una machina, la quale a
guisa di naue camini per aria; Si facciano
quattro palle ciascuna delle quali sia atta
ad alzare due, o tre uomini, come si è
detto poco auanti; le quali si votino dall’aria nel modo sopra mostrato, e siano
le palle, o vasi A, B, C, D. Queste si connettano insierme con quattro legni,
come si vede nella figura, si formi poi
una machina di legnoE.F. simile ad una
barca, con il suo albero, vele, e remi: e
con quattro funi uguali si leghi alle quattro palle, dopo che si sarà cauata fuori
l’aria, tenendole legate a terra accio non
sfuggano, e si solleuino prima, che siano
entrati gl’huomini nella machina;
all’hora si sciolgano le funi rallentandole
tutte nel medesimo tempo: così la barca
si solleuerà sopra l’aria, e porterà seco
molti uomini piu, o meno conforme la
grandezza delle palle; i quali potranno
servirsi delle vele, e de remi a suo piacere
per andare velocissimamente in ogni
luogho fino sopra alle montagne più alte.
il cui contenuto fisico essenziale è che la
tensione
dell’involucro, fissata la pres- Il buon gesuita confessa di non aver
Quella che chiamiamo tensione è l’energia associata all’unità di superficie sotto sione, è proporzionale al raggio. Lo fatto alcuna prova della sua inuentione;
tensione (figura 5).
stesso vale per il pallone di rame, dove, ma di averne parlato con diverse perNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
91
PERCORSI DIDATTICI
sone intendenti, le quali «hanno solo
desiderato di poter vedere la proua in
una palla, che da se stessa salisse in
aria». Ci informa che motivi che gli
hanno impedito di realizzare l’esperienza erano di natura economica:
Che i fisici, che posero le loro capacità
al servizio degli Stati Uniti in guerra,
abbiano qualcosa in comune con
l’oscuro gesuita che si limitava a escogitare macchine realizzabili con le conoscenze di fisica del XVII secolo è difficile da accettare. Eppure, i periodi
conclusivi del discorso sulla possibilità
di realizzare navi volanti contengono
un avvertimento di singolare preveggenza che attribuisce una responsabilità
etica non teologica all’attività dello
scienziato:
… hauerei fatta volontieri prima di pubblicare questa mia inuentione, se la pouerta religiosa che professo mi hauesse
permesso lo spendere un centinaio di
ducati, che sarebbero d’auantaggio per
sodisfare a si dilettevole curiosità: onde
prego i lettori di questo mio libro a quali
venisse curiosità di fare questa esperienza, che mi vogliano ragguagliare del
successo, il quale se per qualche difetto
commesso nell’operare non sortisse felicemente, potrò forsi additarli il modo di
correggere l’errore…
Fra i problemi che potranno porsi una
volta che la nave sia realizzata, vi è il
controllo della quota che, qualora sia
eccessiva, potrebbe creare difficoltà per
i passeggeri:
… può nascere difficoltà circa l’altezza
alla quale salirà per aria la nave; poiche
s’ella si sollevasse sopra tutta l’aria che
comunemente si stima esser alta cinquanta miglia piu, o meno come vedremo dopo, seguitrarebbe che
gl’huomini non potessero respirare. Al
che rispondo, che quanto piu si va in
alto nell’aria, ella è sempre più sottile, e
leggiera; onde arrivata la naue ad una
certa altezza non potrebbe salire piu alto,
perche l’aria superiore essendo più leggiera, non sarebbe atta a sostenerla, si
che si fermerà doue ritroueràl’aria tanto
sottile, che sia uguale nel peso a tutta la
machina; con la gente che vi sta sopra…
Un brano che rivela che il Lana Terzi
aveva conoscenza del fatto che la densità
dell’aria decresce con la quota. Oggi si assume che l’andamento della densità dell’aria con la quota z sia esponenziale7.
Sia cioè descritto da una funzione del
tipo
92
F. Lana Terzi, Prodromo overo Saggiodi
alcune inventioni nuove premesso
all’arte maestra, Brescia 1670.
Fontespizio.
dove r0 indica la densità al livello del
suolo e Z una quota di riferimento il cui
valore dipende dalla temperatura, ma
che non è molto diversa da 8 km circa.
Un areostato raggiunge la quota in corrispondenza della quale la densità media della macchina è uguale a quella
dell’aria a tale quota. Ciò si verifica per
una quota tale che
dove indica la densità media della nave.
Lana Terzi e il progetto
Manhattan
Progetto Manhattan è il nome in codice
attribuito alla grande impresa tecnicoscientifica che dal1943 al 1945 condusse
alla realizzazione della prima bomba
nucleare. È noto che in molti degli
scienziati che collaborarono all’impresa
nacquero degli scrupoli di fronte ai terribili scenari che la nuova arma rendeva possibili8.
«Altre difficoltà non vedo che si possano
opporre a questa invenzione, toltane
una, che a me sembra maggiore di tutte
le altre, & è che Dio non sia per mai permettere, che una tale machina sia per
riuscire nella prattica, per impedire
molte conseguenze, che perturbarebbero il governo civile, e politico tra
gl’huomini: Impercioche chi non vede,
che niuna Città sarebbe sicura dalla sorprese, potendosi ad ogn’hora portar la
nave a dirittura sopra la piazza di esse, e
lasciatala calare a terra descendere la
gente? L’istesso accaderebbe nelle corti
delle case private; e nelle navi che scorrono il mare, anzi con solo descendere la
nave dall’altezza dell’aria, fino alle vele
della nave maritima potrebbe stroncarle
le funi;& anche senza descendere, con
ferri, che dalla nave si gettassero a basso
sconvolgere i vasce4lli, uccider gl’huomini, & incendiare le navi con fuochi artificiali, con palle, e bombe; ne solo le
navi, ma le case, i castelli, e le città, con
sicurezza di non poter esser offesi quelli,
che da una smisurata altezza le facessero
precipitare.
Ledo Stefanini
Università di Mantova-Pavia
7. J.V. Iribarne, H.R. Cho, Atmospheric Physics, D. Reidel
Publishing Company, Dordrecht, Holland 1980, cap. l.
8. F. Dürrenmatt, Die Physiker, 1962, tr. it., Einaudi, Torino
1972.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PERCORSI DIDATTICI
Fisica della sobrietà (2)
Giovanni Vittorio Pallottino
… in cucina
Pentola grande
o pentola piccola?
Una storiella che si racconta per scherzare su come gli scienziati a volte affrontino i problemi è quella della vacca.
Per studiare la quale, la prima cosa che
propone un fisico, per semplificarne la
forma, è quella di approssimarla con una
sfera. E qui facciamo lo stesso, considerando però, invece di un ruminante, una
pentola, più precisamente la scelta di
una pentola per cuocere qualcosa. Arrivando a concludere che per evitare sprechi di energia conviene sempre usare la
più piccola pentola in grado di contenere
il qualcosa che si vuol riscaldare o cuocere. Il ragionamento è immediato: il
calore (sprecato inutilmente) che la pentola disperde comunque verso l’esterno
è proporzionale alla sua superficie. E
quindi se usiamo una pentola di dimensioni lineari doppie rispetto al necessario, la sua superficie (proporzionale al
quadrato del raggio) sarà quattro volte
maggiore e con essa quattro volte maggiore il calore perduto e quindi il gas
sprecato. Avendo appunto approssimato
la pentola con una sfera. E quindi, l’uovo
sodo, cuociamolo in un pentolino!
L’acqua che bolle:
un termostato naturale o un
invito allo spreco?
Mettiamo sul fuoco di cucina una pentola con l’acqua per il tè. Che per riscaldarsi ci mette un po’ di tempo (soprattutto quando la si guarda, come afferma
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
il proverbio Pentola guardata non bolle
mai), sicché nel frattempo conviene fare
qualcos’altro, magari una telefonata. E
mentre il tempo passa l’acqua comincia
a bollire. Nessun problema (ma solo in
apparenza): infatti sappiamo bene che
perché l’acqua evapori apprezzabilmente ci vuole del tempo (e del gas).
L’acqua che bolle funziona infatti da termostato: una volta raggiunti 100 °C, la
temperatura smette di aumentare, per lo
meno fintanto che l’acqua, vaporizzata,
non si esaurisce.
Ma dove va a finire, nel frattempo, il calore che il fuoco del fornello continua a
fornire alla pentola? Quello che non si
disperde lietamente attorno va tutto a
trasformare l’acqua da liquido a vapore.
E ce ne vuole tanto! Per vaporizzarne
un litro ce ne vuole oltre 500 volte1 più
che per innalzarne la temperatura di
un grado. Sicché lasciar evaporare la
metà dell’acqua che sta bollendo significa consumare inutilmente (a parte il
piacere della telefonata) circa il triplo
del gas strettamente necessario, cioè
quello impiegato per portare l’acqua
all’ebollizione. Il conto è presto fatto:
per riscaldare da 10 °C a 100 °C un litro
di acqua del rubinetto ci vogliono 90
Calorie, per vaporizzarne mezzo litro
ne occorrono 537/2 cioè circa 270. E
270/90 fa appunto 3.
E se invece di preparare il tè vogliamo
bollire delle patate o qualcos’altro? Il
discorso di prima, evidentemente, vale
allo stesso modo. Ma ora c’è da dire
Per continuare a cuocere dopo che
l’acqua ha raggiunto l’ebollizione è
assai opportuno ridurre la fiamma al
minimo necessario per mantenere la
temperatura. Facendo magari anche
l’immane fatica di spostare la pentola su un fuoco più piccolo. O forse
è chiedere troppo?
qualcosa di più, che riguarda un punto
tanto ovvio quanto di solito trascurato.
E cioè che riempire la pentola d’acqua
oltre il necessario, fino all’orlo, non
serve a nulla, salvo richiedere più tempo
per raggiungere l’ebollizione, consentire
telefonate più lunghe e, naturalmente,
far godere la società che fornisce il gas
(oltre a quella dei telefoni).
Il coperchio: a che serve?
Molti, il coperchio delle pentole, semplicemente lo ignorano. Forse ritenendo
che abbia funzioni puramente ornamentali e che in cucina costituisca soltanto un impiccio in più. Invece il coperchio è molto utile per ridurre il
consumo di gas. Esso svolge infatti due
funzioni, mirate entrambe allo scopo
anzidetto. La prima riguarda i moti convettivi dell’aria. Perché l’aria al di sopra
di una pentola, durante il riscaldamento
dell’acqua o di qualsiasi altro liquido, si
riscalda a sua volta e si espande: così diventa più leggera e allora sale verso
1. Per la precisione, occorrono 537 Calorie per vaporizzare un litro d’acqua a 100 °C.
93
P. Klee, Natura morta (1910), Monaco, Städtische Galerie im Lenbachhaus
l’alto, disperdendo calore e richiamando
dal basso aria fredda. Mentre la presenza del coperchio interrompe evidentemente queste dispendiose manovre.
Evitando, fra l’altro, l’accumulo di umidità nell’ambiente.
Ma c’è di più: il vapore che si sviluppa2
durante il riscaldamento dei liquidi acquatici in parte viene intercettato dal
coperchio, dove si ritrasforma in acqua
e gocciola giù, e in parte permane al di
sopra del liquido rallentandone alquanto l’evaporazione, e quindi l’assorbimento del calore a ciò occorrente
(a spese di quello che serve a riscaldare
il contenuto della pentola). Dario Bressanini, nel suo blog3, ha valutato che
l’impiego del coperchio porta mediamente a un risparmio di combustibile
di oltre il 20%, che non è davvero poco.
94
Utilissimo durante il riscaldamento, per
esempio per portare l’acqua a bollire, il
coperchio serve a poco quando l’acqua
sta bollendo. Per risparmiare energia, in
queste condizioni, non resta che ridurre
l’intensità della fiamma al minimo necessario a mantenere il bollore. Come si
era già detto.
L’azione mirata del forno a
microonde
Uno strumento di cottura assai efficiente in termini di energia è certamente il forno a microonde: prima trasforma in energia a microonde l’energia
elettrica prelevata dalla rete e poi la utilizza per irraggiare i cibi in modo mirato. Perché assorbono le microonde, e
quindi si riscaldano, soltanto le vivande,
cioè solo l’acqua, i grassi e gli zuccheri
in esse contenuti. A differenza dei piatti
o di altri contenitori di ceramica oppure di plastica, che restano freddi finché non li riscalda il calore trasmesso
dai cibi con cui sono a contatto.
Ma che sono le microonde? Si tratta di
onde elettromagnetiche, parenti strettissime di quelle usate nei telefoni cellulari, con lunghezza d’onda appena poco
diversa, pari a circa 12 cm. Queste onde
hanno la proprietà di eccitare le molecole dell’acqua e di altre sostanze, che
così entrano in vibrazione e dissipano
poi in calore l’energia assorbita dalla radiazione. Così i cibi si riscaldano direttamente al loro interno, abbreviando
considerevolmente i tempi di cottura
rispetto alle altre tecniche di cottura.
In realtà il calore si genera dove la radiazione viene assorbita, cosa che avviene grosso modo nei primi due centimetri al di sotto della superficie dei cibi,
dove dunque la cottura si compie rapidamente; mentre le parti più interne si
riscaldano per conduzione, più lentamente, e quindi ci vuole un po’ più di
tempo perché si cuociano anch’esse.
È interessante il confronto fra l’effetto
delle microonde e quello delle radiazioni infrarosse emesse dalle pareti calde
di un forno tradizionale, che hanno la
stessa natura di onde elettromagnetiche, ma lunghezza d’onda estremamente diversa. Le microonde che colpiscono la superficie del cibo, come si è
detto, penetrano al suo interno per un
paio di centimetri, ed è in questo spessore che vengono assorbite; più in profondità non arrivano perché appunto
completamente assorbite. Assai diverso
2. È vero che l’acqua bolle a 100 °C, ma è pure vero che
essa evapora anche a temperatura più basse, tanto più
rapidamente quanto più alta è la sua temperatura. E infatti evapora apprezzabilmente anche a temperatura
ambiente, sennò come farebbe un pavimento ad asciugarsi dopo esser stato lavato?
3. http://bressanini-lescienze.blogautore.espresso.re
pubblica.it/2009/09/09/bollire-lacqua/
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PERCORSI DIDATTICI
è il caso delle radiazioni termiche del
forno, la cui lunghezza d’onda è estremamente più piccola di quella delle microonde, millesimi di millimetro anziché centimetri. E allora esse vengono
assorbite completamente negli strati superficiali del cibo, che si riscaldano assai
vivacemente, e non penetrano affatto al
suo interno, dove la cottura procede poi
per graduale conduzione del calore. Che
è un processo lento, come sa bene chi
deve cuocere un grosso pezzo di carne.
Attenzione però
al vapor d’acqua!
Proprio perché usando il microonde il
calore si produce all’interno dei cibi occorre attenzione nella cottura delle uova,
più precisamente nella preparazione
delle uova sode. Essendo l’uovo (quasi)
ermeticamente racchiuso nel guscio, il
riscaldamento vaporizza l’acqua contenuta al suo interno, generando una pressione vivacemente crescente che a un
certo punto ne spacca il guscio. L’esplosione, così, proietta brandelli di uovo semicotto sulle pareti della camera di cottura del forno, che è poi assai fastidioso
riportare in ordine. Lo stesso problema
può verificarsi anche con altri cibi, per
esempio con le castagne o con le patate
quando la loro buccia è integra.
Queste esplosioni si evitano facilmente
cuocendo le vivande in una vaschetta
contenente acqua, prevenendo così la
vaporizzazione dell’acqua contenuta al
loro interno. Nel caso delle castagne, praticando una incisione sulla loro buccia,
come d’altronde occorre fare anche nella
preparazione delle castagne arrosto.
Il forno tradizionale:
quando ha senso usarlo?
