POSTE ITALIANE S.p.A. Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/04 n. 46) art. 1, comma 1 - DCB BRESCIA Editirice La Scuola 25121 Brescia - Expédition en abonnement postal taxe perçue tassa riscossa - ISSN 1828-4582 mensile di ricerca, cultura, orientamenti educativi, problemi didattico-istituzionali per le scuole del secondo ciclo di istruzione e formazione Nuova Secondaria 5 gennaio 2014 anno XXXI E D I T R I C E LA SCUOLA E D I T R I C E Mitigazione del rischio sismico: mito o realtà futura? LA SCUOLA Matematica e creatività Il ruolo dell’arte nella didattica delle lingue Il madrigale: musica e poesia L’integrazione che non c’è. Disabilità, DSA, BES 11 Nuova Secondaria n. 5 EDITORIALE Cinzia Bearzot Questioni di democrazia 5 NUOVA SECONDARIA RICERCA http://nuovasecondaria.lascuolaconvoi.it E.M.T. Torre Andrea Bernardi Ilaria Torzi (a cura di) Andrea Balbo Ermanno Malaspina Guido Milanese Professione docente e ricerca valutativa Le università britanniche osservate da vicino da un docente italiano Un viaggio tra i percorsi e gli strumenti della didattica multimediale e della formazione a distanza dedicati al latino Possibilità per la didattica multimediale del latino: siti web, videopresentazioni, risorse di You Tube Lavorare concretamente su Cicerone e Seneca: i siti Tulliana e Senecana e la filologia digitale Software libero e banche dati ad accesso libero per la didattica del latino e l’aggiornamento del docente FATTI E OPINIONI 50 62 Il fatto Giovanni Cominelli Nodi irrisolti 8 Istantanee sull’adolescenza postmoderna 9 Carla Xodo Val la pena investire in istruzione? 9 Asterischi di Kappa Abusi e buon senso 10 Asterischi di Kappa Il romanzo siciliano della formazione professionale 10 Paola Bignardi La grandezza viene da dove non te l’aspetti 11 Asterischi di Kappa Università e mondo del lavoro in Francia 11 Evoluzione storica della spesa pubblica per l’istruzione 12 Razionalità, scelte e vita quotidiana 12 L’esperienza del liceo classico europeo 14 Pensieri del tempo Giuseppe Acone Il futuro alle spalle Vangelo docente 93 La lanterna di Diogene Fabio Minazzi Occhio alla scienza Matteo Negro Didattica del classico Augusta Celada Tempo perduto, tempo ritrovato Franco Carinci La privatizzazione del pubblico impiego 15 PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI Giuliana Sandrone L’integrazione che non c’è. Disabilità, DSA, BES (1) 17 101 M.G. Fantoli - O. Gelmi Francesco Magni P.M. Pumilia - H. Fiorani A. Chiarle Valutazione e certificazione delle competenze: a che punto siamo? Il Consiglio di Stato afferma che copiare alla maturità è lecito? Potenzialità da una riforma dal basso 22 27 29 STUDI SUDIO SUI TERREMOTI di Mariabianca Cita Sironi La rivoluzione delle geoscienze degli anni Sessanta La mitigazione del rischio sismico: mito o realtà futura? 32 34 42 PERCORSI DIDATTICI Nicola Fiorino Tucci Letteratura e archeologia. Il caso dell’epigramma IV, 44 di Marziale e di un affresco pompeiano Paolo Fabbri Il madrigale: quando la musica si accoppia alla poesia Maria Rosa De Luca Fra musica, letteratura e immagine. L’oratorio musicale attraverso i “trionfi” di Giuditta Rossana Cavaliere Chi ben comincia… Incipit della narrativa italiana otto-novecentesca (2) Salvatore Ragonesi L’attualismo gentiliano come prassismo trascendentale Roberto Lucchetti Matematica e creatività Carlo Genzo Sfasamenti tra grandezze e metodi statistici. Il caso dell’inerzia termica nel sistema riscaldamento solare e atmosfera terrestre Gian Giacomo Guilizzoni Sali: nomenclatura e formule Ledo Stefanini La nave aerea di Lana Terzi Giovanni V. Pallottino Fisica della sobrietà (2) In cucina In automobile 50 54 58 62 71 75 80 85 88 93 98 LINGUE, CULTURE E LETTERATURE a cura di Giovanni Gobber Lucia Salvato Sonia Rachele Piotti Silvia Gilardoni Il ruolo dell’arte nella didattica delle lingue, con attenzione al tedesco I think this could possibly be… An appreciation of hedging strategies in English 106 CLIL e Italiano L2: un’esperienza per non italofoni 114 101 LIBRI a cura di Luigi Tonoli e Lucia Degiovanni Lezioni con slide disponibili sul sito di Nuova Secondaria http://nuovasecondaria.lascuolaconvoi.it 119 POSTE ITALIANE S.p.A. Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/04 n. 46) art. 1, comma 1 - DCB BRESCIA Editirice La Scuola 25121 Brescia - Expédition en abonnement postal taxe perçue tassa riscossa - ISSN 1828-4582 mensile di ricerca, cultura, orientamenti educativi, problemi didattico-istituzionali per le scuole del secondo ciclo di istruzione e formazione Nuova Secondaria DIRETTORE Giuseppe Bertagna Università di Bergamo 5 gennaio 2014 anno XXXI COMITATO DIRETTIVO Cinzia Susanna Bearzot - Università Cattolica, Milano Edoardo Bressan - Università di Macerata Alfredo Canavero - Università Statale, Milano Giorgio Chiosso - Università di Torino Luciano Corradini - Università Roma Tre Lodovico Galleni - Università di Pisa Pietro Gibellini - Università Ca’ Foscari, Venezia Giovanni Gobber - Università Cattolica, Milano E D I T R I C E LA SCUOLA E D I T R I C E Mitigazione del rischio sismico: mito o realtà futura? LA SCUOLA Matematica e creatività Il ruolo dell’arte nella didattica delle lingue Il madrigale: musica e poesia L’integrazione che non c’è. Disabilità, DSA, BES Angelo Maffeis - Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Milano Mario Marchi - Università Cattolica, Brescia Mensile di ricerca, cultura, orientamenti educativi, problemi didattico-istituzionali per le Scuole del secondo ciclo di istruzione e di formazione Fondatore e direttore emerito: Evandro Agazzi Anno XXXI - ISSN 1828-4582 Luciano Pazzaglia - Università Cattolica, Milano Giovanni Maria Prosperi - Università Statale, Milano Pier Cesare Rivoltella - Università Cattolica, Milano Stefano Zamagni - Università di Bologna Direzione, Redazione e Amministrazione: EDITRICE LA SCUOLA, Via Gramsci, 26, 25121 Brescia - fax 030.2993.299 - Tel. centr. 030.2993.1 - Sito Internet: www.lascuola.it - Direttore responsabile: Giuseppe Bertagna - Autorizzazione del Tribunale di Brescia n. 7 del 25-2-83 - Poste Italiane S.p.A. - Sped. in A.P.-D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/04 n. 46) art. 1, comma 1 - DCB Brescia - Editrice La Scuola - 25121 Brescia - Stampa Vincenzo Bona 1777 Spa, Torino - Ufficio marketing: Editrice La Scuola, Via Gramsci 26, - 25121 Brescia - tel. 030 2993.290 - fax 030 2993.299 - email: [email protected] – Ufficio Abbonamenti : tel. 030 2993.286 (con operatore dal lunedì al venerdì negli orari 8,3012,30 e 13,30-17,30; con segreteria telefonica in altri giorni e orari )- fax 030 2993.299 - e-mail: [email protected]. Abbonamento annuo 2013-2014: Italia: € 69,00 - Europa e Bacino mediterraneo: € 114,00 - Paesi extraeuropei: € 138,00 - Il presente fascicolo € 7,00. Conto corrente postale n.11353257 (N.B. riportare nella causale il riferimento Cliente). L’editore si riserva di rendere disponibili i fascicoli arretrati della rivista in formato PDF. I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm), sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5 della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org. Per eventuali omissioni delle fonti iconografiche, l’editore si dichiara a disposizione degli aventi diritto. Sito della rivista http://nuovasecondaria.lascuolaconvoi.it COMITATO DI REDAZIONE Parte generale e settore umanistico Luigi Tonoli, Lucia Degiovanni ([email protected]) con la collaborazione di Andrea Potestio, Don Fabio Togni Settore scientifico Marina Dalè, Pietro Marchese ([email protected]) Impaginazione Marco Filippini Segreteria di Redazione Annalisa Ballini ([email protected]) Supporto tecnico area web [email protected] 3 CONSIGLIO PER LA VALUTAZIONE SCIENTIFICA DEGLI ARTICOLI Coordinatori del Consiglio: Luigi Caimi e Carla Xodo Francesco Abbona Mineralogia, Università di Torino Giuseppe Acone Pedagogia, Università di Salerno Emanuela Andreoni Fontecedro Lingua e letteratura latina, Università di Roma Tre Dario Antiseri Filosofia della scienza, Collegio S. Carlo, Modena Gabriele Archetti Storia Medioevale, Università Cattolica, Milano Andrea Balbo Latino, Università degli studi di Torino Giorgio Barberi Squarotti Letteratura italiana, Università di Torino Raffaella Bertazzoli Letterature comparate, Università di Verona Fernando Bertolini Istituzioni di Analisi Superiore, Università di Parma Gianfranco Bettetini Teoria e tecniche delle comunicazioni, Università Cattolica, Milano Maria Bocci Storia contemporanea, Università Cattolica, Milano Cristina Bosisio Glottodidattica, Università Cattolica, Milano Marco Buzzoni Logica e filosofia della scienza, Università di Macerata Luigi Caimi Biochimica e biologia molecolare, Università di Brescia Luisa Camaiora Linguistica inglese, Università Cattolica, Milano Renato Camodeca Economia aziendale, Università di Brescia Franco Cardini Storia medievale, ISU, Università di Firenze Maria Bianca Cita Sironi Geologia, Università di Milano Michele Corsi Pedagogia, Università di Macerata Vincenzo Costa Filosofia teoretica, Università di Campobasso Giovannella Cresci Storia romana, Università di Venezia Luigi D’Alonzo Pedagogia speciale, Università Cattolica, Milano Cecilia De Carli Storia dell’arte contemporanea, Università Cattolica, Milano Bernard D’Espagnat Fisica, Università di Parigi Floriana Falcinelli Didattica generale e Tecnologie dell'Istruzione, Università degli Studi di Perugia Vincenzo Fano Logica e filosofia della scienza, Università di Urbino Ruggero Ferro Logica matematica, Università di Verona Saverio Forestiero Biologia, Università Tor Vergata, Roma Arrigo Frisiani Calcolatori elettronici, Università di Genova Alessandro Ghisalberti Filosofia teoretica, Università Cattolica, Milano Valeria Giannantonio Letteratura italiana, Università di Chieti - Pescara Massimo Giuliani Pensiero ebraico, Università di Trento Adriana Gnudi Matematica generale, Università di Bergamo Giuseppe Langella Letteratura italiana contemporanea, Università Cattolica, Milano Erwin Laszlo Teoria dei sistemi, Università di New York Giuseppe Leonelli Letteratura italiana, Università Roma Tre Carlo Lottieri Filosofia del diritto, Università di Siena Gian Enrico Manzoni Latino, Università Cattolica, Brescia Emilio Manzotti Linguistica italiana, Università di Ginevra Alfredo Marzocchi Matematica, Università Cattolica, Brescia Vittorio Mathieu Filosofia morale, Università di Torino Fabio Minazzi Filosofia teoretica, Università dell’Insubria Alessandro Minelli Zoologia, Università di Padova Enrico Minelli Economia politica, Università di Brescia Luisa Montecucco Filosofia, Università di Genova Moreno Morani Glottologia, Università di Genova Gianfranco Morra Sociologia della conoscenza, Università di Bologna Maria Teresa Moscato Pedagogia, Università di Bologna Alessandro Musesti Matematica, Università Cattolica, Brescia Seyyed Hossein Nasr Filosofia della scienza, Università di Philadelphia Salvatore Silvano Nigro IULM Maria Pia Pattoni Università Cattolica, Brescia Massimo Pauri Fisica teorica, Modelli matematici, Università di Parma Jerzy Pelc Semiotica, Università di Varsavia Silvia Pianta Geometria, Università Cattolica, Brescia Fabio Pierangeli Letteratura italiana, Università di Roma Tor Vergata Pierluigi Pizzamiglio Storia della scienza, Università Cattolica, Brescia Simonetta Polenghi Storia della pedagogia, Università Cattolica, Milano Luisa Prandi Storia greca, Università di Verona Erasmo Recami Fisica, Università di Bergamo Enrico Reggiani Letteratura inglese, Università Cattolica, Milano Filippo Rossi Patologia generale, Università di Verona Giuseppe Sermonti Genetica, Università di Perugia Ledo Stefanini Fisica, Università di Mantova Ferdinando Tagliavini Storia della musica, Università di Friburgo Guido Tartara Teoria dei sistemi di comunicazione, Università di Milano Filippo Tempia Neurofisiologia, Università di Torino Marco Claudio Traini Fisica nucleare e subnucleare, Università di Trento Piero Ugliengo Chimica, Università di Torino Lourdes Velazquez Bioetica e Filosofia del Messico, Universidad Anáhuac, Northe Mexico Marisa Verna Lingua e letteratura francese, Università Cattolica, Milano Claudia Villa Letteratura italiana, Università di Bergamo Giovanni Villani Chimica, CNR, Pisa Carla Xodo Pedagogia, Università di Padova Pierantonio Zanghì Fisica, Università di Genova Gli articoli della Rivista sono sottoposti a referee doppio cieco (double blind). La documentazione rimane agli atti. Per consulenze più specifiche i coordinatori potranno avvalersi anche di professori non inseriti in questo elenco. EDITORIALE Questioni di democrazia Cinzia Bearzot R iflessioni sulla democrazia a partire dall’esperienza degli antichi non sono mancate ultimamente: un bel segno dell’attualità dell’antico e un’occasione per riflettere sul nostro tempo a partire dal confronto con un patrimonio di tradizione non sempre adeguatamente valorizzato. Vorrei contribuire a questo dibattito con qualche ulteriore spunto: anche per noi quella della democrazia, in Italia e nel mondo, resta una questione cruciale. “Democrazia” è, etimologicamente, il “governo del popolo”, in cui il kratos, il potere (noi diremmo la sovranità) risiede nel demos, il popolo (inteso nel senso di “tutti i cittadini”, senza alcuna discriminazione), che lo esprime attraverso un processo decisionale basato sul criterio di maggioranza. Fatta salva la fondamentale differenza tra forme dirette, quali erano quelle degli antichi, e forme rappresentative, quali sono le nostre, questi principi valgono per noi come per loro (do per scontata la differenza nei modi di determinare la cittadinanza, che nell’antichità comporta, per esempio, l’esclusione delle donne). Nell’antichità le correnti antidemocratiche erano molto forti: nell’odierno mondo occidentale, la democrazia costituisce un quadro di riferimento imprescindibile. Tuttavia, il sistema democratico è stato oggetto anche di recente di riflessioni critiche che ne hanno sottolineato i limiti, le criticità e, soprattutto, l’intrinseca fragilità, a partire da prospettive tutt’altro che “antidemocratiche” e quindi particolarmente degne di attenzione. Una prima questione riguarda il rischio di esautoramento della sovranità popolare: un rischio che nelle democrazie rappresentative è molto più forte che nelle antiche democrazie dirette. Nella democrazia greca la classe politica coincideva con il corpo dei cittadini di pieno diritto e non esisteva una “casta” di politici contrapposta alla società civile. Ma per fare politica servivano competenze specifiche di non facile acquisizione per il cittadino comune, dal saper parlare in pubblico in modo persuasivo, in assemblea e in tribunale, alla capacità di guidare l’esercito cittadino in guerra. Col tempo, la politica divenne così appannaggio di veri e propri “specialisti”, che alla capacità oratoria univano un’accurata conoscenza della legge e dei meccanismi del sistema democratico; è questa anche l’epoca dei veri e propri “tecnici”, in quanto la crescente complessità dell’amministrazione pubblica richiedeva l’impegno di uomini dotati di particolari competenze in ambito economico-finanziario. Se ragioni della politica e ragioni della tecnocrazia si scontrano anche nella democrazia antica, va detto però che gli antichi “tecnici” erano pienamente legittimati dal voto popolare, che sceglieva consapevolmente politici con specifiche caratteristiche di competenza; ciò non è scontato nel caso di più complessi meccanismi istituzionali, che possono favorire l’aggiramento, sul filo della costituzionalità, delle prerogative di sovranità del popolo, in nome dell’efficienza, dell’emergenza economica, della necessità di adeguarsi alle richieste, vere o presunte, di “poteri” come l’Europa e i mercati. Un secondo problema è quello della leadership, sostanziale per una gestione della democrazia capace di guardare al bene comune, in cui le ambizioni private (non tutte legittime) non favoriscano l’asservimento a interessi di poteri interni ed esterni. Il tema è particolarmente caro a Tucidide, che presenta Pericle come uomo politico provvisto di Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI 5 EDITORIALE doti di autorevolezza e di equilibrio, incorruttibile dal denaro, capace di tenere a freno il popolo senza limitarne la libertà e in grado di interloquire con l’assemblea popolare senza cedere alla demagogia, perché il suo potere si fondava su riconosciuti meriti personali. Questa leadership autorevole (a volte, senza vero motivo, presentata come una sorta di dittatura illuminata) è per Tucidide il presupposto per far funzionare al meglio il sistema democratico, particolarmente delicato ed esposto a derive demagogiche: il rischio che l’assemblea venisse usata come massa di manovra da uomini politici senza scrupoli era infatti molto alto. Il problema si manifestò in tutta la sua gravità dopo la morte di Pericle. Egli fu sostituito da uomini che Tucidide considera di qualità decisamente inferiore, ma assai desiderosi di primeggiare e pronti dunque a usare l’assemblea come strumento di potere: ambizioni personalistiche e sete di guadagno caratterizzano una generazione politica che al servizio della comunità ha sostituito l’interesse privato. L’opposizione pubblico/privato ritorna con insistenza nelle fonti della fine del V secolo, che proprio nell’affermarsi del personalismo individuano le radici dei due colpi di stato antidemocratici che interruppero, se pur brevemente, la storia della democrazia ateniese nel 411 e nel 404. Non è difficile notare come le patologie della vita politica che Tucidide mette in luce affliggano anche la nostra esperienza contemporanea e come esse possano mettere a rischio, oggi come allora, la libertà: indifferenza al bene comune, affermazione di personalismi, diffusione della corruzione e degli abusi di potere si ripropongono nei momenti di crisi della politica e alimentano la sfiducia dell’opinione pubblica non solo negli uomini politici, ma anche nella stessa idea della politica come servizio alla comunità. Un terzo aspetto che merita considerazione è il cambiamento delle modalità di comunicazione, che determinano una svolta non soltanto di tipo formale, ma anche sostanziale: lo stile comunicativo, infatti, non è privo di influenza sulla qualità dei contenuti. La generazione successiva a Pericle fu caratterizzata dall’avvento dei cosiddetti “nuovi politici”, che prendevano le distanze dall’antico e composto stile politico: loro caratteristica era il modo diverso di fare appello al popolo, immediato e “popolare”, anzi “populista”, capace di entrare in sintonia con l’assemblea. L’esponente principale di questa linea fu Cleone, del quale la tradizione ricorda con insistenza lo stile oratorio rivoluzionario: dalla tribuna degli oratori egli urlava, insultava gli avversari, si agitava scompostamente, vestito in modo non adeguato. La tradizione deplora la sguaiataggine di Cleone, ma la commedia contemporanea non può fare a meno di far emergere che il rapporto fra l’uomo politico e il popolo fu così forte da essere dipinto quasi come una relazione amorosa: «Ti amo, Demos, sono innamorato di te», dice al popolo il personaggio che, nei Cavalieri di Aristofane, rappresenta Cleone. Questo cambiamento delle modalità di comunicazione, che fa appello all’emotività più che alla ragione, inaugura la stagione della demagogia, il cui esito furono i colpi di stato di fine V secolo. Tuttavia, che simili atteggiamenti populistici (che pure sono in fondo espressione di scarso rispetto per l’interlocutore stesso) possano avere una certa attrattiva sull’opinione pubblica è ben noto. Una delle criticità del sistema democratico, messe in evidenza dalle vicende che hanno caratterizzato sia il nostro paese, sia l’Europa e l’intero Occidente negli ultimi anni, è emersa in merito alla necessità di deliberare su questioni etiche delicate, che ha messo in luce l’inadeguatezza del principio di maggioranza, in un contesto culturale in cui, per citare Benedetto XVI, «ciò che in riferimento alle fondamentali questioni antropologiche sia la cosa giusta e possa diventare diritto vigente, oggi non è affatto evidente di per sé». Di questo possibile e spesso drammatico contrasto tra principio di maggioranza e giustizia il mondo antico ha avuto piena consapevolezza. Secondo Cicerone, affermare che la legge è giusta se esprime la volontà della 6 Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI EDITORIALE maggioranza è troppo semplificatorio; seguendo questo criterio, infatti, «si potrebbero legalizzare il latrocinio, l’adulterio, la falsificazione dei testamenti, se ciò fosse approvato con voto popolare a maggioranza» (De legibus I, 43). Secondo Cicerone, il criterio della giustizia va ricercato nella legge naturale, che l’uomo può conoscere attraverso la ragione. Il tema è cruciale in società democratiche come le nostre, in cui individualismo e relativismo hanno portato alla rarefazione dei valori condivisi e avviato un processo di disgregazione che è sotto gli occhi di tutti. Ma forse la criticità più inquietante riguarda la fragilità della democrazia: anche il rigido rispetto delle istituzioni può trasformarsi, talora, in un aggiramento del loro vero significato e assumere, quindi, un valore sovversivo, sotto la spinta della propaganda. L’avvento del governo “tecnico” di Mario Monti indusse alcuni a parlare di “sospensione” della democrazia, sotto la spinta di pressioni di diversa provenienza. Altri reagirono dicendo che l’entrata in carica di questo “governo del Presidente” non costituiva in realtà un attentato alla democrazia, ma semmai un tentativo di salvaguardarne la sostanza: infatti, il crescente potere finanziario e tecnologico avrebbe imposto un ripensamento dell’idea di democrazia rappresentativa, mettendo in primo piano la necessità di assicurare governi formati da competenti e relegando in secondo piano il ruolo delle assemblee elettive. La democrazia diretta di ambito ateniese conobbe problemi non molto diversi. Dopo l’età d’oro di Pericle, la democrazia era entrata in una fase di degenerazione, caratterizzata da diversi fattori: la decadenza della classe politica, la crescita smisurata dei costi del sistema, la difficoltà di far funzionare correttamente assemblee manipolate dai demagoghi, l’abuso della giustizia nei tribunali, la crescente disistima verso la capacità di governo del popolo, di cui venivano sottolineate l’incompetenza, l’arroganza e la tendenza a obbedire più alle ragioni dell’emotività che a quelle della razionalità. I critici del sistema, sia nel 411 sia, poi, nel corso del IV secolo, optarono per la promozione di una presunta “democrazia diversa”, in cui i pieni diritti politici fossero accessibili alla sola classe media, escludendo i nullatenenti, e in cui le funzioni magistratuali fossero rivestite esclusivamente da “competenti”. Un governo di questo genere rispondeva certamente a esigenze di rispetto della competenza e all’insofferenza per la democrazia assembleare e la demagogia. C’è però da domandarsi se questa “democrazia” fosse effettivamente tale: Pericle avrebbe certamente risposto in senso negativo, perché essa non assicurava pari opportunità a tutti gli Ateniesi senza discriminazioni di nascita e di censo; mentre avrebbero risposto positivamente i rivoluzionari oligarchici del 411, che si presentavano appunto come disposti a sospendere le tradizionali forme della democrazia per salvaguardarne la sostanza. Molte esigenze apparentemente prioritarie si manifestano in quest’epoca di crisi e mettono in discussione principi che siamo abituati a considerare inderogabili: è comprensibile, e forse anche utile, ma richiede prudenza. La democrazia è, fin alle sue origini, un sistema fragile, esposto alla propaganda su temi già proposti in diverse circostanze – come l’emergenza (economica e/o militare) e il bisogno di concordia e di “unità nazionale” – che possono indurre a prendere decisioni di dubbia correttezza istituzionale con il pretesto della “eccezionalità” della situazione; un sistema in cui problemi come quelli della condivisione dei valori, dell’interesse comune, della leadership appaiono cruciali e non sempre adeguatamente messi a fuoco. Guardare alla storia – da cui, nonostante Tucidide che la considerava una “conquista per sempre”, nessuno sembra imparare abbastanza – può aiutarci a considerare i problemi della democrazia contemporanea con maggiore consapevolezza e spirito critico: un ottimo motivo per valorizzarne l’insegnamento, nella scuola e nell’università. Cinzia Bearzot Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI 7 FATTI E OPINIONI Il fatto gatoria dei docenti, libri di testo, bonus della maturità… – e niente altro. Nei numerosi interventi fatti ad apertura dell’anno scolastico, il Ministro Carrozza ha mostrato di avere di Giovanni Cominelli consapevolezza di questa contraddizione, ma anche confessato l’impotenza e l’inefficacia del governare alla giornata. Un punto è largamente insoddisfacente: quello dell’assunNodi irrisolti zione dei dirigenti e dei nuovi docenti. Buona, si intende, l’idea di un concorso annuale, ma cattiva quella di far gestire l’intera Che la scuola sia ripartita – a seguito delle misure adottate dal procedura per il reclutamento dei dirigenti alla Scuola nazioDecreto Legislativo n. 104 del 12 settembre 2013, a cui i media nale dell’Amministrazione. Non solo conferma l’opposizione hanno dato il titolo La scuola riparte – è ancora presto per dire. centralistica a ipotesi di reclutamento praticate in altri Paesi, La prima parte prevedeva: misure per il Welfare dello studente che tengano conto maggiormente della dimensione territoe per il diritto allo studio; l’introduzione, in una delle due classi riale e locale, ma soprattutto restituisce un profilo burocratico del primo biennio dei tecnici e dei professionali, di un’ora di in- del dirigente, cui mancano totalmente le caratteristiche del segnamento di “geografia generale ed economica”; la realiz- leader educativo. E suona demagogico anche il mantenere a zazione di progetti didattici nei musei, nei siti di interesse ar- cinque anni di servizio il requisito per accedere al concorso per cheologico, storico e culturale o nelle fondazioni culturali; il dirigenti, mentre non si stabilisce l’età massima. Così l’età mefinanziamento di laboratori scientifico-tecnologici di istituto dia dei presidi sta scivolando oltre il crinale dei 60 anni. Quanto che utilizzano materiali innovativi; contributi alle scuole, singole al reclutamento dei docenti, il Ministro ha con tutta evidenza o in rete, per l’acquisto di libri di testo e di dispositivi per la let- sposato la preferenza dei sindacati a favore del PAS (Percorso tura dei materiali didattici digitali; sostegno al prolungamento Abilitante Speciale), che si ispira al principio di anzianità invece dell’orario scolastico, secondo un programma di didattica in- che a quello di competenza professionale accertata, come integrativa, soprattutto nella scuola primaria, al fine di prevenire vece prevedeva il TFA di Profumo. Con ciò le giovani leve dola dispersione scolastica, nelle aree di maggior rischio di eva- vranno invecchiare parecchio. A monte sta l’intera filosofia delsione dell’obbligo; un impegno a incrementare le attività di l’Amministrazione statale-ministeriale e quella dei sindacati, orientamento promosse dalle scuole secondarie di secondo concordi nell’affidare il reclutamento del personale a meccagrado, dichiarate attività funzionali all’insegnamento non ag- nismi centralizzati, costosi, inefficienti, quando non corruttibili giuntive e riguardanti l’intero corpo docente. o corrotti. Perciò non poteva stare nel testo neppure un’alluUn articolo fondamentale è il n. 15, in cui si annuncia un sione al fatto che i fenomeni di dispersione non sono sempre piano triennale di assunzioni a tempo indeterminato di per- imputabili a cause esterne al sistema scolastico. D’altronde, il sonale docente, educativo e ATA per gli anni 2014-16, che ri- rischio del finanziamento con l’art. 7 e l’art. 16 delle cosiddette guarderebbe 69.000 docenti e 16.000 ATA. Quanto al percorso “aree a rischio” è evidente: se stare in un’area a rischio porta uldi reclutamento dei dirigenti scolastici, tormentato da ricorsi, teriori finanziamenti, perché uscirne? Ciò detto, difficile atcontroricorsi e invalidazioni, l’art. 17 stabilisce per il futuro che tendersi di più da un governo le cui componenti essenziali si i dirigenti vengano scelti mediante corso-concorso selettivo affrontano quotidianamente in un reciproco assedio e che lo annuale di formazione bandito dalla Scuola nazionale del- sostengono così come la corda “sostiene” l’impiccato. l’Amministrazione. Giovanni Cominelli Che dire del Decreto? È denso di provvedimenti – qui consiEsperto di sistemi educativi deriamo solo quelli relativi alla scuola – con uno stanziamento complessivo di 400 milioni di Euro. Gocce nel deserto, si dirà. PAZIO CUOLA Ma sono le prime gocce da qualche anno a questa parte, a cura di Francesco Magni dopo la siccità dei tagli orizzontali. Tuttavia, esso rispecchia la http://nuovasecondaria.lascuolaconvoi.it labilità del quadro politico italiano, che è causa ed effetto S della mancanza di una volontà politica riformatrice forte e decisa. Così che il testo non può alludere, neppure nella forma retorica dell’impegno futuro, ai nodi strutturali irrisolti. Affronta alcuni aspetti dell’emergenza – diritto allo studio, dispersione, reclutamento dei dirigenti e dei docenti, formazione obbli- 8 S Il sito di Nuova Secondaria (sezione Panorama) propone a dirigenti scolastici e docenti una rubrica con notizie e commenti dalla stampa, aggiornamenti sulla legislazione e rassegna giurisprudenziale. Il lettore vi può trovare informazioni utili per il quotidiano lavoro nella scuola e ha la possibilità di collaborare inviando domande, notizie e segnalazioni all’indirizzo email: [email protected]. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI FATTI E OPINIONI Pensieri del tempo di Giuseppe Acone Istantanee sull’adolescenza postmoderna Negli ultimi tempi si legge frequentemente sui giornali che, ad esempio, in una metropoli come Milano, ci sono cooperative-ronde di genitori, che nella notte del sabato, ogni settimana, percorrono le strade cittadine nei pressi dei locali notturni, alla ricerca dei loro figli adolescenti. Gli adolescenti di questa persistente lunga obsolescenza della modernità dormono di giorno e vivono di notte (si divertono, si stordiscono). Ormai sono tanti anni che accade, ma, negli ultimi tempi, la cosa è diventata fonte di angoscia sociale e causa di sofferenze per le famiglie che ancora avvertono sentimenti di paternità e di maternità. Ancora. Leggiamo nell’ultimo Rapporto OCSE che l’Italia vede i propri adolescenti allievi della scuola secondaria all’ultimo posto in Europa per capacità di lettura e per conoscenze matematiche. È un’altra immagine di adolescenza postmoderna in un Paese, che ha, però, il primato assoluto per numero di cellulari in dotazione a ciascun ragazzo (e il primato di cellulari per abitante in Europa), come si apprende da altre statistiche. Il futuro alle spalle di Carla Xodo Due istantanee sull’adolescenza mentre siamo nella pienezza stanca ed estenuata della modernità occidentale. Pedagogicamente, si potrebbe ancora affrontare l’argomento in termini di eccesso di permissivismo. Ma, forse, bisogna approfondire il discorso. Forse la crisi è più profonda e vede in discussione tutti i sistemi e i modelli di vita della nostra società. E, come insegnava Durkheim, i sistemi di funzionamento e i modelli simbolici diventano sempre, anche nella modernità stanca ed estenuata, modelli formativi (nel bene e nel male). Giuseppe Acone Università di Salerno Asterischi di Kappa Abusi e buon senso Vale la pena investire in istruzione? Alla domanda si sarebbe indotti a dire di no, per l’Italia. La recente pubblicazione dell’indagine PIAAC (Programe for the international assessment of adult competencies) a cura dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), che ha provocato utili discussioni, almeno per gli addetti ai lavori, fa emergere un dato rilevante e preoccupante insieme: la posizione “di coda” occupata dal nostro Paese. Riassumiamo: per la literacy proficiency (capacità di comprendere, valutare, usare testi scritti per essere partecipi a liNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI La preside di una scuola di Roccapalumba (PA), alcuni anni fa, chiamata dall’insegnante di una classe perché un’alunna, sorda ad ogni richiamo, si divertiva a dileggiare un compagno, ritenendo di fare cosa riparatoria nei confronti dell’alunno mortificato, intimò all’alunna di ripetere dieci volte davanti a tutta la classe «Io sono una bulla». I genitori dell’alunna hanno denunciato la preside alla magistratura per abuso dei mezzi di correzione. Il tribunale ha condannato la preside a 20 giorni di carcere commutati successivamente in una pena pecuniaria di 700 euro. La preside insomma avrebbe dovuto avviare la procedura disciplinare prevista dal Regio Decreto n. 1927 del 1928 (artt. 412-415), anziché applicare una sanzione considerata oggi una violenza psicologica. Segno dei tempi. 