Vogliamo riscaldare alla svelta degli
avanzi di cibo per la cena, oppure preparare un buon crostino al formaggio
con la pasta d’acciughe. Accendiamo il
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
Acceleriamo i tempi
di cottura
a propagarsi all’interno della carne è
proporzionale al quadrato della distanza percorsa. Distanza che, approssimando al solito con una sfera il pezzo
di carne da cuocere, corrisponde al raggio della sfera, cioè alla radice cubica del
peso della carne: se ne può concludere
che il tempo di cottura è proporzionale
alla radice 2/3 del peso. In parole povere, raddoppiando il peso, il tempo
aumenta della radice 2/3 di 2 cioè diventa circa 1,6 volte maggiore; dimezzando il peso, il tempo diminuisce di
1,6. Ma in realtà, oltre che dal peso, il
tempo di cottura dipende anche dalla
forma della vivanda in esame (che difficilmente sarà una sfera) e naturalmente dalla temperatura del forno.
Il calore, come si è detto prima, penetra
attraverso la superficie della carne, fortemente riscaldata dalla radiazione
emessa dalle pareti del forno. All’interno, il calore procede per conduzione,
secondo la legge di Fourier, con un processo piuttosto lento perché la carne
non è un buon conduttore del calore.
Come fare per abbreviarlo, accelerando
i tempi? Una tecnica interessante, che
talvolta viene suggerita, è quella di cortocircuitare il cattivo conduttore termico con uno buono: un metallo. Cioè
conficcare nella carne degli spiedini,
che trasporteranno più velocemente il
calore all’interno.
È utile, in ogni caso, disporre un termometro da cucina, con la sua sonda
bene all’interno della carne, per con-
La durata dei tempi di cottura al forno
(carne rossa, polli, tacchini…) è un argomento molto dibattuto5. C’è chi suggerisce un’ora al chilogrammo e chi
mezz’ora, implicando una sorta di proporzionalità fra tempo di cottura e
peso, sebbene poi andrebbe specificata
anche la temperatura del forno. Per arrivare a qualche conclusione va premesso che il tempo impiegato dal calore
4. Questa reazione, che coinvolge le proteine e gli zuccheri contenuti nei cibi, si sviluppa a temperature di
140°C o poco maggiori. I suoi prodotti hanno colore
bruno e profumo e sapore gradevoli. Proprio alla reazione di Maillard si deve la crosta croccante del pane
ben cotto e degli arrosti, come pure la piacevolissima
crosticina dei fritti. Attenzione però a non esagerare,
perché a temperature ancora più alte, oltre i 180-200°C,
si sviluppano sostanze di gusto sgradevole, alcune delle
quali addirittura cancerogene.
5. P. Barham, La scienza in cucina, Le Scienze, 2010.
forno e vi disponiamo le vivande. La
fiamma del gas riscalda gradualmente
tutte le pareti del forno, l’aria al suo interno e finalmente anche il cibo, cosa
che ovviamente richiede un certo
tempo, non poco. Ma valeva la pena di
consumare tutto questo gas (della serie
usare un bazooka per colpire un ranocchio)? Certamente no. Perché è facile
capire che il calore utilizzato effettivamente, cioè quello che è andato a riscaldare il cibo, è molto, molto minore
di quello che è stato necessario per riscaldare tutto il forno (e che poi verrà
inevitabilmente ceduto all’ambiente
circostante). La situazione, naturalmente, cambia quando le vivande in
gioco sono abbondanti, e allora la cottura al forno diventa conveniente, oltre
che necessaria.
È vero d’altra parte che il forno tradizionale permette di arrostire le vivande.
A differenza di quello a microonde che
si limita a riscaldarle (al limite fino a far
evaporare, con risultati sgradevoli, tutta
l’acqua in esse contenuta). Le temperature decisamente più alte che si raggiungono nei forni tradizionali provocano sulla superficie delle vivande la
cosiddetta reazione di Maillard4, che le
rende particolarmente gustose. Oggi
però molti forni a microonde sono corredati da un minigrill elettrico, che consente di friggere o di arrostire.
95
PERCORSI DIDATTICI
trollare la situazione e, soprattutto, per
evitare che la temperatura della carne
superi certi limiti (al sangue a 55 °C,
ben cotta a 60-65 °C), perché oltre i 7075 °C essa diventa grigiastra e s’indurisce. Va notato che la temperatura delle
parti più interne della carne continua
un po’ ad aumentare anche dopo che la
si è estratta dal forno. E perché? Perché
il calore continua a propagarsi verso
l’interno dalle parti più esterne, che
sono più calde e che si raffreddano solo
assai lentamente.
I corpi caldi, quando si
raffreddano, rilasciano calore.
Il caso del frigorifero e quello
del forno
Così come, per riscaldarsi, un corpo
deve assorbire calore da qualche parte
(più calda), allo stesso modo, per raf-
freddarsi, esso deve rilasciare calore
verso l’esterno (più freddo). E la quantità di calore in gioco, nei due casi, è
esattamente la stessa, naturalmente a
parità di salto di temperatura. Si capisce
allora che riporre nel frigo una tazza di
brodo caldo (o qualunque altra cosa a
temperatura maggiore dell’ambiente)
è assai poco ragionevole. Perché così
facendo affidiamo al frigorifero anche il
compito di raffreddare a temperatura
ambiente il brodo (cosa che avremmo
potuto facilmente ottenere facilmente
senza spesa e senza fretta, semplicemente lasciandolo sul tavolo di cucina
o raffreddandone il contenitore nell’acqua del rubinetto). Questa incauta manovra richiede dunque un maggior
consumo di elettricità rispetto al normale funzionamento del frigo, cioè
quando esso deve limitarsi a estrarre
dal suo interno il calore che vi penetra
attraverso le pareti. Inoltre, il consumo
addizionale dovuto alla tazza di brodo
caldo, è tanto più rilevante, in termini
relativi, quanto migliore è la qualità dell’elettrodomestico, la quale dipende soprattutto dal buon isolamento termico
fra interno ed esterno.
Il rilascio del calore entra in gioco anche a proposito del forno: dopo una
sessione di cottura impiega parecchio
tempo a raffreddarsi. Ciò significa che,
dopo il suo spegnimento, la temperatura al suo interno si mantiene relativamente elevata per tempi ben apprezzabili, dunque ancora capace di
esercitare utili funzioni di cottura. E allora perché non spegnere il forno un po’
prima dell’usuale, utilizzandone il calore residuo per completare la cottura?
Basta ricordarsene.
Lo stesso ragionamento vale anche per
il ferro da stiro, che è un apparecchio
energeticamente assai vorace. Per questo
conviene spegnerlo un po’ prima di aver
finito di stirare, approfittando del suo
calore residuo per completare il lavoro.
Il frigorifero
P. Klee, Forme e colori (1914), Filadelfia, The Barnes Foundation.
96
Tirar fuori calore dallo scomparto interno del frigo portandolo all’esterno,
più caldo, è come far rotolare una palla
su un percorso in salita, cioè fare qualcosa che non può avvenire spontaneamente, come si era detto a proposito
delle pompe di calore in un precedente
intervento. E infatti questa impresa, a
cui provvedono i congegni interni del
frigorifero, richiede energia, quella che
si ottiene prelevando elettricità dalla
rete. Tanta più energia, è evidente,
quanto maggiore è il salto di temperatura, a cui costringiamo il calore, fra il
dentro e il fuori. Dove per fuori s’intende la zona, sul retro dell’elettrodomestico, dove si trova la serpentina che
serve a cedere all’ambiente il calore preNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PERCORSI DIDATTICI
Gli alimenti a chilometro zero
Gli alimenti detti a km zero o anche a filiera corta sono quelli che si acquistano
a breve distanza dai luoghi di produzione, spesso dagli stessi agricoltori che li
producono, e quindi hanno costi minori sia di trasporto che di intermediazione.
Si ottiene così anche un recupero del legame con il territorio, nella valorizzazione delle produzioni locali e delle sue specialità gastronomiche. La logica del
km zero deriva soprattutto dall’intento di ridurre l’energia impiegata per trasportare gli alimenti dai luoghi di produzione a quelli di consumo, cosa che
oggi avviene spesso anche su grandi distanze, a volte addirittura da un continente all’altro. In questa logica è implicito anche il ritorno all’impiego dei prodotti stagionali, con indubbi vantaggi di freschezza e genuinità naturale, per
quante sofferenze possa provocare a qualcuno il dover rinunciare al cocomero
a Capodanno. Il km zero non va però mitizzato, come ha illustrato nel suo blog
Dario Bressanini (http://bressaninilescienze.blogautore.espresso.repub
blica.it/2008/05/05/contro-la-spesa-a-chilometri-zero/). Vi sono infatti autorevoli studi che mostrano come a un minor numero di chilometri percorsi dagli alimenti non necessariamente corrisponda un vantaggio energetico ed ecologico complessivo. E del resto se possiamo certamente rinunciare alla frutta
che proviene dall’America del Sud, perché gli abitanti del meridione d’Italia dovrebbero fare a meno delle mele prodotte in grandi quantità nel Trentino o in
altre zone del Nord?
levato dall’interno per raffreddarlo, assieme a quello prodotto dai congegni
interni del frigo. E quindi è assai opportuno tenere ben pulita la serpentina
per facilitare il trasferimento di questo
calore, tenendo presente che la polvere
è un ottimo isolante termico, e soprattutto lasciare un debito spazio fra il retro della macchina e la parete, in modo
che l’aria possa scorrere agevolmente e
mantenere più fresca, cioè meno calda,
possibile la serpentina. Un altro caso in
cui i moti convettivi tornano utili.
Si capisce allora, per quanto detto sopra, che non è molto conveniente costringere l’interno del frigo a portarsi a
temperature troppo basse (oltre tutto
col rischio di congelare l’insalata). Il
consumo di elettricità, d’altra parte, dipende parecchio dal calore che penetra
all’interno del frigorifero attraverso le
sue pareti, che a sua volta dipende dalla
qualità dell’elettrodomestico. E questa è
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
definita dalla classe energetica, che conviene dunque scegliere con oculatezza
quando è arrivato il momento di sostituire questo apparecchio.
Deve anche essere chiaro che al consumo di energia contribuisce anche il
calore che inevitabilmente penetra all’interno al frigorifero attraverso il vano
della porta quando la si apre, a causa
dell’aria calda esterna che entra a rimpiazzare quella fredda che vi si trovava.
Sicché è fortemente sconsigliato trascorrere il proprio tempo ad esaminare
il contenuto dell’elettrodomestico. La
porta va aperta infatti il meno possibile,
e solo assai brevemente. Si noterà, a
questo proposito, che quando si riapre
la porta una seconda volta a breve dalla
prima, occorre uno sforzo un po’ maggiore. Questo perché il frigorifero ha
raffreddato l’aria calda che vi era entrata, riducendone quindi la pressione6
e creando una depressione rispetto al-
l’esterno, che conseguentemente richiede un maggior sforzo per aprire la
porta dell’apparecchio.
È anche possibile aiutare il frigorifero
nella sua opera di tirar fuori calore dal
suo interno. Quando si devono scongelare delle vivande, anziché usare il microonde consumando quindi energia,
conviene porle nel frigo (purché a temperature un po’ maggiori di 0°C). Per
potersi scongelare, qui, i surgelati dovranno succhiare calore e non poco, sollevando da ciò i congegni dell’apparecchio e quindi riducendone il consumo di
energia. Per scongelare in questa maniera
ci vorrà certamente assai più tempo, veramente tanto, ma l’operazione è troppo
elegante per farne a meno.
I prodotti di stagione
Lo scorrere delle stagioni, fino a qualche
decennio fa, era accompagnato, anzi segnato, dalla disponibilità di frutta e di
verdure proprie del tempo, e certi prodotti erano addirittura presenti sui banchi del mercato soltanto per poche settimane. Oggi, invece, si possono
acquistare prodotti estivi d’inverno e
prodotti invernali d’estate, perché sempre disponibili al supermercato.
Consumare prodotti non di stagione
non è però una scelta felice: provengono da coltivazioni in serra oppure da
paesi lontani (magari addirittura agli
antipodi); in entrambi i casi richiedono
quantità di energia tutt’altro che trascurabili, per il riscaldamento delle
serre o per il trasporto a distanza. Ma
anche perché la loro qualità è inevitabilmente inferiore a quella degli stessi
prodotti coltivati al tempo giusto oppure non assoggettati a lunghi viaggi.
6. Una legge dei gas stabilisce che la pressione di un
gas, a parità d’altro, è inversamente proporzionale alla
sua temperatura. E quindi quando l’aria contenuta nel
frigorifero si raffredda, la sua pressione diminuisce.
97
PERCORSI DIDATTICI
… in automobile
Il frenetico che ci precede
Capita a volte, sulle strade, di trovarsi in
marcia dietro a una macchina le cui
luci di stop lampeggiano continuamente, indicando così che il suo guidatore alterna a breve rapide accelerazioni
e convulse frenate. Il frenetico individuo, così facendo, brucia inutilmente
benzina a ogni accelerazione dato che
l’energia di movimento appena acquistata dalla sua vettura, un attimo dopo
viene dissipata frenando, quindi riscaldandone i freni, e per di più usurandone le pastiglie.
Ma questo è solo uno dei tanti modi
per consumare più carburante del necessario, che sono riassunti brevemente
nella tabella qui sotto. Quanto al frenetico che ci precede, non conviene assolutamente tallonarlo a breve distanza, a nostra volta accelerando
bruscamente e frenando continuamente, per non ricalcarne la frenesia e
farci carico degli sprechi conseguenti,
oltre che per ridurre il rischio di incidenti. È bene anzi accelerare sempre
dolcemente, con grande attenzione a
non premere mai troppo l’acceleratore:
dalla pressione sull’acceleratore dipende la quantità di carburante che,
ad ogni suo giro, viene risucchiata dal
motore(Tabella 8).
Se si seguono le indicazioni della tabella, è garantito un notevole risparmio
di carburante: naturalmente si resta
sempre ben lontani da quanto è possibile ottenere disponendo di veicoli speciali ultraleggeri, come avviene nella
gara annuale chiamata Eco-Marathon,
dove i consumi arrivano a ridursi a
meno di un millesimo di litro al chilometro! Con una tecnica di guida ultrarisparmiosa che consiste essenzialmente nell’alternare fasi di lenta
accelerazione a tratti percorsi a motore
spento.
Dove va a finire l’energia
del carburante?
Tutti sanno ovviamente che il carburante serve a far camminare la macchina. Ma vale la pena di farsi un’idea
di cosa avviene davvero, cioè dove va a
finire effettivamente l’energia, ossia il
calore, che si sviluppa quando il carburante, nel motore, viene bruciato. E
Tabella 8
Cause di maggior consumo
di carburante
Maggior consumo
(dati approssimati)
● pneumatici sgonfi
● motore mal regolato
● portapacchi vuoto sul tetto
● condizionatore in funzione
● guida aggressiva (cercare continuamente di sorpassare le altre macchine,
accelerare inutilmente in prossimità di
un semaforo rosso…)
● guida troppo veloce
- 2-4%
- 5-10%
- 5-10%
- 3-6%
- 20-40%
- 40-60% guidando alla velocità massima anziché a circa 2/3 di questa
● mantenere a lungo il motore acceso du- - il motore in folle consuma in tre minuti il carrante le soste
burante necessario a percorrere circa 1 km
98
Gli pneumatici sgonfi, oltre ad aumentare il consumo di carburante,
riducono la sicurezza di guida.
Come se questo non bastasse, il
maggior attrito con il fondo stradale provoca una più rapida usura
del battistrada, e quindi le gomme
durano di meno (20-40%). Eppure
da un’indagine del 2006 risulta che
il 90% degli automobilisti europei
viaggia tranquillamente con pneumatici più o meno sgonfi.
allora bisogna ricordare che, sventuratamente, il secondo principio della
termodinamica vieta la trasformazione
integrale del calore in lavoro meccanico, cioè in quello che serve per far
marciare una automobile. Quindi solo
una frazione dell’energia del carburante risulta effettivamente utilizzabile,
mentre il resto va inevitabilmenteva
disperso nell’ambiente cioè, in parole
povere, sprecato. La frazione utile, in
pratica, ammonta all’incirca a poco
meno di un terzo (motori diesel) o a un
quarto (motori a benzina) del totale,
mentre il calore residuo, che è la frazione maggiore, va smaltito presto e
bene. A questo pensa il radiatore, sennò
il motore si riscalda fino a cuocere
qualche sua parte mettendola fuori uso,
e allora sono guai1. Ma anche il calore
residuo, a volte, può risultare utile,
E il frenetico che ci segue?
Lasciamoci superare, senza esitazione, in modo che vada a strombazzare qualcun altro!
1. È per questo che, ogni tanto, l’occhio del guidatore
dovrebbe posarsi sul termometro dell’acqua di raffreddamento, per intervenire in caso di temperature eccessive (di solito segnalate da una spia rossa di allarme).
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
PERCORSI DIDATTICI
come quando, d’inverno, lo impieghiamo per il riscaldamento.
E la parte utile, cioè l’energia meccanica sviluppata dal motore? Questa,
oltre a far funzionare vari congegni interni, fra cui l’alternatore che mantiene sotto carica la batteria e il condizionatore, serve a due scopi principali.
Il primo, quando occorre, è quello di
accelerare la macchina, che acquista
così energia di movimento, e di farla
marciare in salita, in tal caso facendole
acquistare energia di posizione. Queste
forme di energia si conservano: quella
di posizione fino alla prossima discesa,
quella di movimento fino a che la macchina resta in moto mantenendo la sua
velocità, cioè fino alla prossima frenata. Si capisce allora, come si è già
detto, che una guida convulsa, che alterni continuamente accelerazioni a
frenate, è insensata: ogni volta si usa
energia per accelerare la vettura ma
subito dopo, frenando, la si dissipa.
Trasformandola tutta nel calore che va
a riscaldare i freni.
Notiamo comunque che l’energia necessaria ad accelerare la macchina,
come pure a farla marciare su un percorso in salita è direttamente proporzionale alla sua massa, cioè al suo peso.
Molto approssimativamente, si valuta
che per una vettura media 100 kg di
peso addizionale comportino un aumento dei consumi di circa il 3%. E
questo è un buon motivo per non sovraccaricare la macchina con pesi inutili, ma anche, a maggior ragione, per
orientare gli acquisti verso vetture non
troppo massicce.
L’altro impiego principale dell’energia
meccanica del motore è quello di vincere gli attriti, cioè le forze che si oppongono al moto. Ed è qui che va a finire quasi tutta l’energia del motore
quando la macchina marcia in piano a
velocità costante, quindi con energia di
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
Ecco dove va a finire effettivamente l’energia del carburante per una automobile
con motore a benzina nel caso di un percorso medio, parte in città e parte in
autostrada. I numeri riportati nella figura sono soltanto indicativi.
movimento e di posizione costanti anch’esse. Fra questi attriti c’è quello fra
le gomme e la strada, chiamato attrito
di rotolamento, che dissipa all’incirca
il 20% dell’energia utile. È possibile
Fra le regole anti-smog che leggiamo
su un settimanale molto diffuso troviamo: «RISPETTA IL PESO: i consumi
aumentano del 6/7% a ogni carico
aggiuntivo di 100 kg su un veicolo di
classe media di 1500 kg di peso».
Sarà vero? Ora la potenza necessaria
per accelerare la macchina o per
spingerla in salita è certamente proporzionale alla massa in gioco e
quindi con 100 kg in più su 1500 la
maggior potenza è proprio 100/1500
= 6,7%. Non così però per la potenza
necessaria a vincere gli attriti, che è
pressoché indipendente dalla massa.
Dando ugual peso, mediamente, alla
due potenze anzidette si conclude
che con cento chili in più i consumi
aumentano di circa il 3%.
diminuire questa perdita mantenendo
gli pneumatici ben gonfi; meglio ancora utilizzando pneumatici più efficienti, che possono contribuire a ridurre di circa l’1% i consumi di
carburante. Non demonizziamo però
questo attrito, perché se si annullasse le
ruote girerebbero a vuoto e le macchine resterebbero ferme (come del resto avviene su una superficie ghiacciata perfettamente liscia, dove l’attrito
è veramente minimo). E del resto noi
stessi, senza attrito, non potremmo
camminare!
L’attrito più insidioso è costituito dalla
resistenza che offre l’aria al moto dell’auto. Quello cioè che i costruttori cercano di ridurre dando alle vetture una
forma aerodinamica. Perché insidioso?
Perché il suo effetto non è semplicemente proporzionale alla velocità, ma al
suo cubo. Il che significa che, raddoppiando la velocità, la potenza necessaria
per vincere la resistenza dell’aria non si
raddoppia ma diventa ben 23 = 8 volte
maggiore. Cosa della quale, viaggiando
più veloci del ragionevole, nessuno si
99
PERCORSI DIDATTICI
accorge e nessuno ci avverte. Per esempio, basta portare la velocità da 120
km/h a 150 km/h perché la potenza necessaria a vincere la resistenza dell’aria
cresca del fattore (150/120)3 = 1,95,
cioè praticamente si raddoppi. E con
essa, come è ovvio, aumenta anche il
consumo di carburante.
Modificare l’assetto aerodinamico della
macchina contribuisce ad aumentare la
resistenza dell’aria e quindi il consumo
di carburante. Ciò avviene, per esempio,
quando si viaggia velocemente con i finestrini aperti, e soprattutto quando si
dispongono valigie, sci o altro sul tetto
della vettura.
Anche l’energia persa a causa dei vari attriti va a finire tutta in calore, andando
a riscaldare l’aria circostante e le gomme
(meglio non toccarle dopo un lungo
tragitto). Perché l’energia si conserva,
cioè non si distrugge e quindi, come stabilisce il primo principio della termodinamica, va sempre a finire da qualche
parte, dove magari non serve a nulla.
Quando il motore romba
al meglio, è meglio davvero?
Il rendimento del motore dipende parecchio dal numero di giri, che è indicato dal contagiri come numero di giri
al minuto. Perché c’è un numero di giri
ottimo, tipicamente fra 1500 e 2500,
per cui il rendimento è massimo, allontanandosi dal quale la potenza meccanica sviluppata si riduce a parità di
consumo di carburante. Il cambio serve
proprio a questo, cioè a fare in modo
che il motore funzioni nelle condizioni
migliori, indipendentemente dalla velocità della macchina: alla partenza
come durante una marcia veloce.
Per non far girare troppo velocemente
il motore, conviene seguire una regola
generale: quella di utilizzare sempre la
marcia più alta possibile. Che significa
anche, alla partenza, passare rapida-
100
A proposito di velocità, è piuttosto
istruttivo calcolare a che altezza verrebbe scagliata una macchina la cui
energia di movimento, a seguito di
un urto, venisse integralmente convertita in energia di posizione. Il risultato, che non dipende dalla massa
della vettura, è il seguente, marciando a 100 km/h si potrebbe venire
scagliati all’altezza di 38 metri, che si
quadruplica a oltre 150 metri viaggiando a 200 all’ora.
mente dalla prima alla seconda e poi
alle altre marce. Così facendo, il motore
romba di meno e l’orecchio del guidatore è meno gratificato, ma anche di
benzina ne scorre meno. Qui aggiungiamo ancora un suggerimento a favore di una guida non troppo veloce,
approssimativamente fra metà e due
terzi della velocità massima, a cui corrisponde generalmente la condizione
di ottimo, cioè di minimo consumo.
SUV, ovvero l’apoteosi
del superfluo2
Non è impresa facile realizzare un prodotto che al tempo stesso sia superfluo,
dannoso e costoso; ancor meno riuscire
a piazzarlo sul mercato con largo successo. Eppure l’industria automobilistica mondiale ha conseguito pienamente questo assai riprovevole risultato,
che si chiama SUV, dall’inglese Sport
Utility Vehicle. Si tratta di un grosso
fuoristrada, un gippone, dotato di quattro ruote motrici e di fondale sollevato,
che è caratterizzato da ingombrante e
arrogante imponenza, da incongruo
impiego di grandi quantità di metallo e
altri materiali, da elevati consumi di
carburante e da intrinseca instabilità.
Queste possenti vetture, i cui nomi
(Cherokee, Touareg, Cayenne…) evo-
cano il mitico West o altri luoghi di
lontane e favolose avventure, sono largamente superflue dato che nella gran
maggioranza dei casi sono usate in città
per raggiungere il supermercato di
quartiere o per accompagnare a scuola
i bambini. Sono poi dannose per l’ambiente sia per la quantità dei materiali e
dell’energia impiegata per fabbricarli
sia perché consumano più carburante
delle auto usuali, da una volta e mezzo
al doppio, provocando un corrispondente maggiore inquinamento. E sono
anche pericolose: non soltanto per i
danni che possono provocare al prossimo i loro parafanghi rinforzati più
alti dell’usuale ma soprattutto per l’altezza del loro baricentro che ne facilita
il ribaltamento. Infatti in Usa, dove i
SUV sono particolarmente diffusi, c’è
un apposito sito che fornisce consigli legali per le cause intentate contro i produttori di queste vetture a seguito di
incidenti di ribaltamento. E infine i
SUV sono costosi perché rivolti a un
pubblico speciale, quello che è ben disposto a pagare per acquisire il supposto particolare status sociale derivante
dal possesso di macchine siffatte, che
permettono di guardare il prossimo
dall’alto in basso e che per la loro imponenza consentono stili di guida arroganti. E del resto i maggiori profitti
delle case automobilistiche provengono
proprio da questo settore di mercato.
Settore che in Italia è in rapida crescita
avendo superato di recente il 10% delle
nuove immatricolazioni.
(Tratto dal libro La fisica della sobrietà
– Ne basta la metà o ancora meno, Edizioni Dedalo, Bari 2012)
Giovanni Vittorio Pallottino
Università di Roma Sapienza
2. V. Del Soldato, Un comportamento consumistico insostenibile: i SUV (http://www-dse.ec.unipi.it/persone/
docenti/luzzati/documenti/SUVDelsoldato.pdf.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE
a cura di Giovanni Gobber - Università Cattolica, Milano
Il ruolo dell’arte nella didattica delle
lingue, con attenzione al tedesco
Lucia Salvato
L’arte intesa come
“arte di educare”
La grande importanza che la letteratura
e l’arte in genere hanno per la vita dell’uomo è riconosciuta lungo i secoli. In
ogni epoca l’uomo ha sempre guardato
alle opere d’arte come ad una fonte da
cui poter attingere una luce che illuminasse il suo (spesso faticoso) cammino
umano. Attraverso l’arte l’uomo ha
dunque sempre cercato di conoscere
qualcosa di sé e della propria vita, perché nei modi più diversi ogni artista
tende a rappresentare la natura dell’uomo, mettendone in risalto problematiche ed esperienze. Fin dall’antichità
classica, in particolare attraverso la pittura, la scultura, la letteratura, vengono
illustrate le miserie e le gioie dell’uomo,
i suoi bisogni e desideri, le sue meschinità e la sua grandezza, con lo scopo di
“elevarlo” ad una vita più degna.
Gli artisti, perciò, mentre arricchiscono
il patrimonio culturale di una nazione,
fruibile poi dall’intera umanità, «rendono un servizio sociale qualificato a
vantaggio del bene comune». Questo
accade grazie al fatto che, attraverso le
loro opere, essi in un certo senso si
fanno garanti della crescita umana della
singola persona e di conseguenza dello
sviluppo della comunità in cui essa vive
«attraverso quell’altissima forma
d’arte» che è «l’arte educativa»1.
Già gli antichi avevano messo per
iscritto gli scopi primari di un discorso.
Nel De oratore Cicerone ne delineò tre;
tra questi spicca – in modo particolare
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
in campo didattico – il coinvolgimento
emotivo degli ascoltatori: suscitare i
sentimenti più profondi significava arrivare anche a coinvolgerli, commuoverli (movēre), piegando il loro animo
(flectere) ad aderire al contenuto proposto. Prima di Cicerone, Aristotele
nella Poetica e nell’Etica Nicomachea
identificò ulteriormente tale cambiamento in un fenomeno di purificazione
(katharsis), che egli descrisse come il
vero scopo e l’auspicato effetto che
l’arte poetica della tragedia doveva
avere sullo spettatore.
Da qualunque punto di vista lo si osservi, si tratta in ogni caso di un cambiamento che ha inizio nell’interiorità
dell’individuo; l’effetto più profondo
dell’arte, infatti, è sempre stato quello
di “mettere in movimento” l’uomo,
scuotendone l’animo e suscitando in
lui un mutamento, avente spesso come
conseguenza una trasformazione ben
più ampia, nell’ambiente in cui egli
vive e opera a contatto con altri individui. Pertanto, proporre all’interno
di un’unità didattica di una lingua
straniera l’analisi e la descrizione di
un dipinto ha un duplice scopo: da
una parte è occasione per ampliare il
vocabolario dei discenti, esercitando
la capacità di riflettere direttamente in
lingua straniera per descrivere in un
tempo ristretto il dipinto scelto; dall’altra tende a migliorare le capacità
del discente di prendere coscienza della
realtà che ha di fronte in tutte le sue
sfumature.
L’arte pittorica medievale
e rinascimentale
L’arte può essere considerata a pieno
titolo “arte educativa”, e ogni forma
d’arte contiene in sé questa possibilità,
dalla pittura alla scultura, dalla poesia
alla prosa. In tale momento educativo è
ravvisabile un implicito scambio dialogico tra l’artista e il fruitore della sua
opera, nel quale il cambiamento del singolo può essere identificato con la risposta che egli implicitamente dà accostando quell’opera. La risposta, però,
potrà derivare solo da quell’umile atteggiamento di identificazione di sé con
il contenuto proposto, e quindi con
qualcosa che proviene da fuori e che è
altro da sé.
Per tale motivo l’uso di un’opera d’arte
all’interno di un progetto didattico
(nelle scuole secondarie di I o II grado
come in alcuni corsi universitari) può
essere di grande stimolo per il discente,
in particolare per le giovani generazioni.
L’arte medievale e rinascimentale ne è
un esempio. A quel tempo l’educazione
era ad ampio raggio: come per gli antichi un discorso doveva insegnare e nello
stesso tempo smuovere l’animo dell’ascoltatore per farlo aderire alla tesi
proposta suscitandone l’interesse, così
l’arte medievale aveva lo scopo di veicolare un contenuto provocando reazioni
ed emozioni. Molte chiese vennero af-
1. Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti, 1999, Nr. 4
(www.vatican.va).
101
LINGUE, CULTURE E LETTERATURE
frescate con storie dall’Antico e dal
Nuovo Testamento con lo scopo anche
di insegnare la storia della tradizione
cristiana a chiunque vi si accostasse, in
particolare a chi non sapeva leggere e
non poteva accedere alle Scritture. La
forma educativa aveva perciò duplice
carattere: “leggendo” la sequenza delle
immagini ogni spettatore poteva contemporaneamente essere istruito e ricevere un insegnamento morale; grazie
alla rappresentazione realistica intensa
ed emozionante, i racconti della Genesi,
la vita di Gesù o dei Santi, nelle quali gli
osservatori si possono facilmente immedesimare, lo spettatore traeva un
esempio per sé e per la propria vita all’interno della comunità in cui viveva.
In molti dipinti e affreschi la forza dei
colori e delle immagini ravviva la rappresentazione dei fatti e, attraverso il
coinvolgimento dei sensi, rende più
immediata l’adesione al contenuto proposto. Grazie ad esempio a cicli pittorici o affreschi sulle pareti delle chiese
il piatto mondo rappresentato nei secoli precedenti venne trasformato in
un analogo del mondo reale, nel quale
lo spettatore ha più facilmente la possibilità di vedere riflesso se stesso, le
proprie emozioni, i propri dolori, e in
genere le umane esperienze della vita
quotidiana. Dal modo in cui vengono
rappresentate, e dunque dall’atteggiamento delle figure di fronte alle situazioni anche più dolorose, lo spettatore
può trarre un modello da seguire, da ricordare, da imitare.
Particolarmente adatto a un corso di
Esercitazioni di una lingua straniera
(non solo a livello universitario) è l’osservazione di un dipinto o di un affresco, già noto agli studenti, da analizzare
e descrivere insieme. Partendo dal concetto di “testo”, inteso come atto comunicativo portatore di senso, è possibile
affrontare l’analisi del linguaggio di un
102
“testo iconico” per imparare a comprenderne il contenuto, ovvero il significato che l’artista ha in esso racchiuso.