9 FATTI E OPINIONI vello sociale, conseguire i propri obiettivi e sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità), tra i 24 paesi dell’Ocse, i nostri connazionali dai 15 ai 65 anni si collocano all’ultimo posto. Siamo inoltre al penultimo posto in fatto di numeracy proficiency, ossia la capacità di accedere, leggere, utilizzare, interpretare informazioni numeriche, oggi trasmesse frequentemente attraverso grafici e tabelle. Per completare il quadro, ci sono i dati sul livello di istruzione: tre quarti degli italiani tra i 55 e i 65 anni hanno un tasso di scolarità inferiore al diploma di scuola media superiore, contro il 30% dei diplomati degli altri Paesi Ocse: dati che ritornano più o meno anche nella fascia di età tra i 25 e i 34 anni, dove il 30% degli italiani non ha il diploma, contro il 10% degli altri paesi europei. Basso da noi anche l’uso delle tecnologie digitali. Si parla, e con pertinenza, di analfabetismo funzionale, conseguente, come è logico immaginare, alla difficoltà del nostro sistema formativo ad affrontare la sfida delle competenze. La questione, ovviamente complessa, meriterebbe di essere indagata in tutte le sue componenti. Ma vi è un aspetto sul quale vale la pena soffermarsi. Senza esagerare, si può sostenere che nel nostro Paese la “retorica della formazione” abbia sostituito la “realtà della formazione” . Per una sorta di dissociazione diffusa tra il dire e il fare, capita a molti di affermare una cosa come fosse già fatta. Il gap si spiega solo con le convinzioni tacite che determinano i nostri comportamenti. La spiegazione, a mio parere, consiste in questo: a differenza di altri paesi, per noi istruzione e formazione non sono considerate l’investimento più importante, né per capitalizzare risorse per lo sviluppo, né più in generale per uscire dalla crisi in cui ci dibattiamo da anni. Le incongruenze che si determinano sono macroscopiche. Le più evidenti possono essere così sintetizzate: 1. diminuzione (dal 10 all’8%) della spesa per l’ istruzione in controtendenza rispetto ai paesi più progrediti; 2. incompletezza della riforma del nostro sistema educativoformativo, per due ragioni principalmente: il mancato investimento in una seria formazione iniziale degli insegnanti e il sostanziale annullamento della formazione in servizio; 3. il pregiudizio diffuso del nesso tra scolarità e competenza, e conseguente sottovalutazione del ruolo delle aziende, sostanzialmente misconosciute per il ruolo attivo che dovrebbero svolgere in un sistema formativo teso a promuovere “il saper fare esperto”; 4. il riconoscimento del merito: la difesa di rendite di posizioni ha finito troppo spesso per privilegiare l’incompetenza alla competenza. Il guaio è che quest’ultimo punto, che rappresenta la più odiosa discriminazione sociale, è anche la sfida più importante, che ci ha visto finora disarmati o forse incapaci di liberarci della retorica che promette di cambiare tutto per lasciare tutto come prima. Il primo passo verso un serio investimento in istruzione dovrebbe partire proprio da qui. Carla Xodo Università di Padova 10 Asterischi di Kappa Il romanzo siciliano della FP La Sicilia è nota perché ha riununciato alle sue prerogative di promuovere corsi triennali di qualifica e quadriennali di diploma di istruzione e formazione, a partire dai 15 anni, per assegnarli del tutto, tramite la formula della sussidiarietà integrativa, all'istruzione professionale statale quinquennale. In compenso, chiuso l’obbligo di istruzione a 16 anni, gli studenti siciliani senza qualifica hanno la tradizionale disponibilità della formazione professionale. Finora questa è stata affidata a centri privati. Alcuni numeri: a 400 Enti di formazione professionale siciliani sono stati attribuiti ogni anno 260 milioni di euro, pari a 650.000 euro a Centro in media. Alle 900 scuole statali siciliane sono stati attribuiti 32 milioni di euro, pari a 36.000 euro per scuola in media. I CFP hanno assunto 7.500 dipendenti senza concorso pubblico per un costo gravante prima sulla Regione e poi sui Fondi Europei di 206 milioni annui. Le Procure siciliane hanno accertato l’esistenza di 200 corsi fantasma e di 140 milioni andati in fumo, in un contesto di “controlli impossibili”. Le Forze dell’ordine hanno trovato numerosi registri di corsi con firme false di studenti fantasma, firme naturalmente falsificate col consenso dei dipendenti e dei docenti. Nonostante fosse prescritto il numero minimo di 20 alunni per corso, la Magistratura ha verificato che settanta corsi con meno di cinque allievi sono costati alla Regione 3,1 milioni di euro. A Catania, dove la Magistratura ha operato 10 arresti, 1,5 milioni sono serviti a pagare dipendenti immaginari. Tutto questo e altro ancora è avvenuto mentre si negavano le risorse ai CFP salesiani di grande tradizione e di grande qualità, mentre si escludeva dal finanziamento il CEDIFOP, ente di formazione eccellente per palombari accreditato persino in Norvegia (quando arrivano grandi navi a Palermo per la manutenzione, come la Nave Solitaire, è necessario far arrivare i palombari dall’Olanda). Adesso alcuni Centri di formazione sono commissariati e i commissari, privi della copertura finanziaria, licenziano il personale. Ma la Magistratura del lavoro li reintegra prontamente. I Commissari sono quindi costretti a riassumerli senza assegnare loro incarichi e pagandoli a vuoto contraendo debiti che non potranno essere ripianati se non nel solito modo: qualche sanatoria a carico dell’erario pubblico. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI FATTI E OPINIONI Vangelo docente di Paola Bignardi La grandezza viene da dove non te l’aspetti Tra gli incontri più belli del Vangelo vi è quello di Gesù con una donna cananea (Mt 15,21-28), cioè con una donna che viveva in Fenicia, terra pagana. Era una madre e aveva la figlia gravemente ammalata. Che cosa non fa una madre che non sa più a chi rivolgersi? Che si sente annientata dall’impotenza che prova di fronte al male che la ferisce nei suoi affetti più profondi? Così si rivolge a Gesù: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide. Mia figlia è crudelmente tormentata da un demonio». Gesù risponde alla drammatica invocazione con il silenzio; poi, per l’insistenza della donna e dei discepoli che vorrebbero zittirla, dà una risposta scoraggiante, trattandola da cagnolina. Ma si commuove davanti all’umiltà e all’amore di questa madre, e la esaudisce: «Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri». Gesù cambia parere, davanti a una donna straniera che gli mostra di quale umiltà sia capace l’amore e soprattutto di quale coraggio sia capace il cuore di chi sa condividere il dolore delle persone che ha care. Gesù, il maestro, non teme di modificare la sua decisione, di manifestare la sua ammirazione per chi mostra questa fede inaspettata. Non importa se è donna, e straniera, e pagana: Gesù sa guardare alla sostanza, sta all’oggettività delle parole, degli atteggiamenti, dei moti dell’animo. È un bell’insegnamento per noi educatori, tentati di valutare in base a idee preconcette e persino tentati di catalogare i nostri studenti in base a etichette difficilmente modificabili. La grandezza delle persone, la loro intuizione, la loro intelligenza possono sorprenderci: l’importante è che noi siamo persone libere e in ascolto della realtà senza pregiudizi. Paola Bignardi Pubblicista, già presidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI Asterischi di Kappa Università e mondo del lavoro in Francia Il dualismo del sistema post-diploma francese, diviso tra università, concentrate sulla ricerca e i saperi fondamentali, e grandes écoles, rivolte invece verso i saperi applicati e le imprese, comporta atteggiamenti diversi nei confronti dell’inserimento professionale degli studenti. Questa sfida è un vero punto di debolezza per le università francesi, che faticano a trovare un modello che salvaguardi il proprio carattere di formazione teorica senza cedere alla vocazione professionalizzante delle grandes écoles. Aziz Mouline, professore all’Università di Rennes, pone alcune condizioni per affrontare la difficoltà, come mettere in relazione studenti e imprese attraverso una politica di partenariati o inserire dei moduli obbligatori nel corso degli studi che insegnino a cercare uno stage o un lavoro («Les Echos», 18 settembre 2013). Anche i Francesi, insomma, se non fanno fatica a stare meglio di noi, hanno pure loro i grattacapi che conosciamo con il sapere accademico troppo accademico. 11 FATTI E OPINIONI La lanterna di Diogene Occhio alla scienza di Fabio Minazzi di Matteo Negro Evoluzione storica della spesa pubblica per l’istruzione Razionalità, scelte e vita quotidiana Se si vuole comprendere la situazione effettiva della scuola e dell’università nei paesi occidentali e nell’Unione europea è doveroso studiare l’evoluzione complessiva della spesa pubblica per l’istruzione. Considerando gli ultimi dieci anni, dal 2000 al 2010 e facendo pari a 100 il dato dell’anno 2000, il confronto dell’andamento delle differenti voci di bilancio per scuole e università delle economie occidentali è oltremodo indicativa. Nel 2001 l’Italia si attestava alla percentuale 108,91, ben al di sopra della Francia (100,35), della Germania (101,95), della Spagna (102,48) e anche della media europea (104,54), ma, naturalmente, ben al di sotto della percentuale degli Stati Uniti (114,39). Tuttavia, proprio a partire dal 2001, tutti questi paesi hanno intrapreso (Stati Uniti inclusi!), un trend decisamente ascendente, moltiplicando, progressivamente, i propri investimenti nella scuola e nell’università, mentre l’Italia, pur con un andamento a zig-zag, con cali e flebili tentativi di ripresa, inizia un trend complessivamente discendente, che le fa registrare, nel 2010, una percentuale (103,24), inferiore a quella della sua partenza! Non solo l’Italia, sempre nel 2010, è nettamente superata dalla Francia (108,47), dalla Germania (119,15, del 2009), dalla Spagna (141,91) e, naturalmente, dagli Stati Uniti (130,23). Ma l’Italia risulta essere nettamente inferiore anche rispetto alla media dell’Unione Europea che nel 2009 si attesta alla percentuale del 126,22. I dati documentano come il degrado complessivo della scuola italiana trovi una sua radice specifica anche nella diminuzione costante delle somme stanziate dallo Stato per il suo sviluppo. Uno sviluppo che, appunto, non si è mai realizzato, perché, semmai, si registra una palese regressione, proprio mentre tutti gli altri paesi occidentali danno invece alle loro scuole più risorse. Sono dati che devono essere ricordati all’intera società civile da coloro che insegnano nella scuola, onde sottolineare che il mancato sviluppo del nostro paese ha una radice precisa nel disinteresse della politica per il futuro dei nostri studenti. Fabio Minazzi Università dell’Insubria 12 Quanto conta la razionalità nel nostro vivere quotidiano, nelle scelte piccole o grandi che lo contraddistinguono? C’è da premettere, prima di tentare una risposta al quesito, che non si deve dare troppo per scontato che il termine “razionalità” sia sufficientemente chiaro. In molti esso evoca una dimensione non sempre compatibile con la sfera del vissuto quotidiano, che quasi per forza di cose non sempre può essere soggetta ai freddi criteri del calcolo dei costi e dei benefici o al potere delle deduzioni e delle controdeduzioni. Si sente spesso ripetere che l’esistenza dell’uomo debba invece lasciare il giusto spazio all’emotività, alla compassione, alla vitalità dei sentimenti, allentando le briglie troppo strette della ragione. Così, quando si prendono decisioni importanti relative, ad esempio, all’impegno affettivo e matrimoniale, all’accoglienza dei figli e alla loro educazione, alla scelta delle amicizie o dei percorsi di studio, si tende a privilegiare il ruolo guida dei sentimenti e delle passioni. Sullo sfondo permane però un’idea nebulosa e opaca di razionalità: sembra quasi più semplice il dire a che cosa non corrisponda (o non debba corrispondere), che non il fornire di essa una definizione chiara e accettabile intersoggettivamente. Eppure a nessuno dovrebbe sfuggire che, anche inconsapevolmente, noi non possiamo evitare di fare uso della nostra capacità razionale, benché quest’uso non sia sempre corretto o efficace. Si tratta in ultima analisi di una capacità di natura pratica, che consiste nel mettere in relazione i mezzi con i fini, con gli obiettivi. La relazione mezzi-fini corrisponde, adoperando altri termini, alla relazione tra azioni e motivazioni o tra scelte e motivazioni. Se ho un obiettivo davanti a me, per perseguirlo devo utilizzare i mezzi idonei, operare delle scelte, cioè agire in funzione di quello scopo. Se non lo facessi, non solo non centrerei l’obiettivo, ma l’obiettivo stesso in fin dei conti non si rivelerebbe poi tale. La dinamica si reitera continuamente, mutando di contenuto, nel corso della nostra esistenza. Se abito a Torino e ho l’obiettivo di presentarmi a un colloquio di lavoro alle 10 del mattino a Milano, devo mettere in campo i mezzi adeguati per raggiungere quello scopo: non posso dirigermi a piedi verso la meta partendo alle 9,45, ma devo fare delle scelte precise, cioè svolgere una serie combinata di azioni che si rivelino efficaci. L’obietNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI FATTI E OPINIONI tivo raggiunto con successo, a sua volta, altro non è poi che un mezzo per raggiungerne un altro; nella fattispecie un contratto di lavoro, che ancora è mezzo di uno scopo ulteriore, e via di seguito. Il fatto che gli scopi siano o diventino mezzi per altri scopi – ciò che dà alla razionalità la connotazione di “strumentale” – non deve essere subito valutato negativamente. Si tratta appunto di un fatto, cioè di una dinamica effettiva cui, anche volendo, nella maggior parte dei casi non possiamo sottrarci e che, nella sua attuazione, può prescindere da valutazioni di carattere etico o morale. Si può essere razionali, anche perseguendo scopi eticamente inaccettabili. Hilary Putnam ha efficacemente analizzato il caso del “nazista razionale”1. Altra cosa è invece la “ragionevolezza”, che include la razionalità, ma non la esaurisce. Il vero nodo problematico relativo al tema della razionalità e al suo ruolo nelle scelte della vita quotidiana riguarda però la riflessione attorno ai fini dell’agire, cioè non tanto al “che cosa” scegliere, ma al “perché” scegliere. È il tipico caso di chi, in procinto di contrarre matrimonio, prestasse la massima attenzione all’organizzazione delle nozze, alla scelta dei luoghi e dei testimoni, alla predisposizione accurata del banchetto e della luna di miele, ma poi non sapesse, in cuor suo, rispondere alla domanda fondamentale: «Perché sposare quest’uomo/questa donna?» La chiarezza sul senso e sul valore dell’obiettivo permette di perseguirlo razionalmente. L’insufficiente riflessione sui fini rischia invece di rendere irrazionali e inadeguate le azioni dispiegate, persino quelle più attentamente vagliate. Più in generale questo appare maggiormente evidente quando ci si confronti con obiettivi non strumentali, detti “ultimi”, perché non possono essere a loro volta considerati funzionali a scopi di valore inferiore. Paradigmatico può essere in questo senso il riferimento allo scopo del vivere, se per vivere non si intende appena la condizione biologica, ma soprattutto lo svolgersi delle azioni nelle quali si manifesta la struttura profonda della persona, dell’essere “qualcuno”. Sotto questo profilo è paradossale che il “qualcuno” che vive, e che spesso agisce convulsamente inNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI seguendo una grande varietà di interessi, ignori del tutto il fine ultimo del flusso delle sue stesse scelte. Non è questo forse il segno di un’irrazionalità lucidamente vissuta? A ben poco vale l’attenuante, di chiara derivazione economica, che la razionalità della scelta dipenda dall’ordinamento delle alternative disponibili. Come dire che, a fronte di un’incertezza epistemica sui fini, la razionalità della scelta può essere comunque garantita dalla libertà posizionale, cioè dalle reali opportunità di preferenza e di scelta a disposizione del soggetto, che in questo modo “emergerebbe” dal confronto con altri soggetti. Sappiamo però che sorte toccò all’asino di Buridano. Riportiamo qui da un bellissimo volume di Dan Ariely, un noto economista comportamentale, il resoconto commentato di un evento storico emblematico: «Nel 210 a.C. il comandante cinese Xiang Yu attraversò con le sue truppe il fiume Yangtze per affrontare l’esercito della dinastia Qin. Giunto sull’altra sponda del fiume fece accampare i soldati per la notte. La mattina seguente, al loro risveglio, i soldati si accorsero terrorizzati che le imbarcazioni con le quali avevano attraversato il fiume erano in fiamme. Balzarono in piedi per gettarsi all’attacco del nemico ma scoprirono ben presto che era stato il loro stesso comandante a ordinare l’incendio delle navi e che aveva anche fatto frantumare le pentole di terracotta che servivano a cucinare il rancio. Xiang Yu spiegò alle truppe che senza pentole e senza navi non avevano altra scelta che vincere o morire. Questo stratagemma non gli guadagnò un posto nel novero dei comandanti cinesi più amati ma ebbe un effetto straordinario sulle truppe: i soldati, determinati all’estremo, afferrarono le lance e gli archi e si lanciarono contro il nemico con tutta la ferocia che avevano in corpo vincendo nove battaglie consecutive e annientando gran parte dell’esercito della dinastia Qin. La storia di Xiang Yu è degna di nota perché è completamente antitetica rispetto al comportamento usuale degli esseri umani. Noi, di solito, non riusciamo a sopportare di escludere le varie alternative che ci si presentano»2. In realtà, quotidianamente il numero delle nostre alternative è per lo più molto ristretto, e al nostro stesso vivere non c’è alternativa (se non il non-vivere, che però non è una vera alternativa, giacché non è un “altro” vivere), ma ciò non può impedirci, se solo lo vogliamo, di fare un investimento di razionalità sui fini e, dunque, sulle scelte che essi possono adeguatamente motivare. Matteo Negro Università di Catania 1. Cfr. H. Putnam, Ragione, verità e storia, Il Saggiatore, Milano 1985. 2. D. Ariely, Prevedibilmente irrazionale, Rizzoli, Milano 2008, p. 160. 13 FATTI E OPINIONI Didattica del classico In Italia il Liceo Europeo è il prodotto tangibile degli obiettivi di integrazione culturale dell’Europa. Se sul piano pedagogico esso mira alla formazione di una coscienza europea in linea di Augusta Celada con la necessità di garantire una pacifica e proficua convivenza dei popoli dell’Europa, sul piano cognitivo il nucleo della cultura europea viene ricercato nelle radici comuni dei diversi poL’esperienza del liceo classico europeo poli con la finalità di giungere alla comprensione delle ragioni che sostengono un’unione anche politica dell’Europa. C’è una sperimentazione che il riordino dei licei, che sarà a re- Nel curricolo che vent’anni fa si costruì, e che ora necessita gime nell’anno scolastico 2014-2015, anziché sopprimere, di una revisione che lasciare solo all’autonomia delle scuole ha stralciato con l’intento di rinviarne la revisione a un distinto ne farebbe perdere l’identità sotto la spinta di esigenze losuccessivo regolamento, finora non intervenuto: il liceo clas- calistiche, peraltro legittime, le radici comuni della civiltà sico europeo1. europea risiedono in un’eredità condivisa della classicità, La sperimentazione del liceo classico europeo è stata av- intesa come visione unitaria del mondo classico e progresviata negli anni ’90 e interessa oggi una quarantina di classi, siva trasformazione ed elaborazione del suo articolato corso meno di un migliaio di alunni in tutta Italia, all’interno di di- storico. ciassette istituzioni educative, Convitti Nazionali ed Educan- La civiltà romana, fin dalle origini dell’espansione territoriale dati dello Stato che propongono nella propria offerta for- dell’impero, ha costituito il modello comune della formamativa questo percorso di forte capacità attrattiva, in netta zione, grazie alla funzione veicolare del latino che è stata la crescita negli ultimi anni. Nonostante i numeri siano ridotti, il lingua dell’istruzione, del diritto, della riflessione filosofica e curricolo del liceo europeo rappresenta un percorso liceale di della ricerca scientifica fino al XVII secolo. grande interesse, soprattutto sul versante dell’insegnamento L’impero romano ha veicolato all’occidente la cultura della delle discipline classiche. La relativa sperimentazione risale al Grecia antica e delle civiltà del vicino Oriente e, se il più 1993: il processo di unificazione europea, la libera circolazione grande contributo della Grecia antica alla civiltà è rappredelle persone e delle merci mise in evidenza, alla fine del se- sentato dall’invenzione della filosofia e del pensiero scienticolo scorso, la necessità di uno spazio europeo dell’educa- fico, il più grande contributo della civiltà latina è la nascita del zione, non all’interno di un ordinamento comune, ma con un diritto che in Roma trovò la sua culla. Su questi due pilastri, la impegno comune degli Stati membri. scienza, legge della natura e il diritto, legge degli uomini, è Il progetto di un “Liceo Europeo”, infatti, prese le mosse dal cresciuta la civiltà occidentale, caratterizzata dalla fondaTrattato di Maastricht, nello spirito del quale la dimensione mentale unità della cultura declinata nei differenti statuti ereuropea dell’insegnamento tende prioritariamente al mi- meneutici che fanno capo alle discipline liceali. glioramento della conoscenza e alla diffusione della cultura e della storia dei popoli europei. In particolare gli articoli 126, 127 e 128 del Trattato affermano il «pieno rispetto della responsabilità degli Stati mem- 1. Il DPR 89/2010 al’’art. 2 comma 3 stralcia il Liceo europeo dal processo di riforma: bri per quanto riguarda il contenuto dell’insegnamento, l’or- «Alla riorganizzazione dei percorsi delle sezioni bilingue, delle sezioni ad opzione internazionale, di liceo classico europeo, di liceo linguistico europeo e ad indirizzo sporganizzazione del sistema istruzione e le diversità culturali e tivo, si provvede con distinto regolamento adottato ai sensi dell’articolo 17, comma linguistiche» e contribuisce a rafforzare «il retaggio cultu- 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, sulla base dei criteri previsti dal presente regolamento». rale comune» privilegiando l’uso di strumenti di mobilità, di 2. La dichiarazione di Bologna del 19 giugno 1999 che avvia l’omonimo processo si in sei azioni: un sistema di titoli accademici facilmente riconoscibili e comcooperazione, di scambi di informazioni e di esperienze in- articola parabili con l’adozione di un supplemento al diploma condiviso per migliorare la trasparenza; un sistema fondato essenzialmente su due cicli; un sistema di cumulo e terculturali degli studenti. trasferimento di crediti; la mobilità degli studenti, degli insegnanti e dei ricercatori Successivamente il processo di Bologna introdusse l’inte- mediante l’eliminazione di tutti gli ostacoli alla libertà di circolazione; la cooperazione; resse e l’impegno dell’Unione Europea a sviluppare la di- la dimensione europea nell’insegnamento superiore. La dichiarazione di Bologna è un impegno volontario di ciascun paese firmatario a riformare il proprio sistema di inmensione europea nell’istruzione mediante l’insegnamento segnamento. Per quanto riguarda gli Stati membri dell’Unione europea (UE), l’artie la diffusione delle lingue degli Stati membri, a favorire la colo 165 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea stipula che l’Unione «contribuisce allo sviluppo di un’istruzione di qualità incentivando la cooperazione tra mobilità degli studenti e degli insegnanti incoraggiando il ri- Stati membri e, se necessario, sostenendo ed integrando la loro azione». Tuttavia gli conoscimento accademico dei titoli e dei periodi di studio, a Stati membri restano totalmente responsabili del contenuto dell’insegnamento e dell’organizzazione del loro sistema di istruzione nonché della loro diversità culturale e promuovere la cooperazione tra gli istituti di insegnamento2. linguistica. 14 Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI FATTI E OPINIONI Il curricolo del liceo europeo, fondato su una forte dimensione di licealità, integra le tre principali aree del sapere: umanisticoletterario, matematico-scientifico, storico-filosofico con una sicura padronanza di due lingue europee che permette la veicolazione di due discipline non linguistiche, le scienze insegnate in lingua inglese e la geostoria o il diritto insegnati nella seconda lingua europea. Tuttavia il vero core curriculum del liceo classico europeo risiede nella unitarietà dell’insegnamento del latino e del greco accorpate in unica disciplina denominata “Lingue e letterature classiche”. Essa ha per oggetto la conoscenza della civiltà classica considerata nella unitarietà della sua eredità e viene proposta agli studenti nell’ottica di un’acquisizione organica del patrimonio culturale della civiltà classica. Prospettiva che esalta il tema, pur controverso, delle radici cristiane dell’ Europa, proprio in quanto il cristianesimo per primo vide l’antico come un tutto unico, premessa e preparazione della rivelazione, di cui anticipò valori civili e modelli etici. Certo alla base della riunificazione didattica delle due discipline classiche sta anche un’idea romantica, molto funzionale alla prospettiva europeista, che affonda le sue radici nella glottologia e nella linguistica storica e nell’uso del metodo comparativo per lo studio sull’origine delle lingue. Sul versante didattico tuttavia la sfida è ardua a cominciare dalle 25 ore complessive di insegnamento nel quinquennio contro le 39 del liceo classico, all’interno di un curricolo dove tutte le discipline, tranne questa che pure ne costituisce la caratteristica innovativa, hanno un monte ore maggiorato rispetto ai corrispettivi percorsi liceali ordinamentali. Inoltre l’approccio comparato è più suggestivo a dirsi che fa- cile a realizzarsi in classe: infatti, se la letteratura può essere insegnata per generi con forti nessi tra le due civiltà letterarie, la lingua, solo per taluni argomenti sintattici e per approfondimenti sul lessico, si presta ad un approccio comparato; è di tutta evidenza che non vi si presta lo studio morfosintattico del sistema verbale che segna la distanza di prospettiva simbolico-culturale tra le due civiltà. Una metodologia che fa proprie le acquisizioni della linguistica storica e un modello grammaticale improntato alla didattica breve sono la chiave dell’insegnamento delle lingue classiche da adottarsi nel liceo europeo. La centralità del lavoro didattico va riservata alla traduzione intesa, in un quadro di valutazione delle competenze maturate dagli studenti, come prova esperta di comprensione che deve però essere contenuta in spazi quantitativi commisurati al tempo scuola. Del tutto inadatto alla struttura del liceo europeo l’uso del metodo Ørberg con il quale i tempi di apprendimento si allungherebbero e si sacrificherebbe, alla naturalità vera o presunta del processo di apprendimento, l’aspetto metacognitivo dello studio delle lingue classiche; ma altrettanto inefficace risulta il ricorso alla grammatica normativa che registra più aporie che punti di forza offuscando agli occhi degli studenti, che sono i cittadini della nuova Europe 2020, la dimensione storico-culturale e il peso della cultura greco-latina e cristiana nella costruzione della civiltà europea. Augusta Celada Dirigente Educandato Statale “Agli Angeli”, Verona Tempo perduto tempo ritrovato quella di una privatizzazione aperta a una contrattualizzazione autentica. La riforma ebbe il via libera dall’art. 2 della legge delega n. 421/1992, per la sua asserita capacità di contribuire a contedi Franco Carinci nere la spesa e a migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione. E solo quattro mesi dopo avrebbe trovato piena attuazione nel decreto legislativo n. 29/1993, «razionalizzaLa privatizzazione del pubblico impiego zione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego», Alla fine del decennio ’80, l’alternativa che si presentava al le- destinato a costituire il testo di riferimento della successiva gislatore con riguardo all’impiego alle dipendenze delle pub- decretazione correttiva emanata a’ sensi della prima delega, bliche amministrazioni, già regolato dalla legge quadro n. nonché della seconda, di cui all’art. 11, c. 4 L. n. 59/1997. 93/1983, era fra tornare indietro sulla strada di una pubbli- Sarà il D.Lgs. n. 165/2001, c.d. T.U. del pubblico impiego, a recizzazione tutta chiusa dentro la legge, o procedere avanti su stituirci la riforma in quella che sembrava doverne costituire Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI 15 FATTI E OPINIONI la versione definitiva, cioè come una nuova regolazione delle fonti attuata sulla base di una distinzione di massima: a monte la macro-organizzazione, mantenuta pubblica; e, a valle, la micro-organizzazione e la disciplina del personale, resa privata, con un’ampia riserva a favore della contrattazione collettiva. Chiamata a pronunciarsi, la Corte costituzionale elaborò tutta una giurisprudenza favorevole alla ratio ancor prima che alla lettera della riforma. Se la sent. n. 359 del 1993 si limitò a sindacare la insufficiente partecipazione regionale alla procedura di contrattazione, la sent. n. 88 del 1996, si espresse per l’abrogazione delle rappresentanze del personale nei consigli di amministrazione delle P.A.; e, di lì a poco, nel breve tratto di un biennio, intervennero due decisioni destinate a “costituzionalizzare” la riforma: la sent. n. 313 del 1996, a pro della legittimità della privatizzazione del rapporto di lavoro dirigenziale (limitatamente alla dirigenza di seconda fascia); e, infine, la fondamentale sent. n. 309 del 1997 a favore della sottoposizione dell’impiego pubblico “privatizzato” alla legislazione del lavoro e alla contrattazione collettiva. Se il T.U. del 2001 fosse rimasto il testo di riferimento, non per questo sarebbe stato lasciato immodificato nel corso del decennio successivo, ma ritoccato e rivisto nel senso di un riequilibrio del rapporto legge/contrattazione a tutto vantaggio della prima. In tal senso si muove il Governo Berlusconi, già nel suo secondo mandato, con la L. n. 145/2002, che riscrive la disciplina della dirigenza dettata dal T.U.; ma, poi, soprattutto nel suo terzo, con la L. n. 133/2008, che, in vista di un contenimento della spesa pubblica, prevede non solo una forte stretta sull’organizzazione e sul personale, ma anche una nuova normativa in materia di controllo della contrattazione, specie di quella integrativa ormai largamente sfuggita di mano. La L. n. 133/2008 anticipa la L. n. 15/2009 destinata a passare alla storia come riforma Brunetta, che rappresenta per ora l’ultima tappa significativa di una vicenda iniziata con la legge delega del 1992, peraltro a tutt’oggi rimasta largamente lettera morta. Senza soffermarsi sulla non piena corrispondenza fra la legge delega e il D.Lgs. n. 150/2009 che vi ha dato attuazione, c’è da offrire una breve rappresentazione della filosofia e dell’impostazione del decreto stesso. Se pur la legge delega faceva prevedere una ipertrofia regolativa, nondimeno impressiona la dimensione assunta dal decreto, ricco di ben 74 articoli, suddivisi in cinque Titoli, che già di per sé testimonia l’ormai definitiva primazia assegnata alla legge rispetto a una contrattazione che avrebbe fallito la sua missione di restituire trasparenza ed efficienza alla amministrazione pubblica. 