Lasciando agli studenti la scelta all’interno di una (più o meno ampia) gamma
di immagini artistiche, capita spesso che
la scelta cada su uno dei dipinti del Caravaggio o, in ambito tedesco, di un dipinto di Friedrich. Il motivo è solitamente la conoscenza del soggetto e
l’immediatezza del contenuto. La sorpresa sta però nel vedere quanto poco in
realtà siano abituati gli studenti a descrivere un dipinto – e quindi un fatto che sta
al di fuori di essi – dovendo tralasciare, ad
una prima osservazione, l’espressione dei
sentimenti che esso evoca. Mostrare ad
essi senza alcuna introduzione l’immagine de La vocazione di Matteo (15991600) del Caravaggio o del Cristo nel
limbo (1450) del Beato Angelico, chiedendo semplicemente di fornire una
prima immediata descrizione, è un’esperienza molto interessante. Subito ci si ac-
corge di una scarsa capacità di osservazione del semplice dato reale e dell’istintiva reazione a voler subito includere il
contenuto del dipinto in uno stereotipo
già noto. Scopo dell’analisi dovrà pertanto essere quello di “educare” gli studenti all’osservazione dell’oggetto così
come esso è, con le sue peculiarità che
l’hanno reso un’opera d’arte.
Utile a tale scopo è una serie di domande a cui si chiede di rispondere
oralmente (ma singolarmente), semplicemente osservando il dipinto. Per l’affresco del Beato Angelico, ad esempio,
sono state fornite le seguenti domande
in lingua tedesca:
● Was steht im Vordergrund der Schilderung?
● Was geschieht an der Tür?
● Was sehen Sie links der Szene?
● Was steht im Mittelpunkt der Schilderung?
● Was steht im Hintergrund?
● Worum geht es? (eine mögliche Deutung der ganzen Szene)
Michelangelo Merisi da Caravaggio, La vocazione di San Matteo
(1599-1600), Roma, San Luigi dei Francesi.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE
La prosa letteraria:
un’esperienza con Kafka
Beato Angelico, Cristo nel Limbo (1450),
Firenze, Convento di San Marco.
La necessità di rispondere a domande
mirate mette gli studenti in grado di osservare il dipinto nella sua totalità, e
quindi di fornirne una spiegazione più
appropriata, partendo anche da quegli
elementi che altrimenti verrebbero tralasciati. In questo modo i discenti acquisiscono la capacità di analizzare e descrivere ogni tipo di immagine da un punto
di vista più oggettivo, riconoscendo anche i dettagli come importanti portatori
del significato. Riuscire a cogliere tutti gli
elementi (anche i più nascosti) fra le pieghe di un dipinto o fra i colori più o
meno marcati delle figure permette, infatti, di godere di un dato della realtà in
tutta la sua portata. Frutto di tale metodo
è una maggiore attenzione nell’approccio conoscitivo e interpretativo anche
della vita quotidiana: può capitare che il
momento finale dell’interpretazione divenga l’occasione per osservare più da vicino un fatto personale, giudicandolo
alla luce dell’esperienza conoscitiva avuta
di fronte al dipinto analizzato e descritto.
È quanto accaduto con un breve testo di
Franz Kafka.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
Particolarmente diffuso nelle scuole è
l’uso di testi in prosa letteraria. Negli ultimi anni la III prova di maturità linguistica ha riguardato un testo letterario o di attualità da analizzare
rispondendo ad alcune domande. Queste hanno il compito di sollecitare gli
studenti a un’osservazione più attenta
del testo, per poter dare risposte esaurienti, portando esempi dalla propria
esperienza e dalle conoscenze acquisite
nel corso degli studi.
Un testo molto semplice ma anche stimolante è un breve racconto di Franz
Kafka, Gemeinschaft2, utile a sviluppare
le capacità produttive, sia nell’orale che
nello scritto. La storia riguarda cinque
ragazzi che, uscendo da un cancello, si
dispongono in fila uno accanto all’altro.
Fin da quel momento essi decidono di
restare sempre insieme, trascorrendo le
giornate indisturbati. Accade però un
imprevisto: un sesto ragazzo si presenta
e bussa alla porta del gruppetto di amici,
nella speranza di essere accolto e poterne fare parte. Nonostante non vi sia
alcuna ragione particolare, i cinque
amici decidono di rifiutare la richiesta.
Come dimostrato da diverse frasi nel testo e da diversi verbi in forma negativa,
il gruppo si chiude a qualunque possibilità di cambiamento3. Qualunque nuovo
elemento è interpretato come un attacco
alla loro quiete, alle loro abitudini, in
quanto implicherebbe la difficoltà (o
meglio il fastidio) di dover fornire le
spiegazioni necessarie affinché egli possa
partecipare ai vari gesti di cui ancora
non conosce le “regole”. Il racconto termina con un’affermazione rilevante: per
i cinque ragazzi non ha alcuna importanza che il sesto incomodo metta il
broncio, essi lo rifiutano ugualmente opponendo la propria forza; ciononostante,
più essi tentano di sbarazzarsene, più
egli si ostina a tornare. Ed è proprio questo desiderio così tenace a ribaltare il
punto di vista: il racconto si chiude mettendo in secondo piano la forza ostile dei
cinque ragazzi e dando l’ultima parola
alla forza del desiderio del singolo.
Ad un gruppo di studenti universitari
sono state proposte alcune domande, lasciando loro la scelta tra la possibilità di
rispondere ad esse singolarmente e la
possibilità di accorpare le risposte attraverso un unico racconto. Ogni studente
ha optato per la seconda possibilità, e
assai interessante è stato il racconto con
cui ognuno ha voluto delineare un episodio della propria vita passata che corrispondesse al tema proposto da Kafka.
Le domande sono le seguenti:
● Haben Sie schon in Ihrem Leben eine
derartige Erfahrung erlebt? Wann? mit
wem? (mit Freunden / in der Familie…)
● Wie haben Sie reagiert?
● Wie haben die anderen Freunden/Verwandten reagiert?
● Waren Sie schon beisammen, wie
Franz, oder haben Sie gespürt, dass Sie
etwas mehr brauchten?
● Sind Sie mit dem Verhalten von Franz
Kafka (nicht) einverstanden? Warum?
Dai commenti degli studenti si è potuta
riscontrare la grande capacità che sempre ha la letteratura di veicolare contenuti e proporre attraverso essi una visione della vita con cui potersi
confrontare. La maggior parte degli studenti ha ammesso di avere ricevuto dal
racconto di Kafka uno spaccato molto
realistico e crudelmente sincero della
2. F. Kafka, Gemeinschaft, in Sämtliche Erzählungen, hrsg.
von P. Raabe, Fischer, Frankfurt a.M. 1970, pp. 308-309.
3. Tra le frasi in forma negativa spiccano le seguenti: «Er
tut uns nichts, aber er ist uns lästig, das ist genug getan»;
«Wir kennen ihn nicht und wollen ihn nicht bei uns aufnehmen»; «Außerdem sind wir fünf und wir wollen
nicht sechs sein»; «aber eine neue Vereinigung wollen
wir nicht»; «wir erklären lieber nichts und nehmen ihn
nicht auf»; Ibidem.
103
LINGUE, CULTURE E LETTERATURE
vita quotidiana che li riguarda in prima
persona. Nell’atteggiamento negativo
dei cinque ragazzi essi hanno riconosciuto la descrizione di un più ampio
atteggiamento negativo nei confronti
del mondo circostante, in particolare
di tutto ciò che è portatore di novità, e
che li riguarda in prima persona. Questo ha fatto sì che essi potessero rivedere
e correggere anche tutti quegli atteggiamenti negativi che spesso si hanno
nei confronti delle persone che si avvicinano con una richiesta che costringe
a mettere in moto una risposta.
Inoltre, poiché un testo di fiction raccontato in prima persona permette all’autore di fingersi di essere uno dei personaggi all’interno di esso4, Kafka ha
saputo dipingere la situazione in modo
realistico, arricchendola con particolari
osservati da un punto di vista soggettivo. Tuttavia, poiché il messaggio è veicolato dal testo ma non è immediatamente riconoscibile in esso, sta al lettore
inferirlo. Inoltre, tipico dell’autore
Kafka è quel modo di presentare una situazione in modo metaforico ma semplice, così che ogni lettore vi si possa rispecchiare, rintracciando tra le righe
qualcosa di sé. La capacità di inferire il
messaggio, il più delle volte veicolato
metaforicamente, ruota attorno alla
presa di coscienza che il racconto risulterebbe in difetto, ovvero mancante di
qualcosa, qualora venisse letto in modo
letterale. Pertanto, analizzare assieme
agli studenti il testo attraverso alcune
domande rende possibile l’immedesimazione con la situazione descritta e
insieme la graduale presa di coscienza di
un giudizio su di essa e su un’esperienza
personale dai contorni simili.
L’intento del lavoro su un testo letterario è dunque quello di portare gli studenti a “rispondere” in prima persona
all’invito che in esso sempre si nasconde. Questo significa anche inse-
104
gnare loro a giudicare un fatto ad essi
accaduto alla luce di quello stesso testo,
in particolare alla luce del giudizio che
essi arrivano a dare su di esso.
Come afferma Michail Michajlovi Bachtin, il primato di un’opera in prosa è
da rintracciare anche nella risposta del
lettore. In essa si esprimerebbe quella
capacità di comprendere il contenuto
proposto che si manifesta in un cambiamento del lettore stesso. L’influenza
che un testo può esercitare è infatti vista da Bachtin come un terreno fertile,
sul quale il lettore può sviluppare in
modo creativo la propria personale risposta, derivante dall’immedesimazione con il contenuto. Tale sviluppo
sarebbe dunque possibile perché, non
appena le parole penetrano nell’interiorità del lettore, questi incomincia a
interrogarle, arricchendole con le proprie esperienze, creando una sorta di
dialogizing background5.
La poesia: un’esperienza
con Lutz
Nel corso dell’insegnamento di una lingua straniera, all’interno di un’unità didattica l’uso di una poesia è sempre stato
un ottimo espediente per l’attenzione da
porre non solo al contenuto, ma anche
alla modalità linguistica con cui tale contenuto è veicolato. Inoltre, se la poesia è
particolarmente semplice e breve, essa
potrà essere usata per testare le capacità
traduttive degli studenti senza l’uso del
dizionario bilingue. Osservando, ad
esempio, le due seguenti poesie del poeta
svizzero-tedesco Werner Lutz (1930-):
Nicht resignieren nie
weggeworfene Wörter
wieder einsammeln
es könnte Rares
darunter sein
Sich ausdehnen
maisfeldähnlich
jene Armbewegung wagen
die einen ganzen Himmel
auszufüllen vermag
si nota che i testi non presentano particolari difficoltà; tuttavia la loro traduzione non è risultata immediata neppure a studenti di livello universitario.
La semplicità del lessico tedesco, infatti,
non corrisponde pienamente alla semplicità del lessico italiano, e questo perché spesso si tratta di termini composti
(maisfeldähnlich; Armbewegung) o di
strutture sostantivate (Rares), che in
italiano devono essere resi con espressioni più complesse. Diversi studenti
rischiano di proporre una traduzione
superficiale; la ricerca dei termini corrispondenti più adeguati nella lingua
italiana richiede pertanto una certa meditazione. Per poter rendere nella propria lingua un testo occorre sempre
dare il tempo necessario a un’attenta
riflessione sul contenuto veicolato dalle
espressioni linguistiche e sulla conseguente scelta del termine adeguato che
nella lingua di arrivo veicoli quello
stesso contenuto.
Leggere per la prima volta una poesia
(in particolare di un autore sconosciuto) è come incontrare per la prima
volta una persona, il cui sguardo generalmente coincide con un particolare
atteggiamento nei confronti del mondo
circostante. Ogni volta che ci si avvicina
a un testo letterario ha dunque inizio
quell’affascinante e interessante lavoro
dell’interpretazione, che richiederà un
determinato tempo anche a seconda
della lunghezza e della difficoltà del testo. Inoltre, se nella poesia vi sono frasi
interrogative, il lettore sarà in qualche
modo invitato a rispondere alle domande in esse contenute, possibilmente
partendo dalla propria esperienza per-
4. J.R. Searle, Expression and Meaning. Studies in the
Theory of Speech Acts, Cambridge University Press, Cambridge 1979, pp. 68-69.
5. M.M. Bakhtin, The Dialogic Imagination. Four Essays by
M.M. Bakhtin, ed. by M. Holquist, transl. by C. Emerson - M.
Holquist, University of Texas Press, Austin 1981, p. 358.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE
sonale. Se il testo è costituito da frasi
imperative, è auspicabile che queste
vengano prese sul serio per un lavoro di
immedesimazione con quanto richiesto
dall’autore. Se, invece, come nel caso
delle due poesie qui proposte, il testo è
caratterizzato da verbi all’infinito, questi tendono a descrivere un’esperienza
più generica, che può essere estesa ad
ogni uomo come invito a coinvolgersi
con le parole e in esse immedesimarsi.
Riflessioni conclusive
Come si è potuto notare dagli esempi
proposti, l’arte in genere è quel luogo
affascinante e privilegiato dell’incontro
tra due soggetti, autore e fruitore della
sua opera. Essa, però, è in grado di attivare tale gioco interattivo tra i due soggetti, solo se il fruitore del testo è disposto a mettere in gioco tutte le sue
risorse culturali e personali, così da offrire la propria risposta all’appello che
il testo intende esercitare.
Il contenuto veicolato da un’opera
d’arte ha in genere il potere di coinvolgere lo spettatore in un’esperienza personale di “unità dell’io”, esperienza che
può essere definita come “la cura dell’anima”6. Esporsi a una tale esperienza
significa accettare il confronto con il
bello, il buono, il vero, e questo è profondamente edificante. Tale esperienza
permette, infatti, di riconoscere in
modo immediato la differenza tra ciò
che è bello, buono, vero e ciò che non lo
è, predisponendo l’animo a un atteggiamento benevolo nei confronti della
realtà. In tale esperienza pedagogica
consiste il cambiamento che si sperimenta nella propria vita, a partire dal
cambiamento avvenuto nel proprio
animo di fronte a un’opera d’arte.
Inoltre, per tornare a quanto già affermato, approcciare un’opera alla luce
dell’insegnamento degli antichi rende
possibile quell’esperienza della conoscenza che è gioia di conoscere, non
solo a livello intellettivo (docere) ma
anche sensoriale (delectare). La bellezza
ha infatti sempre un forte impatto sull’uomo, tale da portarlo il più delle volte
a un istintivo ma profondo silenzio, nel
quale l’uomo si sente spinto alla verità
delle cose e quindi di se stesso: tale esperienza cambia e dona una nuova direzione alla vita verso il bene più alto.
La drammatica bellezza dell’affresco del
Giudizio Universale di Michelangelo
nella Cappella Sistina, ad esempio, ha il
potere straordinario di lasciare in profondo silenzio un’intera aula universitaria. Di fronte agli occhi di giovani discenti – a volte poco abituati all’attenta
osservazione di un’opera d’arte – si apre
uno spettacolo che veicola un messaggio
spesso trascurato nella frenesia della
quotidianità: il dramma delle anime
dannate che nel “giorno del Giudizio” si
allontanano dalla salvezza perché sedotte
dalle forze del male. Nello stesso tempo,
però, i colori vivaci e le forme mascoline
delle figure rendono l’affresco un vero e
proprio «annuncio di speranza», un «invito potente ad elevare lo sguardo verso
l’orizzonte ultimo», perché la storia dell’umanità è «inesausta tensione verso la
pienezza, verso la felicità ultima, verso
un orizzonte che sempre eccede il presente mentre lo attraversa»7.
Questo è lo straordinario contributo
delle più grandi opere d’arte, le quali
hanno “il potere” di smuovere (movere)
l’uomo cambiandolo nel suo intimo,
facendogli ritrovare quell’anelito tutto
umano alla verità di sé. Tale cambiamento può essere visto come l’effetto di
un’interazione dialogica tra l’artista e il
singolo fruitore, effetto che – se positivo
– è auspicabile si possa riversare nel più
ampio ambito sociale. Ulteriori studi
potrebbero essere condotti su altre
forme d’arte o opere artistiche espresse
in altre lingue in grado di commuovere
lo spettatore e renderlo docile a quella
interazione dialogica che, il più delle
volte, avviene tra due soggetti che non
si incontrano mai.