16 Ma ri-legificazione non equivale affatto a ri-pubblicizzazione, perché resta del tutto ferma la scelta iniziale per la c.d. privatizzazione, addirittura enfatizzata come funzionale a una diffusione di una vera e propria cultura d’impresa: ma c’è più legge e meno contrattazione collettiva. La più incisiva e pervasiva presenza della legge è vista proprio come una difesa contro una espansione impropria della contrattazione collettiva, rivelatasi tale da intaccare e snaturare la stessa organizzazione. Una difesa, questa, attuata col sottrarre alla negoziazione formale e informale un’ampia area decisionale riservata alla dirigenza; peraltro non senza una buona carica di incoerenza, al tempo stesso vincolandola ad una rigida disciplina eteronoma e caricandola di una responsabilità gestionale pesantemente sanzionata. Solo che tale ri-legificazione accresce la specificità del diritto sindacale dell’impiego pubblico privatizzato; proprio nel mentre è in piena fioritura tutta una legislazione riservata al solo lavoro privato, dalla riforma “Biagi” alla riforma “Fornero”. Sicché, da una esperienza ormai ventennale, esce alquanto ridimensionata l’aspettativa coltivata all’inizio che la privatizzazione potesse servire a ricondurre a una casa effettivamente comune l’intero universo del lavoro subordinato a prescindere dal carattere pubblico o privato del datore. Il decreto delegato n. 150/2009 è articolato su due parti fisicamente e logicamente distinte, anche se correlate: la prima (Titoli II e III) - destinata alla misurazione/valutazione e premiazione della performance, individuale e collettiva, con una ricezione tanto monocorde quanto discutibile della metodologia applicabile a un’impresa - rimane consegnata allo stesso decreto; mentre la seconda (Titolo IV) - dedicata alla dirigenza, all’organizzazione degli uffici e alla mobilità, alla contrattazione collettiva nazionale e integrativa, alle sanzioni disciplinari e alla responsabilità dei dipendenti, finisce per essere incorporata nel T.U. del 2001 - costituendone altrettante modifiche. Per quanto ambiziosa la riforma Brunetta non è mai decollata perché per tutta la prima parte sulla misurazione/valutazione e premiazione della performance, individuale e collettiva, è rimasta pressoché lettera morta; mentre per la seconda, in particolare per la sua componente più importante e significativa, cioè la rivisitazione della contrattazione collettiva, è stata per così dire sterilizzata dai continui e perduranti blocchi dei rinnovi contrattuali dovuti alla politica della lesina, cui il Governo è stato costretto dall’osservanza dei rigidi criteri decisi in quel di Bruxelles. Franco Carinci Università di Bologna Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI L’integrazione che non c’è Disabilità, DSA, BES (1) Giuliana Sandrone L’ INTEGRAZIONE DEGLI ALLIEVI DISABILI NELLA SCUOLA SECONDARIA DI II GRADO PRESENTA OGGI, DOPO 25 ANNI DALLA C.M. 262/881, UNA SERIE DI LUCI E OMBRE CHE LEGITTIMANO PIÙ CHE MAI LA DOMANDA: È VERA INTEGRAZIONE QUELLA CHE STIAMO PRATICANDO? O ltre che a promuovere l’integrazione degli alunni disabili, la scuola secondaria di II grado, negli ultimi tre anni, è stata chiamata a mettere in campo azioni educative volte a garantire il diritto all’istruzione e il pieno sviluppo della persona agli allievi con potenzialità cognitive nella norma, ma che presentano Disturbi Specifici di Apprendimento, così come previsto dalla L. 170/10 e dal successivo D.M. 5669/2011 con le relative Linee guida2. Da quest’anno scolastico, inoltre, come previsto dalla Dir.Min. 27 dicembre 2012, l’attenzione si allarga, dagli allievi con Disturbi Specifici di Apprendimento a quelli con difficoltà di apprendimento che, senza presentare un quadro che giustifichi una certificazione, necessitano «che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta»3. Per questi, i cosiddetti allievi con Bisogni Educativi Speciali (ragazzi con disturbi di attenzione e iperattività, o più semplicemente ragazzi border line rispetto a un “regolare” apprendimento, sottolinea la Direttiva) occorrerà definire un PDP, attivare percorsi metodologici particolari, sempre con l’occhio attento alla classe, al gruppo uniforme che dovrebbe rispondere alle aspettative “regolari” del sistema. Gruppo uniforme sempre più esiguo, riflette chi quotidianamente lavora nella scuola, Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI che porta a chiedersi se esista ancora; ma che, soprattutto, porta a tema la riflessione cruciale sulla diversità, a scuola, e sui portatori di diversità: chi è diverso? Qualche allievo, molti allievi, o tutti gli allievi? È questa l’inclusione che le scuole sarebbero chiamate a realizzare? Se sì, in quale rapporto sta con l’integrazione che ha guidato, dagli anni ‘70 in poi, la via della scuola italiana «per portare a maturazione, sotto il profilo culturale, sociale, civile, le possibilità di sviluppo di ogni bambino e di ogni giovane»4? Per rispondere a queste domande, messe a fuoco proprio perché paiono strettamente connesse tra di loro, procederemo attraverso due passaggi: 1) l’analisi delle linee generali della scelta italiana per l’integrazione della disabilità, con particolare attenzione alla scuola secondaria di II grado; 2) i rapporti di significato tra i termini integrazione e inclusione, indistintamente utilizzati nei documenti normativi dedicati agli allievi con DSA e, più in generale, con BES. L’integrazione degli allievi con disabilità. La via italiana e le sue criticità Osservare che cosa accade oggi nella scuola secondaria di II grado rispetto all’integrazione degli allievi con disabilità è operazione che fa emergere una serie complessa di criticità. Le criticità evidenti. Nella prassi quotidiana si evidenzia una elevata disomogeneità delle prassi, alcune di straordinaria efficacia (poche!) e altre di profonda negligenza educativa (molte!); queste criticità non sono certo legate a carenze della legislazione scolastica che, a partire dagli anni ‘70 del secolo scorso, ha definito norme e procedure precise culminate, per quanto riguarda la scuola secondaria di II grado, nella già citata C.M. 262/88 e, per tutti gli ordini e i gradi di scuola, nella Legge Quadro 104/92 e nel successivo D.P.R. 24 febbraio 19945. 1. La C.M. traduce amministrativamente la sentenza della Corte Costituzionale n. 215 del 1987 con cui si corregge una parte dell’art 28 della L. 118/71 e si afferma che la frequenza della scuola media superiore è «assicurata» e non solo «facilitata» agli allievi con disabilità. 2. Si tratta delle Linee guida per il Diritto allo studio degli alunni e degli studenti con Disturbi specifici di apprendimento allegate al D.M. 5669/2011. 3. È uno dei passaggi centrali della Dir.Min. del 27 dicembre 2012 Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica. 4. È uno dei passaggi iniziali della Relazione conclusiva della Commissione Falcucci che, nel 1975, diede avvio alla riflessione sulla scelta di integrazione degli allievi con disabilità nella scuola italiana. 5. Le Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità, pubblicate nel 2009 dal MIUR, presentano un’efficace sintesi delle politiche scolastiche italiane in tema di integrazione della disabilità. 17 PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI Negli ultimi vent’anni, quindi, docenti e dirigenti hanno dovuto affrontare il sempre più massiccio fenomeno della presenza degli allievi con disabilità nella scuola secondaria di II grado; presenza che, secondo una pubblicazione del MIUR del 20096, alla fine del primo decennio del nostro secolo, ha registrato un incremento a livello nazionale che sfiora, e a volte supera7, il 200% portando nella scuola superiore la presenza di oltre 42 mila allievi con disabilità, pari a un quarto dell’intera popolazione scolastica con disabilità presente nel sistema educativo statale. Altra criticità particolarmente evidente in questo fenomeno, oltre alla diversità delle prassi e alla cronica disomogeneità quantitativa dei disabili presenti nelle varie parti del territorio nazionale, è data dalle significative differenze quantitative della presenza degli allievi disabili all’interno dei diversi ordini della scuola secondaria di II grado. L’evidenza del problema si è recentemente avuta nell’individuazione di istituti scolastici in grado di accogliere i corsisti del TFA per il previsto tirocinio diretto8 relativamente alle classi di concorso proprie di alcuni ordini di scuola secondaria di II grado: accanto a istituti professionali e tecnici che hanno potuto accogliere senza problemi i corsisti grazie alla presenza massiccia di allievi con disabilità9, ci si è trovati di fronte a numerosi licei (primi fra tutti gli indirizzi classico e scientifico) che non hanno mai registrato, nella loro anche recente storia istituzionale, la presenza di un allievo con disabilità. Scontate (e superficiali) ragioni sembrano dare spiegazione della situazione e molto spesso guidano i criteri di orientamento scolastico praticati al termine del primo ciclo di istruzione: alcuni ordini di scuola secondaria di II grado sembrano accogliere, più agevolmente di altri, allievi con disabilità, specie con compromissione cognitiva, grazie ai loro percorsi più orientati alla operatività che non all’astrazione; non ultimo, la loro possibilità di creare un contatto più diretto con ambienti di lavoro alimenta la speranza di garantire un successivo inserimento lavorativo anche all’allievo con disabilità. Ragioni diffuse ma, appunto, inequivocabilmente superficiali, che partono dal presupposto non dichiarato che la scuola superiore e i suoi indirizzi non possano essere organizzati diversamente, e che i metodi didattici e le modalità d’intervento in essi praticati non possano essere altrimenti, nonostante tentativi di riforme falliti e ri-ordini realizzati10. 6. Si tratta del documento curato e pubblicato dal MIUR Dieci anni di scuola statale, a.s. 1998-99-a.s. 2007-2008, rintracciabile in www.istruzione.it 7. Nel documento ministeriale del 2009, viene registrato un incremento dei disabili nella scuola secondaria di II grado pari al 244% nel Nord-Ovest e al 254% nelle Isole. 8. Il D.M. 249/10 che regola il percorso di Tirocinio Formativo Attivo (TFA), necessario per l’abilitazione ordinaria dei futuri docenti, prevede all’art.10 un’attività di tirocinio diretto e indiretto, una parte del quale deve necessariamente essere dedicato a situazioni di integrazione della disabilità. 9. A titolo esemplificativo riportiamo i dati di un ISIS di un capoluogo di provincia lombardo: su c.a.1500 frequentanti, circa 80 hanno una disabilità dichiarata e circa 110 una diagnosi DSA. 10. È noto che si è arrivati al Riordino della scuola secondaria di II grado, così come previsto dai Regolamenti del 15 marzo 2010, dopo decenni di sperimentazioni mai portati a sistema e dopo l’affossamento del D.Lgs. 226/05, regolativo della L. 53/03 che prevedeva una nuova e innovativa organizzazione del secondo ciclo d’istruzione. Per approfondire cfr. G. Bertagna, Pensiero manuale. La scommessa di un sistema di istruzione e di formazione di pari dignità, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006. 18 Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI Esattamente il contrario di ciò che veniva scritto a chiare lettere nella relazione conclusiva della Commissione Falcucci che, nel lontano 1975, connetteva in modo inscindibile la possibilità dell’integrazione, su cui si stava all’epoca avviando la riflessione, con «la realizzazione di un nuovo modo di essere della scuola». Come dire: attenzione, perché per integrare ( e non solo inserire) un allievo che presenta una disabilità certificata occorre essere pronti a cambiare l’organizzazione della scuola, ma non solo: occorre rivedere senza incongruenze lo scopo per cui quel determinato tipo di scuola esiste. Un importante “campanello” premonitore, che avrebbe dovuto ricordare, fin dall’inizio del processo avviato nei confronti degli allievi con disabilità, un principio fondamentale, che vale per tutti gli studenti che frequentano tutti gli ordini e i gradi della scuola pubblica: all’interno di un sistema educativo nazionale, costituzionalmente volto allo sviluppo della persona, sempre si incrociano i temi che riguardano le regole generali che garantiscono l’uguaglianza (il tutti) con quelli che affrontano le situazioni personali (il ciascuno), i punti “deboli”, le difficoltà, gli svantaggi, o, molto più semplicemente, le diversità individuali (dalla disabilità certificata, alle diversità funzionali dell’apprendimento, all’iper-dotazione cognitiva, alla diverse provenienze geografiche, sociali e culturali…) che, di fatto, impediscono qualsiasi automatica corrispondenza tra il tutti e il ciascuno. Si tratta di una non facile dialettica, che un sistema educativo nazionale democratico ha il compito di portare a una complessa ma indispensabile sintesi, specie quando da più parti matura la consapevolezza che il ciascuno non riguarda solo l’allievo con disabilità, ma ogni allievo che vive all’interno della scuola, in quanto perNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI sona che nella diversità, intesa come ricchezza e potenzialità personale, trova la cifra che, nel solco delle norme generali dettate dallo Stato, deve indirizzare la sua educazione. Consapevolezza non nuova, che troviamo presente, ancora una volta, nella relazione conclusiva della Commissione Falcucci che così giustificava l’integrazione e non solo l’inserimento di tutti gli allievi nei percorsi educativi comuni: «[…] i soggetti con difficoltà di sviluppo, di apprendimento e di adattamento devono essere considerati protagonisti della propria crescita. In essi infatti esistono potenzialità conoscitive, operative e relazionali spesso bloccate dagli schemi e dalle richieste della cultura corrente e del costruire sociale. Favorire lo sviluppo di queste potenzialità è un impegno peculiare della scuola, considerando che la funzione di questa è appunto quella di portare a maturazione, sotto il profilo culturale, sociale, civile, le possibilità di sviluppo di ogni bambino e di ogni giovane». Da sottolineare come nella relazione non si parlasse solo di allievi handicappati, ma di «soggetti con difficoltà di sviluppo, di apprendimento e di adattamento». Eppure, l’attuale normativa scolastica sugli allievi con DSA e con BES era lontana decenni. Per cercare di capire come si sia arrivati alle urgenze educative che hanno spinto alla produzione di questa normativa, ripercorriamo, sia pur rapidamente, i passaggi fondamentali che hanno caratterizzato la via italiana all’integrazione della disabilità nei diversi gradi di scuola. La scelta italiana per l’integrazione della disabilità. Dagli anni ‘70 del secolo scorso in poi, l’Italia ha compiuto una scelta coraggiosa e antesignana, quella che gli studiosi di pedagogia speciale chiamano la scelta dell’opzione unica, vale a dire l’eliminazione di tutte le scuole speciali, siano esse indirizzate a disabilità sensoriali, fisiche, cognitive o psichiche, e la definizione di precisi dispositivi che tutelino, all’interno del sistema educativo ordinario, dalla scuola dell’infanzia all’Università, il percorso di chi presenta una disabilità certificata11. Si tratta di una scelta che non è diffusa negli stati UE, nei quali spesso troviamo ancora oggi opzioni meno radicali12, ma che ha permesso alle politiche scolastiche italiane di individuare e rendere operativi strumenti normativi, ruoli professionali, modelli organizzativi che sono entrati a far parte della vita e del linguaggio delle nostre scuole: Diagnosi Funzionale, Profilo Dinamico Funzionale, Piano Educativo Individualizzato, Docente di Sostegno, Assistente educatore, Gruppi di lavoro interni ed esterni alla scuola… Tutti insieme, questi strumenti costituiscono un’importante tutela per la garanzia della frequenza scolastica di ciascun allievo disabile all’interno delle classi ordinarie e se consideriamo, oltre a quelli del secondo ciclo già citati, i dati quantitativi anche del primo ciclo, in quarant’anni la via dell’opzione unica ha raggiunto a pieno il suo obiettivo: nell’anno scolastico 2011-12, nel primo ciclo della scuola italiana, erano presenti circa 145 mila alunni con disabilità e più di 65 mila insegnanti di sostegno13, vale 11. Soluzioni ispirate al principio dell’opzione unica sono state adottate, oltre che dall’Italia, dalla Grecia, dall’Islanda, dal Portogallo, dalla Spagna, dalla Svezia, dalla Norvegia e da Cipro. Ulteriori informazioni in questo senso possono essere reperite in A. Lascioli (a cura di), Pedagogia speciale in Europa. Problematiche e stato della ricerca, FrancoAngeli, Milano 2007, p. 300. 12. Cfr. G. Sandrone (ed.), Pedagogia speciale e personalizzazione. Tre prospettive per un’educazione che “integra”, La Scuola, Brescia 2012, pp. 317 ss. 13. Dati reperibili nel report dell’ISTAT, pubblicato il 25 gennaio 2013, in ordine all’integrazione degli alunni con disabilità nelle scuole primarie e secondarie di I grado statali e non statali. 19 PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI a dire circa il 3% della popolazione scolastica totale, con una sovrapposizione pressoché totale tra dati epidemiologici e dati di frequenza scolastica. Come dire: nel 2012, in Italia, tutti i bambini e i ragazzi con disabilità certificata “stanno dentro” il sistema comune e, con l’ausilio di alcuni dispositivi garantiti dalla norma, frequentano le stesse scuole e le stesse aule e hanno gli stessi docenti dei loro compagni. “Stanno dentro”: precisa preoccupazione del legislatore, dagli anni ’70 in poi, era proprio la sottolineatura del principio per cui occorre andare oltre il semplice inserimento fisico dell’allievo con disabilità certificata nelle classi ordinarie, ma occorre “agganciare” i percorsi previsti per gli allievi della classe in cui il disabile è inserito, ritagliando un percorso “diverso”, pensato per lui, individualizzato appunto, per quanto riguarda la quantità dei contenuti e le modalità di insegnamento, ma sempre avendo cura che, in qualche modo o in qualche aspetto, specie affettivo e sociale, questo percorso si connetta con il percorso comune di tutti gli altri allievi. Per questo, allora, si utilizzò intenzionalmente la parola integrazione, per distinguerla nettamente dal semplice inserimento, operando una forzatura semantica (su cui torneremo), che risulterà via via più evidente con il cambiare della situazione nelle nostre scuole. Da un punto di vista etimologico, infatti, la parola integrazione significa tenere insieme elementi diversi e, all’interno di un sistema, evidenzia la sua capacità di destrutturarsi e ristrutturarsi flessibilmente per consentire a tutte le diversità in esso presenti di portare a termine lo scopo del sistema stesso. Si tratta, è evidente, di un concetto di diversità inteso come positività che, riferito alle persone, esalta la diversità ontologica di ciascuno e la presenza potenziale in ciascuno di noi di 20 aspetti più o meno deficitari, così come di eccellenza. Contestualizziamo questa riflessione nella scuola italiana degli anni ‘70 e dei decenni immediatamente successivi: come poteva il concetto di integrazione, correttamente utilizzato da un punto di vista etimologico, trovare piena realizzazione in una scuola in cui era presente un solo percorso diversificato in mezzo a tanti percorsi uguali tra di loro, dove veniva riconosciuta una sola discriminante, allievo disabile/allievo normodotato, dove non esisteva che un solo percorso “speciale” possibile, quello per l’allievo con disabilità certificata, all’interno di un percorso uniforme, comune a tutti coloro che disabili certificati non sono? La scuola italiana di quegli anni, destabilizzata da fenomeni travolgenti come l’istruzione di massa e i cambiamenti culturali e sociali seguiti all’onda sessantottina, era fortemente radicata nella convinzione politica che la recente impostazione curricolare, acquisita dalla tradizione anglosassone e artificialmente innestata nella scuola italiana, storicamente e culturalmente centralistica ed esecutiva, potesse dar vita a una nuova scuola che, attraverso l’uniformità dei percorsi, la separatezza fordista delle discipline, l’organizzazione rigida e predefinita dei tempi e dei modi di insegnamento potesse garantire l’uguaglianza dei risultati per tutti14. La prospettiva comeniana del tutto a tutti uguale rappresentava, in quegli anni, la risposta sicura e unica alla richiesta costituzionale di uguaglianza dei cittadini, ma certamente metteva in secondo piano l’attenzione costituzionale alla «rimozione degli ostacoli che impediscono lo sviluppo della persona umana». Per questo, avere Piani Educativi Individualizzati (PEI) per gli allievi con disabilità, percorsi diversi (individualizzati, appunto) che ritagliavano spazi “diversi” ma fisicamente e social- mente “connessi” all’interno di questa uniformità, sembrava, allora, una scelta opportuna sia dal punto di vista dell’educazione individuale, sia dal punto di vista della convivenza civile. Le trasformazioni sociali e culturali, che negli anni ’80 e ’90 hanno portato alla crisi del sistema scolastico centralistico (ricordiamo, ad esempio, che in Italia alla fine degli anni ’90 la dispersione scolastica a 15 anni superava il 30%) e spinto a percorrere la strada dell’autonomia delle scuole, hanno messo in evidenza proprio questi problemi: la diversità degli allievi con disabilità è l’unica a essere presente nella nostra scuola? Le mille “diversità” che convivono nelle nostre classi, sempre più omogenee solo da un punto di vista anagrafico, hanno diritto di trovare attenzioni e risposte educative o sono destinate irrimediabilmente a “scomparire” agli occhi dell’habitus15 proprio dell’istituzione esistente e dei suoi docenti? Dare risposta alle diversità di ciascuno. Dare risposte di sistema a queste domande avrebbe richiesto, nei primi anni del decennio scorso, il coraggio culturale, prima ancora che istituzionale, di rompere i vecchi schemi della separatezza, della rigidità e dell’uniformità dei percorsi di insegnamento e aprire a una prospettiva di personalizzazione dei piani di studio, a una flessibilità organizzativa, governata in responsabile autonomia dalla scuola stessa, che consentisse, attraverso Piani di studio personalizzati16, di dare risposte diverse 14. Per approfondire questa affermazione cfr. la voce Individualizzazione in G. Bertagna - P.Triani (eds), Dizionario di didattica. Concetti e dimensioni operative, La Scuola, Brescia 2013, pp. 209-220. 15. P. Bourdieu, Ragioni pratiche (trad. it.) il Mulino, Bologna 1995. 16. Per approfondire cfr. G. Sandrone, Personalizzazione in G. Bertagna - P.Triani (eds), Dizionario di didattica, cit., pp. 283-295. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI a bisogni e a potenzialità diversi, garantendo, però, a tutti una base comune, un percorso condiviso che rappresentasse il collante indispensabile per un sistema educativo nazionale unitario. In una scuola che offrisse una pluralità di percorsi volti a rispondere alla diversità dei suoi allievi, allora, avrebbe finalmente potuto realizzarsi per davvero il concetto di integrazione che, a questo punto, avrebbe riguardato non più esclusivamente gli allievi con disabilità, ma avrebbe, secondo la sua corretta etimologia, riguardato tutti i bambini e i ragazzi presenti nelle nostre scuole: disabili, dislessici, stranieri, superdotati, demotivativi, molto motivati, iperattivi…, ciascuno con le proprie diversità, i limiti, più o meno gravi, e le ricchezze, più o meno sviluppate, che sempre le accompagnano. I primi anni del decennio scorso erano gli stessi in cui l’Europa metteva a tema la personalizzazione dell’insegnamento; era il 2004 quando l’OCDE titolava la sua Conferenza internazionale Personalizzare l’insegnamento17; in Italia erano gli anni in cui l’ideologia affossava lo sforzo normativo che, con la L. 53/03 e i suoi regolamenti, aveva cercato di percorrere questa strada, facendo dell’autonomia delle scuole, della sussidiarietà e della personalizzazione dei percorsi di insegnamento-apprendimento la leva strategica per il suo cambiamento. Dal 2006 ad oggi, nella scuola italiana, sperimentazioni, ri-ordini, parole d’ordine più o meno imposte dall’Europa e dai suoi apparati si sono susseguiti e confusamente mescolati a problemi economici e strutturali del sistema educativo stesso; tutti questi tentativi più o meno portati a termine, anziché tentare di riconsiderare e percorrere la strada della personalizzazione, precedentemente misconosciuta, sembrano aver dato vita a una “nuova” stagione di cenNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI tralismo, a un “nuovo” impulso di burocratizzazione, alla produzione centralizzata di norme e di indicazioni che non fanno ben sperare per quel che rimane dell’autonomia delle scuole. È successo questo soprattutto nel campo della disabilità e delle difficoltà di apprendimento. Anziché favorire l’autonoma e responsabile assunzione di questi problemi e della loro soluzione da parte delle scuole e dei docenti che vi lavorano, attraverso la prospettiva di una personalizzazione dei percorsi rispettosa dei riferimenti e dei vincoli nazionali, il più che mai vivo e attivo Ministero dell’Istruzione ha intrapreso e confermato la strada di indicare, attraverso normative di primo livello (è il caso della L. 170/10) ma anche di secondo e terzo livello (è il caso del D.M. 5669/2011 recante le già citate Linee guida sui DSA, così come della direttiva sui BES resa operativa dalla C.M. 8/13) che intendono indirizzare e regolare l’azione delle scuole, dei docenti e dei dirigenti nei confronti degli allievi che presentano difficoltà di apprendimento anche al di fuori delle situazioni di disabilità certificata. Per questo, anziché andare verso il decentramento alle scuole, o alle reti di scuole, delle risorse professionali ed economiche necessarie per realizzare un’azione integrativa reale e rispondente alle loro necessità, si è scelto di continuare a gestire centralisticamente questi aspetti, a dare minu- 17. CERI-OCSE, Personalizzare l’insegnamento, tr. it., Il Mulino, Bologna 2008. 21 PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI ziose indicazioni eterodirette rispetto alle professionalità e alle azioni da mettere in campo per perseguire la magnificata “politica per l’inclusione”. È sufficiente scorrere, nella citata Dir.Min. 27 dicembre 2012, l’ampio elenco delle indicazioni date a ciascuna scuola per attivare il Gruppo di lavoro per l’inclusione, il Piano Annuale per l’Inclusività, la necessaria presenza del tema nel POF…, per trovare conferma di quale sia l’idea di autonomia, ancorché funzionale, che il Ministero pratica nei confronti delle scuole e, in questo caso, della loro responsabilità nei confronti delle difficoltà di apprendimento degli allievi. Sono indicazioni, si dirà, non certo vincoli normativi; ma chi si occupa della nostra scuola sa come il continuare a fornire indicazioni esterne e centralistiche sia lo strumento più efficace per allontanare qualsiasi realizzazione di autonomia, neppure funzionale. Giuliana Sandrone Università di Bergamo 22 Valutazione e certificazione delle competenze: a che punto siamo? Maria Giovanna Fantoli - Ornella Gelmi A DUE ANNI DALL’INTRODUZIONE DELLA CERTIFICAZIONE DELLE COMPETENZE ALLA FINE DEL PRIMO BIENNIO DEL SECONDO CICLO DI ISTRUZIONE E A MENO DI UN ANNO DALLA STESSA CERTIFICAZIONE DA PRODURRE ALLA FINE DEL SECONDO BIENNIO, SI RITIENE OPPORTUNO, SULLA BASE DI QUANTO RICHIESTO DALLA NORMATIVA, PROPORRE UNA RIFLESSIONE CHE NASCE DALLA DIRETTA ESPERIENZA DI DOCENTI. L’ attenzione al concetto di competenza con i conseguenti concetti di “insegnamento per competenze” e “valutazione e certificazione delle competenze acquisite” è richiesta ai docenti sia dalle indicazioni europee1 in materia di istruzione e formazione, sia dalla normativa italiana2 che ha recepito, condiviso e fatti propri i suggerimenti dell’Unione europea. Tuttavia la ragione per la quale ciascun insegnante dovrebbe operare avendo come fine della sua azione la maturazione, nei suoi studenti, delle competenze personali, non può e non deve ridursi alla mera ottemperanza esecutiva della norma. Pena la perdita di una significativa opportunità offerta ai docenti per favorire un apprendimento autentico nelle persone in formazione a loro affidate, con un auspicabile miglioramento della futura società italiana. Del resto ai docenti non si richiede solo di essere «molto professionalizzati sul piano tecnico, pedagogico-didattico. Ma anche molto scrupolosi sul piano deon- tologico, capaci cioè di rispondere delle proprie scelte educative e didattiche, e di darne ragione agli allievi, alle famiglie, al territorio e alle istituzioni»3. Tale considerazione è strettamente correlata con quanto vorremmo sviluppare in questo articolo dal momento che prendere in esame la valutazione per competenze e applicarla nella pratica didat- 1. Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2008 sulla costituzione del Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente (2008/C 111/01). 2. D.P.R. 15 marzo 2010, n. 87, Regolamento recante norme per il riordino degli istituti professionali, a norma dell’articolo 64, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, art. 2, comma 1. D.P.R. 15 marzo 2010, n. 88, Regolamento recante norme per il riordino degli istituti tecnici, a norma dell’articolo 64, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, art. 2, comma 1. D.P.R. 15 marzo 2010, n. 89, Regolamento recante revisione dell’assetto ordinamentale, organizzativo e didattico dei licei a norma dell’articolo 64, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, art. 2, comma 2. 3. G. Bertagna, Valutare tutti valutare ciascuno, La scuola, Brescia 2004, pp. 89-90. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI tica significa assumere costantemente come riferimento deontologico l’esigenza morale di spiegare e dare conto del proprio operato a chicchessia, ma in maniera particolare agli studenti e alle famiglie. Infatti l’agire competente, in primo luogo dell’insegnante, si qualifica in termini di autonomia e responsabilità personali in tutte le situazioni professionali e di vita. Procederemo con una sorta di pars destruens confrontando un ipotetico scenario di scarsa o nulla attenzione nei confronti del dettato normativo con lo scenario opposto allo scopo di scoprire come la legge sia animata dalla finalità di potenziare la libertà di progettazione del docente. Come categoria professionale ci siamo forse a tal punto adagiati sull’idea di essere esecutori di disposizioni provenienti dall’apparato ministeriale da non sfruttare adeguatamente lo spazio di autonomia e creatività che abbiamo nello svolgimento del nostro lavoro scolastico. Ora, la Riforma della scuola secondaria di secondo grado viaggia decisamente sul doppio binario dell’autonomia e della responsabilità personale. La pars construens emergerà dunque prendendo in esame il testo delle Linee Guida per gli istituti tecnici e professionali e delle Indicazioni nazionali per i Licei. In sostanza, per quanto riguarda il problema della valutazione e certificazione delle competenze sembrerebbero esserci solo due strade: l’una è rappresentata dall’esame serio e attento della Riforma nelle sue ragioni di fondo; l’altra è costituita dall’accettazione non sempre approfondita e condivisa delle istanze pedagogiche sottese alla normativa. In questo secondo modo, si adempirebbe formalmente a quanto richiesto, ma con una sorta di distacco rispetto a ciò che si fa. Ciò renderebbe possibile trovare nella norma stessa, ritenuta inadeguata, Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI il motivo di un eventuale insuccesso del processo di insegnamento-apprendimento declinando in tal modo qualsiasi responsabilità professionale e personale. Inoltre, come conseguenza ancor più grave, il docente perderebbe l’occasione propizia per intraprendere tutte le possibili strade che favoriscono un autentico processo di apprendimento nei suoi studenti. Se il docente non cogliesse tali opportunità, verrebbe meno, proprio da un punto di vista deontologico, la ragione stessa dell’essere insegnante. L’idea di competenza promuove la formazione delle nuove generazioni, senza ridurla a un mero passaggio di nozioni, e aiuta gli insegnanti a valorizzare la loro professionalità, impedendo che essa si esaurisca nell’adempimento delle richieste di una burocrazia sentita come sempre più invasiva. Quadro ipotetico circa le modalità di valutazione delle competenze Ma che cosa potrebbe accadere e che cosa potrebbe essere già accaduto nelle scuole in questi due anni di valutazione e certificazione delle competenze alla fine del primo biennio del secondo ciclo di istruzione e formazione? Un primo comportamento potrebbe essere costituito dalla ricerca, effettuata in rete, di modelli di valutazione e certificazione prodotti da altri istituti o da esperti nel settore. I format, in questo caso, rischierebbero sic et simpliciter di essere applicati alla propria situazione scolastica con buona pace di ogni preoccupazione per declinare in un preciso contesto ciò che è nato in un altro. In procedure di tal genere, si presenterebbe dunque il vecchio vizio tipico di una visione centralista e riduttiva del processo di insegnamento-apprendimento che, rispetto a qualsivoglia solle- citazione personale e professionale di assunzione di responsabilità, preferisce la sicurezza del «così fan tutti» e si “accomoda” nella mera compilazione di documenti e procedure. Di fronte a questa ipotesi è la stessa normativa a fornirci i chiarimenti necessari. Per esempio, si legge nelle Linee Guida per gli istituti tecnici, ma lo stesso vale per ogni istituzione scolastica, che per diventare vere “scuole dell’innovazione”, gli istituti tecnici sono chiamati ad operare scelte orientate permanentemente al cambiamento e, allo stesso tempo, a favorire attitudini all’autoapprendimento, al lavoro di gruppo e alla formazione continua […]. In sintesi, occorre valorizzare il metodo scientifico e il sapere tecnologico, che abituano al rigore, all’onestà intellettuale, alla libertà di pensiero, alla creatività, alla collaborazione, in quanto valori fondamentali per la costruzione di una società aperta e democratica. Come si può pretendere di insegnare agli allievi i valori di cui sopra se il corpo docente sceglie l’adeguamento a qualcosa di pre-confezionato, ignorando lo specifico della ricerca al fine di trovare soluzioni idonee al proprio contesto di lavoro? Anche le Indicazioni Nazionali per i licei mettono al centro la libertà di sperimentare e progettare del docente. Le Indicazioni non dettano alcun modello didattico-pedagogico. Ciò significa favorire la sperimentazione e lo scambio di esperienze metodologiche, valorizzare il ruolo dei docenti e delle autonomie scolastiche nella loro libera progettazione e negare diritto di cittadinanza, in questo delicatissimo ambito, a qualunque tentativo di prescrittivismo. La libertà del docente dunque si esplica non solo nell’arricchimento di quanto previsto nelle Indicazioni, in ragione dei percorsi che riterrà più proficuo mettere in particolare rilievo e della specificità dei singoli indirizzi liceali, ma nella scelta 23 delle strategie e delle metodologie più appropriate, la cui validità è testimoniata non dall’applicazione di qualsivoglia procedura, ma dal successo educativo. Dunque, se affidarsi a ricette costruite da altri in contesti diversi dai propri non sembra essere la via migliore per realizzare una buona pratica valutativa delle competenze, una seconda modalità di affronto della questione affidata all’oggettività dei numeri è ancor più inadeguata. È noto, infatti, che gli studi pedagogici recenti e gli sforzi profusi, a livello nazionale e internazionale, sono orientati a mettere in risalto gli aspetti qualitativi della valutazione e la centralità della persona. Nella vasta letteratura scientifica sull’argomento tralasciamo il punto di vista accademico, proprio per la natura del nostro articolo ispirato alle pratiche didattiche dei docenti, per riportare un aforisma quanto mai opportuno. La citazione è ricavata da Heinz von Foester e si riferisce alla complessità dell’azione valutativa che non può e non deve essere ridotta alla sola componente oggettiva: «È sintatticamente e semanticamente corretto dire che le as- 24 serzioni soggettive sono fatte da soggetti. Allora, in modo corrispondente, potremmo dire che le asserzioni oggettive sono fatte da oggetti. Disgraziatamente queste dannate cose non fanno asserzioni»4. La considerazione piuttosto provocatoria serve a ribadire, in generale, che la valutazione formativa delle conoscenze e abilità non deve essere effettuata solo mediante test e verifiche “oggettive”, ma deve tener conto di una pluralità di fattori, come affermano le ultime disposizioni normative5. Se questo principio vale per i contenuti (conoscenze e abilità), vale ancora di più per la valutazione delle competenze che, per loro natura, sono personali, quindi si manifestano in maniera unica e qualitativamente connotata. Tuttavia nel caso in cui si decidesse di ridurre la valutazione delle competenze a una questione di medie matematiche, basterebbe un algoritmo molto semplice per risolvere la questione: ogni disciplina calcola la media numerica dei voti, senza alcuna preoccupazione, peraltro di natura quantitativa, di considerare per esempio, anche la varianza, il verso, la frequenza… e poi si procede a calco- lare la media delle diverse medie delle discipline riunite per assi culturali. Con tale sistema qualsiasi docente (ancor meglio se a farlo è il computer in automatico) potrebbe “comodamente” certificare le competenze maturate alla fine del biennio con la convinzione di aver ben operato nell’interesse della norma, del sistema scolastico, delle famiglie e degli studenti. Con questa procedura però non si capisce quale differenza di fatto esista tra conoscenze, abilità e competenze, dal momento che le ultime altro non sarebbero che una “diluizione” ripetitiva della valutazione attribuita in precedenza a conoscenze e abilità. Del resto è impossibile esaurire tutto il contenuto delle competenze in algoritmi quantitativi, «impedisce quest’esito il carattere contestuale e distribuito di ogni competenza e, inoltre la ribadita circostanza che essa si riferisce 4. G. Armellini, Valutazione (didattica), in sito Cespbo, pag. web Controlessico. 5. Cfr. Regolamento sulla valutazione degli alunni, emanato con D.P.R. n. 122 del 22 giugno 2009; Valutazione periodica degli apprendimenti, C.M. n. 89 del 18 ottobre 2012. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI sempre all’essere integrale di un soggetto dinanzi ai problemi che deve risolvere, ai compiti che deve eseguire e ai progetti che intende personalmente formulare e poi concretizzare»6. Su questa linea è anche, per esempio, l’USR del Piemonte che in un format predisposto dichiara che «è sbagliato ricodificare i voti scolastici in livelli»7. Valutare così sarebbe operazione scorretta almeno per due aspetti: verrebbe a mancare un archivio di prove di competenza indispensabile per progettare e interpretare l’intero percorso di insegnamento-apprendimento e vi sarebbe incoerenza fra dispositivi di misurazione numerica e natura personale e qualitativa della competenza che, invece, richiede strumenti diversi. Anche questa tipologia di valutazione delle competenze è perciò assai lontana dalla lettera e dallo spirito della norma che, sempre nelle Linee Guida, è molto precisa in proposito: Occorre anche aggiungere che non è possibile decidere se uno studente possieda o meno una competenza sulla base di una sola prestazione. Per poterne cogliere la presenza, non solo genericamente, bensì anche specificatamente e qualitativamente, si deve poter disporre di una famiglia o insieme di sue manifestazioni o prestazioni particolari. […]. Di qui l’importanza di costruire un repertorio di strumenti e metodologie di valutazione, che tengano conto di una pluralità di fonti informative e di strumenti rilevativi. È inoltre opportuno ricordare che in un processo valutativo un conto è la raccolta di elementi informativi, di dati, relativi alle manifestazioni di competenza, un altro conto è la loro lettura e interpretazione al fine di elaborare un giudizio comprensivo […]. L’elaborazione di un giudizio che tenga conto dell’insieme delle manifestazioni di competenza, anche da un punto di vista evolutivo, non può basarsi su calcoli di tipo statistico, alla ricerca di Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI alle materie e, quindi, la possibilità di una valutazione comune. In questo caso, diversamente dai precedenti, ci sarebbe l’indubbio merito di un lavoro sviluppato dall’intero consiglio di classe diviso per assi culturali; nell’esito valutativo però si ritornerebbe ad appiattire le competenze sulle conoscenze e abilità. Nel quadro ipotetico delineato non può Rispetto alla valutazione delle compemancare la situazione limite – e in assotenze, un’ulteriore ipotesi seguita da un luto la meno coerente con la deontoloeventuale consiglio di classe diviso in gia del docente – che si attua, molto sottogruppi di docenti, con riferimento semplicemente, nell’ignorare la normaai diversi assi culturali, è quella di predi- tiva. L’istituzione scolastica tuttavia deve sporre a priori una prova comune come produrre un certificato, pertanto, senza modalità di osservazione, valutazione e aver fatto in precedenza alcun percorso certificazione delle competenze. Essa di osservazione e registrazione delle sarebbe l’esito finale della trattazione competenze, in sede di scrutinio, pardi un argomento che presenti tangenze, tendo dal voto attribuito nella propria intersezioni e affinità con tutte le disci- disciplina, “a occhio” ogni docente si pline dell’asse considerato o magari an- esprime in merito al livello di compeche di più assi, in modo da avere la pos- tenza sviluppata dal singolo studente sibilità di valutare alcune competenze e, per alzata di mano, si decide, all’unaritenute trasversali. Ad esempio intorno nimità o maggioranza, quale livello cerall’argomento “I diritti civili”, gli inse- tificare. È evidente che siamo assai longnanti delle diverse discipline realizzano tani dalla norma e dai criteri pedagogici diversi moduli didattici: in storia si con- che la sostengono. siderano, con il taglio indicato dall’elemento comune dei diritti civili, le civiltà Spunti per una riflessione greca e latina; in italiano si propongono Rispetto alle ipotesi sopra formulate baletture di articoli o saggi inerenti ai pro- sterebbe assumere un atteggiamento blemi attuali sempre sullo stesso tema; positivo di ricerca e di progettazione rianalogamente nell’ambito della geo- flessiva per orientare, in maniera coegrafia antropica si sottolinea il valore di rente con la normativa e i principi petali diritti in rapporto ad altri indici di svi- dagogici ad essa sottesi, il processo di luppo (indice economico, sociale…) e valutazione delle competenze. Non si così via per le altre materie. tratta di introdurre nuove istanze o agLa prova finale potrebbe essere costi- giungere nuovi dispositivi al percorso tuita da un questionario comune (a di insegnamento e apprendimento, che struttura aperta, chiusa o ibrida) in rife- la maggior parte dei colleghi svolge con rimento alle conoscenze e alle abilità serietà e dedizione, ma di valorizzare acquisite durante il percorso. Il voto assegnato segnalerebbe anche il livello di competenze raggiunto. Con questa modalità lo sforzo maggiore consisterebbe 6. G. Bertagna, Valutare tutti, valutare ciascuno. Una pronell’individuare un tema tale da per- spettiva pedagogica, La Scuola, Brescia 2004, p. 49. 7. R. Trinchero, Valutazione e certificazione delle compemettere il maggior numero di agganci tenze, in sito USR Piemonte, pag. web In evidenza. medie: assume invece il carattere di un accertamento di presenza e di livello, che deve essere sostenuto da elementi di prova (le informazioni raccolte) e da consenso (da parte di altri). Si tratta, infatti, di un giudizio che risulti il più possibile degno di fiducia, sia per la metodologia valutativa adottata, sia per le qualità personali e professionali dei valutatori. 25 una terza dimensione, quella delle competenze appunto, che già esiste. I nostri studenti, infatti, alla fine del quinquennio superiore maturano personali competenze che potrebbero non essere valorizzate adeguatamente e che rischiano di non costituire la finalità ultima e decisiva dello stesso percorso di studio. La scuola invece si qualifica come istituzione formativa davvero valida se è in grado di “fare sintesi” ragionata di tutte le esperienze che ciascuno studente vive all’interno e fuori di essa. In tal modo si scongiura il rischio di operare inconsapevolmente addirittura in contrasto con quanto richiesto dalla normativa. Se per esempio a un ragazzo si richiede per cinque anni, in ciascuna disciplina, di esprimere in modo individualistico esclusivamente quanto sa o sa fare, difficilmente lo studente in questione svilupperà la competenza di cittadinanza del “collaborare e partecipare”. L’esempio, anche se banale, serve a sottolineare il fatto che la certificazione delle competenze non si improvvisa, né può essere ridotta a una pratica burocratica, ma è l’esito di una progettazione di cui il docente è consapevole e di cui sa rendere conto in ciascuna fase oltre che, quotidianamente, nel suo lavoro didattico. Il presupposto di questo impegno del docente è la conoscenza di 26 quanto si legge nella normativa, vale a dire il Profilo educativo culturale e professionale dello studente in uscita dal secondo ciclo di istruzione e formazione, le Linee guida per gli istituti tecnici e per gli istituti professionali e le Indicazioni nazionali per i licei. Sullo stesso concetto di valutazione occorre avere chiarezza circa i termini, anche normativi, del problema, considerando le recenti disposizioni ministeriali in tale materia8. Il secondo passo, acquisita la conoscenza non solo della norma, ma anche dei principi pedagogici che la ispirano, consiste nel progettare per competenze, vale a dire condividere con i colleghi del consiglio di classe la preoccupazione di spostare l’accento da contenuti e abilità – che sono sempre strumenti parziali e mai fini – a un sapere che è anche un modo, tutto personale, di integrare, possedere e soprattutto utilizzare nell’agito le conoscenze e le abilità acquisite in un determinato contesto di vita, di studio o di lavoro. Da questo punto di vista si tratta di capovolgere il modello del “modulo interdisciplinare”: non si dovrebbe partire da un argomento a priori visto come contenitore di discipline, ma da contesti di vita, di lavoro, di esperienza vissuti dagli studenti all’interno dei quali ciascun docente rintraccia le competenze che si possono manifestare in azione. In tale ottica assume grande importanza molto di ciò che già si realizza nella scuola in termini di progetti, alternanza, stage, iniziative culturali… Sempre per valorizzare l’esistente, l’accento posto sulle competenze non significa “inventarsi” strategie o situazioni didattiche particolari, ma supportare il lavoro quotidiano con una riflessività più affinata che chiama in causa da protagonisti gli studenti e il docente con loro. Insieme, nella relazione educativa, insegnanti e alunni costruiscono una modalità di fruizione del sapere organica e personale per cui ciò che di nuovo si acquisisce diventa parte di un patrimonio di cultura e di esperienza originale e duraturo nel tempo. In tal senso ogni persona diventa risorsa per se stessa e per gli altri in un orizzonte di collaborazione e condivisione di comuni responsabilità. Maria Giovanna Fantoli, IIS “Maironi da Ponte”, Presezzo (BG) Ornella Gelmi, ISIS “Valleseriana”, Gazzaniga (BG) 8. D.P.R. 22 giugno 2009, n. 122 Regolamento recante coordinamento delle norme vigenti per la valutazione degli alunni e ulteriori modalità applicative in materia, ai sensi degli articoli 2 e 3 del D.L. 1 settembre 2008, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla L. 30 ottobre 2008, n. 169. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI Il Consiglio di Stato afferma che copiare alla maturità è lecito? Francesco Magni L’ARTICOLO COMMENTA LA SENTENZA DEL CONSIGLIO DI STATO (N. 4834/2012) SUGLI ESAMI CONCLUSIVI DEL II CICLO: NON SI TRATTA PROPRIAMENTE DI LEGITTIMAZIONE DI COMPORTAMENTI SCORRETTI. U na recente sentenza del Consiglio di Stato (la n. 4834/2012) ha ribaltato un precedente verdetto del Tar della Campania (n. 3726/2012), annullando il provvedimento di esclusione dall’esame di Stato di una studentessa che era stata sorpresa a copiare da uno smartphone durante le prove. La candidata è stata immediatamente esclusa dalla procedura in applicazione dell’articolo 12, comma 5, dell’O.M. n. 41 del 20121, nonché dell’articolo 13 del D.P.R. n. 323/1998 che disciplina la materia dei concorsi pubblici. In verità, durante la fase cautelare del giudizio, la ragazza è stata comunque ammessa a sostenere le prove suppletive, riuscendo a superarle con il punteggio di 75/100. Nel frattempo, però, il TAR della Campania rigettava il ricorso della giovane, confermando così l’esclusione dagli esami. La ragazza ha deciso quindi di adire il Consiglio di Stato il quale ha ribaltato il verdetto. I giudici di Palazzo Spada, infatti, hanno in primo luogo contestato l’esatta «applicabilità agli esami di stato delle sanzioni previste per i pubblici concorsi, in caso di violazione delle regole per lo svolgimento della prova». Nel caso dell’esame di maturità, infatti, la commissione si trova a giudicare un candidato che deve essere valutato per tutti i risultati registrati nel corso degli anni della scuola secondaria: il sistema Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI dei crediti, non a caso, ha la finalità di rappresentare la qualità dei progressi e la resa del candidato “maturata” nel corso degli anni. Altro accade in sede concorsuale, dove i candidati vengono giudicati per le sole capacità dimostrate nel corso delle prove di selezione: il tentativo di copiatura, in questo caso, non può che comportare l’immediata esclusione perché sia garantita la parità di trattamento tra i candidati. Il supremo giudice amministrativo evidenzia innanzitutto la diversità del c.d. esame di maturità rispetto a qualsiasi altro concorso pubblico, sancendo quindi una sorta di specialità della prima fattispecie. Al contrario, il Tar campano aveva confermato l’esclusione fondando la sua decisione proprio sull’esatta coincidenza delle due tipologie di prove, richiamando la normativa in materia (si vedano in particolare il D.Lgs. n. 297/1994; l’art. 3 della L. 425/1997 e il già citato art. 13 del D.P.R. 323/1998). Inoltre, i giudici amministrativi campani avevano fatto discendere una diretta vincolatività delle sanzioni previste (in questo caso l’esclusione), portando a sostegno di questa interpretazione anche alcune precedenti sentenze dello stesso Consiglio di Stato2. Pur di fronte a questi riferimenti alla sua stessa (recente!) giurisprudenza, il Consiglio di Stato ha mutato indirizzo, accogliendo la tesi della difesa della ragazza che aveva evidenziato il carattere non vincolante della sanzione in questione. Quest’ultima interpretazione appare più coerente con lo stesso dettato normativo che, in verità, nulla dice sulle eventuali sanzioni da applicare3. La misura repressiva prevista nella sola O.M. avrebbe quindi carattere «non vincolante»: da ciò deriverebbe una «conseguente esigenza» di una «più approfondita valutazione, in rapporto alle circostanze di fatto in concreto rilevabili ed all’intero curriculum scolastico della candidata, pacificamente rilevante in sede di esame di maturità». 1. L’O.M. intitolata Istruzioni e modalità organizzative ed operative per lo svolgimento degli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria di secondo grado nelle scuole statali e non statali. Anno scolastico 2011/2012, all’art. 12 comma 5 prevede testualmente: «I candidati saranno pertanto invitati a consegnare alla commissione, nei giorni delle prove scritte, telefoni cellulari di qualsiasi tipo […]. I candidati medesimi saranno avvertiti che nei confronti di coloro che fossero sorpresi ad utilizzare le suddette apparecchiature è prevista, secondo le norme vigenti in materia di pubblici esami, la esclusione da tutte le prove». 2. Si fa riferimento in particolare alla sentenza n. 6102/2008 con cui la VI sezione del Consiglio di Stato aveva sostenuto che «la commissione non gode di discrezionalità (neppure quella di tipo tecnico di cui essa dispone in sede di valutazione delle prove di esame) ma la sanzione dell’esclusione è un atto del tutto vincolato». 3. Come ha riconosciuto anche lo stesso Tar campano nella sentenza già menzionata, «le norme che disciplinano le prove dell’esame di Stato (in particolare, la L. 425/1997) nulla prevedono circa le sanzioni da adottare in caso di violazione delle regole di svolgimento della prova, sicché è del tutto ragionevole applicare le norme di cui al D.P.R. 323/1998». 27 PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI Nel caso di specie, perciò, non si può ignorare né da una parte «il brillante curriculum scolastico della candidata, (ammessa all’esame con un giudizio che ne evidenziava «le notevoli capacità, il personale vivace interesse e il costante costruttivo impegno»); né, dall’altra, «le peculiari circostanze, che caratterizzavano il fatto contestato (svolgimento di una delle tracce previste per la prova di italiano e solo al termine di tale prova inizio di un nuovo elaborato, con l’ausilio appunto del palmare, per uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute)». La notizia di una tale decisione è stata accolta dai media con grande sdegno4, i giudici di Palazzo Spada sono stati accusati di legittimare e giustificare “per legge” gli studenti “copioni”, in spregio alle normali regole di civile comportamento. In realtà, il carattere non vincolato della sanzione in subiecta materia non esclude – di per sé – la bocciatura finale all’esame di Stato e consente comunque, nei casi limite, di arrivare anche all’esclusione del candidato che incorra in condotte fraudolente. Ma tale decisione non può essere automatica ed è rimessa al giudizio della commissione che «non dovrà prescindere dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente» tenendo conto, inoltre, delle circostanze del singolo caso concreto5. Insomma, con questa decisione, il Consiglio di Stato non legittima chi trova facili scorciatoie durante gli esami di maturità; molto più semplicemente evidenzia l’importante e insostituibile ruolo della commissione d’esame, l’unica in grado di svolgere la delicata valutazione che deve sempre essere collegata a «un’ampia ed esaustiva motivazione» di tutte le circostanze ed elementi che concorrono a stabilire il grado di maturità o meno degli studenti. 28 Palazzo Spada (Roma), Sede del Consiglio di Stato. Il Consiglio di Stato con questa sentenza, anche correggendo una propria precedente giurisprudenza forse un po’ contraddittoria6, ricolloca al posto giusto l’intera fattispecie, evitando così di scadere in un orientamento iper-formalistico, che avrebbe realizzato il “tremendo” principio summum jus summa iniuria. Francesco Magni Università di Bergamo 4. Su tutti si veda il quotidiano Libero che il 3 ottobre 2013 riportava in prima pagina un articolo a firma di Alessandro Dell’Orto intitolato Copiare alla maturità si può. Per legge. Basta essere studenti modello. 5. Questo conformemente alla stessa normativa che, all’art. 3 della L. 425 del 10 dicembre 1997, precisa come la prova sia finalizzata ad accertare «le competenze e le conoscenze acquisite […] in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capcità critiche del candidato» e all’art. 13 del D.P.R. 323 del 1998 secondo cui il superamento dell’esame di Stato costituisce attestazione «delle competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite», considerando anche i crediti formativi acquisiti nel corso degli studi. 6. Si fa qui riferimento in particolare alla sentenza n. 391 del 27 gennaio 2012, con la quale la VI sezione del Consiglio di Stato aveva ritenuto legittima l’esclusione di un candidato il cui telefono cellulare aveva squillato durante la prova d’esame in conseguenza dell’attivazione della sveglia, senza che fosse stato ritenuto necessario dimostrarne l’utilizzo al fine di mettersi in contatto con l’esterno. L’esclusione in questo caso era stata giudicata corretta perché il presidente della commissione d’esame, in apertura della prova, aveva invitato tutti i candidati «alla consegna obbligatoria di qualsiasi strumento di comunicazione con l’esterno», segnalando le specifiche conseguenze della violazione di tale prescrizione. In quest’ultimo caso il collegio aveva adottato un criterio di giudizio molto rigido in quanto da un lato la sanzione dell’espulsione veniva ritenuta inderogabile ed immediata; dall’altra veniva de facto equiparata la mera detenzione del cellulare al suo effettivo utilizzo per fini comunicativi e, quindi, fraudolenti. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI Potenzialità di una riforma dal basso Paolo M. Pumilia - Helga Fiorani - Angelo Chiarle È IMPORTANTE CHE SIANO RESE NOTE LE ESPERIENZE SIGNIFICATIVE CHE, IN MOLTE SCUOLE SECONDARIE DI SECONDO GRADO, COINVOLGONO LA SOCIETÀ LOCALE NELL’EDUCAZIONE DI ADOLESCENTI E GIOVANI. LA DIFFUSIONE DELLE INFORMAZIONI E LA DISCUSSIONE COLLETTIVA RENDEREBBERO TALI PRATICHE PIÙ EFFICACI E DURATURE. R iconoscere che sono molte le parti in gioco nella costruzione di un ambiente educativo per adolescenti e giovani porta necessariamente a ripensare l’intera impostazione dell'attuale sistema, nel quale tutta la attività formativa e valutativa si svolge in un unico luogo ed è affidata a un ristretto insieme di professionisti. Coinvolgere le risorse culturali della comunità e stimolare nei giovani l'impegno personale a favore della realtà sociale in cui vivono dovrebbero essere priorità, rispetto alle questioni di aggiornamento dei contenuti delle materie di insegnamento e alla modernizzazione di metodologie e strumenti didattici. Quale sia la strada da percorrere per una reale trasformazione del sistema educativo non è possibile stabilirlo, al momento, ma certo faremmo meglio a guardare lontano, impegnandoci per la costruzione di un ambiente in grado di far scaturire motivazioni e di far sentire ciascuno parte attiva della comunità che abita. Progetto di “Service learning” a Batam (Indonesia), 15 gennaio 2009. nenti ad associazioni culturali, enti civici locali. In ogni sperimentazione, sono comunque i singoli docenti a svolgere il ruolo di punto di riferimento, di perno attorno a cui l’attività educativa si sviluppa. Si comprende perciò quanto sia importante che i docenti particolarmente sensibili all’impegno educativo, incoraggiati dalle realtà sociali e dalle istituzioni civiche locali, si rendano disponibili per un coinvolgimento diretto. Una comunità civile più strettamente La situazione di oggi legata alla educazione dei giovani, proCertamente non esiste un solo percorso, durrebbe diversi importanti vantaggi. ma diversi, come ci viene indicato dalle Per prima cosa, l’operare del docente molte sperimentazioni in corso, nelle sarebbe maggiormente apprezzato alquali le responsabilità educative sono l'esterno; inoltre crescerebbero di molto condivise tra docenti, in prima persona, le opportunità per impegnare i giovani studenti, istituzione scolastica, coordi- in ruoli di responsabilità, e si aprirebbe namenti dei genitori, adulti apparte- la strada a nuove metodologie didattiNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI che, tra cui quella già sperimentata del “service learning”1. Infine, nei casi in cui si attuasse una riorganizzazione del sistema scolastico, ai docenti si aprirebbero oppurtunità per contribuire alla crescita culturale della società locale in cui operano. Valorizzare le esperienze in corso Nonostante l’urgenza della priorità educativa sia ormai avvertita da molti, le risposte, ancora disperse, poco collegate e spesso di breve durata sono insufficienti ad innescare un cambiamento deciso e diffuso. Per accrescerne l’effica- 1. Sulla metodologia del “service learning”, si veda M. Nieves Tapia, Educazione e solidarietà. La pedagogia dell’apprendimento-servizio, Città Nuova, Roma 2006. 29 cia, sarebbe necessario il riconoscimento di principi fondamentali comuni e la condivisione di un orizzonte entro cui armonizzarsi e trovare forza. Un centro di osservazione delle iniziative in corso potrebbe servire allo scopo. Esso avrebbe il compito di diffondere e di sostenere gli esempi educativi migliori, evidenziando le potenzialità del tessuto sociale e le risorse che possono essere risvegliate entro la comunità civile in cui la scuola si trova. Le questioni da prendere in considerazione nel lavoro analitico potrebbero essere condensate nei due gruppi seguenti: Didattica in classe - Individuare le modalità didattiche che favoriscono la formazione del carattere, coltivano il senso di responsabiltà e incoraggiano il lavoro dello studente in autonomia. - Individuare le attività nelle quali ogni studente mette le proprie attitudini e competenze al servizio dei compagni. Relazioni con l'esterno - Individuare come le instituzioni civiche locali (municipio, consorzi di comuni, unità sanitaria e altro) e culturali 30 possano contribuire all’educazione e alla formazione in autonomia dei giovani. - Incoraggiare il ruolo culturale dei docenti nella società in cui operano. - Incoraggiare l'impegno degli studenti a favore della società civile in cui vivono. Un’impresa del genere potrebbe partire solo dalla base, da un accordo tra chi opera sul campo, poiché è a questo livello che ritrovarsi intorno a principi di fondo comuni, indipendentemente da credenze e culture, è più facile, con la conseguenza che le proposte saprebbero essere rapidamente adattate alle più diverse situazioni. La formazione tra pari Un esempio di riorganizzazione della didattica scolastica entro cui si potrebbero svolgere attività con rilevante valore educativo, senza perdere di vista le finalità formative dello specifico percorso curricolare, potrebbe basarsi sulla formazione tra pari. Se infatti è possibile apprendere con buon profitto anche in assenza del docente, come sperimentato in molte scuole2, allora niente ci impedisce di pensare che simile risultato possa essere ottenuto anche in spazi diversi da quelli istituzionali. Al di fuori del perimetro scolastico, gli studenti potrebbero organizzarsi secondo tempi e modi stabiliti autonomamente: ad esempio, in casa dei genitori o di un adulto vicino alla famiglia di uno studente, oppure nelle sedi messe a disposizione dall’amministrazione comunale o da associazioni culturali, convenientemente presidiate da persone di fiducia. Soluzioni di questo tipo, oltre a responsabilizzare maggiormente gli studentitutor, rafforzare i rapporti di fiducia e alleggerire notevolmente l’impegno diretto del docente con gli studenti, avrebbero anche il vantaggio di coinvolgere attivamente altre persone ed enti. In tale ambiente educativo esteso, le realtà locali (sia private che pubbliche) potrebbero chiedere in contraccambio agli studenti l’assunzione di incarichi precisi, all’interno della propria organizzazione, secondo un piano didattico concordato con il docente di riferimento. Le occasioni, le più varie: un’associazione sportiva può offrire ad alcuni studenti un impegno educativo nei confronti dei soci, un’associazione caritativa può chiedere l'aiuto per l’assistenza a persone in difficoltà, la Usl può aver necessità di un impegno di “service learning”, come per la analisi dell'acqua pubblica. E così via. Paolo M. Pumilia Istituto “Mattei”, Rho (MI) Helga Fiorani “Greenleaf ” Primary School Londra Angelo Chiarle Liceo Scientifico “Darwin”, Rivoli (TO) 2. Cfr. Miur Veneto, Noi ci Siamo! Percorsi di peer education, 2011. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI Studi STUDI Studio sui terremoti di Mariabianca Cita Sironi Non si è mai parlato tanto di terremoti in Italia quanto negli ultimi anni, con una copertura mediatica che ha rivelato gravi mancanze ed errori in un paese ad altissimo rischio sismico, con un record storico straordinariamente lungo e ben documentato, ma ignorato o male interpretato. Geologi, sismologi e ingegneri, ossia tre diverse categorie di esperti sono coinvolte nel problema e purtroppo rivelano una mancanza di sinergie e di interdisciplinarità del tutto deprecabili e dannose: - i geologi – che sono gli unici a conoscere la storia della Terra e del territorio studiandone la composizione e l’evoluzione – sono accusati dai sismologi di non conoscere la matematica e di essere dei pressapochisti, - i sismologi ignorano spesso completamente la struttura geologica del territorio e non contestualizzano le loro misurazioni delle accelerazioni massime superficiali realizzate con i sismografi in un realistico quadro geodinamico ricavato dalle sezioni geologiche prodotte dai geologi, - gli ingegneri, che sono responsabili della stabilità degli edifici e di altri manufatti, sono spesso fuorviati dalla mancanza di dati disponibili sulla pericolosità sismica dei siti e dal variare della normativa riguardante la categorizzazione prodotta nell'ultimo decennio dall’INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia). Scopo di questo studio è quello di cercare di fare chiarezza su quanto si sa e non si sa su questo spinosissimo argomento, su quanto è scientificamente certo e quanto è ancora paradigma, su Earthquakes are a natural phenomenon that is typical of the Earth and testify of a dynamic nature of our planet. They are very common in Italy, because of its complicated and relatively young geological evolution, and its still active neotectonic activity. More than 10.000 earthquakes occur each year in our country. This study is articulated in three parts: the first is a general introduction to the origin of the so called plate tectonics model that in the sixties revolutionized the Earth related sciences, from Volcanology to Geochemistry, from Geophysics lato sensu to Mineralogy, from Oceanography to marine Geology, from Astrophysics to Stratigraphy, from Petrology to Physiography. The oceans, that represent more than 70% of the Earth surface, were almost unknown prior to the initiation of the Deep Sea Drilling Program in 1968, which has been (and still is) so successful that we now have a record of 1380 drillsites located in all the worlds oceans and a collection of rocks and sediments from deep sea cores some 350 km long. The second part is concentrated in the earthquakes, their characters expressed in various geodynamic settings, their predictability, the difference between risk and hazard, the probabilistic approach and its shortcomings (generalized understimation). Italy has a long historical record, because of ancient civilations that used stones for their constructions. Comments on several important earthquakes occurred in Italy in the last 160 years (even with magnitude higher than 7), with special attention to the more recent ones, L’Aquila 2009 and Emilia-Romagna 2012 , both revealing important mistakes in the planning and control of antiseismic buildings. A comparison of the situation in Italy and Japan, the latter 32 Studi STUDI quanto è stato studiato e documentato, ma è ignorato dalle stesse autorità competenti che hanno commissionato le varie ricerche. Dei tre articoli, due escono dalla mia penna, dopo lunghe consultazioni con parenti, colleghi e amici appartenenti a diverse generazioni per trovare un tono adatto sia agli studenti che frequentano le scuole secondarie che ai loro insegnanti di materie scientifiche, vecchi e giovani. Il primo, La rivoluzione delle geoscienze degli anni Sessanta, commenta le conoscenze di base della geologia moderna, indispensabili per affrontare e capire i vari scenari riguardanti l’origine degli eventi sismici. È accompagnato da un sintetico glossario di lemmi ritenuto utile poiché a queste materie è data scarsa importanza nella scuola e negli adulti si nota una diffusa ignoranza. (In questo numero.) Il secondo articolo, intitolato La mitigazione del rischio sismico: mito o realtà futura?, affronta i seguenti argomenti: Commenti sui principali terremoti italiani avvenuti negli ultimi 160 anni (in questo numero) - Prevedibilità dei terremoti e rischio sismico (nel prossimo numero) - Terremoti e maremoti (nel prossimo numero) - Confronto fra Italia e Giappone (nel prossimo numero) - Epilogo (nel prossimo numero). Il terzo articolo (nel prossimo numero) intitolato semplicemente Terremoti è scritto dal professor Carlo Doglioni che insegna Geologia strutturale e Geodinamica all'Università di Roma La Sapienza ed è Presidente della Società Geologica Italiana. Si articola nei seguenti capitoli: Cosa è la magnitudo? - Quanti terremoti? - Modello - Terremoti e rotazione terrestre - C’è modo di prevederli? - Perché cadono gli edifici. subject to more frequent and much more energetic earthquakes, demonstrates that the present procedures used in the construction of maps of seismic risk are inadequate because are founded only on a single parameter measured by seismographs (maximum horizontal acceleration at ground surface). Seismic engineering made important progress in the last several years, and the adoption of modern techniques allows to build tall buildings everywhere. But generally speaking, and with special reference to the italian situation, a better cooperation among geologists, seismologists and engineers is required. The third part is an updated synthesis of the state-of-the-art of the research on earthquakes with an optimistic attitude because of the important results obtained after the 25 years long experience of GPS observations that allow to discriminate continuous, unidirectional movements of the ductile upper mantle from the parossistic events caused by the sudden release of energy accumulated in tens or hundreds of years in the brittle continental crust. Statistical analysis demonstrates that the higher energy occurs in areas of low deformation recorded along active faults which are locked and loading energy. The magnitude of earthquake depends on the depth at which rocks change behavior from elastic to plastic, the volume involved by movement and the amount of displacement during the seismic event. The present probabilistic approach followed for the prediction of seismic events might be improved in the near future so that not only the location, but also eventually the approximate timing of the event may be anticipated if a careful monitoring of the sources close to the seismogenetic faults recognized at the surface is available. 33 STUDI La rivoluzione delle geoscienze degli anni Sessanta L a Geologia è nata come scienza naturale insieme alla Botanica e alla Zoologia ma, a differenza di queste, studia oggetti inanimati come le rocce e i fossili. Non è quindi una scienza sperimentale all’origine, ma lo sta diventando da quando si è riusciti a riprodurre in laboratorio condizioni altissime di temperatura e di pressione (per esempio in Petrologia sperimentale e in Geologia strutturale) mai misurate precedentemente in natura, ma riconosciute in rocce formatesi in condizioni eccezionali, come la stisciovite nei crateri di impatto o le pseudotachiliti lungo i piani di faglia. Nel mondo occidentale lo sviluppo storico della Geologia è stato ritardato dall’atteggiamento della Chiesa cattolica riguardo alla creazione del mondo secondo la Genesi. Man mano che si accumulavano le osservazioni geologiche, e che le successioni degli strati fossiliferi venivano ricostruite nei vari continenti, il tempo necessario al loro accumulo appariva enormemente maggiore di quello stimato, e presentato come verità inconfutabile. Poi vennero fatte scoperte importanti come quella della radioattività naturale che rese possibile datare anche rocce non fossilifere e non stratificate, ma contenenti minerali radioattivi, dei quali si conosceva il tempo di decadimento. Nonostante queste scoperte e altre pure importantissime che vedremo più avanti, è bene ricordare che ancora oggi vi sono negli Stati Uniti istituti universitari che rifiutano l’evoluzione del mondo organico e rifiutano il Darwinismo. Non vogliamo certo fare qui la storia della Geologia, ma è bene ricordare che molte persone istruite non hanno idea di quale sia l’età della Terra e si rifiutano di considerare significativa questa nozione, come se la previsione del futuro non dovesse derivare dalla conoscenza e dalla corretta interpretazione del passato… La Geologia oggi comprende numerose subdiscipline, e si è arricchita cooperando con scienziati provenienti da scienze esatte come la Fisica (con la Geofisica), la Chimica (con la Geochimica), la Matematica (con la Geomeccanica e la Geodinamica). È importante qui ricordare che oltre il 70% della superficie terrestre è ricoperto dal mare e che tutte le ricostruzioni del passato erano limitate alle parti esplorate delle terre emerse. 34 In altre parole, prima che iniziasse l’esplorazione degli oceani la base conoscitiva era limitatissima. Basti ricordare che quando Alfred Wegener pubblicò nel 1912 la sua importante teoria sulla deriva dei continenti proponendo come modello l’Oceano Atlantico per l’analogia fra l’andamento delle linee di costa nei due lati opposti dell’oceano e le analogie geologiche e delle faune fossili riscontrate in Africa e in sud America, non si aveva alcuna idea dell’esistenza della Dorsale medio-atlantica, e i paleontologi erano costretti a ipotizzare improbabili ponti continentali per spiegare la supposta migrazione di faune che non erano capaci di attraversare a nuoto un oceano… La storica circumnavigazione degli oceani effettuata dalla britannica Challenger (1872-1876) è stata fondamentale per lo sviluppo scientifico della Geologia marina e dell’Oceanografia. Ma il salto di qualità è avvenuto dopo la fine della seconda guerra mondiale, terminata con il primo uso della bomba atomica a Hiroshima e Nagasaki. Alla guerra guerreggiata seguì la guerra fredda, con l’uso di sommergibili nucleari e lo sviluppo rapidissimo di nuove tecnologie. Navi oceanografiche appartenenti alle maggiori istituzioni oceanografiche inglesi e americane come la Woods Hole Oceanographic Institution (WHOI) e il Lamont-Doherty Earth Observatory (L-DEO) della Columbia University sul versante atlantico, e la Scripps Institution of Oceanography (SIO) sul versante pacifico cominciarono sistematicamente a percorrere rotte parallele ed equidistanti fra loro dirette estovest e ovest-est, registrando tutto quello che si riusciva a registrare con le tecnologie e con gli strumenti disponibili inventati ad hoc (radar, sonar, magnetometri, sonde geotermiche) e sistemi di navigazione d’avanguardia. La prima importante pubblicazione che proponeva il modello conosciuto come Seafloor Spreading è del 1963 (Vine e Matthews, 1963) e descriveva l’esistenza di anomalie magnetiche in corrispondenza delle dorsali oceaniche. Nello stesso anno von Herzen e Uyeda (1963) affrontavano un altro problema utilizzando delle sonde lanciate da una nave oceanografica, che misuravano il flusso di calore nei metri più superficiali dei sedimenti che ricoprono il fondo del Pacifico orientale rivelando grosse anomalie geotermiche. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI STUDI Come esempio significativo dell’ambiente culturale nel quale si andavano sviluppando le nuove idee che – partendo da serie di osservazioni in diversi campi delle geoscienze e apparentemente indipendenti l’una dall’altra – arriveranno alla formulazione della cosiddetta Plate Tectonics, ricorderò l’ammiraglio Herry Hess che si era laureato in Geofisica e durante la guerra aveva comandato una nave mercantile, usando per la prima volta i sonar che registravano in continuo mediante riflettori acustici la fisiografia del fondale marino. Passato a un istituto di ricerca alla fine della guerra, e aggiungendo alla strumentazione di bordo un magnetometro che misurava l’intensità del segnale magnetico impresso nelle rocce, Hess rivelò che, lungo le rotte parallele e ravvicinate perpendicolari all’allungamento delle dorsali, si osservavano anomalie magnetiche alternativamente positive e negative del tutto simmetriche sui due lati della depressione centrale (rift valley). Ricordo benissimo una memorabile conferenza di Herry Hess tenuta nel 1966 all’Accademia dei Lincei che gli aveva conferito per la prima volta il premio internazionale Feltrinelli per la Geologia sulla nuova teoria del Seafloor Spreading. Nello stesso tempo Bruce Heezen e Marie Tharp al Lamont si dedicavano a raccogliere sistematicamente tutti i dati batimetrici registrati in tutti gli oceani del mondo per compilare le magnifiche carte interpretative, a colori, di grande impatto visivo. Si veniva così costruendo negli anni sessanta la grande teoria riformatrice che rinnovò dalle fondamenta le scienze geologiche. Si conoscevano già molti dati essenziali riguardanti il nostro pianeta come dimensione, densità media, presenza di un campo magnetico bipolare, parametri orbitali, costituzione interna formata da involucri concentrici con un nucleo centrale metallico ad alta temperatura e pressione, differenza fra crosta e mantello e differenza composizionale, di densità e di spessore fra crosta continentale e crosta oceanica. A partire da quando divenne operativa una rete sismica internazionale, la distribuzione degli ipocentri dei terremoti sembrava cadere in corrispondenza di quelli che logicamente potevano rappresentare i limiti fra le grandi placche litosferiche. Anche la presenza di vulcani attivi (sottomarini o subaerei) e la composizione dei fusi che li alimentano forniscono degli importanti segnali geodinamici. La registrazione sismologica di ipocentri molto profondi (fino a un massimo di 700 km) in stridente contrasto con lo spessore della litosfera (che di regola non supera i 100 km, costituendo l’involucro esterno della Terra) ha rappresentato Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI un grosso problema interpretativo finchè non si è arrivati a ipotizzare una inflessione della litosfera, chiamata successivamente Piano di Benioff accompagnata da una forte anomalia geotermica negativa con un gradiente tale da originare delle correnti convettive nel mantello . In questa visione globale del pianeta, dove fisiografia, vulcanesimo, sismicità, distribuzione delle anomalie magnetiche e geotermiche contribuivano a delineare i limiti fra le maggiori placche o zolle litosferiche, la parte di gran lunga meno conosciuta era quella nascosta sotto il fondo del mare (il 70% della superficie terrestre). Venne ideato il progetto Mohole, che si proponeva di raggiungere la discontinuità di Mohorovicic (al limite crosta/mantello) partendo da uno zatterone sul quale era stata montata una sonda come quelle usate nella ricerca petrolifera. L’esperimento fu effettuato nel Golfo del Messico, non raggiunse la Moho, ma dimostrò la fattibilità del progetto e fu così convincente da meritare il pieno appoggio della National Science Foundation degli Stati Uniti sostenuto dalle Joint Oceanographic Institutions Deep Earth Sampling (JOIDES). Nel giro di pochi mesi venne attrezzata una nave petrolifera semovente, con velocità di crociera di 10 nodi, dotata di un innovativo sistema di posizionamento dinamico (figura 1) in grado di operare su battenti d’acqua fino a 5000 m, dotata di un derrick (torre di perforazione) alto 50 metri e di una sonda a rotazione in grado di raggiungere il basamento oceanico dopo avere attraversato e carotato la copertura sedimentaria. Furono finanziati inizialmente diciotto mesi di operazioni da effettuare in nove crociere di due mesi ciascuna, quattro Fig. 1. La nave da perforazione Glomar Challenger che ha perforato i primi 624 pozzi del grandioso programma (Deep Sea Drilling Program) dal 1968 al 1983. 35 STUDI nell’Atlantico e cinque nel Pacifico. L’impresa (chiamata DSDP per Deep Sea Drilling Project) ebbe inizio nel 1968. Fu un successo fulminante, e la piena riuscita è provata dalla quasi incredibile longevità del programma, ancora attivo oggi dopo diversi cambiamenti, nonostante la gravissima crisi economica che ha colpito i paesi occidentali. Già le prime due crociere (Leg 2 New York-Dakar e Leg 3 Dakar-Rio de Janeiro) diedero piena conferma alla teoria della tettonica globale, per aver raggiunto il basamento oceanico dopo aver attraversato i sedimenti pelagici che lo ricoprivano in siti ubicati sui due lati della Dorsale Medio-Atlantica sia a nord che a sud dell’equatore, con età progressivamente più antica man mano che ci si allontanava dalla cresta della dorsale. Sono 1380 i pozzi perforati finora, in tutti gli oceani del mondo. I sedimenti e le rocce raccolti dai carotaggi hanno una lunghezza di oltre 350 km. Sono conservati in grandi celle frigorifere e sono disponibili per ulteriori studi da parte di tutti gli scienziati del mondo In conclusione, negli ultimi 40/50 anni sono stati fatti enormi progressi nel campo delle scienze cosiddette naturali e si è arrivati alla conclusione che la Terra è un sistema complesso, che comprende biosfera, atmosfera, idrosfera, criosfera, litosfera, mantello e nucleo. L’esplorazione diretta e mediante satelliti dei pianeti più vicini del Sistema solare, che hanno la stessa origine e la stessa età della Terra, ha permesso agli astrofisici di fare confronti molto ben documentati con Venere e Marte (Flamini, 2013, vedere la tabella 1). L’esplorazione delle calotte glaciali in Antartide e in Groenlandia mediante perforazioni che hanno attraversato i ghiacciai, spessi fino a tre chilometri, fino al basamento e gli studi dettagliatissimi compiuti sui componenti atmosferici intrappolati nelle carote di ghiaccio hanno permesso di ricostruire la parte più recente della storia climatica della Terra (Frezzotti e Orombelli, 2013). L’esplorazione degli oceani ha dimostrato che tutti gli oceani del mondo (Atlantico, Pacifico, Indiano, Artico) sono relativamente recenti e le loro porzioni più antiche non superano il Giurassico medio (160 milioni di anni), che le parti più antiche degli oceani sono anche le più profonde e si trovano in prossimità delle fosse oceaniche dove avviene la subduzione oppure – dove gli oceani sono in espansione – nelle parti distali rispetto alle dorsali. Detto questo, prima di addentrarci nella trattazione dei terremoti storici e in particolare di quelli recenti avvenuti in Italia e per facilitare la comprensione di una terminologia che non è familiare a molte persone colte e per richiamare dati e concetti essenziali per mettere a fuoco un grosso problema tipicamente interdisciplinare come quello dei terremoti e della loro prevedibilità, ho scelto di fare seguire una specie di Glossario con un numero limitato di lemmi, presentati in ordine alfabetico. Glossario Astroblemi. Sono chiamati i crateri di impatto creati dalla caduta di meteoriti di grandi dimensioni che, provenendo dallo spazio a grande velocità, sono in grado di attraversare l’atmosfera fino a schiantarsi sulla superficie terrestre. Crateri di questo tipo differiscono dai crateri vulcanici per la forma, il rilievo, la mancanza di lave e anche per la presenza di shatter cones (coni di esplosione) e di metamorfismo di altissima pressione. Questi caratteri sono stati riconosciuti sulla superficie terrestre a partire dal 1906, quando fu ipotizzata una origine extraterrestre per il Meteor Crater vicino a Phoenix, in Arizona, nel plateau del Colorado. La conferma venne nel 1960 da una perforazione effettuata al fondo del cratere dove si era formato un lago temporaneo, poi disseccato, durante l’ultimo periodo di espansioni glaciali, circa 50.000 anni fa. Oggi sono noti 182 crateri di impatto sulla Terra (Flamini, in stampa), specialmente in aree desertiche. Da lunghissimo tempo era nota invece la presenza di astroblemi sui pianeti solidi Marte e Luna. Distanza dal Sole Raggio Densità Temperatura Temperatura (in milioni di km) (in km) (in gradi K°) (in gradi C°) 36 Atmosfera Venere 108 200 6 052 5.2 737 +474°C molto spessa CO2 96% Terra 149 600 6 378 5.5 290 +17°C Azoto 78% Ossigeno 21% Marte 227 240 3 398 3.9 220 -57°C molto sottile Azoto 95% Tab. 1: (da Flamini 2013, modificato) Confronto fra le caratteristiche che differenziano alcuni pianeti solidi del sistema solare (Venere, Terra e Marte) elencati in ordine di distanza crescente dal Sole. La temperatura inaspettatamente elevata di Venere è stata misurata dal robot lanciato dalla missione Curiosity nel 2012. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI STUDI Autoctono, alloctono. Si dice di terreni e unità di diverso tipo (litologico, stratigrafico, tettonico) che giacciono nello stesso sito dove si sono formati (autoctono) oppure in un sito diverso (alloctono). Il meccanismo di trasporto dei terreni alloctoni può essere vario, e la traslazione può avere dimensioni chilometriche o anche di diverse decine di chilometri. Calore terrestre. La temperatura media della Terra misurata in superficie è di 17C° e fino alle profondità raggiunte dalle perforazioni il gradiente geotermico, ossia l’aumento di temperatura in funzione della profondità, è di circa 3°C ogni 100 m, a partire da uno strato superficiale dello spessore di pochi m, che risente della temperatura esterna e delle variazioni stagionali. Il pozzo più profondo perforato per scopi scientifici è quello della Penisola di Kola in Siberia. Iniziato nel 1970, è continuato fino al 1989 raggiungendo la profondità-record di 12.560 m, che rappresenta circa il 2% del raggio terrestre. Quindi la conoscenza diretta è molto limitata, ma si stima che all’interno del mantello terrestre, sotto la crosta, l’aumento di temperatura sia molto basso, dell’ordine di 0.1°C al km. La temperatura di fusione delle rocce (di tutte le rocce, sia magmatiche che sedimentarie e metamorfiche) varia a seconda della loro composizione, ma generalmente oltre i 350-650°C si ha un cambiamento dello stato fisico, e il comportamento cambia da rigido a plastico. In questo caso non si tratta di paradigmi, ma di dati sperimentali, basati sullo studio reologico, sperimentale, delle rocce rispetto a quello dei materiali artificiali. Le rocce del mantello a circa 1300°C (a seconda delle condizioni di pressione e la composizione chimica) iniziano a fondere (figura 2). Negli ultimi Fig. 2. Schema della struttura interna della Terra (da www.bo.astro.it). Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI anni il magma fuso è stato raggiunto per la prima volta nella storia, in perforazioni effettuate sulle pendici del Kilauea nelle isole Hawaii (punto caldo appartenente alla placca pacifica) e in Islanda (al limite divergente fra le placche euroasiatica e nordamericana). Campo magnetico terrestre. La Terra possiede un campo magnetico bipolare e i poli magnetici sono vicini, ma non coincidono con i poli di rotazione geografici, e sono soggetti a variazioni nel tempo e nello spazio. Il concetto di cuore magnetico della Terra si è fatto strada con le conoscenze acquisite dall’Astrofisica e dalla Geofisica. Le onde sismiche S non si propagano oltre la superficie di Gutenberg che è identificata a 3470 km dal centro della Terra. Questa osservazione strumentale implica che il nucleo esterno è liquido, mentre il nucleo interno, nonostante la temperatura presumibilmente altissima a causa dei minerali radioattivi, si comporta come un solido per l’altissima pressione a cui è sottoposto. Il campo magnetico terrestre è soggetto a inversioni non periodiche di difficile interpretazione ma molto importanti perché rappresentano un segnale globale, e permettono la correlazione fra il record geologico oceanico e quello continentale. Non si sa bene perché avvengano (la teoria più accreditata è quella della dinamo autoeccitante che avrebbe sede nel nucleo esterno) né con quale velocità avvengano, perché nessuna inversione è stata registrata da quando è nata la Geofisica. Crosta terrestre. Si chiama crosta terrestre l’involucro più esterno della Terra. Si distinguono una crosta continentale e una crosta oceanica che hanno composizione, spessore ed età diversa. La crosta continentale ha composizione granitica o granodioritica, spessore di oltre 25-40 km fino a circa 60-70 in aree di catena montuosa. All’interno dei continenti, in aree corrugate ed età anche molto antiche di oltre un miliardo di anni, la crosta è spessa circa 40-45 km. Ognuna delle sei grandi placche litosferiche distinte nella Plate Tectonics (Nord America, Sud America, Eurasia, Africa, Australia, Antartide) contiene porzioni più o meno estese di terreni antichissimi, formatisi oltre un miliardo di anni fa. La crosta oceanica ha composizione basaltica, è più densa e notevolmente più sottile di quella continentale (circa 5-7 chilometri). La composizione della crosta oceanica è caratterizzata dalla cosiddetta suite ofiolitica che comprende, dall’alto in basso, al di sotto di eventuali sedimenti pelagici, basalti (MORB ossia Mid Ocean Ridge Basalt), filoni magmatici e gabbri stratiformi e massicci fino a raggiungere la cosiddetta Moho petrografica, che corrisponde al passaggio dai gabbri alle peridotiti del mantello. Alcune placche litosferiche sono costituite solamente da cro- 37 STUDI sta oceanica, come quella Pacifica, Nazca, Cocos, Juan de Fuca e altre microplacche. Lungo i margini continentali passivi la transizione fra crosta oceanica e crosta continentale si riconosce in corrispondenza del continental rise alla base della scarpata continentale. Discontinuità sismiche. All’interno della Terra si distinguono due discontinuità fondamentali, che prendono il nome dallo scienziato che le ha scoperte: la Discontinuità di Mohorovicic (dallo scienziato serbo che la descrisse nel 1909) spesso abbreviata in Moho, separa la crosta dal mantello ed è caratterizzata da un rapido incremento della velocità di trasmissione delle onde sismiche P che raggiungono gli 8 km/s. Il tutto avviene all’interno della litosfera (crosta più mantello litosferico) che ha uno spessore complessivo di circa 100 km e un comportamento rigido. Nonostante i reiterati tentativi di raggiungere la Moho petrografica nel Pacifico orientale presso le Isole Galapagos rioccupando a varie riprese il pozzo ODP 704bis fino a raggiungere la profondità record di 2000 metri, al costo di diversi milioni di dollari, questo obiettivo è stato raggiunto solamente nell’Oceano Indiano, dove però era entrato in gioco un sollevamento successivo alla messa in posto originaria. La Discontinuità di Gutenberg, è immateriale, nel senso che nessuno riuscirà mai a raggiungerla e a documentarne con precisione la natura. È stata scoperta dopo la messa in funzione della rete sismica mondiale, che registra in tempo reale su sismografi attivi ininterrottamente 24 ore su 24, per 365 giorni all’anno, i treni d’onda originati dai forti terremoti. Le onde S (vedi diversi tipi di onde sismiche) sono onde trasversali che si propagano soltanto in mezzi rigidi, solidi, non penetrano oltre i 2900 km di profondità (perché al di sotto il nucleo esterno è fuso), mentre le onde P attraversano sia il nucleo esterno che quello interno, al cui interno si riformano anche le onde S. Le onde sismiche rallentano al di sotto della litosfera, tra 100 e 200 km, in quello che viene definito canale a bassa velocità. tanto meno dense, tanto più vanno veloci. Si trasmettono sia in mezzi solidi che in mezzi fluidi, e per i grandi terremoti vengono registrate dappertutto, dimostrando che attraversano il nucleo. Sono onde sferiche, di compressione. Le onde S (seconde) sono onde trasversali che si trasmettono come se uno facesse oscillare una corda fissata a un estremo. Queste onde si trasmettono soltanto nei mezzi solidi, ma non in quelli fluidi, e non attraversano il nucleo esterno terrestre. Le onde che arrivano dopo le P e dopo le S sono dette onde superficiali, e sono di tipo diverso (Lowe, Rayleigh), e si attenuano rapidamente, allontanandosi dall’epicentro. Sono queste onde superficiali che provocano i maggiori disastri come morti e crolli di edifici, perché viaggiando più lentamente hanno un’ampiezza maggiore. Duttile/fragile. Sono termini usati per indicare il comportamento di una roccia quando è sottoposta a deformazione (strain) in seguito a compressione o a trazione (stress). Nelle rocce solide come il granito, il calcare, la dolomia, il basalto, il comportamento è fragile, ossia la roccia si frattura o si spezza non potendo deformarsi plasticamente. Con l’aumento della temperatura però il comportamento cambia, diventando visco-plastico, cioè di tipo duttile. In genere la transizione tra un comportamento fragile e duttile di una roccia avviene a circa la metà della sua temperatura di fusione. Per esempio se un granito fonde a circa 700°C, fino a 350°C circa si comporterà in modo fragile, da 350 a 700 in modo progressivamente sempre più duttile. Epicentro/ipocentro. Si chiama epicentro il punto di massima intensità di un terremoto, situato sulla verticale della struttura geologica sepolta che lo ha generato, e che viene chiamato ipocentro o fuoco. Secondo la scala Mercalli (che è empirica) corrisponde al punto dove si sono registrati i maggiori danni. Secondo i sismologi è il punto dove viene calcolata la massima accelerazione acustica superficiale. Si chiama ipocentro il punto della crosta terrestre dove si è originato il sisma in seguito a un evento isolato che consiste nel rilascio istantaneo di energia accumulata nel corso del tempo in un mezzo rigido ed elastico. Quasi tutti i terremoti disastrosi hanno un ipocentro non più profondo di 10-20 km. I terremoti che arrivano a dislocare il fondo del mare possono provocare tsunami disastrosi, a distanza anche di migliaia di chilometri. In corrispondenza delle grandi fosse oceaniche come quella delle Marianne dove il piano di subduzione (o di Benioff) la sismicità raggiunge profondità anche di 670 km, I terremoti profondi provocano per fortuna meno danni in superficie. Diversi tipi di onde sismiche. Nella sismica passiva, ossia quando si tratta di registrare eventi naturali come i terremoti, gli sciami sismici, le scosse di assestamento (aftershocks), gli strumenti che registrano le scosse, detti sismografi, permettono di distinguere diversi tipi di onde acustiche: le onde P (prime), le più veloci, sono onde acustiche che si trasmettono perpendicolarmente al fronte d’onda. La velocità di queste onde varia in funzione del mezzo in cui si propagano. Nell’aria è di 300 m/sec. Nell’acqua di 1500 m/sec. Nel terreno varia in funzione della composizione dei sedimenti e delle Faglie. Sono fratture che si formano nei corpi rocciosi con rocce e della loro rigidità e densità: tanto più sono rigide e spostamento relativo dei due lati. Il piano di faglia può essere 38 Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI STUDI comportamento plastico. Variano da millimetri a diversi centimetri all’anno. Fig. 3. Faglia normale (indicativa di un regime distensivo) e faglia inversa (indicativa di un regime compressivo). Limiti fra placche litosferiche. Possono essere divergenti, convergenti o trasformi. Sono divergenti quelli in corrispondenza dei quali due placche si allontanano e il mantello sottostante risale per riequilibrare il deficit di massa e lo squilibrio gravitazionale. Durante la risalita, il mantello si trova a pressione minore. Dato che le rocce hanno scarsa conducibilità termica, il mantenimento della temperatura del mantello (anche oltre 1300 °C) e la diminuzione di pressione, permettono la formazione di fusi magmatici che risalgono a formare la crosta oceanica lungo le dorsali. La sismicità è superficiale. Come esempio si può indicare il Mid Atlantic Ridge con la rift valley mediana, che separa la placca nordamericana dalla placca europea. L’isola vulcanica dell’Islanda fa parte di questa zona di rift. Si chiamano slow spreading ridges le dorsali che si allargano di 1-4 cm all’anno, mid spreading ridges quelle fra 5 e 10 cm, fast spreading ridges quelle oltre i 10 cm/anno, fino a 18 cm/a. Sono convergenti i limiti fra placche che convergono fra loro e sono caratterizzati da forti dislivelli, da attività sismica molto intensa e di origine profonda (subduzione), e da attività plutonica e vulcanica caratteristiche. Come esempio si possono indicare i sistemi arco-fossa-bacino retroarco delle Marianne, delle Filippine, del Giappone che orlano la grande placca pacifica, il maggiore oceano del mondo. I limiti trasformi sono quelli dove non si registra né convergenza né divergenza fra le placche, ma soltanto scorrimento laterale, come ad esempio la linea Azzorre-Gibilterra. verticale o inclinato. Se è inclinato, si chiama tetto quello che sta sopra al piano di faglia, letto quello che ne sta al di sotto (si veda la figura 3). Sono inverse le faglie nelle quali il tetto viene rialzato rispetto al letto, occupando dopo la dislocazione uno spazio orizzontale ridotto (regime compressivo). Sono dirette le faglie dove il tetto viene ribassato rispetto al letto (regime distensivo), e lo spazio è maggiore dopo l’evento (vedere terremoto dell’Aquila, dove tutte le faglie sismogenetiche sono dirette). Il piano di faglia può contenere delle striature che permettono di ricostruire la direzione e il verso del movimento. Il piano di faglia in certi casi non è un vero piano, ma una superficie concavo-convessa e si chiama faglia listrica, ed è caratteristica delle fasi iniziali (rifting) di apertura di un nuovo oceano, come ad esempio la Rift Valley dell’Africa centro-orientale. Si chiamano faglie sismoge- Mantello. Il mantello è il secondo degli strati concentrici che netiche quelle interpretate come in grado di produrre un ter- costituiscono l’interno del nostro pianeta ed è composto da remoto (vedere più avanti). rocce dette peridotiti, oppure lherzoliti e harzburgiti, ricche GPS. Global Positioning System è chiamato un sistema di na- di minerali quali l’olivina e il pirosseno. Ha uno spessore che vigazione satellitare entrato in funzione venticinque anni fa, va dalla base della crosta (Moho) a circa 5-50 km, fino alla che ha avuto un rapidissimo sviluppo e un grande successo, profondità di circa 2900 km (discontinuità di Gutenberg). È facilitando il posizionamento sempre più preciso sia in mare suddiviso in mantello superiore fino a 670 km (dove termiche a terra. In Italia sono state installate molte decine di sta- nano i terremoti) ed inferiore. Nel mantello superiore si zioni permanenti con capisaldi fissi in tutto il territorio na- possono distinguere il mantello litosferico (LID), che aszionale, comprese le isole maggiori. I dati registrati danno le sieme alla crosta costituisce la litosfera (spessa fino a 100-200 direzioni dei vettori e la loro lunghezza, che permette di km), la quale scivola al di sopra del canale a bassa velocità calcolare l’entità dello spostamento di quella porzione della (che è la parte superiore dell’astenosfera, fino a 400 km). Del crosta terrestre (vedere più avanti limiti convergenti, diver- mantello si hanno informazioni per lo più indirette perché genti, trasformi fra le placche litosferiche). A differenza dei non è mai stato raggiunto in sito dalle perforazioni. Tuttaterremoti, che sono eventi discontinui, prodotti dal rilascio via alcune rocce mantelliche del passato geologico, sono improvviso di energia accumulata nel tempo nelle porzioni state esumate dalle varie orogenesi e affiorano in superficie. superficiali della crosta, queste deformazioni sono continue Il vulcanismo terrestre che è alimentato dal mantello supee sono provocate dai movimenti continui del mantello, con