Lucia Salvato
Università Cattolica, sede di Milano
Michelangelo Buonarroti, Giudizio universale, particolare della barca di Caronte
(1536-1541), Città del Vaticano, Cappella Sistina.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
6. A. Ramos, Art, Truth, and Morality: Aesthetic Self-forgetfulness vs. Recognition, in Mimesi, verità e fiction. Sulla
scia della ‘Poetica’ di Aristotele, ed. by R. Jiménez Cataño
- I. Yarza, Edusc, Roma 2009, p. 93.
7. Benedetto XVI, Incontro con gli artisti. Discorso del
Santo Padre Benedetto XVI, Cappella Sistina. Sabato, 21
novembre 2009 (http://www.vatican.va).
105
LINGUE, CULTURE E LETTERATURE
I think this could possibly be…
An appreciation of hedging strategies in English
Sonia Rachele Piotti
T
he notion of hedging has been in
the linguistic literature and vocabulary since the term hedges
was introduced by Lakoff (1972) to describe a range of lexical units, such as
sort of, think, suppose, etc., «whose job is
to make things more or less fuzzy». The
original definition and interpretation
has been recently widened to include
more discourse-oriented interpretations. In the more recent literature,
hedging may be best described as a large
and complex language phenomenon
whereby items semantically associated
with uncertainty, tentativeness, vagueness and related meanings are used to
realise various and very different pragmatic/rhetorical purposes, from facesaving, deference and politeness to mitigation of the illocutionary force of
one’s speech acts, mitigation of responsibility and/or certainty, doubt, denial
of responsibility, and even evasiveness
and obfuscation for dubious purposes.
Not surprisingly, the vast majority (but
not all) of publications treat hedges and
hedging as phenomena of the English
and German language. Yet, its nature
and its consequences for foreign language teaching, and English Language
Teaching in particular, is not adequately
covered in textbooks.
This article provides an introductory
survey of the notion of hedging in linguistics, with an eye to the categories
and types of hedging strategies in Present-Day English. This brief survey provides the theoretical framework behind
106
the research on hedging carried out in
Applied Linguistics, which is described
in the latter part of the article. This part
presents some recent themes and issues
in Secondary Language Acquisition and
offers a description of the difficulties
learners experience with the phenomenon of hedging, focussing especially on
EFL/ESL learners, both in secondary
and higher education. In order to enable teachers to «make better informed
judgements about the communicative
usefulness of particular features, assisting them in decisions about what items
to teach ad when to teach them» (Hyland 1998, p. 243), this part also pres-
Piet Mondrian (1872-1944), Sun, Haags
Gemeentemuseum.
ents some activities that have been suggested in the literature to foster an
awareness and understanding of hedging strategies as part of L2 learners’
pragmalinguistic competence.
Hedging: Origins of the
concept
The words hedge and hedging can be
broadly defined as referring to a barrier,
limit, defence or the act or means of
protection or defence (Oxford English
Dictionary, s.v. hedge and hedging). In
linguistics, many interpretations of the
two terms have been advanced and discussed that are associated with these
general meanings.
Lakoff (1972) is universally acknowledged as the first linguistic approach
to and treatment of the concept of
hedging. Lakoff ’s research especially
focused on the linguistic indeterminacy of the lexical items used to talk
about those natural phenomena that
fall outside the central core of broad
conceptual categories of natural language such as ‘animal’, ‘fish’ or ‘bird’
and are therefore less representative
members of these categories: he refers
to such linguistic items as hedges. He
explained his theory as follows (Lakoff
1972, p. 471):
For me, some of the most interesting
questions are raised by the study of
words whose meaning implicitly involves fuzziness – words whose job is to
make things fuzzier or less fuzzy. I will
refer to such words as ‘hedges’.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE
According to Lakoff, expressions such
as “Penguins are birds” are categorical
expressions which place penguins in
the category of birds, of which they
share the prototypical characteristics.
If we insert a fuzzy or vague expression
or hedge such as sort of into the statement, we can modify the degree of penguins’ membership to the category of
birds, vaguely placing penguins outside
the central core of the category of
“bird”: “Penguins are sort of birds”.
The capacity of language expressions
to modify category membership is typical of a variety of hedging devices, including hedged performatives such as
suppose, think, seem, etc., that is, hedges
that can be used to modify or control
the illocutionary force of the speech act
specified.
Skelton (1988) includes hedges among
the strategies which realise the commentative potential of any language; «it
is by means of the hedging system of a
language that a user distinguishes between what s/he says and what s/he
thinks about what s/he says» (Skelton
1988, p. 38).
This discourse-oriented approach to
hedging has been, and still is, particularly evident in research on specialised
discourse in general and English for
Specific Purposes (ESP) and English for
Academic Purposes (EAP) in particular: research has especially focused on
such areas as medicine and biology and
business, and includes genres such as
research articles, popular science texts,
and newspapers.
Hedging and politeness
Later interpretations of
hedging: research in
pragmatics and related
concepts
Since Lakoff, research in the field of
hedging and hedges has increased rapidly as a result of the broadening of the
concept of hedges from the point of
view of semantics and logic to pragmatics, rhetoric and stylistics.
Hedging research in pragmatics has
been highly productive since the 1980s
and has especially focused on the phenomenon of hedging as a feature of
metadiscourse: writers and speakers
qualify their commitment to assertions,
soften and mitigate their judgements
and orders, boost and strengthen the
expression of their feelings and opinions in a variety of ways. Hedging,
along with other strategies such as emphatics and other devices, are examples
of the ways in which a writer/speaker
can show the reader how to interpret
the text, and how confidently to regard
the claims and statements it contains.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
Linguistic politeness is a concept that is
very close to hedging in its more extensive definitions as a feature of the interpersonal function of language.
The interpretation of politeness to
which most researchers have connected
their studies on hedging is represented
by Brown-Levinson (1978): politeness
is necessary in situations which could
pose a threat to the speaker’s or their
hearer’s face.
Hedging has most often been seen as a
negative politeness strategy used by the
writer or speaker to indicate that they
do not want to impose upon the
hearer’s/reader’s desires or beliefs. From
this perspective, the goal of hedging
strategies such as I think that, more or
less, is to mark the utterance as a subjective view. This attitude leaves the audience free to judge for themselves
while at the same time protecting the
sender’s negative face and preventing
them from criticism.
Myers (1989) regards hedging as a wellknown academic convention used to
show negative politeness and avoid direct criticism in academic writing. The
author agues that hedging is not related
to the probability of the claim it modifies, but shows the writer’s proper level
of deference when offering his or her
claim to the scientific community (Myers 1989, pp. 12-13, 18). Hedging scientific claims is actually so prevalent
that «a sentence that looks like a claim
but has no hedging is probably not a
statement of new knowledge» (Myers
1989, p. 13).
Categories and types of
hedges in English
A multitude of linguistic phenomena
can function as hedging devices in English. Among them, Skelton (1988, p. 37)
argues, «are the use of impersonal
phrases, the modal system, verbs like
‘seem’, ‘look’, and ‘appear’, sentence-introductory phrases like ‘I think’, ‘I believe’, and the addition of -ish to certain
(but not all) adjectives […]». In the following examples, the sentences on the
right represent hedged sentences, while
those on the left represent their ‘unhedged’ version (Skelton 1988, p. 37)1:
The world is flat.
It is said that the world is flat.
God is good.
God may be good.
Frank Bruno is unstoppable.
Frank Bruno may be unstoppable.
David Gower has a forceful personality.
I doubt if David Gower has a forceful
personality.
Sarah Ferguson has red hair.
Sarah Ferguson has reddish hair.
Myers’ (1989) discussion of the use of
politeness strategies in academic articles
on biology is one of the earliest attempts to offer a taxonomy of hedging
1. Italics not in the original.
107
LINGUE, CULTURE E LETTERATURE
strategies. These include lexical items
and syntactic constructions such as
modal verbs, modifiers such as plausible or probably, non-factive verbs such as
suggest, framing expressions such as it is
unlikely that, personal attribution as in
I would like to argue that, attribution of
claims to an impersonal agency, such as
the results, the findings, apologizing for
the face threatening act as in I hope that
those working on mammalian viruses
will forgive me for not describing their results more fully (1989, p. 20). Myers
seems to point to the fact that lexical
items are among the phenomena that
the readers of scientific texts most readily associate with hedging.
Similarly, Hyland (1994, p. 245) states
that when native speakers of English
use hedges to express doubt and tentativeness, the choice falls predominantly
upon lexical hedging elements. These
elements represent five central wordclasses, namely modal auxiliaries (e.g.,
may), main verbs (argue, believe), adverbs (possibly, perhaps), adjectives (potential, probable) and nouns (hypothesis,
idea, notion).
Varttala proposes a subdivision of these
lexical items on functional grounds distinguishing between epistemic main
verbs, epistemic adverbs, epistemic adjectives and nouns. In 2001, Varttala refines this subdivision on syntactic-semantic grounds. Main verbs and nouns
are subdivided into three subcategories
as follows:
- non-factive reporting full verbs (e.g.
claim, propose, suggest, allege);
- tentative cognition full verbs (e.g. expect, estimate, believe, assume, evaluate,
think);
- tentative linking full verbs (e.g. look,
appear, seem, tend);
- tentative cognition nouns (e.g. assumption, expectation, estimation, hypothesis, belief, expectancy);
108
- nouns on tentative likelihood (possibility, probability, tendency, likelihood);
- non-factive assertive nouns (e.g.
claim, proposal, suggestion, allegation);
Adverbs fall into four sub-categories:
- adverbs of indefinite frequency (e.g.
generally, typically, frequently, often);
- adverbs of probability (e.g. potentially,
possibly, perhaps, probably, admittedly,
apparently, etc.);
- adverbs of indefinite degree (e.g.
broadly, entirely, fairly, fully, greatly,
etc.);
- approximate adverbs (e.g. about, almost, approximately, nearly, virtually,
etc.).
Other studies have also included nonlexical items such as that-clauses (e.g. It
could be the case that), to-clauses + adjective (e.g. It may be possible to;
It is important to; It is useful to study,
etc.), if-clauses and passive constructions.
In her attempt to provide an overview
of the most important strategies along
with their relevant modifying devices to
achieve hedging that have been discussed in the literature, Clemen (1997,
p. 243) defines five distinct strategies
including politeness, indirectness, mitigation, vagueness, and understatement, and a variety of related modifying devices: hedged performatives,
epistemic qualifiers, modal verbs,
modal particles or downtoners, adjectives and adverbs, certain personal pronouns, passive constructions, impersonal and indirect constructions,
parenthetic constructions, subjunctive,
concessive conjunctions and negation.
Some of these devices, Clemen points
out, can be attributed to more than one
strategy.
Despite the multitude of the linguistic
phenomena that can function as hedging devices, many scholars agree that
the analysis of what really counts as a
hedge depends on context and subjectivity, that is, on the context of use and
the person doing the observation.
Given the context and the researcher’s
subjective assessment of the discourse
in question, items in some genres may
be identified as hedges although the
same linguistic units in other contexts
might not. In other words, hedging is
determined by a variety of factors including «the type of discourse, the colloquial situation and the speaker’s/
writer’s intention, plus the background
knowledge of the interlocutors»
(Clemen 1997, p. 243). Accordingly, automatic counting of specific lexical
items is not sufficient or even possible;
a thorough contextual analysis is
needed in order to identify and label
hedges correctly.
Hedging and ESL/EFL
learners: some studies in
Applied Linguistics
Since the early 1980s, research in Second Language Acquisition (SLA) has
extensively contributed to understanding the potential applications of hedging research in applied linguistics, focusing on interlanguage hedging as a
legitimate field of enquiry.
This section surveys some authoritative studies on hedging conducted in
the field of Applied Linguistics2, focusing on ESL/EFL learners, especially
adult and graduate learners. These
studies mainly approach hedging as a
(meta)pragmatic, discourse-oriented
strategy to express epistemic modality
in both spoken and written communication, all the more difficult to achieve
for second/foreign learners as it is part
2. For a detailed description of studies and research in
interlanguage hedging and pragmatics see J. Whishnoff
(2000).
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE
of their pragmatic competence. They
all argue for the inclusion of ways and
activities that help ESL/EFL learners
develop a sort of metapragmatic awareness, which should aid them in the development of pragmatic competence.
Some of these studies focus on the use
and interpretation of hedging strategies for general purposes, others discuss their use in academic or scientific
contexts.
Kasper’s (1979) study on the interlanguage of German learners of English
suggests that modality is present at an
early stage of the learner’s speech act
planning, but does not for some reasons
occur in its surface realisation. This reduction, she claims, is «a consequence
of low awareness of modality as a pragmatic category» (Kasper 1979, p. 274).
Holmes (1982) discusses hedges as expressions of epistemic modality and
identifies three different types or
sources of difficulty ESL learners experience with hedging: the problem of establishing the precise degree of certainty expressed by particular linguistic
forms; the range of linguistic forms
available for signalling this aspect of
meaning; and the interaction of different types of meanings in different contexts. The author then suggests some
ways in which the appropriate use and
interpretation of degrees of certainty
and conviction can be fostered by
means of hedging strategies.
Similarly, Skelton (1988) discusses
hedges as truth-judgment strategies,
namely mitigations of responsibility
and/or certainty to the truth-value of a
proposition: as such, they are part of a
large and complex phenomenon,
namely the commentative potential of a
language. The skilful use of hedges requires subtlety and sophistication not
only in a foreign language but even in
the mother tongue and is clearly part of
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
Piet Mondrian, Lighthouse in
Westkapelle (1909), Haags
Gemeentemuseum.
a language user’s pragmatic competence, lack of which may lead in foreign
language use to communicative failure.
In analysing the writing of Finnish
learners of English, Ventola/Mauranen
(1990) observe that direct and unqualified writing is more typical of ESL students than native speakers. In addition,
non-native students had less variation
in the expression of modality than native speakers of English did.
Hyland (1998) investigates the difficulties ESL students experience with hedging devices as markers of epistemic
modality in academic writing3. Following Holmes, Hyland (1998, p. 218)
points out that
The main difficulty is the fact they can
simultaneously convey a range of different meanings, not only signaling the
writer’s confidence in the truth of referential information, but also contributing to a relationship with the reader.
Students also experience difficulties because epistemic meanings can be signaled in many different ways, with a
variety of devices and expressions used
for this purpose.
The author laments that this obstacle
is «further compounded by the absence of adequate pedagogical materials», not only in the field of English for
Academic Purposes (EAP) but also in
the field of English for Specific Purposes (ESP). Hyland then surveys a
range of EAP and ESP style guides and
textbooks available on the market at
the time and evaluates their adequacy
in providing learners with information on hedging, focusing on lexical
items. The author concludes by pointing out that most EAP textbooks reflect rather outmoded pedagogical assumptions. Nevertheless, «while the
EAP writing texts seem to deal with
the issue more comprehensively than
the ESP materials, it appears that the
interest in modality in the research literature is not widely reflected in the
pedagogical materials». (Hyland 1998,
p. 225)
A turning point in the research on interlanguage hedging is represented by
Kasper (1992): the author argues for
the inclusion of Interlanguage Pragmatics (ILP) as a legitimate focus of
inquiry within research on SLA. Since
then, there has been a growing interest
in the effects of instruction on ILP development4. In this respect, experimental studies have been conducted,
supporting the idea that instruction
can help the appropriate interpretation and use of hedging devices (as
well as other types of pragmalinguistic
strategies) and increase students’ pragmatic awareness and pragmalinguistic
competence, especially for academic
purposes.
3. It must, however, be pointed out that Hyland (1998)
never uses the term interlanguage.
4. See Wishnoff 2000.
109
LINGUE, CULTURE E LETTERATURE
Hedging in the ESL/EFL
classroom
tematically taught». Therefore, the authors conclude, «some kind of awareness-raising may be the only possible
method of teaching in this area of language use» (Markkanen-Schröder 1997,
p. 12).
This section deals with some activities
that can help teachers develop ESL/EFL
learners’ pragmalinguistic awareness
and competence through an understanding of the several forms and
meanings of hedging in different contexts.