riore ci permette di conoscerne la composizione. Le onde siNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI 39 STUDI smiche ci aiutano poi a studiarne la struttura. Esistono diverse ipotesi sulle dimensioni delle celle di convezione del mantello che secondo alcuni hanno dimensioni radiali di migliaia di chilometri, secondo altri sono suddivise in celle più piccole. Il mantello inferiore per la sua maggiore densità deve avere moti convettivi molto più rallentati. Margini continentali. I grandi continenti che talvolta sono il risultato dell’unione di altri continenti precedenti terminano in mare con margini che possono essere attivi o passivi. Nei margini passivi che orlano gli oceani in espansione come per esempio l’Atlantico, la fisiografia è caratterizzata dalla curva ipsografica che comprende la piattaforma continentale (shelf), la scarpata continentale (escarpment), il rialzo continentale (rise) fino a raggiungere la piana abissale (abyssal plain) con profondità comprese fra 4000 e 5000 m. La discontinuità di Mohorovicic ha un andamento opposto a quello della curva batimetrica e la crosta cambia di composizione in corrispondenza del rialzo. Nei margini attivi che orlano gli oceani che si stanno restringendo (tipicamente il Pacifico) oppure gli archi insulari di sviluppo locale (come le Barbados e le Falkland nell’Atlantico occidentale) la curva batimetrica è molto più irregolare, e si raggiungono le massime profondità oceaniche (Fossa delle Marianne nel Pacifico occidentale, fossa delle Aleutine nel Pacifico settentrionale), e possono contenere un prisma di accrezione più o meno importante, a seconda della velocità di spostamento della placca che va in subduzione, della profondità del piano di scollamento e dell’apporto sedimentario derivato dal continente. Qui va in subduzione la parte più antica e più fredda della crosta oceanica, formatasi milioni di anni prima in corrispondenza di una dorsale medio-oceanica. Nucleo terrestre. È la parte più interna della Terra, la più densa, la più calda, anche la meno conosciuta, quella dove ha origine il campo magnetico terrestre. È la parte della terra, dove nella fase iniziale di formazione (stadio di magma ocean durato solo qualche centinaia di milioni di anni), si è accumulato gran parte del ferro e del nichel provenienti dai planetesimi che hanno formato il nostro pianeta. Il suo raggio è di 3470 km, derivato dalla profondità della discontinuità di Gutenberg oltre la quale le onde S non si trasmettono, dimostrando la natura liquida del nucleo esterno (che va da 2900 a 5100 km di profondità). Ma il nucleo interno deve essere solido, a causa dell’altissima pressione, e deve consistere di minerali molto densi, come nickel e ferro e forse anche radiogenici come il potassio, per poter disperdere del calore verso l’esterno, assecondando il primo principio della termodinamica. Del resto anche i vari tipi di meteoriti (condriti, 40 marziane, lunari ecc.), corpi extraterrestri provenienti dal sistema solare che sono stati catturati dal campo gravitazionale, hanno composizione metallica (nife). Piano di Benioff o di subduzione. È chiamata la superficie della litosfera oceanica che si inflette verso il basso nel mantello sprofondando al di sotto della placca adiacente in corrispondenza dei limiti di placca di tipo convergente (margine continentale attivo). La crosta oceanica, formata da rocce basiche o ultrabasiche, è più antica e più fredda di quella circostante, e si verifica una vistosa anomalia geotermica negativa. Quando il serpentino raggiunge la temperatura di 700°C espelle l’acqua e si innescano fenomeni di risalita del magma che può consolidarsi in profondità originando plutoni tipicamente di composizione andesitica, o raggiungere camere magmatiche superficiali e dar luogo a edifici vulcanici caratterizzati da eruzioni fortemente esplosive, con nubi ardenti e ignimbriti a composizione trachi-andesitica. Perforazioni effettuate nel 1989 sul lato verso l’oceano dell’arco insulare Izu-Bonin, che fa parte del grande sistema di subduzione delle Marianne, hanno carotato un vulcano di fango, chiamato Conical Seamount, consistente di fango inconsolidato di composizione serpentinitica contenente clasti di harzburgite e dunite. Le acque interstiziali sono estremamente alcaline (pH 12.5). Il grande interesse di questa scoperta ha suscitato nuove ricerche con il sottomarino Alvin e nuove perforazioni nel 2001 durante l’ODP Leg 195 (vedi figure 4 e 5). Se il piano di Benioff ha un’inclinazione di 45°, la profondità alla quale si verifica la disidratazione del serpentino si trova a circa 150 km di profondità e quindi a una distanza di circa 150 km dalla fossa dove inizia l’inflessione della crosta oceanica. Come esempio di questa situazione geodinamica ricordiamo le Montagne Rocciose, dove la cordigliera esterna (Cascade Range) presenta una serie di vulcani, distanti una cinquantina di chilometri l’uno dall’altro, tutti della stessa altezza (circa 3000 m) e di analoga composizione, fra cui il Mount St. Helen che ebbe una disastrosa eruzione nel 1980 documentatissima dal National Geographic. Una importante scoperta fatta da uno studioso italiano, dapprima contestata ma ora accettata da tutta la comunità scientifica internazionale, riguarda l’inclinazione del piano di Benioff (Doglioni et al., 1999). Se essa è conforme alla direzione di rotazione della Terra, che ruota da ovest a est, mentre la litosfera ruota con un leggero ritardo verso ovest, allora l’inclinazione del piano di Benioff è alta nelle subduzioni verso ovest (60-90°), mentre è più bassa per le subduzioni verso est o nordest (20-50°). Le catene montuose che si formano a ridosso sono di conseguenza molto Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI Fig. 4. Rilievo tridimensionale del Conical Seamount nel bacino delle Filippine del Pacifico nord-occidentale, con l’ubicazione dei tre pozzi eseguiti nel 1989 che incontrarono per la prima volta fango serpentinitico contenente clasti di rocce mantelliche, estruso da grande profondità nell'avanarco. In basso è una ricostruzione prospettica della struttura, ricavata dai risultati scientifici dell’ODP Leg 125 (da serc.carleton.edu/margins/). diverse, poco elevate sopra le subduzioni verso ovest (per esempio Marianne o Appennini), molto elevate per le subduzioni opposte (Ande o Alpi). Subduzione e obduzione. Quando si arriva alla collisione continentale, e le placche litosferiche arrivano a scontrarsi con velocità che possono raggiungere i 5-10 cm/anno (contro i pochi cm/1000 anni con cui si accumulano i sedimenti pelagici) come è avvenuto con la collisione fra l’India e l’Asia, si formano le catene montuose più alte del pianeta (Himalaya), dove la valle dell’Indo nel suo tratto diretto E-W rappresenta la zona di sutura fra due placche continentali precedentemente separate da un oceano, la Tetide. Ma in certi casi la subduzione non può essere realizzata per l’esistenza di grosse masse continentali rigide. In questi casi le ofioliti della crosta oceanica possono venire spinte al di sopra della crosta continentale, formando estese coltri ofiolitiche al di sopra della crosta continentale (obduzione). Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI Fig. 5. L’arco Izu-Bonin del Pacifico nord-occidentale è stato rivisitato dalla nave da perforazione nel 2001. In a) è raffigurata l’ubicazione generale, in b) lo schema geodinamico della zona di subduzione, accompagnato dall’anomalia geotermica che porta alla disidratazione del serpentino e alla formazione dell’arco vulcanico, in c) l’ubicazione di nove diversi seamounts ai quali sono stati dati dei nomi. Il Sito 1200 (South Chamorro), perforato durante l’ODP Leg 195, consiste di sei pozzi molto vicini, in uno dei quali (1200C) è stata raggiunta la profondità massima di 202 m sotto il fondo del mare (a -2930 m) ed è stato attrezzato con il reentry cone e un laboratorio per campionamenti geochimici, geotermici e microbiologici. Una nuova scoperta di questi pozzi è che – oltre ai fluidi ad altissima alcalinità analoghi a quelli del Conical Seamount di origine profonda (stimata a 25-30 km) – nei 20 m superficiali è presente un secondo tipo di acqua interstiziale che contiene una nuova comunità microbica di estremofili in accordo con la presenza di una megafauna sul fondo marino (da D’Antonio e Kristensen, 2004). BIBLIOGRAFIA M. D’Antonio - M.B. Kristensen, Serpentinite and brucite of ultramafic clasts from the South Chamorro Seamount (Ocean Drilling Program Leg 195, Site 1200): inferences for the serpentinization of the Mariana forearc mantle, «Mineralogical Magazine», 68/6 (2004), pp. 887-904. C. Doglioni - P. Harabaglia - S. Merlini - A. Peccerillo - C. Piromalli, Orogens and slabs vs. their direction of subduction, «Earth Sciences Reviews», 45 (1999), pp. 167-208. E. Flamini, The Earth: one of the planets of the Solar system, Rendiconti Accademia dei Lincei, vol. 25. (in stampa). M. Frezzotti - G. Orombelli, Glaciers and ice sheets: current status and trends, «Rendiconti Accademia dei Licei» vol. 25 (2013), in c.d.s. M.H. Salisbury - M. Shinohara - C. Richter et al., Proceedings of the Ocean Drilling Program, Initial Reports, volume 195 (2002). College Station, TX (Ocean Drilling Program). F.J. Vine - D.H. Matthews, Magnetic anomalies over ocean ridges, «Nature», 199 (1963), pp. 947-949. P.P. von Herzen - S. Uyeda, Heat flow through the eastern Pacific ocean floor, «Journal of Geophysical Research», 68/14 (1963), pp. 4219-4250. 41 STUDI La mitigazione del rischio sismico: mito o realtà futura? I terremoti (earthquakes in inglese, tremblement de terre in francese) sono fenomeni naturali che provocano effetti disastrosi sugli umani, ancora più pericolosi delle eruzioni vulcaniche anche perché meno prevedibili. I terremoti e gli eventi sismici ad essi correlati (sciami sismici, aftershocks, la maggior parte dei maremoti) sono provocati dai movimenti che avvengono nella crosta terrestre e nel mantello litosferico, sono del tutto indipendenti dalle attività umane, esistono da quando il pianeta Terra ha acquisito una consistenza solida nelle sue parti periferiche, oltre 4 miliardi di anni fa. I terremoti attualmente possono essere previsti in modo molto approssimativo nello spazio, ma non nel tempo. Non ha senso invece parlare di prevenzione o disinnesco, essendo assolutamente impossibile impedire che un movimento tellurico si realizzi quando le condizioni fisiche lo impongono. La storia d’Italia è lunga e complessa e la sua preistoria è ben documentata, con i primi ominidi arrivati dall’Africa dopo essere migrati tutto intorno al Mediterraneo orientale nel Pleistocene inferiore. Passando alla storia, troviamo testimonianza di terremoti in Sicilia, dove i templi dorici diroccati di Selinunte nella Magna Grecia mostrano i pesanti rocchi tutti allineati nella stessa direzione. Nella stessa valle del Belice, non lontano da Selinunte, un violento terremoto nel 1968 ha semidistrutto il paese di Gibellina, che è stato abbandonato dai sopravvissuti e ricostruito altrove, con strascichi giudiziari ancora in atto. A Roma nel periodo imperiale sono state erette due colonne marmoree quasi contemporanee: la colonna Traiana nel Foro Romano e la colonna di Marco Aurelio nel piazzale del Parlamento. Esse distano circa 700 metri l’una dall’altra, furono erette negli stessi anni e sono costruite con lo stesso marmo. Ma la prima appare integra mentre la seconda è stata dislocata da una vistosa faglia orizzontale con un rigetto di 10 centimetri nella parte superiore lungo un giunto fra i rocchi (cilindri di pietra che compongono la colonna) (Heiken et al., 2005), vedi figura 1. Il diverso comportamento è dovuto al substrato solido sul quale è costruita la colonna di Traiano, mentre il substrato è soffice e inconsolidato sotto la colonna di Marco Aurelio che ha amplificato l’accelerazione del suolo (effetto di sito, da tenere sempre presente). 42 Nel passato pre-industriale e pre-scientifico i terremoti, che non si sapeva bene che cosa fossero, erano considerati una specie di castigo di Dio, una punizione divina per dei cattivi comportamenti come ad esempio il terremoto che provocò danni estesissimi alla città di Ferrara nel 1570 fu attribuito al cattivo esempio dato dagli Estensi che dominavano il territorio… Ma in quella occasione lo storico Pirro Ligorio Fig. 1. Due colonne celebrative dei trionfi ottenuti dall'imperatore Traiano contro i Daci e dall'imperatore Marco Aurelio nelle guerre contro i Germani e i Sarmati. Le colonne furono costruite in tempi vicini, hanno circa lo stesso peso, sono costruite con lo stesso marmo e distano fra loro solo circa 700 metri, ma hanno reagito in modo assai diverso allo stesso evento sismico. La colonna traiana, nel foro omonimo, è costruita su un basamento formato da tufo vulcanico che appoggia su arenarie e argilliti consolidate, mentre la colonna di Marco Aurelio è costruita su depositi inconsolidati del Tevere, che hanno amplificato le onde sismiche superficiali (vedere modello nella parte inferiore della figura) provocando una dislocazione di circa 10 cm documentata dal fregio illustrato in alto a sinistra (da G. Heiken, R. Funiciello et al., 2005, leggermente modificato). Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI STUDI fece una descrizione molto accurata dei danni subiti dai vari tipi di costruzioni e propose suggerimenti che sembrano un primo prontuario per una edilizia antisismica. Un altro primato italiano da ricordare è quello dell’Osservatorio Vesuviano. Nel 1841, ossia vent’anni prima dell’Unità d’Italia con Roma capitale, venne inaugurato dal Re delle due Sicilie Ferdinando di Borbone, il primo Osservatorio vulcanologico al mondo, sulle pendici del Vesuvio. Il vulcano era già celebre fin dall’antichità per la descrizione accuratissima dell’eruzione del 79 dopo Cristo fatta da Plinio il Giovane. Primo direttore dell’Osservatorio, che esiste ancora ed è ora gestito dall’INGV, fu il fisico Macedonio Melloni, destituito pochi anni dopo per aver partecipato a moti rivoluzionari. Alla direzione si alternarono fisici e geologi di chiara fama. Fra questi va ricordato il geologo Giuseppe Mercalli che lo diresse dal 1911 al 1914. In questo periodo egli studiò e propose una scala tuttora in uso per valutare l’intensità dei terremoti, e dei criteri per la classificazione delle eruzioni vulcaniche. Il profondo sud, spesso criticato per inefficienza e arretratezza, realizzava nel passato lontano iniziative veramente innovative, come la prima linea ferroviaria italiana: la Napoli-Portici! Con l’unità d’Italia furono creati una serie di Servizi statali sul modello francese, dove Quintino Sella si era formato presso l’Ecole des Mines: Servizio Geologico, Servizio Idrografico, Servizio Meteorologico. Se i due grandi protagonisti dell’Unità d’Italia (il Conte di Cavour 1810-1861 e Quintino Sella 1827-1884), entrambi morti prematuramente, fossero vissuti più a lungo, forse la vistosa carenza di senso dello stato che caratterizza la maggior parte degli italiani oggi non sarebbe così accentuata..Mancava ancora un Servizio sismico, mentre sia il Regno delle due Sicilie sia lo Stato della Chiesa, che comprendevano aree altamente sismiche, ave- vano abbozzato qualche cosa di simile. Le prime iniziative furono prese dai piemontesi in occasione del devastante terremoto di Messina, seguito da maremoto, del 1908, che è tuttora il più grave di tutti i tempi. I terremoti venivano distinti all’inizio in sussultori e ondulatori, ma oggi questo criterio è stato abbandonato. Quello che i sismografi moderni misurano è l’accelerazione massima di scuotimento del suolo, e questo sta alla base della scala Richter. I sismografi in uso oggi sono molto diversi dai lunghi pendoli del passato, come quello ancora conservato e visitabile oggi presso la Grotta Gigante sul Carso triestino, all’ingresso dell’Osservatorio Geofisico Sperimentale. Vi sono stazioni fisse, e altre mobili che vengono usate in gran numero per monitorare le aree colpite subito dopo l’evento sismico principale. Vi sono oggi reti sismiche locali, regionali, nazionali, internazionali, mondiali. Si trovano su internet e le più utili per questa trattazione sono quelle EUROMED, dell’EMSC e dell’USGS (http://www.emsc-csem.org/#z; http://earthquake. usgs.gov), vedi figura 2. Da esse risulta chiaramente che quasi tutta l’Italia è caratterizzata da una elevata sismicità, e che le uniche aree a bassa sismicità sono la Sardegna e la penisola del Salento, in Puglia. Anche la parte nord-occidentale dell’Italia, in Piemonte, non registra terremoti importanti, perché le fasi parossistiche dell’orogenesi alpina (le Alpi sono una catena collisionale complessa, a doppia vergenza, con movimenti trasversali importanti e faglie litosferiche) sono passate da tempo. Nella figura 3 è illustrata la più recente carta della pericolosità sismica dell’Italia prodotta dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV). A questo punto è opportuno presentare un elenco commentato dei principali terremoti verificatisi in Italia negli ultimi 160 anni. Fig. 2. Distribuzione dei terremoti di magnitudo superiore a 4 registrati dal 1960 al 2012 nella regione Mediterranea (da http://www.isc.ac.uk/isc bulletin/search/). Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI 43 STUDI 1853 Campania 1857 Basilicata e Campania. Morte circa dodicimila persone. Molti paesi furono rasi al suolo 1883 Casamicciola (Isola d’Ischia), morirono 2313 abitanti, oltre la metà della popolazione 1887 Bussana, presso Imperia (Liguria) con distruzione e abbandono dell’antico paese 1908 Messina (Sicilia) il più grave evento sismico di tutta la storia italiana, sia per numero di morti (58 000 secondo alcune fonti, 120 000 secondo altre fonti). Magnitudo stimata 7.2. I primi e più efficaci interventi in aiuto della popolazione vennero dall’incrociatore russo Roskov e da tutta la flotta russa che era alla fonda presso Augusta. L’incrociatore Roskov è conservato e visitabile ancora oggi sulla Neva a San Pietroburgo. Studi recentissimi di alta precisione, con linee sismiche tridimensionali sulla identificazione della faglia sismogenetica che avrebbe originato l’evento (Doglioni et al, 2012), vedere figura 4, dimostrano come il tanto atteso ma tanto discutibile progetto sul ponte attraverso lo stretto di Messina necessita di ulteriori approfondimenti per la sua vulnerabilità 1915 Avezzano (Marsica, Abruzzo). 32.610 morti, magnitudo 6.8. Il grosso paese ai bordi del Lago del Fucino fu distrutto e le perdite umane furono ingentissime (per oltre il 90% della popolazione residente) 1920 Garfagnana (Toscana). 174 morti, magnitudo 6.2 1928 Carnia (Friuli) 44 Fig. 3. Mappa della pericolosità sismica d’Italia (da INGV, 2004), supponendo un tempo di ritorno di 475 anni, e un suolo rigido. Questa mappa è un utile strumento di partenza, ma può portare ad una sottostima degli eventi. Fig. 4. Profilo sismico a riflessione ad alta risoluzione TIR 10/01 registrato secondo una rotta che percorre lo Stretto di Messina dal Mar Tirreno al Mare Ionio. L'ubicazione del tracciato è visibile nel piccolo inserto a destra del profilo superiore, che non è interpretato. L'interpretazione geologica, stratigrafica e strutturale si trova nel profilo inferiore. Partendo da sinistra, ossia da NE, si osservano due canyons incisi nei depositi Plio-Pleistocenici. La discordanza messiniana (linea verde continua, M) copre un basamento indifferenziato e tettonizzato. La linea gialla è una discordanza intrapleistocenica. Nella parte centrale della sezione un'anticlinale a scala crostale deforma sia il fondo marino che tutta la sezione sottostante. La faglia di Capo Peloro si suppone sia attiva, poichè deforma il fondo marino. Lo Stretto di Messina si sviluppa al di sopra di una sinclinale delimitata da faglie normali, che determinano la morfologia dello stretto. Le sequenze pleistoceniche mostrano geometrie di crescita, che suggeriscono che la sedimentazione sia avvenuta durante la defomazionr tettonica lungo tutta la sezione trasversale. Nella zona coesistono faglie distensive e strutture transpressive e compressive(da C. Doglioni, M. Ligi et al., 2012, semplificato). Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI STUDI 1930 Vulture (Basilicata e alta Irpinia). Il Vulture è un vul- 1997-98 Umbria e Marche. Questo terremoto, che colpì una zona ricca di antichi borghi costruiti quando il cecano appartenente inattivo da circa 100.000 anni. Al mento armato non era stato ancora inventato, lasciò contrario del Vesuvio, si trova in posizione anomala al senza casa 10 000 persone che due anni dopo fronte della catena appenninica. Le faglie sotto al vull’evento sismico vivevano ancora in containers. Ma cano generano un terremoto con 1404 morti, magnila precedenza alla ricostruzione venne data alla Batudo 6,7. silica di San Francesco d’Assisi, dove due volte af1962 Irpinia (Campania). 236 morti, magnitudo 6 frescate erano state lesionate. È una storia da rac1968 Belice (Sicilia) con distruzione e abbandono dei paesi contare perché dimostra l’importanza e l’impredi Gibellina, Santa Ninfa, Salaparuta. Ben 37 comuni vedibilità degli aftershocks. Infatti il crollo della volta sono stati colpiti. 351 vittime, 100 000 sinistrati, nuovo è stato trasmesso in diretta televisiva mentre gli paese ricostruito altrove. esperti (fra cui un architetto e il priore dei frati ca1976 Friuli. Violento terremoto con gravi danni a Udine, Gepuccini che morirono sotto le macerie) stavano vemona e altri centri storici. Circa mille i morti. Magnitudo rificando la fattibilità dell’intervento, a pochi giorni 6.6, intensità ammissibile massima X. Molte frane di dal terremoto. A quel tempo Ministro dell’Ambiente crollo nelle Alpi Carniche, che hanno versanti ripidi e era Giovanna Melandri e Presidente della Repubuna tettonica sud vergente con rampe e sovrascorriblica Carlo Azeglio Ciampi. Nel 2000 era stato inmenti. Crollo di capannoni recenti costruiti senza tener conto delle norme antisismiche (tetti orizzontali semplicemente appoggiati sulle pareti, ma non legati alle strutture portanti). Pronta ed efficace ricostruzione. Nel settembre 1976, quattro mesi dopo il terremoto, un aftershock di magnitudo molto elevata provocò la morte istantanea dei due noti geologi Riccardo Assereto di Milano e Giulio Pisa di Bologna che stavano rilevando sul Monte Bivera in Carnia e furono colpiti da una rovinosa frana di crollo in un canalone dove perse la vita anche il figlio dodicenne di Assereto. 1980 Irpinia (Campania). Terremoto molto violento (magnitudo 6.9, intensità massima X, 3000 morti), ed esteso arealmente. Testimoni oculari riferiscono che non si sapeva dove consegnare le bare per seppellire i morti, perché non era ancora stata individuata la posizione dell’epicentro. La prova che il Servizio sismico nazionale non funzionava a dovere. Da qui ebbe inizio l’escalation dell’INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) che – sotto la guida prolungata del sismologo Enzo Boschi – si prese carico dei terremoti, delle carte del rischio sismico e di tante altre cose, assorbendo gran parte delle risorse disponibili per la ricerca sul territorio. La valutazione del rischio sismico cambiò radicalmente a partire dal 1981, con un vistoso aumento dei comuni dichiarati a rischio (ad esempio, in Emilia-Romagna il numero dei comuni a rischio cambiò da 12 a 89). La figura 5 mostra un moderno e aggiornato schema strutturale, che sintetizza i risultati ottenuti da diversi rilevatori sui campi di stress dell’Italia meridionale. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI Fig. 5. Schema strutturale della parte meridionale della penisola italiana che sintetizza i dati di osservazione raccolti e interpretati da diversi autori negli ultimi dieci anni; lo schema comprende le zone colpite dagli eventi sismici del Molise (2002), dell'Irpinia (1980) e di Potenza (1990-91). La linea ondulata diretta NW-SE lungo l'asse della catena indica il limite approssimativo fra le aree a regime distensivo (come l'Irpinia) e a regime compressivo (come il Molise) (da F. Visini, 2012, semplificato). 45 STUDI 2002 2009 detto l’Anno Santo e la Basilica di Assisi rappresentava una meta imperdibile. Il progetto della ricostruzione delle volte crollate e del ripristino dei 5000 metri quadrati di affreschi fu chiamato Cantiere Utopia e fu realizzato a tempo di record, con l’inaugurazione ufficiale avvenuta il 27 novembre 1999, giusto in tempo prima dell’inizio dell’Anno Santo. Il costo dell’operazione fu di 72 miliardi di lire. Molise. Prima di passare ai due ultimi terremoti (l’Aquila 2009 e Emilia-Romagna 2012) val la pena di ricordare un altro terremoto avvenuto in Molise (San Giuliano di Puglia) nel 2002. Le scosse non furono particolarmente forti (magnitudo 5.4) ma morirono 27 bambini e una maestra per il crollo di una scuola che era stata sopralzata di recente. Queste sono cose che non devono accadere in un paese civile. Non si può certo pretendere che tutta l’Italia venga messa in sicurezza essendo in gran parte ad alto rischio sismico, ma si deve esigere che gli edifici pubblici, come appunto le scuole, non vengano manomesse senza una verifica accurata delle condizioni di sicurezza da parte degli esperti (ingegneri e geologi) che devono operare congiuntamente. L’Aquila, Abruzzo. La scossa principale avvenne il 6 aprile, ma fu preceduta da una lunga serie di sciami sismici protrattasi per diversi mesi allarmando la popolazione residente, pure avvezza ai terremoti trattandosi di un’area ad alta sismicità, come tutte le conche intramontane situate lungo l’asse appenninico appenninico. stato delle costruzioni del centro storico della città avevano pervicacemente mostrato un totale disinteresse per quanto era stato fatto al riguardo, ignorandolo del tutto. Venne presentata una denuncia da parte dei familiari che si costituirono parte civile, e ne seguì un processo a carico di tutti i componenti della Commissione Grandi Rischi per omicidio colposo plurimo e disastro colposo plurimo. Il processo fu celebrato all’Aquila nel settembre 2012 e fu seguito da molte televisioni straniere. Era la prima volta nella storia che veniva intentato un processo a degli scienziati non perchè non avevano saputo prevedere per tempo il verificarsi dell’evento sismico, ma apparentemente per non aver studiato adeguatamente la situazione in atto in qualità di membri della Commissione Grandi Rischi. Tutti i sette imputati furono condannati a sei anni di reclusione, una pena superiore a quella richiesta dalla pubblica accusa. Al terremoto seguirono studi dettagliatissimi di carattere geologico, geofisico, geochimico, idrologico, sulla portata delle sorgenti, sulle emissioni di radon, sulle faglie attivate e/o riattivate, sugli aftershocks, tutti scritti in inglese e coordinati da Pantosti e Boncio, pubblicati su un numero speciale dell’Italian Journal of Geosciences nel numero di ottobre 2012. La figura 6 è riprodotta da questo importante volume; dimostra al di là di ogni dubbio che tutte le faglie attive sono normali e denuncia un regime distensivo. Di conseguenza l’affermazione che gli sciami sismici pre-terremoto provocano dissipazione di energia è errata. È invece la trazione che provoca tanti strappi parziali, finché si arriva alla rottura. Fra gli studi di dettaglio post-terremoto che aiutano a interpretare correttamente i messaggi impressi nei sedimenti vi è l’esecuzione di trincee nella immediata prossimità delle faglie considerate sismogenetiche in affioramento. I nuovi sedimenti (dislocati dalla faglia) messi in luce dovrebbero testimoniare del ripetersi di eventi sismici che potrebbero essere datati col radiocarbonio. Nel caso del terremoto dell’Aquila, si tratta di sedimenti continentali. Disastrosa fu l’iniziativa presa dall’allora presidente della Protezione Civile di convocare una riunione fuori programma della Commissione Grandi Rischi per rassicurare la popolazione. Diffusa dai mezzi audiovisivi senza essere stata verbalizzata adeguatamente, e aggravata dall’erronea affermazione che gli sciami provocavano dissipazione di energia, questa riunione fu seguita dalla scossa principale col risultato di oltre 2012 Emilia-Romagna. Di questo terremoto, che è avvenuto 300 morti in parte in seguito al crollo di edifici antichi e amin due fasi distinte a distanza di pochi giorni, il 29 magmalorati, in parte di edifici pubblici ampliati e ristrutturati di gio e il 6 giugno 2012, ha già parlato diffusamente da recente, come ad esempio l’ospedale. Il terremoto dell’Aquila queste pagine G.B. Vai e non vogliamo ripetere quanto ebbe una grande copertura mediatica anche per l’improvvisa già discusso e figurato (Anno XXX, n. 5, pp. 99 ss.). Non decisione presa dall’allora Presidente del Consiglio di spostare fu un terremoto particolarmente violento (magnitudo il G8 dall’Isola della Maddalena all’Aquila post-terremotata. 5.9), ma colpì il fatto che edifici ad alto rischio, come La reazione dei residenti fu negativa, mentre le autorità locali torri e campanili, caddero solo alla seconda scossa, che avevano in mano corposi e dettagliati documenti prepamentre nuovi capannoni industriali costruiti in cerati da componenti della Commissione Grandi Rischi sullo mento armato in risposta a una fiorente industria far- 46 Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI STUDI Fig. 7. In corrispondenza degli affioramenti delle faglie attive, interpretate come sismogenetiche, vengono scavate delle trincee per mettere in evidenza eventuali dislocazioni. In questo caso relativo alla faglia di Paganica, il rigetto della faglia è stato di 70 cm (frontespizio dell’Italian Journal of Geosciences, foto di R. Civico). Fig. 6. Modello digitale del rilievo (risoluzione di 20 m) dell'area epicentrale del terremoto dell'Aquila dell'aprile 2009. Le stelle bianche indicano gli epicentri della scossa principale del 6 aprile a L’Aquila e del forte aftershock del 7 aprile fra Fossa e Onna con faglie normali o normali/oblique che documentano attività durante il Quaternario superiore. In basso sono riprodotte sezioni geologiche che attraversano le faglie attive del Monte Stabiata (diretta E-W, in alto nella carta) e della faglia di Paganica (da G. Lavecchia et al., 2012, semplificato). maceutica provocarono quasi tutti gli incidenti mortali (18). Il fatto è che la pericolosità sismica del territorio fu dichiarata solo nel 2004, nonostante l’esistenza di faglie inverse e sovrascorrimenti nel sottosuolo fossero ben documentati dagli studi geologici e geofisici effettuati nei decenni precedenti, a partire dagli anni del secondo dopoguerra, con l’esplorazione petrolifera della Pianura Padana iniziata da Enrico Mattei. Oggi esistono centinaia di profili sismici che attraversano in tutte le direzioni la Pianura Padana, e che sono stati calibrati da centinaia di pozzi esplorativi e/o di sfruttamento (vedi figure 8 e 9). Finora abbiamo parlato di sismica passiva, ma esiste anche una sismica attiva che permette di studiare l’assetto struttuNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI rale e la geometria degli strati sepolti, registrando lungo stendimenti predisposti a terra (geofoni) o in acqua (idrofoni) gli echi di ritorno di scoppi provocati artificialmente con aria compressa o con esplosivi. Era ben noto che il limite della pianura non coincideva con il fronte di deformazione della catena appenninica, che la vergenza della catena era verso N, e che le faglie sismogenetiche erano dirette E-W. Era pure ben nota l’esistenza di un importante rilievo sommerso chiamato dorsale ferrarese o anticlinale ferrarese. Grande sorpresa è stata espressa dai mezzi di comunicazione per la fuoriuscita di fango fluido da crepe negli edifici, da fratture nelle strade e nei campi… ma questo è ben noto e caratteristico dove si hanno fenomeni di sovrapressione nel sottosuolo, e le Salse di Nirano (vicino a Modena e all’area terremotata) sono visitatissime come un geoparco. Si tratta di vulcani di fango ricchi di fluidi in pressione con metano e anidride solforosa che vengono espulsi da profondità di centinaia fino a migliaia di metri e si formano tipicamente nei prismi di accrezione lungo le zone di subduzione, come è appunto l’Appennino settentrionale sul versante padano. La comparsa di fango in pressione nelle crepe degli edifici disastrati, nelle strade e nei campi coltivati fa parte di uno scenario naturale coerente con il contesto geodinamico del sito. 47 STUDI Fig. 8. In alto è raffigurata una carta semplificata della parte centrale della Pianura Padana e l'ubicazione dei pozzi studiati. Nell'inserto in alto a destra vi è uno schema strutturale che mostra la convergenza fra il fronte alpino e quello appenninico. I cerchi sono raggruppati in classi a seconda della profondità massima raggiunta. Lungo il transetto b, il più vicino all'area colpita dai terremoti del 2012, i pozzi Cn (la sigla sta per Castelnovo1) e Nn (per Nonantola 1) la profondità è compresa fra 5000 e 7500 metri sotto il livello del mare. In basso è riprodotta la sezione geologica interpretata lungo il transetto orientale (b) (da A. Viganò, B. Della Vedova et al., 2012). 