The first part of the section surveys the
activities that have been suggested in
some of the above mentioned studies
on (interlanguage) hedging in ESL/EFL
in both spoken and written communication, namely Hyland (1998). Hedges
are here best described as markers of
epistemic modality to express degree
of certainty, i.e. as markers of tentativeness.
The second part delves into the forms
and uses of hedges as pragmatic markers of politeness, indirectness, tactful-
Markkanen-Schröder (1997) claim the
difficulties ESL learners (and foreign
language learners in general) experience both in spoken and written communication may partly be due to the
lack of teaching in this area of language
use. The authors acknowledge that
teaching the appropriate use of hedges,
and, accordingly, their interpretation,
like other pragmatic phenomena can
be very challenging and difficult for
several reasons: hedging depends on
context and circumstances, but also on
people’s values, beliefs, culture, even
repertoires and idiolects. The appropriate use of hedging may cause problems in some communicative situations
even in the mother tongue; not surprisingly, it is problematic in a foreign
language, because the rules of appropriateness vary across cultures. Because
of the lack of teaching in this area of
language use, «students are not taught
to modulate their propositions, not
even sensitized to the issue» (Markkanen-Schröder 1997, p. 12) and this may
even lead to communicative failure:
pragmatic errors, though not being «so
obviously erroneous’ as faulty syntax
[…] make the foreign language user
sound, in the case of hedging, more impolite or aggressive, more tentative or
assertive that he/she intends to be».
The lack of teaching in this area of language use, the authors claim, is further
compounded by the fact that «the use
of hedges in writing may even be discouraged, perhaps because many of the
words and phrases used as hedges are
seen as empty fillers» (MarkkanenSchröder 1997, p. 12). The claim is supported by an evaluation of the adequacy of some guidebooks for good
Piet Mondrian, Composition with Oval
writing, in which «these items may be in Color Planes II (1914), Haags
commented on in passing but not sys- Gemeentemuseum.
110
ness and deference, especially used in
spoken interactions. In this respect,
these strategies are regarded as examples of a language behaviour indicative
of Englishness (Fox 2004; Potts 2012).
The ideas presented and discussed in
this section are taken from the activities
designed by other teachers and teacher
trainers, mainly Potts (2012)5.
Hedges as markers of
epistemic modality to
express degrees of certainty
and tentativeness
These activities include both comprehension and productions tasks. They
were originally meant at adults, as well
as students engaged in or preparing for
academic study or specialist science
courses in English, but they can be
adapted to meet the needs of a wide
range of ESL/EFL learners, «from postbeginners to advanced» (Hyland 1998,
p. 224), with a particular focus on their
writing skills.
Before engaging in any type of activity,
students should first receive very basic
instruction on the principles and mechanisms of hedging, along with the most
frequent lexical hedges.
Hyland (1998) stresses the importance
of focussing initially on lexical hedges
when developing the hedging skills of
ESL/EFL learners: apart from disciplinary conventions, from a pedagogical
point of view lexical hedges are «the
simplest devices for L2 learners to acquire, and we might reasonably expect
them to occur in textbooks more frequently than other devices» (Hyland
5. John Potts is a teacher and teacher trainer as well as
a CELTA (Certificate in Teaching English to Speakers of
Other Languages) assessor. He is also a presenter for
Cambridge ESOL Examinations. He is a regular columnist for the magazine English Teaching Professional, with
a section entitled Language Log.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE
1998, p. 224). As lexical devices are the
easiest type of hedges to acquire, they
offer «the greatest benefit for the least
learning effort» (1998, p. 237). Hyland
suggests teachers should be especially
careful with modal verbs, because of
the wide range of meanings they express. Unlike modal verbs, lexical verbs
and adverbs present students with far
less semantic confusion. They are also
highly frequent in casual conversation
(Holmes 1988) and «thus provide high
learning returns by allowing a transfer
to other contexts» (Hyland 1998, p.
237).
Sensitization tasks. The first step is to
encourage an appreciation of hedges in
context. This can be done by means of
consciousness-raising tasks: students
can be asked to look at how writers use
hedging strategies in their texts. After
being provided with a text/text fragment selected for in-class examination
and being given some information on
the text as a genre, students can be
asked to perform the following tasks
(Hyland 1998, p. 235):
- identify all hedges in a text, circling the
forms used, and assign a meaning to
them;
- distinguish statements in a text which
report facts and those which are unproven;
- identify all hedges in a text and state
what is being hedged in each case;
- locate and remove all hedges and discuss the effect on the meaning of the
text;
- identify hedges in a text and substitute
a statement of certainty and precision;
- identify hedges and rank them by the
amount of certainty they express
(high-mid low);
- […].
These tasks require and trigger a wide
variety of skills from learners. Some activities are more “passive”, such as identifying, circling, locating and removing
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
hedges, while others are more engaging
and challenging, such as assigning a
meaning to hedges, distinguishing facts
from unproven statements, stating what
is being hedged, thinking of alternatives to existing hedges, ranking hedges
according to the amount of certainty
they express and discussing the effects
of removing hedges from a text. In addition to that, some of these activities
(e.g. discussing the effect on the meaning of the text after removing all hedges,
substituting hedges with a statement of
certainty and precision, ranking hedges
by the amount of certainty they express) can also be used to sensitise students to the fact that the same text can
be adjusted and adapted to serve different communicative purposes and audiences and fit into different registers.
As a matter of fact, what students are
actually asked to do by means of these
activities is to compare two versions of
the same material. At a more advanced
level, the skills acquired or developed
through these activities could provide
the basis of/for activities on genre-variation, i.e. variations on/of relevant genres selected for in-class examination.
According to Hyland (1998), another
way of analysing hedges and raising
awareness of their effects on statements
is the use of Data-Driven Learning
(DDL) activities: they require the use of
a concordancer, «which is a computer
programme designed to search large
amounts of computer-readable texts for
particular words and combinations»
(Hyland 1998, p. 233). A computer approach is an alternative to manual
analysis, but its advantages in the case
of hedging strategies (and other types
of features as well) are manifold: it is an
important means of stimulating inquiry and encouraging independent
engagement with the foreign/second
language. With the aid of a concor-
dancer, teachers can also think of and
design activities alternative to those described above and also include “limited
production” tasks. For example, after
selecting a specific text and familiarising students with the genre it belongs
to, teacher can create a gapped text and
«encourage students to predict missing
forms and think of alternatives, or use
contextual clues to complete gapped
concordance printouts» (Hyland 1998,
p. 234), etc. At more advanced stages of
ESL/EFL instruction, a concordance approach can also help teachers and students manage several authentic samples of the standard genre selected for
in-class examination and its variations
Production tasks. Following Hyland
(1998, pp. 238-239), production activities on hedges can provide the basis of
reformulation activities. Some of these
activities involve limited production
while others involve some form of extended production as follows:
- complete sentence frames, in an appropriate context, which employ common hedges such as in spite of…, if
…then, although …, under these conditions …, according to our method
…, the model implies …, viewed in
this way …, etc;
- present uncertain information or disputable beliefs in a variety of ways
[…];
- paraphrase a description of an experiment using hedges to refer to uncertain
claims;
- […].
Hedges as markers of
politeness, tactfulness,
deference
In his September 2012 article on the
intricacies and idiosyncrasies of the
English language, Potts focuses on indirectnesss and includes it among the
pragmatic strategies, which, like politeness, tactfulness, discretion and deference, diminish «any potential pushi-
111
LINGUE, CULTURE E LETTERATURE
ness» of a request (Potts 2012, p. 40).
Fox (2004, p. 400) depicts politeness,
courtesy and indirectness from an anthropological point of view and includes them among the defining characteristics of Englishness, that is, «distinctive regularities in English behaviour»: key phrases like (Fox 2004, p.
408)
‘Sorry’; ‘Please’’; Thank-you/Cheers/
Ta/Thanks; […] ‘I’m afraid that…’; ‘I’m
sorry but,…’; ‘Would you mind…?’;
‘Could you possibly…?’; […] Excuse
me, sorry, but you couldn’t possibly pass
the marmalade, could you?’; ‘Excuse me,
I’m terribly sorry but you seem to be
standing on my foot’; ‘With all due respect, the right honourable gentleman is
being a bit economical with the truth’.
are almost a matter of form. They correspond to what «sociolinguists call
‘negative politeness’, which is concerned
with other people’s need not to be intruded or imposed upon […]» (Fox
2004, p. 408). Every culture has these
words, but the English use them more
than «other less ‘polite’ nations» (Fox
2004, p. 408): the reason is that the English «are not naturally socially skilled
and need these rules to protect them
from themselves». This raises the issue
of the possible intercultural misunderstandings, as the English judge others
by themselves, and assume that everyone shares their obsessive need for privacy (Fox 2004, p. 408).
To enable non-native speakers of English readers appreciate and understand
the “Englishness” of indirectness and
similar strategies, Potts (2012, p. 40)
provides further examples of indirect
utterances he has encountered personally as a native speaker:
Perhaps the most extreme expression of
indirectness I have ever encountered
personally was on a very crowded rushhour Northern Line tube train ap-
112
serves, is further compounded by the
spread of English as the lingua franca of
international communication, which
«may well result in some of these more
indirect uses diminishing: they could
be too opaque, too open to being misunderstood or even risk being missed
altogether» (Potts 2012, p. 41).
As a matter of fact, from the ESL/EFL
speaker’s perspective, Potts remarks, an
indirect utterance like «we were hoping
you might be available to join us…» is
an example of a language behaviour
that puzzles many non-native speakers
of English, «namely the way that some
English native speakers don’t always
state things directly» (Potts 2012, p. 40):
is the speaker actually asking or simply
Piet Mondrian, Lily,
telling a friend to join him/her? SupHaags Gemeentemuseum.
pose students are also asked whether
the utterance refers to the present or
the past time: the use of the past progressive form was hoping in addition to
the use of the modal might can be misproaching Leicester Square, when one
commuter said to another ‘Excuse me,
leading.
but my foot seems to have become acciPotts points out that such phrases as I
dentally trapped beneath yours’.
was hoping you might…, I was hoping
you…, I was wondering whether you
Discussing the use and appropriate inwanted/could…, are very popular ways
terpretation of indirect expressions,
to make indirect questions in English,
Potts claims that indirectness is
as proven by the high numbers of results with/by means of Google search.
partly a matter of context […], but also
one of language variety, age, culture, upAll these expressions combine grambringing and personality. What is permatical hedges, like the use of past
fectly clear to a certain British English
forms of state of mind verbs-whether
speaker may be maddeningly vague to
past simple, past progressive, past peran American English speaker, while the
fect, along with lexical hedges, such as
directness of a bluff, down-to-earth
the modal verbs could or might. This
Northerner may seem abrupt to others
(Potts 2012, p. 41).
use of past forms to refer to present
time means creating some distance in
This, in turn, raises the issue of the time:
speaker’s personal language choices
the increase in distance-in-time of the
and, accordingly, of his idiolect: using
forms is reflected in an increased dissuch forms may not always be the aptance-from-immediacy of the request,
propriate strategy, even among native
which means more ‘space’ for me as the
speakers, as these utterances may not be
reader. As modern idiom puts it, the
part of someone’s repertoire.
writer ‘isn’t in my face’-there’s little risk
The situation, Potts (2012) neatly obthat I feel imposed upon, and therefore
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE
there’s a greater chance that the request
will be successful and not declined. This
use of the past forms in creating distance
from immediacy results in politeness, indirectness, tactfulness, discretion, deference, and so on, depending on the context
and the speakers (Potts 2012, p. 40).
To make indirect suggestions, questions
represent an alternative to the use of
past forms with affirmative statements
(Potts 2012): what distinguishes ‘Should
we start earlier?’ from ‘Shall we start earlier?’ and ‘Let’s start earlier’ is that
the first question is quite tentative, offering most of the decision-making to
the respondent, while the second offers
at least 50 per cent of that decision-making process. The third is quite different:
it takes command, and gives a clear lead
(Potts 2012, p. 41).
Potts’ insights offer interesting ideas for
ESL/EFL teachers and teaching.
The production activities students can
be asked to perform mainly involve reformulation tasks: very clear, direct utterances should be transformed into
“super-tentative” and less categorical
ones, ranking them by the amount of
deference, tactfulness, indirectness or
politeness they express. The process can
also go in the opposite direction, from
very indirect utterances to direct ones.
A comprehension test he describes allows teachers to integrate listening skills
into their teaching of hedging: to help
students appreciate how the use of
hedges varies across contexts, language
varieties, age, cultures, upbringing and
personality, he suggests teachers listen
“to the test match cricket commentary
on the BBC, with its mix of speakers
from different backgrounds”. He also
regards “tuning in regularly over the
five days of the game as essential field of
research” (2012, p. 41).
Conclusions
While there are still questions about the
definition of hedging, its existence
along with its effects on human language and interactions are a matter of
fact on which all researchers agree. In
particular, research on hedging shows
how this phenomenon can influence
and change people’s attitudes. The
amount and type of hedging used and,
accordingly, its interpretation, can depend on context, language variety, age,
culture, people’s repertoires and idiolects.
ESL/EFL instruction, therefore, should
take account of this phenomenon as a
very important part of the pragmalinguistic competence of L2 learners, even
in secondary education, and, accordingly, integrate it into the classroom.
Sonia Rachele Piotti
Università Cattolica
REFERENCES
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Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
113
LINGUE, CULTURE E LETTERATURE
CLIL e Italiano L2:
un’esperienza per non italofoni
Silvia Gilardoni
IL CONTINUO INCREMENTO DI STUDENTI NON ITALOFONI ISCRITTI ALLA SCUOLA SECONDARIA DI SECONDO GRADO,
UNITAMENTE ALLE NUMEROSE ESPERIENZE DI INSEGNANTI COINVOLTI IN PROGETTI DI ACCOGLIENZA E INTEGRAZIONE
SCOLASTICA, EVIDENZIA LA NECESSITÀ DI INDIVIDUARE LINEE DI AZIONE NEL CAMPO DELLA DIDATTICA DELL’ITALIANO
L2 CHE RISPONDANO ALLA SPECIFICITÀ DEI BISOGNI LINGUISTICO-COMUNICATIVI DEGLI STUDENTI STRANIERI NEL
CONTESTO DELLA SECONDARIA SUPERIORE. IN QUESTO CONTRIBUTO SI PROPONGONO PERCORSI DIDATTICI PER
L’INSEGNAMENTO E L’APPRENDIMENTO DELL’ITALIANO L2, CHE SI COLLOCANO NEL QUADRO DI QUELL’APPROCCIO
METODOLOGICO NOTO COME CLIL – CONTENT AND LANGUAGE INTEGRATED LEARNING, BASATO SUL CONCETTO DI
INTEGRAZIONE TRA SVILUPPO LINGUISTICO E FORMAZIONE NEI CONTENUTI DISCIPLINARI.
L’integrazione tra lingua e
contenuto nell’insegnamento
disciplinare
La didattica dell’italiano L2 in contesto
scolastico prevede due direzioni di intervento:
- l’alfabetizzazione nell’italiano di base,
ossia l’italiano della comunicazione
quotidiana, per lo sviluppo della competenza nella lingua e cultura italiana,
con l’obiettivo di raggiungere quel livello di utente competente, secondo il
Quadro comune europeo di riferimento
per le lingue, che permette allo studente di usare la lingua per diversi
scopi e in diversi contesti;
- la formazione nel cosiddetto “italiano
per lo studio”, che riguarda la padronanza nell’italiano delle discipline scolastiche, con l’obiettivo di facilitare lo
studio e l’apprendimento delle discipline stesse.
Si identificano quindi due tipi di competenze linguistiche, accogliendo una
distinzione proposta da Cummins: una
competenza di tipo BICS nelle “basic
interpersonal communicative skills” e
una competenza di tipo CALP, la “co-
114
gnitive/academic language proficiency”,
che si riferisce alla capacità di comunicazione ad elevata richiesta cognitiva e
in contesto ridotto, come nel caso delle
competenze comunicative e delle abilità
richieste nello studio delle discipline1.
Pur nella consapevolezza che l’italiano
della comunicazione e l’italiano dello
studio non sono certo da intendersi in
modo dicotomico ma rimandano a
contesti di apprendimento che si integrano vicendevolmente, occorre tuttavia riconoscere che essi corrispondono
a bisogni specifici e richiedono una pianificazione didattica differenziata.
Riflettendo sui bisogni linguistico-comunicativi degli apprendenti, possiamo
ritenere che gli studenti non italofoni
nella scuola secondaria di secondo
grado, in generale, con l’eccezione dei
neoarrivati o di studenti da poco inseriti nel sistema scolastico, abbiano già
sviluppato una certa competenza comunicativa nell’italiano di base durante
il loro percorso di formazione; il loro
bisogno formativo si concentra pertanto principalmente nel campo dell’italiano per lo studio, anche in considerazione del maggior grado di
specializzazione delle discipline scolastiche rispetto agli altri ordini di scuola.
L’uso dell’italiano L2 per studiare implica una serie di compiti ad elevato contenuto cognitivo, quali: la comprensione
e l’espressione di contenuti e concetti
delle discipline; la comprensione e la
produzione di generi di testi specialistici
propri della comunicazione scolastica;
la comprensione, la memorizzazione e la
definizione di termini settoriali.
Nel contesto didattico dell’italiano per
lo studio occorre dunque considerare
sia obiettivi legati alla formazione linguistica dell’apprendente sia obiettivi
di natura disciplinare, legati alla didattica delle diverse discipline scolastiche.
Nel campo dell’insegnamento disciplinare in italiano ad alunni non italofoni
si può quindi efficacemente adottare la
prospettiva del CLIL (Content and Language Integrated Learning) che prevede,
1. Cfr. in proposito P.E. Balboni, Le sfide di Babele, UTET,
Torino 2012, p. 236. Segnaliamo che la distinzione tra
l’italiano di base e l’italiano per lo studio, denominati rispettivamente ItalBase e ItalStudio, si ritrova anche nei
documenti ministeriali (cfr. Ministero della Pubblica
Istruzione, La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri, ottobre 2007).
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE
attraverso l’uso di una L2 per veicolare
contenuti di discipline non linguistiche, una forte correlazione tra apprendimento della lingua e apprendimento
del contenuto, «raggiungibili attraverso
un unico processo di apprendimento
integrato», come afferma Coonan2.
Il CLIL, in ragione dei vantaggi riscontrabili a livello glottodidattico, sta conoscendo, come è noto, un’ampia diffusione nel campo della didattica delle
lingue straniere, come si può osservare
anche in riferimento alla realtà scolastica italiana. La definizione di CLIL offerta dallo European Framework for
CLIL Teacher Education permette tuttavia un uso estensivo del concetto
stesso di CLIL: «CLIL is a dual-focused
educational approach in which an additional language is used for the learning and teaching of content and language with the objective of promoting
both content and language mastery to
predefined levels»3. Con il termine additional language gli studiosi intendono
una lingua “altra” rispetto alla L1, sia
essa una lingua straniera, una lingua
seconda o anche la lingua d’origine dell’apprendente, proponendo in tal modo
la possibilità di adottare il CLIL in diversi contesti.
Si può così distinguere un CLIL finalizzato alla promozione dell’apprendimento delle lingue straniere e un CLIL
volto a favorire l’integrazione linguistica e culturale degli studenti non nativi, come nel caso del CLIL applicato
nel contesto dell’italiano L2 nelle classi
plurilingui della scuola italiana.
Dobbiamo peraltro ricordare che il
CLIL in lingua straniera e il CLIL per
l’italiano L2 nella classe plurilingue rappresentano due contesti didattici differenti, in cui i principali fattori di variazione possono essere individuati nel
livello di immersione linguistica e nelle
caratteristiche del gruppo classe: la preNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
senza di una L1 comune tra gli studenti
e conosciuta dal docente può essere opportunamente utilizzata in alternanza
con la lingua straniera nella classe CLIL,
diversamente dal contesto della classe
plurilingue in cui gli studenti, con L1
diverse e generalmente non conosciute
dagli insegnanti, si trovano in una situazione di immersione totale nella L2;
la presenza di competenze linguistiche
e disciplinari relativamente omogenee
tra gli studenti permette una pianificazione curricolare comune nella classe
CLIL, mentre l’eterogeneità dei livelli
di competenza in lingua italiana tra studenti stranieri e italofoni e, come è generalmente riscontrabile, anche tra gli
studenti stranieri stessi, può rendere
necessari interventi didattici differenziati nella classe plurilingue.
Nella consapevolezza della diversità dei
contesti, vogliamo ora sottolineare
come il CLIL, finora adottato nella
scuola italiana nel campo delle lingue
straniere, possa essere efficacemente applicato anche nell’ambito della didattica
dell’italiano L2, dal momento che rappresenta una «risposta metodologica
adeguata», come segnala Mazzotta, alla
situazione didattica che si verifica nell’insegnamento delle discipline non linguistiche a studenti non italofoni, in
cui l’italiano è una lingua/cultura oggetto di apprendimento e contemporaneamente veicolo di contenuti di apprendimento4.
Dal punto di vista metodologico il CLIL
si caratterizza infatti per una doppia
focalizzazione sulla lingua e sul contenuto disciplinare, che emerge ai vari livelli della pianificazione didattica, dall’identificazione di bisogni e obiettivi,
alla creazione del sillabo, con la segnalazione di contenuti disciplinari e contenuti linguistici, alla valutazione. Il
CLIL inoltre prevede una particolare
attenzione alla comprensibilità dell’in-
put, perseguita attraverso il ricorso a
strategie e interventi di facilitazione
della comprensione nella comunicazione didattica, come la ridondanza
dell’input, l’uso di riformulazioni, l’uso
chiaro di marche di relazioni connettivali, il controllo della velocità dell’eloquio, l’impiego di materiali di supporto
come uno schema della lezione, immagini, ecc.5.
Progettare il CLIL per
l’italiano L2
Entrando nel merito della progettazione
didattica, in un percorso CLIL per l’italiano L2 si possono individuare i seguenti
obiettivi educativi e glottodidattici:
- l’apprendimento dei contenuti disciplinari curricolari e la capacità di comprenderli ed esprimerli in italiano L2;
- lo sviluppo di abilità di studio (leggere
per studiare, sintetizzare un testo, prendere appunti, ascoltare una lezione,
ecc.) e di strategie di apprendimento;
- lo sviluppo delle competenze linguistiche relativamente alle modalità espressive e alle strutture linguistiche dell’italiano nel suo uso specialistico (morfosintassi, lessico, connettori, ecc.);
- lo sviluppo della competenza testuale
in italiano L2 in relazione ai generi di
testo dell’italiano disciplinare nel contesto della comunicazione scolastica
(manuali di studio, testi di approfondimento, lezioni, verifiche, e interrogazioni, ecc.).
2. C.M. Coonan, La lingua straniera veicolare, UTET, Torino
2002, p. 75.
3. D. Marsh - M.J. Frigols Martín - P. Mehisto - D. Wolff, European framework for CLIL teacher education, Council of
Europe/European Centre for Modern Languages, Strasbourg/Graz 2011 (http://www.ecml.at/tabid/277/Pu
blicationID/62/Default.aspx).
4. P. Mazzotta, Il CLIL nella didattica dell’italiano agli immigrati, «Rassegna Italiana di Linguistica Applicata» I
(2006), p. 74.
5. Sulla metodologia del CLIL segnaliamo, tra gli altri, D.
Coyle - P. Hood - D. Marsh, CLIL. Content and Language
Integrated Learning, Cambridge University Press, Cambridge 2010.
115
LINGUE, CULTURE E LETTERATURE
centi di discipline linguistiche e non»7.
Nel campo dell’educazione linguistica si
possono individuare diversi obiettivi didattici, per sviluppare le competenze al
livello del sistema linguistico o al livello
dell’uso della lingua, ossia nel campo
della ricezione e produzione di testi.
Considerando il contesto del CLIL per
l’italiano L2 nella scuola secondaria di
secondo grado vogliamo ora proporre
alcune attività didattiche che rinviano a
due obiettivi didattici, che ci sono sembrati di particolare interesse alla luce
dei bisogni formativi degli apprendenti,
quali lo sviluppo della competenza testuale nelle tipologie discorsive del linguaggio disciplinare e l’acquisizione del
lessico settoriale.
Joan Miró, Carnevale di Arlecchino (1924-1925).
Lo sviluppo della competenza
testuale: il testo disciplinare e
le tipologie testuali
Tali obiettivi devono poi essere precisati
in rapporto a due livelli di italiano per
lo studio che occorre distinguere, come
osserva Mezzadri, un «livello di italiano
per lo studio generale», che comprende
le abilità di studio e le competenze linguistico-comunicative trasversali rispetto alle varie discipline, e un «italiano per lo studio di tipo specifico»,
che rimanda alla specificità delle modalità espressive e comunicative proprie delle singole discipline.
Un intervento didattico nella direzione
dell’italiano per lo studio si rivolge primariamente agli studenti stranieri, nel
caso per esempio di laboratori mirati,
ma nel contesto della classe riguarda
evidentemente anche gli studenti italofoni; anche per questi ultimi, del resto,
una formazione nelle competenze relative all’uso della lingua italiana nell’apprendimento delle discipline può essere
altrettanto efficace e rilevante, pur nella
diversità dei bisogni linguistici.
Dal punto di vista operativo si può
quindi prevedere in primo luogo l’or-
116
ganizzazione di laboratori di CLIL per
l’italiano L2 nell’ambito del livello generale della lingua per lo studio, che risulta essere propedeutico allo sviluppo
dell’italiano delle singole discipline,
come suggerisce ancora Mezzadri6.
Occorre poi pianificare la realizzazione
di percorsi CLIL nel contesto dell’insegnamento/apprendimento delle diverse
discipline scolastiche.
In tale prospettiva vengono ad essere
coinvolti tutti gli insegnanti del curricolo, l’insegnante di italiano (L1 e/o L2)
e gli insegnanti delle diverse materie, che
potranno avviare una riflessione comune per la realizzazione di percorsi didattici basati su quella doppia focalizzazione su lingua e contenuto disciplinare
che caratterizza la metodologia CLIL.
Si riafferma così la centralità del concetto di educazione linguistica, da intendersi, come ricorda Chini, «nel senso
dell’insegnamento volto allo sviluppo e
al potenziamento delle abilità linguistico-comunicative, ma anche metalinguistiche, svolto trasversalmente dai do-
Sviluppare la competenza testuale in
un percorso CLIL per l’italiano L2 significa lavorare sul processo di interpretazione e realizzazione del progetto
comunicativo di un testo, così da portare gli studenti a essere in grado di riconoscere e attivare i meccanismi che
contribuiscono alla coesione e alla coerenza testuale, nonché padroneggiare
le modalità di organizzazione formale e
logico-semantica dei generi testuali di
interesse nel contesto comunicativo dell’italiano per lo studio.
Nel processo di comprensione e produzione di un testo risulta rilevante,
come è noto, il concetto di tipologia testuale e la differenziazione tipologica
dei testi. Riconoscendo il dibattito esistente in merito alla classificazione tipologica e, nel contempo, l’irriducibilità
6. M. Mezzadri, Studiare in italiano. Certificare l’italiano
L2 per fini di studio, Mondadori Università, Milano 2011,
pp. 12-13.
7. M. Chini, Educazione linguistica e bisogni degli alunni
(stranieri), «Italiano LinguaDue» I (2009), p. 185.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE
del testo ad una rigida tassonomia, faremo riferimento in questa sede a una
classificazione ampiamente impiegata
nell’ambito dell’educazione linguistica,
che distingue i testi in relazione al tipo
di atto linguistico dominante tra testi
narrativi, descrittivi e argomentativi8.
Il contatto con i testi disciplinari e lo
studio delle discipline vedono lo studente impegnato nella comprensione e
nella produzione di narrazioni di eventi
storici, descrizioni di oggetti o di fenomeni naturali, argomentazioni di critica letteraria, filosofica, storica, ecc. Nell’ambito della storia, ad esempio, si
possono riscontrare testi ad andamento
prevalentemente narrativo, come per
esempio quando vengono raccontate le
vicende di una battaglia o di un popolo,
testi che presentano un andamento dominante descrittivo, come nel caso dell’illustrazione delle caratteristiche di una
società, oppure testi con una struttura
argomentativa, quando vengono esposte
le ragioni di determinati eventi.
L’individuazione delle tipologie testuali
è poi naturalmente strettamente connessa con la riflessione sull’organizzazione logico-semantica del testo e sulle
diverse relazioni connettivali tra le sequenze testuali, di carattere narrativo,
descrittivo o argomentativo (successione temporale, consecuzione, opposizione, dimostrazione, ecc.).
Nel contesto del CLIL per l’italiano L2 ai
fini di studio si può quindi prevedere la
progettazione di percorsi didattici sull’italiano disciplinare, lavorando sulle
diverse tipologie testuali che caratterizzano i testi disciplinari e sulle relazioni
connettivali che si instaurano tra le sequenze testuali; un percorso di tal genere mira a sviluppare nell’apprendente
la consapevolezza dell’organizzazione
del discorso disciplinare, così da promuovere l’apprendimento dell’italiano
e, contestualmente, della disciplina.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
Joan Miró, Testa di contadino catalano (1925).
Al fine di offrire alcuni suggerimenti
operativi, presentiamo, a titolo esemplificativo, un percorso per la formazione della competenza testuale in relazione a un genere di testo specifico della
comunicazione scolastica, ossia il testo
del manuale disciplinare.
A partire da un lavoro di comprensione
di un testo scritto tratto da un manuale
ci proponiamo di sviluppare l’abilità di
trasformazione e manipolazione testuale attraverso la tecnica del riassunto,
che viene a rappresentare una forma di
scrittura al servizio dello studio, come
osserva Corno9.
Il nostro percorso didattico prende avvio dunque da un’attività di lettura, che,
come è noto, deve prevedere una prima
fase di pre-lettura, dedicata, come osserva Grassi, a «elicitare preconoscenze,
sia linguistiche che enciclopedico-contestuali», a «fornire e chiarire parolechiave e termini microlinguistici necessari alla comprensione del testo», così
da «indirizzare nella giusta direzione le
aspettative [...] rispetto al testo» e facilitare il processo di comprensione10.
Durante l’attività di lettura, che è fina-
8. Cfr. R.-A. De Beaugrande - W. Dressler, Introduzione alla
linguistica testuale [1981], Il Mulino, Bologna 1994.
9. D. Corno, Scrivere per comunicare. Teoria e pratica della
scrittura in lingua italiana, Mondadori, Milano 2002, pp.
29-30.
10. R. Grassi, Compiti dell’insegnante disciplinare in classi
plurilingui: la facilitazione dei testi scritti, in M.C. Luise (a
cura di), Italiano Lingua Seconda: Fondamenti e metodi.
Coordinate, Guerra Edizioni, Perugia 2003, vol. 1, p. 130.
117
LINGUE, CULTURE E LETTERATURE
lizzata alla comprensione e all’analisi
del testo, proponiamo di avviare una
riflessione sulla tipologia testuale del
testo disciplinare, ponendo attenzione
alle relazioni connettivali tra le sequenze testuali e alla presenza di connettori che segnalano tali relazioni
(congiunzioni, avverbi, locuzioni congiuntive, espressioni di vario genere). Si
potrà così rilevare la presenza di andamenti narrativi, descrittivi o argomentativi, con le rispettive procedure di organizzazione delle sequenze, come la
successione di avvenimenti e la causalità
narrativa nel caso di narrazioni, la procedura di aspettualizzazione con l’individuazione di proprietà e parti dell’oggetto nel caso di descrizioni, la presenza
di una tesi, di dati e di argomenti pro e
contro nel caso di argomentazioni.
In questa fase si possono impiegare le
classiche tecniche didattiche utilizzate
per lo sviluppo dell’abilità di comprensione, come le domande aperte, le domande a scelta multipla, le griglie, il
cloze, le attività di riordino del testo,
ecc. Gli esercizi proposti dovranno però
avere lo scopo di guidare lo studente
nello svolgimento del compito finale,
ossia la scrittura del riassunto, che, come
ricorda Balboni, implica diverse abilità,
quali comprendere il testo, riconoscere
i nuclei concettuali e ordinarli gerarchicamente, produrre il nuovo testo11.
Gli esercizi saranno funzionali al riconoscimento e all’espressione dei nuclei
concettuali fondamentali del testo e all’identificazione delle relazioni sequenziali. Occorre quindi prevedere esercizi
differenziati in base alla tipologia testuale dominante: nel caso di testi narrativi si presenteranno esercizi come
domande o attività di riordino, per il riconoscimento dell’ordine cronologico
degli avvenimenti e dei nessi di causalità; per i testi descrittivi può essere efficace la realizzazione guidata di schemi
118
come i diagrammi ad albero, che permettono di evidenziare gli elementi
della descrizione (l’oggetto descritto, le
proprietà generali dell’oggetto, le sue
parti, le proprietà delle parti); nel caso
di testi argomentativi si proporranno
esercizi, come domande aperte o chiuse,
finalizzati all’individuazione di tesi e
argomenti.
Nella fase di elaborazione del riassunto
lo studente dovrà produrre un testo a
partire dai nuclei concettuali individuati; inizialmente lavorerà sotto la
guida del’insegnante, che potrà per
esempio indicare alcuni connettori da
utilizzare per mettere in relazione le sequenze o suggerire modalità di trasformazione delle frasi del testo, per arrivare poi alla capacità di svolgere il
compito in autonomia.
I testi di sintesi prodotti possono infine essere utilizzati come canovaccio
per un’esposizione orale dei contenuti,
così da favorire l’apprendimento disciplinare e la capacità di produzione
orale.
Il lessico disciplinare
L’acquisizione del lessico disciplinare
permette l’accesso ai contenuti delle
materie e la loro trasmissione nell’ambito della comunicazione scolastica e
rappresenta dunque una parte essenziale del processo di insegnamento/apprendimento dell’italiano per lo studio.
Per facilitare l’individuazione e la memorizzazione del lessico disciplinare si
può realizzare un glossario che raccolga i concetti e i termini appresi durante lo studio di una disciplina. Il
glossario sarà da concepire dunque
come uno strumento che accompagna
lo studente nel percorso di apprendimento e che diventa oggetto di attività
specifiche in classe o a casa, finalizzate
all’analisi del lessico settoriale che ricorre nei testi di studio.
Al fine di focalizzare l’attenzione sia sul
contenuto sia sulla lingua, come richiede il CLIL, il glossario potrà contenere diverse informazioni quali: il termine corredato da informazioni di
carattere grammaticale; una definizione
del termine, che potrà essere fornita
dall’insegnante oppure reperita in un
testo specialistico, in un glossario di settore o in un dizionario; un contesto
d’uso del termine, che potrà essere
estratto direttamente dal testo di studio
o da un altro testo di approfondimento.
La redazione di un glossario implica
dunque un lavoro di analisi del significato e dell’uso dei termini in un determinato ambito disciplinare. Nel corso
dell’analisi è possibile anche riflettere
sull’univocità semantica dei termini
specialistici, così come sul fenomeno
della rideterminazione semantica di parole di uso comune, che si può riscontrare nei linguaggi settoriali. Una parte
fondamentale del lavoro consiste poi
nella ricerca delle definizioni dei termini; in tale attività occorre focalizzare
l’attenzione non solo sul significato dei
termini ma anche sulle modalità espressive impiegate nelle definizioni, con
l’obiettivo di sviluppare la competenza
lessicale e metalinguistica.
In un glossario si possono anche inserire, ove possibile, gli equivalenti dei
termini nella L1 dell’apprendente o anche in un’altra lingua nota, come ad
esempio la lingua straniera studiata,
così da favorire la formazione di una
competenza lessicale bilingue attraverso
un’analisi terminologica comparativa.
Silvia Gilardoni
Università Cattolica, sede di Milano
11. Cfr. P.E. Balboni, Tecniche didattiche per l’educazione
linguistica. Italiano, lingue straniere, lingue classiche, UTET,
Torino 1998.
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
LIBRI a cura di Luigi Tonoli e Lucia Degiovanni
Nodi della politica
e della storia
A. Duce
Storia della politica
internazionale (1945-2013)
Studium, Roma 2013,
pp. 577, € 43.
Mancava, nel panorama degli
studi di settore, un contributo che
aiutasse a definire il senso profondo di uno degli eventi più
complessi del recente passato e,
per molti versi, ancora oggi vivo e
capace di chiamarci in causa. Il fenomeno della decolonizzazione
non si lascia ingabbiare in facili
etichette storiografiche, poiché
nasce da una realtà di rapporti in
divenire tra popoli, culture e sistemi economici e politico-miltari
diversi. Tanto più preziosa risulta
allora la seconda parte della ricerca di Alessandro Duce, docente di Relazioni internazionali
presso l’Ateneo di Parma, quando
precisa come non sia facile e
possa al contrario risultare mistificatorio legare a un prima e un
dopo lo sforzo dei Paesi europei –
e non solo – ad occuparne altri e
lo slancio di questi verso la propria autonomia dalla madrepatria. Sono movimenti sostanzialmente “indistinti” e quasi “contemporanei”, nel senso che sottomissione e liberazione si verificano in modi e tempi dissimili,
alcuni insospettabilmente a noi
vicini. Il verbo latino colĕre, fondare, alla base di “colonia” rischierebbe di essere assunto in modo
acritico, se il lavoro di Duce non
intervenisse a declinarlo con ricchezza e precisione nei diversi
teatri in cui si manifesta: Medio
Oriente, Palestina, Cuba, India, Indocina, America del Sud. La prospettiva conduce il lettore in due
direzioni. Da una parte, ci si trova
di fronte al confronto fra il sistema liberal-democratico, nel
quale la libertà si intreccia con la
libera iniziativa, e quello marxista
dell’Urss, in cui decolonizzare significa creare l’opportunità di
«collocare i nuovi paesi all’interno
del mondo comunista». Dall’altra,
l’autore apre un innovativo scenario sulle nuove frontiere della
colonizzazione: le calotte polari e
l’esplorazione dell’universo, ponendole al centro di accordi,
anche unilaterali, tra gli Stati, con
il realismo di chi non esclude, per
il prossimo futuro, la probabilità
di conflitti di vasta portata.
(Domenico Rizzoli)
corso difficile e tortuoso, caratterizzato dall’irrisolto nodo della
creazione di un reale spirito di appartenenza comune. Ripercorrendo questo iter e affrontando
una disamina delle interpretazioni e delle metodologie di ricerca storiografica, il volume
fornisce un contributo per un rinnovato dibattito (aperto agli specialisti del settore, nonché al vasto
campo di studiosi di scienze sociali) relativo al “caso italiano” e a
quei caratteri peculiari che continuano a determinarne l’assoluta
specificità nel panorama dei sistemi politici europei.
R. Tottoli (a cura di)
L’autunno delle
primavere arabe
La Scuola, Brescia 2013,
pp. 90, € 8,50.
P. Carusi
I partiti politici
dall’Unità ad oggi
Studium, Roma 2013,
pp. 288, € 23,50.
Dall’Unità a oggi, la storia dei partiti italiani viene qui ripercorsa, nei
suoi passaggi fondamentali, attraverso lo svolgimento cronologico delle diverse fasi politiche:
dai problemi e dalle questioni
emerse all’indomani dell’unificazione, passando attraverso la crisi
del liberalismo e l’avvento dei
partiti di massa, superando la
soppressione della vita democratica messa in atto dal regime fascista, e arrivando, infine, alla
creazione, al consolidamento e
alla crisi del sistema dei partiti
dell’Italia repubblicana. Un per-
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
«Quello che sta succedendo tra
Nordafrica, Vicino Oriente e, in
forma ridotta, in molti altri Paesi
musulmani rappresenta uno
degli esempi migliori di come le
vicende storiche siano razionali e
logiche nel momento in cui prendono forma, ma allo stesso
tempo imperscrutabili e non prevedibili nelle dimensioni, nei
tempi, e nelle modalità». La considerazione di R. Tottoli, a introduzione dei saggi di M.
Campanini, R. Angiuoni, M. Borraccino e L. Nocera, fa rilevare la
difficoltà di una presentazione
chiara, precisa e sintetica di un fenomeno che si evolve con una
velocità superiore a ogni tentativo di sistemazione ordinata, ma
dichiara al contempo l’utilità
stessa di un saggio che sappia
cogliere le linee essenziali che
soggiacciono a una cronaca
complessa, contraddittoria e incalzante.
Tre i temi principali. In primo
luogo l’intreccio di relazioni che
le primavere arabe intrattengono
con la realtà mediterranea e con
le regioni limitrofe come la fascia
sub-sahariana, la Siria, il Libano,
l’Iraq, la Turchia, Israele e la Palestina. Realtà tutte dai complessi
equilibri etnico-religiosi e dai rapporti interni in radicale cambiamento rispetto al passato. In
secondo luogo la natura delle organizzazioni partitiche che
hanno guidato le rivolte e che si
sono rivelate presto inadeguate
alla gestione dei rapporti politici
interni e che hanno sovente lasciato al solo l’esercito il compito
di compiere i passi successivi alle
proteste di piazza. In terzo luogo
la diffusione del radicalismo islamico che grava sul Mediterraneo
in stretta connessione con i flussi
migratorii e che contribuisce all’instabilità radicando in molti
paesi formazioni jihadiste che si
richiamano più o meno direttamente ad Al Qaeda.
Moti del cuore
A. Prete
Compassione
Bollati Boringhieri, Torino 2013,
pp. 190, € 16.
Intensa unione possibile fra esseri
umani che condividono lo stesso
dolore? modo ipocrita di avvicinarsi al dolore dell’altro? sentimento inutile che rivela solo
debolezza ed elude la domanda
119
LIBRI a cura di Luigi Tonoli e Lucia Degiovanni
di giustizia ed eguaglianza? La
compassione è un sentimento
ambiguo e complesso: il volume
ne traccia una possibile storia.
Della compassione la scrittura e
l’arte ci restituiscono, scrive l’autore, «insorgenze e vibrazioni, segnali e compimenti, sospensioni
e deviazioni, eccessi e attenuazioni». I filosofi tendono invece,
da sempre, a guardarla con sospetto: in ogni caso rimane «la
principale esperienza del riconoscimento del legame che trascorre tra tutti gli esseri».
Il libro non è una ricostruzione
storica in senso proprio, ma un
percorso che, soprattutto attraverso letteratura e filosofia, descrive i modi in cui questo
sentimento è stato vissuto, interpretato, giudicato. Percorso più
tematico che cronologico, con
largo spazio a Dante, ma anche ai
Persiani di Eschilo e all’Antigone
di Sofocle, figura emblematica
del coraggio fedele alla pietà.
In rilievo anche la disumanizzazione delle guerre mondiali: «La
compassione, assolutamente
ignota agli aguzzini, è uno dei
primi sentimenti che si estingue
anche fra gli internati». E Guernica, il capolavoro di Picasso, è un
urlo che potrebbe avere «la funzione del Cristo nelle Pietà della
storia dell’arte».
I miti antichi rappresentano la
compassione in personaggi
drammatici e positivi: Filottete,
Prometeo, Demetra. Anche don
Chisciotte, eroe della compassione nel proteggere i deboli in
una società ostile. L’ospitalità è figura mediterranea della compassione e dell’accettazione dell’altro,
come nell’Odissea. E mentre Baudelaire modula «una forma particolare di compassione, quella che
ha per oggetto se stesso», cioè la
propria dolorosa condizione
umana, in Manzoni la compassione che l’Innominato prova per
Lucia si trasforma in conversione,
«passaggio verso un altro modo
120
di essere uomo» e «verso un’altra
morale». Ancora, la compassione
nelle civiltà orientali e quella del
Dio cristiano verso l’uomo. Ma
anche la compassione verso l’animale, in poeti e pensatori.
I filosofi non sono soliti considerare la compassione fra le virtù
necessarie: la filosofia occidentale, infatti, ha privilegiato la diffidenza e il sospetto nei confronti
di un sentimento «ritenuto per
sua natura ipocrita, autoassolutorio, incapace di rispettare l’autonomia, la libertà e il pudore di
colui che è stato colpito dal dolore». In risposta alla domanda
conclusiva, «come farsi prossimi
al dolore dell’altro?», si pone «la
grande scena in cui la compassione prende forma: la comunità
dei viventi, uomini e animali. Con
la singolarità dei loro corpi, e desideri, e ferite».
P. De Benedetti - M. Giuliani
Farsi perdonare.
Il valore della teshuvà
Morcelliana, Brescia 2013,
pp. 78, € 10.
Chiedere scusa è un’esperienza
talmente quotidiana da aver
perso il nesso profondo con il
perdono, che invece mantiene
l’aura di un concetto religioso, attinente alla sfera del sacro e al
senso del peccato.
Da una fenomenologia di tale
esperienza, emerge nelle pagine
del volume di De Benedetti e
Giuliani la stretta correlazione tra
la colpa e il male, la giustizia e il
perdono, come si declinano nel
pensiero ebraico: alla riconciliazione, che prende il nome di sha-
lom, fanno da contrappunto i
temi della teshuvà, espiazione e
perdono, e del tiqqun, la restaurazione dell’ordine infranto del
mondo. Un’analisi cui corrisponde, nella Bibbia, il lessico
della misericordia che, per Paolo
De Benedetti, si declina in tre momenti emblematici: la meditazione-confessione della presenza
di Dio nella storia; l’uscita, individuale e collettiva, dal peccato; la
promessa messianica.
G. Antonioli
L’ospite più strano.
Conversazioni sul dolore
Morcelliana, Brescia 2012,
pp. 224, € 11.
«Per illuminare le gallerie devi
avere le lampade, ma per far luce
nel cuore devi bruciarti», così dicevano i vecchi minatori; con l’arcano dei detti antichi e popolari
si apre questa conversazione sul
Dolore che, della premessa iniziale, mantiene la nettezza dei
contorni e l’attitudine conversevole.
Trentacinque capitoli scandiscono le fasi di una riflessione pacata, che ha i toni talvolta
dell’apologo, talvolta della meditazione filosofica, nutrita però
sempre dall’esperienza di vita. Si
seguono le vie del Dolore, Dove
soggiorna, Come entra sono i titoli
dei capitoli iniziali, rapidi nel delineare i vari itinerari che esso può
percorrere, ma efficaci nell’individuare «l’aspirazione al più», come
sentiero più battuto. L’essere
umano esposto alla sofferenza
appare fragile, totalmente sopraffatto dalla propria condizione, in-
capace di suscitare empatia o di
provarla lui stesso. Eppure è possibile fare l’esperienza di incontrare Chi sa ospitare il dolore ed è
san Francesco, il paradigma di
colui che, accogliendo il dolore
nella propria radicalità, lo sa mutare e rendere foriero di valori.
Giovanni Antonioli, sorridente,
bonario, ma non ingenuo, guarda
la vita senza alcun ottimismo
consolatorio: la fragilità, la miseria umana, sono continuamente
presenti; paiono vicini Lucrezio,
Leopardi, ma poi la luce della
croce indica con chiarezza la via
ed essa non è altro che accogliere la croce stessa pienamente,
con un’autenticità che disarmi e
che unisca, rivelare appieno le
proprie fragilità per ritrovare vincoli con gli altri uomini e con Dio,
vero balsamo che può lenire le
sofferenze della vita.
Il Dolore è antidoto del potere,
che illude circa la propria invulnerabilità. Il Dolore accompagna
l’uomo, dalla notte dei tempi,
nelle infinite varianti e lo rende
ungarettianamente «presente
alla sua fragilità». L’uomo contemporaneo, che erige continue
barriere alla ricerca di una vita
che esorcizzi la prova e la sofferenza, finisce per affrontare le vie
oscure della malattia e della
morte, ma spesso non è sorretto
da un contesto ideologico-culturale che gli consenta un percorso
spirituale efficace.
Il testo è una conversazione lucida e serena, una lettura serale,
una guida che senecanamente
accompagna, ma non risolve, si
apre al mistero della Fede senza
eluderne la complessità. È l’invito
ad uscire da sé, lasciare la terra
nota per la terra promessa. Si
sente Antonioli parroco e l’uomo
di cultura, amico di Breton, il fine
letterato e l’uomo che ha lui
stesso accolto pienamente la sofferenza e la malattia e, grazie ad
esse, «si è rifatto un cuore...»
(Elisabetta Lazzari)
Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI
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