48 Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI STUDI Fig. 9. La stessa area centrale della Pianura Padana è raffigurata con l’indicazione, oltre ai pozzi ENI, delle principali faglie, delle isobate della base del Pliocene (datata a 5.3 milioni di anni) e dei terremoti registrarti dal 1970 al 2010 dall’International Seismological Centre, raggruppati in due categorie, con magnitudo superiore o inferiore a tre. Le frecce indicano la direzione dei movimenti continui misurati nei capisaldi fissi dal Global Positional System (GPS) e la loro velocità, espressa in mm all’anno. Le frecce più lunghe indicano maggiori spostamenti e appaiono indipendenti dalla frequenza dei terremoti (da A.Viganò, B. Della Vedova et al., 2012). Conoscenza e coerenza sono indispensabili a tutti i livelli per tempestivamente e in modo chiaro, e vanno controllate efdefinire delle regole, e per farle rispettare. Le norme per ficacemente. rendere antisismico un capannone industriale monopiano Mariabianca Cita Sironi non prevedono grossi investimenti, ma vanno promulgate Università di Milano BIBLIOGRAFIA C. Doglioni - M. Ligi - D. Scrocca et al., The tectonic puzzle of the Messina area (Southern Italy). Insights from new seismic reflection data, Nature Science, Scientific Reports, December 2012. Url: http://www.nature.com/srep./2012/121213. G. Heiken - R. Funiciello - D. De Rita, The seven hills of Rome. A Geological Tour of the Eternal City, Princeton University Press, 2005, pp. 264. G. Laveccchia - F. Ferrarini et al., From surface geology to aftershock analysis: Constraints on the geometry of the L’Aquila 2009 seismogenic fault system, «Italian Journal of Geosciences», 3 (2012), 131, pp. 330-347. D. Pantosti - P. Boncio, Understanding the April 6th,2009 L’Aquila earthquake – the rheological contribution: an introductory note to the special issue, «Italian Journal of Geosciences», 3 (2012), 131, pp. 303-308. A. Viganò - B. Della Vedova - G. Ranalli - S. Martin - D. Scafidi, Geothermal and rheological regime of the Po plain sector of Adria (Northern Italy), «Italian Journal of Geosciences», 2 (2012), 131, pp. 228-240. F. Visini, Seismic crustal deformation in the Southern Apennines (Italy), «Italian Journal of Geosciences», 2 (2012), 131, pp. 187-204. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI 49 PERCORSI DIDATTICI Letteratura e archeologia Il caso dell’epigramma IV, 44 di Marziale e di un affresco pompeiano Nicola Fiorino Tucci UN TESTO LETTERARIO PUÒ RISULTARE PIÙ INTERESSANTE E STIMOLANTE SE LETTO IN UN’OTTICA INTERDISCIPLINARE, CHE NE VALORIZZI LA DIMENSIONE STORICO-SOCIALE CONFRONTANDOLO CON MATERIALE ARTISTICO DI VALORE ARCHEOLOGICO. È IL CASO DI UN EPIGRAMMA DI MARZIALE (IV, 44), NEL QUALE CON TONO COMMOSSO E NOSTALGICO SI RICORDA LA DISTRUZIONE DEL TERRITORIO POMPEIANO AD OPERA DEL VESUVIO, CHE VIENE CONFERMATO DA UN AFFRESCO POMPEIANO DEL IV STILE IN CUI SONO RAPPRESENTATI DIONISO E IL CELEBRE VULCANO A TESTIMONIARE UNA RINASCITA DI QUELLA REGIONE POCHI ANNI DOPO LA CELEBRE ERUZIONE DEL 79 D.C. C apita molto raramente, nella scuola italiana, che una lezione di Storia si avvalga di un contributo archeologico, che non sia quello fornito da qualche foto o immagine o da una (spesso improponibile) lettura critica, mentre quasi mai accade che un argomento letterario possa essere letto alla luce di un’indagine o di una scoperta archeologica, che ne confermi gli aspetti storico-sociali più interessanti. Eppure un rapporto stretto fra archeologia e letteratura, per il tramite dell’arte, è offerto dallo studio stesso della letteratura latina, che, in quest’ottica, risulta più interessante e più completo: si pensi ad un celebre passo delle Tusculanae Disputationes (V, 23) in cui Cicerone racconta la sua esperienza di archeologo dilettante a Siracusa; o a Virgilio, che presenta, nell’Eneide, il sacerdote Laocoonte così come questo personaggio è immortalato nella famosa statua di età ellenistica, che possiamo ammirare ancor oggi; o ad Ovidio (Fasti, I, 697-722), la cui descrizione Affresco dal larario della Casa del Centenario a Pompei con raffigurazione di dell’Ara Pacis Augustae ha contribuito Dioniso in forma di grappolo d’uva presso il Vesuvio; in alto un festone con bende alla ricostruzione moderna del monued uccelli; in basso il serpente agatodemone. mento augusteo o, infine, a Simmaco Napoli, Museo Archeologico Nazionale. 50 Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PERCORSI DIDATTICI questo di uva famosa riempì le umide [botti: questi i rilievi, che Bacco amò più dei [colli di Nisa, su questo monte i Satiri un tempo [intrecciarono danze. Questa era la sede di Venere, a lei più [gradita di Sparta, questo il luogo famoso per il nome [di Ercole. Tutto giace (ora) coperto dalle fiamme [e dalla triste lava: né gli dei avrebbero voluto che ciò [piacesse loro. (traduzione di N. Fiorino Tucci) Mosaico con raffigurazione di Dioniso e una pantera (II sec. d.C.), Brescia, Museo di Santa Giulia. grazie al quale possiamo immaginare con molta precisione l’Altare della Vittoria della Curia senatoria a Roma nel IV sec. d.C. Insomma, l’analisi dei testi letterari e l’indagine archeologica si possono integrare, sollecitando nell’alunno un atteggiamento più aperto e critico nei confronti di un passato, che spesso vien presentato stereotipato e, al più, suggestivo ma non suscettibile di un’indagine più approfondita e critica. In questa prospettiva di valorizzazione di un rapporto proficuo fra letteratura, arte ed archeologia si colloca il caso specifico qui proposto, che permette di leggere una poesia di Marziale alla luce di un affresco pompeiano conservato al Museo Archeologico di Napoli. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI Si tratta dell’epigramma IV, 44 di Marziale, una delle testimonianze relative all’eruzione del Vesuvio avvenuta nel 79 d.C., di cui, per opportunità, riportiamo di seguito testo e traduzione: Hic est pampineis viridis modo Vesbius [umbris, presserat hic madidos nobilis uva lacus: haec iuga, quam Nysae colles plus [Bacchus amavit, hoc nuper Satyri monte dedere choros. Haec Veneris sedes, Lacedaemone gratior [illi, hic locus Herculeo nomine1 clarus erat. Cuncta iacent flammis et tristi mersa [favilla: nec superi vellent hoc licuisse sibi. Questo è il Vesuvio un tempo [verdeggiante per le pampinee ombre, Ad una prima lettura del testo si nota subito il ricorrere insistente del dimostrativo hic, proprio della letteratura funeraria2, che ne sottolinea il valore commemorativo mentre la presenza della coppia Bacco-Venere serve a dare una chiara indicazione geografica: sappiamo, infatti, che gli abitanti della zona vesuviana, in cui si produceva un ottimo vino3, veneravano Bacco4 e tributavano un culto particolare a Venere5, divinità protettrice di Pompei, adorata appunto come Venus Pompeiana. Bisogna precisare, però, che nei versi non risulta molto chiaro se ci si riferisce a Pompei o, forse, ad Ercolano, città evocata col nome del suo presunto eponimo, l’eroe greco Ercole6, che, si diceva, l’avesse fondata durante il suo passaggio in Italia. 1. Probabilmente nel testo il termine nomen andrebbe emendato in numen (si veda R. Moreno Soldivila, Martial, Book IV: a Commentary, Leiden-Boston 2006, p. 330). 2. Si veda R. Moreno Soldivila, Martial, cit., p. 328. 3. Cfr. A. Dosi - F. Schnell, Pasti e vasellame da tavola. Vita e costumi dei Romani antichi, Roma 1986. 4. Bacco/Dioniso era molto venerato a Pompei: si veda E. Cantarella - L. Jacobelli, Un giorno a Pompei. Vita quotidiana, cultura, società, Electa, Napoli 2003, pp. 39-41. 5. A Pompei nell’80 a.C. era stata dedotta una colonia di veterani per volontà di Silla, che era devoto a Venere (Colonia Cornelia Veneria Pompeianorum): si veda E. Cantarella - L. Jacobelli, Pompei, cit., p. 12. 6. Cfr. Serv. ad Aen. VII 662: veniens autem Hercules de Hispania per Campaniam in quadam Campaniae civitate pompam triumphi sui exhibuit: unde Pompei dicitur civitas. 51 PERCORSI DIDATTICI Inoltre, l’epigramma, dopo aver tristemente constatato che tanta (passata) felicitas della zona è ormai sommersa da uno strato di lava (flammis et tristi favilla), si chiude esprimendo la certezza che gli dei sono profondamente dispiaciuti per il cataclisma verificatosi in quella regione, che essi non hanno potuto impedire perché era loro contraria la volontà del Fato. Sul piano letterario, il testo di Marziale presenta anche forti motivi di interesse per la sua raffinatezza e per i riferimenti eruditi, che permettono, in questa sede, di confrontarlo con un dipinto ritrovato a Pompei nel lontano 1879: si tratta di un affresco7 presente su un larario8 della Casa detta del Centenario, nella regio IX. L’affresco, in chiaro IV stile, raffigura Bacco/Dioniso sulla sinistra e, al centro, isolato, un alto monte verdeggiante, con le pendici ricoperte da filari di viti a spalliera9, identificato nel Vesuvio prima dell’eruzione del 79 d.C., perché contraddistinto da una sola cima. Il dio, in piedi, in una posa da doriforo, ha il corpo ricoperto da un enorme grappolo d’uva quasi alla maniera dei ritratti dell’Arcimboldi, eccetto testa, mani e piedi, volge la testa verso destra ed è caratterizzato dai suoi classici atStatua in bronzo di Dioniso ritrovata nel Tevere (II sec. d.C.), Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme. tributi: regge nella mano sinistra il tirso, mentre nella destra un kantharos da cui scorre del liquido; un giaguaro o, più probabilmente, una pantera è al suo fianco destro. La scena è delimitata in alto da una ghirlanda curva con nastri, su cui poggia un uccello (una colomba o una tortora), mentre, poco più sotto, un altro uccello simile è raffigurato in volo verso destra; in basso un serpente agatodemone10 si snoda tra rami di mirto in direzione di un altare in colore giallo con un uovo. Menade in volo che porta offerte su un vassoio, dettaglio di un affresco dal triclinio della Casa del Centenario a Pompei, Napoli, Museo Archeologico Nazionale. 52 7. L’affresco è conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (Primo piano, Sala LXXV; n. 112286); dimensioni: 140 cm x 102 cm. 8. Il larario è un altare privato dedicato ai Lari, protettori della casa romana, ma anche ai Penati o ad altre divinità protettrici; spesso si presenta nelle forme di un sacello domestico. Si veda F. Giacobello, Larari pompeiani. Iconografia e culto dei Lari in ambito domestico, Milano 2004, pp. 34 ss. 9. Cfr. Cass. Dio LXVI, 21, 3. 10. Questo termine indica lo Spirito buono e benefico contrapposto a quello cattivo, Kakodemone. Nei Misteri Bacchici era rappresentato da un serpente eretto su un palo. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PERCORSI DIDATTICI Il dipinto è datato al periodo 68-79 d.C.11, collocandosi, quindi, poco dopo il terremoto del 62 d.C., che tanti danni fece nell’area campana12, ma soprattutto trova alcune significative analogie nell’epigramma, che può esserle accostato quasi come una didascalia. Infatti, nel testo si parla del Vesuvio celebrandolo per una caratteristica che evidentemente non ha più ai tempi di Marziale: il verde dei suoi vigneti; proprio questo colore viene utilizzato nell’affresco pompeiano per connotare il vulcano, ritratto con la sua cima conica. Inoltre, Marziale afferma in maniera decisa che Bacco ed il suo corteggio, cioè i Satiri, un tempo avevano scelto come loro dimora preferita il Vesuvio; nel dipinto la figura stante è certo il dio del vino come chiaramente attestato dal fatto che sia ricoperto da un enorme grappolo d’uva13. Se nell’epigramma, infine, si ricorda anche che Venere ha addirittura preferito come sua sede il Vesuvio all’amata Sparta, nell’affresco si può individuare un riferimento implicito a Venere nella presenza di un uccello svolazzante da identificare in una colomba, animale a lei sacro. Quelle individuate, pertanto, fra poesia ed affresco sono affinità troppo evidenti per non dedurre che facciano parte di un immaginario collettivo, piuttosto diffuso nell’arte come nella letteratura dell’epoca, nel quale dei ed elementi della natura (il vulcano, la terra fertile, gli animali) siano in perfetta corrispondenza interpretativa: in una chiave positiva prima del disastro (l’affresco di Pompei), molto negativa dopo di esso (l’epigramma di Marziale)14. In conclusione, se datiamo l’epigramma di Marziale, e tutto il IV libro, all’87- 89 d.C.15, esso rappresenta una testimonianza di molto anteriore a quella di Plinio il Giovane, nella quale non viene attestata la rinascita della zona sia sul piano agricolo che su quello del culto dopo il terremoto del 62 d.C. ma la rovina susseguente la terribile eruzione del 79 d.C.16. Infatti, l’area vesuviana, a pochi anni dal terremoto del 62 d.C., sembra aver recuperato alcuni dei suoi prodotti più tipici e la sua naturale propensione a ricondurli alle divinità tradizionalmente collegate ad essi. A ciò si può aggiungere l’intento del poeta di alludere alla ripresa almeno dei culti religiosi dopo il cataclisma più grave e di lodare indirettamente la politica della dinastia Flavia, anche se è improbabile che Marziale, appena assurto agli onori della corte, indicasse con intento encomiastico futuri progetti riedificativi di Domiziano17. In conclusione, proporre agli alunni un confronto così articolato può dare allo studio della letteratura latina e dell’arte classica una prospettiva storica più ampia ed interessante grazie al contributo determinante dell’archeologia. Nicola Fiorino Tucci Liceo Scientifico Statale “G. Galilei”, Bitonto (Ba) Menade e Satiro in volo, affresco dalla Casa del Naviglio a Pompei, Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI 11. Cfr. la nota di presentazione del reperto nel catalogo a cura del Museo Archeologico di Napoli, n. 112286. 12. Cfr. Seneca, Nat. Quaest. VI, 1 e Tacito, Ann. XV, 22. 13. In altre pitture pompeiane Dioniso è ricoperto da un grappolo d’uva: si veda E. Cantarella - L. Jacobelli, Pompei, cit., p. 39. 14. Non è da escludere, a nostro avviso, che la vicinanza temporale fra il terremoto del 62 d.C. e l’eruzione del 79 d.C. abbia probabilmente ingenerato qualche confusione nell’interpretazione dei posteri. 15. Si conferma così la datazione proposta per il IV libro degli Epigrammata di Marziale: si veda R. Moreno Soldivila, Martial, cit., p. 327. 16. Plinio il Giovane, Ep. VI, 20, 18. 17. Si veda G. Galàn Vioque, Martial, Book IV, A commentary, Leida 2002, p. 173. 53 PERCORSI DIDATTICI Il madrigale: quando la musica si accoppia alla poesia Paolo Fabbri V enezia, 1544. Nel suo Dialogo della musica – lì stampato in quell’anno – il frate fiorentino Antonfrancesco Doni immaginò gli svaghi di una brigata di amici: una congrega di fantasia ma del tutto verosimile, concepita non solo a imitazione di Boccaccio, ma a somiglianza di quanto realmente si faceva, a Firenze come nella Serenissima. Il Dialogo si apre con gli interlocutori che rifiatano dopo aver ballato. Michele: Da poi che i piaceri del danzare ci sono in istanchezza ritornati, è bene che ci posiamo, e si diamo a qualche altro diletto piacevole, che quiete ci apporti e dalle noie sostenute ci sollievi. […] Grullone: Vorrei, signori miei, per passare il rimanente di questo giorno con uguale piacere, che facessimo altro essercizio così sedendo, come novellare, giocare o cantare, e come più v’aggrada. Michele: Il novellare non mi pare al proposito, per esser cosa più tosto da femine o fanciulli. Grullone: Per dar materia bene spesso d’alterarsi, il giocare mi garba. Oste: Et io danno il gioco in tutto, ma non così le novelle. Pur, per non parere che vogliamo rubbare o imitare il Boccaccio, se vi governarete a modo mio cantaremo e novelleremo a un tempo […]. Bargo (alias Bartolomeo Gotifredi). Grullone propone di dedicarlo alla donna della quale avevano parlato poco prima, di cui Bargo è infelicemente innamorato. Quest’ultimo distribuisce poi le parti («Grullone, pigliate il vostro basso, Michele l’alto e l’Oste il canto»), riservandosi quella del tenore. La scena delinea una situazione tipica di certi ambienti italiani di pieno Cinquecento: il gusto di far musica assieme per puro diletto, il desiderio di coniugare il canto a espressioni di poesia alta, il piacere – fisico e intellettuale – che si alimenta nella realizzazione di trame sonore complesse, in cui più voci (po- lifonia) s’intrecciano realizzando un tessuto continuamente screziato. Cose simili si ascoltavano in chiesa, in latino, nelle occasioni liturgiche festive. In ambito profano, una veste sonora di tale ricchezza – ma in versione più “facile” – la si poteva trovare applicata a chansons francesi: un repertorio internazionale, originato in terre francofone ma ormai diffuso dalle Fiandre alle corti italiane, da Parigi alle città tedesche. All’epoca in cui scriveva Doni, da un paio di decenni erano però sempre più frequenti i testi in volgare italiano rivestiti in polifonia di quel tipo: anzi, perfino più ambiziosa. «Faccisi musica», esorta poco dopo Michele. Ci si accorda su quello che viene definito un madrigale a 4 voci («Donna, per acquetar vostro desire»): musica del compositore Claudio Veggio, versi che si fingono di uno degli interlocutori, Gerrit Van Honthorst, Concerto (1626-30), Dublino, National Gallery of Ireland. 54 Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PERCORSI DIDATTICI Gerrit van Honthorst, Concerto, particolare (1626-30), Roma, Galleria Borghese. Metamorfosi e sdoppiamenti Il fenomeno è documentato da composizioni raccolte in manoscritti redatti verosimilmente in area fiorentina negli anni ’20 del Cinquecento. Quei brani erano opera di musicisti prevalentemente franco-fiamminghi presenti in loco (per esempio, del maestro di cappella del Battistero, il francese Philippe Verdelot), oppure d’ambiente romano, ecclesiastici che erano cantori presso la cappella papale: tutti compositori abituati a maneggiare le tecniche polifoniche della musica liturgica, ma anche in dimestichezza con la loro versione light propria della chanson. Nel presentare a stampa (a Venezia, presso Ottaviano Petrucci) una scelta di versi di Petrarca – poeta ormai in piena Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI canonizzazione letteraria – intonati polifonicamente a 4 voci, nel 1520 Bernardo Pisano intitolò genericamente Musica quei suoi pezzi. Dieci anni dopo, una miscellanea di brani analoghi stampata a Roma nel 1530 (e lì ristampata nel 1533) porterà l’intestazione Madrigali de diversi musici. Libro primo de la Serena. I canti melodiosi di quella ipotetica Sirena erano dunque definiti con un termine – madrigale – che teoria e pratica del volgare letterario italiano avevano impiegato già nel Trecento, ma che da tempo era entrato in un cono d’ombra. La scelta si dimostrò quanto mai felice. Da allora in poi, sarà quello il termine che connotò stabilmente il nuovo genere musicale, ben diverso dalle precedenti intonazioni di versi in volgare (frottole, laudi, canti carnevaleschi che fossero), e che riapparirà sistematicamente sui frontespizi delle centinaia e centinaia di raccolte a stampa: quasi 2000 quelle attualmente censite, nel secolo dal 1550 al 1650, concentrate per la maggior parte nei decenni che vanno dal 1560 al 1620 (quelli in cui il fiume del madrigale musicale ebbe la sua massima portata). Fu una metamorfosi vera e propria: un termine letterariamente obsoleto, esangue, rinasceva in ambito musicale per indicare un genere che si proponeva di miscelare l’alta poesia in volgare italiano con le sofisticate tecniche della polifonia. Venne coinvolto qualsiasi tipo di morfologia poetica elevata: sonetti, canzoni, ottave, ballate, terzine, episodi in versi sciolti e – da un certo punto in poi – anche madrigali, cioè quei flash lirici o galanti, spesso arguti, che si consumano nel giro breve di una decina di endecasillabi e/o settenari non legati da schemi prevedibili di rime, in voga nel pieno e secondo Cinquecento. Insomma, dopo la meta- morfosi, uno sdoppiamento: il termine “madrigale” designa in musica un genere di polifonia vocale che intona uno spettro di morfologie letterarie tra le quali si annovera anche il madrigale (letterario). Lirica d’arte in veste nobile Impossibile non leggere questi sviluppi entro il quadro di più generali tendenze del coevo clima culturale italiano, che vedeva il prepotente emergere del volgare come strumento linguistico anche colto, e il suo sostituirsi al latino: negli atti amministrativi ma ancor più nelle esperienze d’arte. Certo, era un volgare passato attraverso processi di raffinamento, secondo codici linguistici e stilistici messi a fuoco da Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua (avviate nel 1502, pubblicate a Venezia nel 1525). Non occorreva immaginare astratte costruzioni di laboratorio, dato che erano disponibili aurei modelli cui uniformarsi. Come lingua, il toscano letterario del Trecento; come concrete realizzazioni, le opere dei suoi campioni: Petrarca, Boccaccio, Dante. Per una poesia alta in volgare, una veste musicale altrettanto elevata. E questa non poteva che essere la polifonia, con le sue regole e sottigliezze tecniche, ben diversa dal repertorio frottolistico in voga suppergiù tra il 1480 e il 1520, d’abito magari accattivante quanto a melodia, ma contrappuntisticamente spoglio. Per quanto trattate anche in polifonia, nelle frottole la loro natura originaria di poesia intonata estemporaneamente si avvertiva: nell’egemonia della voce superiore, nel sostegno di un contrappunto essenziale e spesso solo realizzato da strumenti, nel procedere per strofe applicando le medesime formule musicali a versi differenti. Niente di tutto questo nel madrigale musicale, che richiedeva tutte le voci 55 senza di contemporanei (Torquato Tasso e Battista Guarini, per dire) si fa più rilevante nei decennî finali del Cinquecento, indice di evoluzioni del gusto che vedevano insidiare primati fin lì indiscussi. A partire dal nuovo secolo la situazione è ribaltata in favore della contemporaneità, con l’irrompere di nuove esperienze: Marino e il marinismo (invece di Petrarca e il petrarchismo), Chiabrera e la lirica anacreontica. Anima e corpo Quale fosse, per il compositore di madrigali musicali, il rapporto tra versi e musica, lo delinea come meglio non si potrebbe Marc’Antonio Mazzone nella lettera di dedica del suo Primo libro de’ madrigali a quattro voci (1569): «il corpo della musica son le note, e le parole son l’anima, e sì come l’anima per esser più degna del corpo deve da quello esser seguita ed imitata, così anco le note devono seguire ed imitare le paValentin de role». Entra più nel dettaglio un comBoulogne, Concerto positore e teorico come Giuseppe Zar(1622-25), lino (Istitutioni harmoniche, Venezia Parigi, Louvre. 1558: si cita dall’edizione 1573): effettivamente cantate, nessuna egemo- bienti, climi culturali, contingenze o – nia di una sulle altre, contrappunto ela- perché no – a volontà d’autore, questo borato, niente modularità strofica. bisognerà valutarlo caso per caso. Ad ogni modo, la hit parade dei poeti Le scelte poetiche (quelli identificati, che sono solo una Maneggiando intenzionalmente testi porzione della massa di quelli intonati) d’arte, e proponendosi di potenziarne vede dominare Petrarca e il suo Canzoper via musicale i contenuti espressivi, il niere fino agli anni ’90 del Cinquecento: madrigale è un campo privilegiato per un Classico metatemporale, seguito da verificare scelte, inclinazioni e prefe- autori di più recente canonizzazione renze letterarie. Anzi, uno dei primi (l’Ariosto del Furioso, grande serbatoio compiti che gli studiosi si sono posti è di ottave; Sannazaro e la sua Arcadia; stato – ed è tuttora – individuare gli au- Bembo lirico), affiancati dagli autori tori dei versi intonati: per ovvie ragioni contemporanei più in voga (Luigi Casdi maggior conoscenza, ma soprattutto sola, i cui 364 Madrigali letterari usciin quanto rivelatori di gusti e tendenze. rono a Venezia nel 1544). Senza dimenChe poi si tratti di “scelte” da ascrivere a ticare i tanti autori non individuati, commissioni, obblighi di servizio, am- verosimilmente perlopiù coevi. La pre- 56 la musica fatta sopra parole, non è fatta altro se non per esprimere il concetto et le passioni et gli effetti di quelle con l’armonia; et se le parole parleranno di modestia, nella compositione si procederà modestamente, et non infuriato; et d’alegrezza, non si facci la musica mesta; e se di mestitia, non si componga allegra; et quando saranno d’asprezza, non si farà dolce; et quando soave, non s’accompagni in altro modo, perché pareranno difformi dal suo concetto, et quando di velocità, non sarà pigro et lento: et quando di star fermo, non si correrà; et quando dimostreranno di andare insieme, si farà che tutte le parti si congiugneranno […]. Li compositori moderni hanno per costume (il che non è da biasimare) che quando le parole dinotano cose gravi, basse, profunde, discesa, timore, pianti, lagrime et altre cose simili, fanno contiNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PERCORSI DIDATTICI nuare alquanto le loro modulationi nel grave, e quando significano altezza, acutezza, ascesa, allegrezza, riso et altre simili cose, le fanno modulare nell’acuto. Un esempio lo può fornire l’attacco di un celeberrimo sonetto petrarchesco, «Solo e pensoso i più deserti campi / vo misurando a passi tardi e lenti», intonato da un non meno famoso compositore come Luca Marenzio e compreso nel suo Nono libro di madrigali a cinque voci (1599). Mentre 4 voci ingaggiano un serrato contrappunto presentando sfasate, una dopo l’altra, un medesimo motivo che discende vivacemente per salti, la voce superiore sale sistematicamente di semitono in semitono, con implacabile e uniforme lentezza: sola, appunto, e «misurando a passi tardi e lenti» tutto lo spazio sonoro di sua competenza. Regole ed eccezioni Un campo fecondo di significazione era quello della dialettica tra regole ed eccezioni, tra normale aspettativa e inopinato disorientamento introdotto per dare risalto a un punto nevralgico della poesia. Lo dice bene Adriano Banchieri (Conclusioni nel suono dell’organo, Bologna 1609), rilevando come il rispetto delle leggi compositive fosse opportuno per la musica strumentale, ma meno obbligante in quella vocale, nel caso il testo lo suggerisse: «Insomma la musica deve osservarsi con gli buoni precetti senza parole, come sono toccate, recercari e quando le parole nelle compositioni non ricerchino inosservanza, la quale inosservanza devesi usare per imitare la parola». Certo, così si socchiudeva la porta all’arbitrio e alla discrezionalità individuale. In pieno Cinquecento, per esempio, Cipriano de Rore fu maestro di deroghe prontamente ricondotte alla norma. Ma negli anni successivi, i madrigali del fanatico musicofilo Carlo Gesualdo principe di Venosa sono un accumulo di eccezioni che offuscano la regola, un piatto così speziato che il peperoncino tende a coprire il sapore della vivanda. Per altro verso, ciò che era raffinata escogitazione per qualcuno (Claudio Monteverdi e la cerchia della corte gonzaghesca per cui lavorava, tra Cinque e Seicento), ad altri suonava come intollerabile abuso (il compositore e teorico bolognese padre Giovanni Maria Artusi, che attaccò pubblicamente quelle che considerava astruserie). L’Italia musicalmente unita, potenza artistica europea lungo tutta la Penisola. Alla Venezia di Adriano Willaert, Rore, Monteverdi, possono fare da contrappeso geografico i reami spagnoli di Napoli (con Jean de Macque, Rocco Rodio, Scipione Dentice, Montella, Gesualdo) e della Sicilia (Gian Domenico Martoretta, Pietro Vinci, Antonio Il Verso, Pietro Maria Marsolo). In mezzo, le corti degli Este a Ferrara (con Luzzasco Luzzaschi) e dei Gonzaga a Mantova (con Wert e Monteverdi), la Roma delle corti nobiliari e cardinalizie (con Marenzio): per non dire di decine di altri centri urbani, grandi e piccoli. Per la prima volta, un genere di musica vocale in lingua italiana unificava idealmente tutta la Penisola. Ma il madrigale è stato anche il primo genere di musica italiana a godere di ampia rinomanza europea e avere una sua precisa identificabilità: il punto d’avvio di un primato che poi l’opera in musica rafforzerà e consoliderà su scala ancora maggiore. Forse cominciò lì a prender corpo lo stereotipo dell’italiano sentimentale: prima che melodrammatico, nella raffinata estroversione dell’espressività madrigalesca. Paolo Fabbri Università di Ferrara Diffuso in aree sociali e su livelli plurimi, nel giro di pochi decennî il fenomeno “madrigale” s’irradiò in pratica BIBLIOGRAFIA L. Bianconi, Il Cinquecento e il Seicento, in Letteratura italiana, VI (Teatro, musica, tradizione dei classici), Einaudi, Torino 1986, pp. 319363. L. Bianconi, Il Seicento [1982], Storia della musica, IV, EDT, Torino 19912. A. Einstein, The Italian Madrigal, Princeton University Press, Princeton 1949. P. Fabbri - M.C. Bertieri (a cura di), Musica e società. Dall’Alto Medioevo al 1640, McGraw-Hill, Milano 2012 (Capitoli V e VII). P. Fabbri (a cura di), Il madrigale tra Cinque e Seicento, Il Mulino, Bologna 1988. I. Fenlon - J. Haar, L’invenzione del madrigale italiano, Einaudi, Torino 1992. J. Kerman, The Elizabethan Madrigal, American Musicological Society, New York 1962. E. Vogel - A. Einstein - F. Lesure - C. Sartori, Bibliografia della musica italiana vocale profana pubblicata dal 1500 al 1700, StaderiniMinkoff, Pomezia-Genève 1977. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI 57 PERCORSI DIDATTICI Fra musica, letteratura e immagine L’oratorio musicale attraverso i “trionfi” di Giuditta Maria Rosa De Luca L’ oratorio musicale, genere piuttosto trascurato dai manuali scolastici, consente di affrontare in prospettiva multidisciplinare argomenti cruciali di storia culturale. Derivato da pratiche devozionali e musicali del primo Seicento, l’oratorio (dal latino oratorium, luogo destinato alla preghiera) è un piccolo dramma per musica1, un’azione di contenuto edificante, su soggetto morale, biblico o agiografico, condotta in dialogo tra pochi personaggi (mediamente da tre a cinque), in prosa latina o in versi italiani, senza rappresentazione scenica. Dialoghi e monologhi sono realizzati in musica con recitativi e arie: nell’oratorio italiano, i recitativi intonano sillabicamente le parti in versi sciolti (endecasillabi e settenari senza schema di rime); le arie espandono in un canto più florido brevi strofe tessute in versi lirici. Ci occuperemo qui di un oratorio di soggetto biblico. La Bibbia – il libro per eccellenza – ha offerto al pensiero occidentale moderno un copioso serbatoio di narrazioni simboliche in dimensione storico-religiosa, evocando temi universali (quali la lotta fra il Bene e il Male) profondamente incisi nella mentalità, nella cultura e nell’arte europee. Le varie forme di divulgazione dei contenuti biblici, nei diversi linguaggi artistici, permettono d’impostare un percorso didattico che raccordi la storia della musica con la storia dell’arte e la storia della letteratura. Il percorso qui proposto verte sulla storia di Giuditta, tratta dall’omonimo li- 58 Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, Giuditta e Oloferne (ca. 1599), Roma, Galleria nazionale d’Arte antica. bro della Bibbia2: la felice impresa della bella ebrea che per salvare il suo popolo affronta il terribile Oloferne, sgozzandolo nel sonno, rappresenta un vero e proprio “mito”, che per la sua esemplarità ha fornito spunti poetici e drammatico-musicali a numerosi oratorii; è anche un soggetto frequente nelle arti figurative. In quanto contenuto «esteticamente ed epistemologicamente rilevante», ben si adatta al contesto educativo: radicato a fondo nella tradizione culturale, consente all’allievo la costruzione del sapere attraverso una rete di conoscenze e la partecipazione attiva alla cultura in cui vive. figurazione dell’acme della vicenda: la cruenta decapitazione di Oloferne da parte di Giuditta, accompagnata dalla fida ancella. Si sintetizza la trama: il Libro di Giuditta, databile al sec. II a.C., narra l’assedio di Betulia, città della Giudea, da parte dell’esercito di Oloferne, luogotenente del re assiro, e il salvataggio del popolo giudaico per mano di Giuditta. È un racconto “esemplare” in forma di breve romanzo; già il nome ‘Giuditta’ richiama la radice della parola ‘giudeo’, ossia israelita: Giuditta è per eccellenza “donna della Giudea”. L’anonimo estensore delinea i profili dei due personaggi principali: Oloferne è il conquistatore, La storia di Giuditta Il primo passo sta nell’introdurre i ragazzi al racconto biblico. Tele famose – qui una del Caravaggio e una di Artemisia Gentileschi – propongono la raf- 1. L. Bianconi, Il Seicento, EDT, Torino 1991, p. 142. 2. Cfr. La Bibbia TOB. Nuova versione CEI, Elledici, Leumann-Torino 2009. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI l’oppressore, Giuditta una giovane vedova, bella, valorosa, timorata di Dio. Nel racconto biblico, e dunque nell’iconografia cristiana, Giuditta è accompagnata da un’ancella, che la affianca prima, durante e dopo l’impresa, raccoglie in un sacco il capo reciso di Oloferne, e scorta il ritorno della protagonista a Betulia. Illustrata la vicenda, converrà alludere alla cosiddetta esegesi figurale delle Sacre Scritture, in uso sin dai primordi del Cristianesimo: l’Antico Testamento veniva letto come prefigurazione del Nuovo Testamento; in senso figurale, per esempio, la favola di Abramo e Isacco anticipa e spiega il sacrificio di Cristo, Figlio di Dio. In quest’ottica, Giuditta è un typus Mariae, simboleggia cioè la Madre di Cristo, esaltata nella sua supremazia sul Male. Perciò Giuditta – come prima di lei Ester, Debora, Giaele – spiccò nell’insegnamento della dottrina cristiana. L’oratorio musicale Anche l’oratorio in musica, nel Seicento cattolico, offre spesso una lettura figurale delle storie bibliche, in forme e stili congeniali ai valori della società italiana coeva. Se da un lato il genere discende alla lontana dalle pratiche pie favorite dal Concilio di Trento (1545-1563), dall’altro il suo sviluppo nel Seicento è legato all’evoluzione del contesto sociale: da esercizio devoto in un luogo di preghiera divenne evento mondano atteso da un pubblico d’élite. Specialmente in Quaresima, a teatri d’opera chiusi, l’oratorio fu spesso considerato un corrispettivo spirituale del melodramma, condividendone stile e struttura. L’oratorio ha nondimeno una drammaturgia particolare: privo di costumi, scene e gesti, esso comunica l’azione solo con le parole e col canto. La storia viene narrata dai personaggi, i libretti abbondano dunque di passi illustrativi e descrittivi, giacché il racconto deve stimolare l’immaginazione di chi ascolta, la facoltà di “vedere” con gli occhi della mente – come se avvenisse lì per lì – una scena che in realtà è riferita a parole. Due donne e un guerriero: la “Giuditta” di Scarlatti Dal gran numero di “Giuditte” del Seicento scegliamo quella composta intorno al 1697 da Alessandro Scarlatti (1660-1725), su libretto italiano di Antonio Ottoboni (1646-1720), nobile veneziano, nipote di papa Alessandro VIII (1689-1691) e genitore d’un cardinale, Pietro Ottoboni, che fu mecenate fastoso (1667-1740). Il compositore palermitano scrisse più di trenta oratorii (quasi tutti in volgare), prevalentemente a Roma, ossia nella città che ha dato origine al genere e l’ha assiduamente coltivato, in confraternite di laici, Artemisia Gentileschi, Giuditta e Oloferne (1625-30), Napoli, nobili e patrizi che promuovevano eseMuseo di Capodimonte. cuzioni in chiese, cappelle, palazzi. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI Ai tre personaggi del racconto biblico (Giuditta, Nutrice e Oloferne) l’oratorio scarlattiano accosta un organico costituito da archi e basso continuo. Il libretto è suddiviso in due parti: nella prima, l’azione drammatica verte sull’arrivo di Giuditta e della nutrice nel campo d’Oloferne; nella seconda, sulla scena di seduzione e uccisione del tiranno. Trattiamo qui due brani della prima parte, in due momenti di didattica dell’ascolto3: il duetto Giuditta-Nutrice «Deh, rifletti al gran cimento», e l’aria di Oloferne «Togliti da quest’occhi». L’ascolto critico e riflessivo dei due brani, preceduto dalla lettura del testo poetico, condurrà gli studenti a impossessarsi di due momenti importanti nell’azione: l’attimo in cui le due donne stanno per varcare il recinto del campo nemico; e la reazione di Oloferne nel vedere Giuditta. (1) Giuditta-Nutrice: Duetto «Deh, rifletti al gran cimento» La Nutrice esorta Giuditta a ponderare i rischi dell’audace impresa: Nutrice: Deh rifletti al gran cimento. Giuditta: Vien dal Ciel ciò ch’opro e tento. Nutrice: Danna il Ciel l’arti profane. Giuditta: Non è soggetto il Cielo a leggi umane. Il dialoghetto a botta e risposta esplicita il contrasto di sentimenti e atteggiamenti: apprensione nella Nutrice, che esorta alla prudenza, e sicumera in Giuditta, conscia di agire per volontà divina. Abbiamo un dualismo di affetti (oggi diremmo “stati d’animo”) che culmina nel verso «Danna il Ciel l’arti profane»: il contrasto tra la minacciosa sentenza della Nutrice e lo slancio fideistico di Giuditta si traduce, in senso 3. Sulla Didattica dell’ascolto, cfr. gli studi di G. La Face in bibliografia. 59 PERCORSI DIDATTICI simbolico, nell’opposizione fra legge dell’uomo e legge divina. Si osservi l’iterazione della parola ciel(o), pronunciata da entrambe le donne ma in modo diverso, in funzione oppositiva. In musica, il contrasto si coglie nel diverso andamento della linea melodica. L’apprensione della Nutrice si manifesta in una melodia sillabica che procede dapprima per gradi congiunti – il testo poetico incita alla riflessione e alla cautela –, indi per salti discendenti: la parola rifletti, ripetuta per due volte, conduce a una chiusa (cadenza) su «al gran cimento». La risposta di Giuditta è melodicamente dissimile: squillante, vibrante, denota determinazione nel personaggio. La melodia culmina in un salto baldanzoso su ciel, sottolineato dal vocalizzo che prolunga la sillaba. Sull’ammonimento «Danna il Ciel» la Nutrice incalza Giuditta: le fioriture vocali danno risalto, oltre che a ciel, anche ad arti, alludendo simbolicamente alla seduzione che promana dalle opere dell’uomo (e del demonio). Per converso, la replica di Giuditta è franca, su note nettamente scandite; per quanto la Nutrice la inciti a riflettere, nulla distoglie la protagonista dal suo proposito. (2) Oloferne: aria «Togliti da quest’occhi» Al cospetto delle due donne, il violento Oloferne, abbagliato dalla bellezza della giudea, cade in un profondo turbamento interiore: Oloferne: Togliti da quest’occhi per non ferirmi il cor, bellezza infida. Dei dardi che tu scocchi si ride il mio valor, ma non si fida. Il poeta rappresenta l’inquietudine del personaggio mediante un contrasto di affetti e atteggiamenti: al comando imperioso di Oloferne, «Tògliti da quest’occhi», si contrappongono i versi se- 60 guenti, «per non ferirmi il cor, /bellezza infida». Alle frecciate dell’amore (dardi) si oppone il valor del guerriero. Il carattere bellicoso confligge con la vulnerabilità dell’animo alla seduzione sensuale. Nella prima parte dell’aria (da «Tògliti da quest’occhi» a «bellezza infida»), Scarlatti scolpisce il contegno di Oloferne mediante una melodia dalla scansione baldanzosa. L’indole guerriera è esplicitata nel motto iniziale, quell’imperativo Tògliti tradotto in musica con un “gesto” in battere, l’attacco su una nota acuta, il ritmo puntato e il ribattuto. Il canto procede sillabico e ritmato anche sui versi «per non ferirmi il cor, / bellezza infida». La seconda parte dell’aria (da «Dei dardi che tu scocchi» a «ma non fida») mantiene alta l’enfasi declamatoria: il motivo dei dardi gira e rigira intorno a una nota (Re3); l’iterazione su si ride effigia l’inquietudine di Oloferne; il risalto conferito alla congiunzione avversativa ma – una nota più lunga, seguita da pausa – tiene sospeso il discorso musicale; dopo la cesura, una serie discendente di note conduce alla clausola cadenzale (ossia alla formula melodico-armonica che chiude la frase), esprimendo l’intimo cedimento di Oloferne di fronte a Giuditta. Ma la ripresa della prima parte ripristina e assevera il tono sprezzante del condottiero. In sede di rielaborazione andrà evidenziato come il conflitto drammatico si colga negli affetti musicalmente rappresentati: al compositore spettava in quest’epoca il compito di “muovere” attraverso la musica gli animi degli ascoltatori suscitando affetti consoni al significato verbale. Il tono squillante della voce di soprano e la prevalenza dello stile fiorito, che enfatizza determinate parole, conferiscono a Giuditta una certa qual alterigia rispetto all’atteggia- mento ponderato della Nutrice (nel registro del contralto, più grave in ragione dell’età e della posizione sociale subalterna); a loro volta, le due donne costituiscono un ‘polo’ drammatico indissolubile contrapposto alla boria brutale del guerriero Oloferne. Un’eroina e il suo popolo: la “Juditha” di Vivaldi Se nella pittura del Seicento prevale – ed è una scelta che presuppone il realismo radicale del Caravaggio – lo spettacolo in atto della decapitazione, nel quale sovente l’ancella funge da comprimario, un modello iconografico prediletto nel Settecento mostra Giuditta che esibisce la testa di Oloferne nel trionfale ritorno a Betulia. Nell’affresco di Luca Giordano nella Certosa di S. Martino a Napoli, l’eroina, raffigurata in posizione di spicco e contornata da quattro donne (la figlia di Faraone, Ruth, Jaele, la vedova di Sarepta), assurge ad allegoria del Bene che sconfigge il Male. A questo dipinto si rifecero molti pittori nel trattare il soggetto di “Giuditta che mostra al popolo la testa di Oloferne” (Paolo de Matteis, Francesco Solimena, Giambattista Tiepolo). Da questa immagine allegorico-trionfale può prendere avvio un’altra articolazione del percorso didattico, attraverso l’accostamento alla Juditha triumphans de victa Olofernis barbarie, composta nel 1716 da Antonio Vivaldi (1678-1741) su libretto latino di Giacomo Cassetti. Universalmente noto per i suoi concerti, Vivaldi scrisse quattro oratorii, due latini e due volgari, durante il suo servizio come «maestro de’ concerti» all’Ospedale della Pietà di Venezia (1714-1722), un orfanatrofio femminile specializzato in esecuzioni musicali. Spesso l’oratorio latino ha una parte di natura epico-narrativa, il cosiddetto “Testo”, che parafrasa la narrazione biNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PERCORSI DIDATTICI blica. Nella Juditha di Cassetti e Vivaldi, struttura e stile del libretto sono però del tutto simili a quelli di un oratorio in volgare in due parti: la vicenda è resa mediante il dialogo diretto tra cinque personaggi (Giuditta, l’ancella Abra, Oloferne, il servo Vagans, il sacerdote Ozias). Cassetti avverte però che alcuni versi vanno interpretati in chiave allegorica: Giuditta rappresenta Venezia, la fida ancella simboleggia la Fede, Oloferne è il Sultano. Conviene spiegare perché. Il contesto storico è quello del decennale conflitto veneto-ottomano: nel 1716 la flotta veneta si prende una rivincita sui turchi conquistando l’isola di Corfù; nello stesso anno Eugenio di Savoia, a capo della Santa Alleanza tra Venezia, Polonia e Austria, batte l’esercito ottomano a Petrovaradin. A Venezia i festeggiamenti per le due vittorie prevedono un momento celebrativo, situato in uno dei quattro ospedali grandi della città (Derelitti, Incurabili, Mendicanti, Pietà). Sia il genere sia la forma dell’oratorio si attagliavano a un “saggio da collegio”; fu infatti un’occasione di spicco per le figlie di coro della Pietà: sostenuto da una grande orchestra, a cinque riprese il coro femminile rappresentò il popolo inneggiante, vero interlocutore dell’eroina della fede e della donna sensibile agli affetti, sostenuta da Dio e dalla sua gente. In una situazione didattica, un buon esempio su cui accertare il “senso” dell’opera lo potrà offrire il coro d’apertura, «Arma, caedes, vindictae, furores»: dal ritmo impellente, propulsivo, imprime un bel risalto sonoro al significato dei versi, incitamento all’azione indirizzato dal popolo di Betulia alla bella giudea; per converso, il suggello sul trionfo lo porrà il solenne coro conclusivo, «Salve, invicta Juditha formosa». Luca Giordano, Trionfo di Giuditta (1703-04), Napoli, Certosa di San Martino. Maria Rosa De Luca Università di Catania BIBLIOGRAFIA L. Bianchi, L’oratorio vertice scarlattiano, in R. Pagano - L. Bianchi (a cura di), Alessandro Scarlatti, ERI, Torino 1972, pp. 245-315. L. Bianconi - G. Pagannone, Piccolo glossario di drammaturgia musicale, in G. Pagannone (a cura di), Insegnare il melodramma. Saperi essenziali, proposte didattiche, Pensa MultiMedia, Lecce-Iseo 2010, pp. 247 ss. e 204 ss. (in rete in «Università di Bologna. Dipartimento di Musica e Spettacolo»,“Drammaturgia musicale”, Url: http:// www.muspe.unibo.it/home/corso/corsi/drammaturgia-musicale/ piccolo-glossario-di-drammaturgia-musicale). A. Bonora, Giuditta, in G. Canfora - P. Rossano - S. Zedda (a cura di), Il messaggio della salvezza. Corso completo di studi biblici, Elledici, Leumann-Torino 1990, vol. V, pp. 268-287. K.R. Brine - E. Ciletti - H. Lähnemann (a cura di), The Sword of Judith. Judith Studies Across Disciplines, Open Book, Cambridge 2010. N. Dubowy, Le due ‘Giuditte’ di Alessandro Scarlatti: due diverse concezioni dell’oratorio, in P. Besutti (a cura di), L’oratorio musicale italiano e i suoi contesti (secc. XVII-XVIII), Olschki, Firenze 2002, pp. 259-288. G. La Face, Le pedate di Pierrot. Comprensione musicale e didattica dell’ascolto, in F. Comploi (a cura di), Musikalische Bildung. Erfahrungen und Reflexionen / Educazione musicale. Esperienze e riflessioni, Weger, Bressanone/Brixen 2005, pp. 40-60. G. La Face, La didattica dell’ascolto, «Musica e Storia», 3 (2006), XIV, pp. 511-544. H.E. Smither, L’oratorio barocco. Italia, Vienna, Parigi, JacaBook, Milano 1986. M. Talbot, The Sacred Vocal Music of Antonio Vivaldi, Olschki, Firenze 1995. DISCOGRAFIA A. Scarlatti, La Giuditta. Oratorio a 3 voci, CD (Alessandro Stradella Consort; dir. E. Velardi, Bongiovanni, GB 2197-2). A. Vivaldi, Juditha triumphans, RV 644, CD (Kammerorchester Berlin; dir. V. Negri, Philips, 473 898-2). Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI 61 PERCORSI DIDATTICI Chi ben comincia… Incipit della narrativa italiana otto-novecentesca (2) Rossana Cavaliere IL PERCORSO, INIZIATO SU NS N. 3 (NOVEMBRE 2013), PROSEGUE CON L’ANALISI DEGLI INCIPIT DI TESTI NARRATIVI DEL NOVECENTO: IL FU MATTIA PASCAL DI PIRANDELLO, LA COSCIENZA DI ZENO DI SVEVO, MA CHE COS’È QUEST’AMORE DI CAMPANILE, GLI INDIFFERENTI DI MORAVIA, QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DE VIA MERULANA DI GADDA, L’ISOLA DI ARTURO DELLA MORANTE, IL GATTOPARDO DI TOMASI DI LAMPEDUSA E, INFINE, IL GIORNO DELLA CIVETTA DI SCIASCIA. Novecento Arriviamo al nuovo secolo, carico di novità e di contraddizioni sempre più laceranti, e ci imbattiamo in innovative tecniche di scrittura (alcune delle quali provocatoriamente eversive, come quelle futuriste, volte a scardinare ogni ordine costituito, a partire dalla sintassi), altri motivi, intrecciati a quelli tradizionali, rinnovate maniere di svolgere il “discorso”. Non è questa la sede per contestualizzare le opere oggetto della nostra peculiare indagine, ma va quantomeno ricordata en passant la ricaduta che i nuovi indirizzi di pensiero, la psicoanalisi, l’avvento del cinema, la deflagrazione delle vicende belliche e della “modernità”, gli esiti di una tarda industrializzazione e una nuova consapevolezza femminile avranno anche sulla letteratura italiana. La forza dirompente di tante idee diverse e di eventi eccezionali spesso si coniugherà con le specificità degli autori, dando humus a un grande rigoglio anche nel campo della narrativa. Problemi di identità Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de’ 62 Fotogramma dal film Il fu Mattia Pascal di Marcel L’Herbier (1926). miei amici o conoscenti dimostrava d’aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo: - Io mi chiamo Mattia Pascal. - Grazie, caro. Questo lo so. - E ti par poco? Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo, il non poter più rispondere, cioè, come prima, all’occorrenza: - Io mi chiamo Mattia Pascal. È il 1904 quando, pubblicato prima a puntate sulla rivista «Nuova Antolo- gia», poi in volume, esplode il primo grande successo (di pubblico, essendo la critica divisa) di Pirandello, Il fu Mattia Pascal1, come a parziale compensazione, proprio in un anno in cui la vita lo 1. Prima edizione: L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Milano Garzanti, 1904. Numerose sono le trasposizioni cinematografiche del capolavoro di Pirandello: dopo la più famosa, quella di Marcel L’Herbier del 1926, che può vantare l’entusiastico favore dello stesso autore del romanzo, vanno menzionate almeno quella del 1937 del francese Pierre Chenal (titolo originale: L’homme de nulle part), che ebbe anche una versione in italiano, e Le due vite di Mattia Pascal, di Mario Monicelli, del 1985, ambientato nella seconda metà del ’900 e interpretato da Marcello Mastroianni. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PERCORSI DIDATTICI aveva assediato con attacchi concentrici (il crollo economico, la semiparalisi e le manifestazioni di follia della moglie). L’incipit è il primo delle due premesse (artificio alquanto insolito): l’una introduttiva, in cui l’io narrante allude al suo caso «tanto diverso e strano» che forse è «tale da poter servire d’ammaestramento a qualche curioso lettore», se mai un lettore dovesse capitare nella biblioteca dove Mattia lavora (più che altro ingaggiando strenue battaglie coi topi); la seconda è giustificativa («filosofica, a mo’ di scusa»), perché, se pure alcune delle cose che racconterà non gli «faranno molto onore», egli si trova «in una condizione così eccezionale, che [può] considerar[s]i come già fuori della vita, e dunque senza obblighi e senza scrupoli di sorta». Un attacco fulminante questo di Pirandello, di quelli che lasciano stupefatti, sconcertati, che costringono ad andare avanti per condividere la storia; e capirla. Il narratore omodiegetico ricorre a un espediente “nuovo”, almeno nella nostra carrellata: una sequenza mista, in cui compaiono anche battute dialogiche. Il dialogo è, tuttavia, fittizio, strumentale ad avvicinare alla portata del lettore anche poco avvezzo ai cerebralismi di sottili ragionamenti filosofici, con l’immediatezza del discorso diretto, mimetico del parlato, la sconvolgente verità che sta per rivelare: il problema dell’identità nella nostra complessa e ipocrita società e della sua perdita. D’altra parte egli mostra di sapere che di libri se ne leggono ben pochi (e, verrebbe da aggiungere, parafrasando Manzoni, «o almeno così succedeva nella sua Miragno»), tant’è che, nella finzione narrativa, Mattia diffida sia di poter arrivare in fondo alla sua fatica autobiografica, sia che qualcuno la legga (ma se dovesse succedere, pone il vincolo che ciò non accada prima di cinquant’anni dalla sua «terza, Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI ultima e definitiva morte»), mentre nella pratica di scrittura il narratore-autore si premura di agevolare la comprensione al suo lettore. Inutile precisare che, malgrado le intenzioni di rendere massimamente fruibile il testo, permane qualche elemento di complessità, insito alla poetica stessa di Pirandello, il quale si avvale di una struttura doppia per il suo romanzo rivoluzionario che rompe col passato e che troverà al cinema una sintesi mirabile nel film muto di Marcel L’Herbier del 1926 e nel suo interprete, Ivan Mosjoukine: la storia dell’insolito caso si dipana in flash back all’interno di una prima “cornice” circolare, ambientata nella biblioteca, laddove inizia e si conclude il racconto in un piano temporale immaginato come “in presa diretta”, in cui cioè il narratore dà avvio alla stesura delle sue memorie e le chiude, dopo i «circa sei mesi» che gli sono occorsi per narrare tutta la storia. L’incipit analizzato, pertanto, si colloca appunto nel momento dell’esordio di scrittore per l’io narrante, non a caso chiamato “Mattia”, “matto”, come l’autore stesso suggerisce, attraverso una battuta posta sulla bocca del fratello del protagonista, e “Pascal”, cognome che, evocando la Pasqua, allude alla “resurrezione” e rimanda a filosofi francesi (la critica non concorda sull’identificazione, optando o per il celebre Blaise Pascal o per il meno noto Théophyle Pascal, le cui opere, tuttavia, figurano nel romanzo, nella biblioteca di Anselmo Paleari, il personaggio esperto di occultismo). Il tono è pacato, quasi di lucida follia, ma è anche confidenziale, sì da indurre all’immedesimazione e al dubbio che la storia narrata sia talmente assurda da poter perfino essere “vera”, perché «la vita, per tutte le sfacciate assurdità, piccole e grandi, di cui beatamente è piena, ha l’inestimabile privilegio di poter fare a meno di quella stupidissima verosimiglianza, a cui l’arte crede suo dovere obbedire»2, e che, in quanto “vera”, possa capitare a ognuno. Il significato della comunicazione di questo incipit, insomma, lascia talmente frastornati e increduli che la sua ineguagliabile capacità catturante consiste appunto in quest’effetto-sorpresa e nel conseguente stimolo per il lettore a verificare “coi suoi occhi” la realizzazione, nel prosieguo, dell’asserto d’apertura. Labirinti dell’animo Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psico-analisi s’intende, sa dove piazzare l’antipatia che il paziente mi dedica. È il primo dei due incipit de La coscienza di Zeno3, che, come la precedente opera firmata dal grande drammaturgo e scrittore agrigentino, si complica di un duplice inizio, una prefazione e un preambolo, i quali, tuttavia, non segnalano tanto la progressione del tempo della storia all’interno della cornice, quanto il raddoppiamento del narratore (il dottore e il suo paziente che ha interrotto la cura), per quanto il protagonista sia il secondo, o piuttosto la sua coscienza: Vedere la mia infanzia? Più di dieci lustri me ne separano e i miei occhi presbiti forse potrebbero arrivarci se la luce che ancora ne riverbera non fosse tagliata da ostacoli d’ogni genere, vere alte montagne: i miei anni e qualche mia ora. 2. Così si legge nell’«Avvertenza sugli scrupoli della fantasia», che Pirandello scrive in appendice a Il fu Mattia Pascal, in un’edizione successiva (quella fiorentina di Bemporad del 1921), chiarendo la sua teoria riguardo al rapporto che intercorre tra verità e verosimiglianza. 3. Prima edizione: I. Svevo, La coscienza di Zeno, Bologna, Cappelli, 1923. È del 1988 la seguitissima versione filmica per la RAI di Sandro Bolchi, con Jonny Dorelli nei panni di Zeno e Ottavia Piccolo in quelli di sua moglie Augusta. 63 PERCORSI DIDATTICI Il dottore mi raccomandò di non ostinarmi a guardare tanto lontano. Anche le cose recenti sono preziose per essi e sopra tutto le immaginazioni e i sogni della notte prima. Così esordisce Zeno Cosini, l’inetto per antonomasia, antieroe abulico che scrive un memoriale non certo con intenti civili, per testimoniare un’italianità conquistata o altro che possa servire come exemplum, ma solo perché la scrittura autobiografica rappresenta un metodo di cura impostogli dal suo medico4, convinto assertore delle teorie freudiane in base alle quali i comportamenti degli uomini scaturiscono da complessi psichici stratificatisi già dall’infanzia nell’inconscio, di cui i sogni sono spie rivelatrici. L’io narrante ha più di cinquant’anni ed è affetto da una malattia insinuante, un malessere misto a inettitudine perenne, che sembra indurlo a vivere solo attraverso la ricostruzione della sua vita, le cui tessere la memoria prova a ricomporre, benché nemmeno l’oggettivazione della scrit- tura sembri riuscire a fare ordine nel guazzabuglio di quella coscienza ambivalente, incerta, tesa a trovare giustificazioni per se stessa, mentendo e mentendosi. È l’irruzione delle teorie psicoanalitiche nella nostra narrativa, dopo la ricerca sull’identità (e insieme con questa) condotta da Pirandello: l’incipit rivela come la nuova disciplina venga utilizzata, per la prima volta, come movente della scrittura e sostegno dell’intero ingranaggio narrativo, mentre il sogno e la sua interpretazione costituiscono l’asse portante di tutta l’impalcatura di pensiero. Il cinema internazionale divulgherà la psicoanalisi nel 1929, con Un chien andalou di Luis Buñuel e, soprattutto, con Alfred Hitchcock e il suo Spellbound (Io ti salverò) del 1945, ma la letteratura lo precede anche in Italia, per merito dell’antesignano Italo Svevo, che all’analisi freudiana del mondo onirico aveva dedicato studi e abilità traduttive. La simbologia contenuta nel secondo incipit è evidente e, se può risultare più scoperto l’intento dottrinale del narratore verso il lettore, pur tuttavia costui è sollecitato a percorrere questo moderno sentiero di conoscenza attraverso la prosecuzione della lettura di una storia insolita, che non segue un ordine cronologico progressivo e vettoriale, né si avvale di accurate analessi da cui si ricavi senza sforzo la corretta successione degli eventi, bensì procede per nuclei narrativi, mescolando i piani temporali: il vizio del fumo, da cui Zeno non riesce a liberarsi, la morte del padre con cui confliggeva, il matrimonio, le relazioni (di tipo amoroso e non, tra cui quella sofferta con il cognato), la psicoanalisi. Il lettore alla fine dubiterà di quanto l’io narrante-Zeno sembra gli abbia rivelato di sé e forse avvertirà sapore di inganno, ma non si può negare che, seguendo le prime “confessioni” dell’incipit (i limiti di una allegorica presbiopia, un passato lontano alla cui ricomposizione si oppongono ostacoli grandi come montagne, l’apparente sudditanza al medico curante, le cui parole della prefazione, tuttavia, indicano rapporti inquinati da veleni e la rottura finale) sia fortemente attratto dalla possibilità di scandagliare i meandri dell’animo di quell’io che ha affidato alla carta il suo mondo interiore, la sua esistenza, e si disponga, analizzando il tortuoso percorso di Zeno, a provare a scoprire qualcosa di sé. L’assurdo italiano Ed ecco ora un incipit singolare che potrebbe disorientare nell’individuazione dell’opera di appartenenza, se i segnali inconfondibili dello stile non indirizzassero verso un autore che resta tuttora un unicum nel panorama italiano: Fotogramma dal film Spellbound (Io ti salverò) di Alfred Hitchcock (1945). 64 4. Nella premessa il dottore già preannuncia di aver «indotto il [suo] paziente a scrivere la sua autobiografia» a scopo terapeutico, sia pure sperimentale («gli studiosi di psico-analisi arricceranno il naso a tanta novità»). Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PERCORSI DIDATTICI Alle 7 del mattino Carl’Alberto entrò nella stazione di Roma e gridò: «Facchino!» Un facchino si voltò risentito. «Dice a me?» fece. «Facchino sarà lei». È il 1927 quando il giovane editore Enrico Dall’Oglio riprende un romanzo5 pubblicato a puntate due anni prima su un giornale romano, «Il Sereno», e ne stampa duemila copie che vanno a ruba, quindi ne allestisce una ristampa a pochi giorni di distanza e poi ancora altre, per soddisfare la grande richiesta di un pubblico galvanizzato (il favore della critica specializzata, dopo Silvio D’Amico e Pirandello, convinti estimatori dell’autore, arriverà con nomi illustri, tra cui Oreste Del Buono, Geno Pampaloni, Umberto Eco, Enzo Siciliano). Il racconto si intitola Ma che cos’è quest’amore?6 (tradotto in francese nel più esplicito La Gifle du Kilomètre 40) e reca la firma di Achille Campanile, scrittore, commediografo (e personaggio)7 eccentrico e dissacrante, che già in questo primo successo editoriale fa sfoggio della sua copiosa vena umoristica, declinando la commedia brillante alla Feydeau in modo del tutto personalizzato. L’attacco, come si vede, condotto all’apparenza in ossequio alla regola delle cinque W (sebbene le limiti a quattro), secondo la lezione del giornalismo, ha un effetto straniante, in virtù del dialogo surreale e della reazione imprevedibile del facchino. Andando avanti nella storia, Carl’Alberto si imbatterà, nello stesso treno sul quale viaggia, in un altro Carl’Alberto e poi sarà circondato dai Carl’Alberto, ma il nucleo della vicenda ruota intorno a uno schiaffo assestato nell’oscurità da un’avvenente viaggiatrice, concupita dai compagni di scompartimento: da un episodio di supposto becero gallismo scaturisce un carosello di equivoci esilaranti, ottenuti non tanto dalla situazione, quanto dal Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI Achille Campanile (1899-1977). gioco linguistico (per lo più grazie al ricorso al significato letterale delle parole), dall’assurdo verbale elevato a sistema, che crea una sorta di cortocircuito nella comunicazione. Come afferma Carlo Bo, Campanile è uno dei rarissimi inventori di un genere, con qualche affinità con Pirandello, per gli effetti paradossali della consequenzialità di una logica stringente, ma con un’originalità tutta sua nell’opera non già di demolizione (di matrice futurista) delle convenzioni sociali, di cui la parola è veicolo primario, bensì di ridicolizzazione delle stesse e, in primis, del linguaggio, sottoposto a operazioni di tipo metalinguistico imperniato su di una ineccepibile semantica. L’incipit prescelto ne è una chiara esemplificazione e il lettore, un po’ spiazzato, molto incuriosito, si lascerà attrarre dalle possibilità di divertimento e di riso. Morire a poco a poco Trascorrono appena due anni da questa sommessa e circoscritta rivoluzione di stile ed ecco che, nel 1929, viene dato alle stampe un libro-evento, che rivelerà il suo ventiduenne autore, catapultandolo nella Repubblica delle Lettere e fa- 5. Non è univoca la definizione di romanzo né per questo né per altre opere di Campanile: qualche critico, come Enzo Siciliano, opta per definire le sue storie «antiromanzi»; qualcun altro, come Guido Almansi, ricorre all’espressione «pretesti sotto forma di romanzo, perché l’artista possa manifestare la sua grazia». Enzo Siciliano, tuttavia, fa una diagnosi precisa, quando afferma che «in Campanile c’è l’eco di un futurismo disinnescato da qualsiasi miccia superoministica. È il futurismo che se la prende con la logica del linguaggio comune». Per maggiori in formazioni al riguardo, si consulti il sito dell’autore. 6. Prima edizione: A. Campanile, Ma che cos’è quest’amore?, Milano, Corbaccio, 1927. Il libro fu trasposto in un film per la televisione da Ugo Gregoretti nel 1979. Nel cast figurano, tra gli altri, Roberto Benigni e Stefano Satta Flores. Campanile partecipò alla sceneggiatura. 7. Viene spesso ricordata, per esempio, la sua abitudine a inforcare un monocolo decisamente rétro. 65 PERCORSI DIDATTICI cendogli guadagnare una notorietà che non sempre con la stessa forza potrà conservare, malgrado la prolificità e malgrado la potente operazione di divulgazione ottenuta con i numerosi film tratti dalle sue opere8. Il giovane prodigio si chiama Alberto Moravia e il romanzo d’esordio è il corrosivo Gli indifferenti9: ancora un racconto incentrato sulla lenta dissoluzione di una famiglia, questa volta borghese, gli Ardendo, e sul tratteggio psicologico dei suoi componenti, uno a uno vivisezionati dalla penna-bisturi del narratore, che ne fa emergere bassezze, ipocrisie, inerzia morale. Entrò Carla; aveva indossato un vestitino di lanetta marrone con la gonna così corta, che bastò quel movimento di chiudere l’uscio per fargliela salire di un buon palmo sopra le pieghe lente che le facevano le calze intorno alle gambe; ma ella non se ne accorse e si avanzò con precauzione guardando misteriosamente davanti a sé, dinoccolata e malsicura; una sola lampada era accesa e illuminava le ginocchia di Leo seduto sul divano; un’oscurità grigia avvolgeva il resto del salotto. Carla è la giovane donna che, insidiata dall’amante della madre, è insieme infastidita e attratta dall’uomo, Leo Merumeci, che, pur nella sua totale assenza di scrupoli, nel suo bieco cinismo e abietto opportunismo, appare l’unico in grado di sollevarla dalla condizione di torpore e trarla fuori dal baratro della temuta decadenza socio-economica alla quale la famiglia appare fatalmente destinata. L’attacco, in medias res, magistralmente d’effetto, ce la mostra mentre avanza con fare incerto, guardingo, eppure con un pizzico di naturale civetteria, misto a una contraddittoria trascuratezza: ha scelto di indossare un abito dalla gonna a pieghe troppo corta, che, come da copione, si solleva al primo alito di vento, ma le calze sono 66 lente. Leo, invece, è in un cono d’ombra, solo le ginocchia illuminate dall’unica lampada accesa nel salotto, a simboleggiare i molti aspetti di oscurità del personaggio che circuisce la ragazza, disgustata (non solo idealmente, come dimostra la celebre scena in cui la nausea e i conati di vomito vanificano il tentativo di Leo di sedurla), incerta e non in grado di riappropriarsi di una sua dignità e della sua vita. Nell’incipit ci sono già vari segnali indicatori della personalità di Carla: guarda «misteriosamente» davanti a sé e cammina «dinoccolata e malsicura», come nella vita, perché sa che il mondo dell’infanzia è seppellito per sempre, ma non sa muoversi a suo agio nel presente, nel quale le sembra di interpretare un ruolo falso, ridicolo. Nessun aiuto dal fratello Michele, come lei annichilito dall’indifferenza, dalla noia, dall’inerzia morale, tanto da non caricare la pistola con cui, nell’unico atto pensato per ridare un senso – sia pure discutibile – alla sua vuota e falsa esistenza, avrebbe dovuto far fuori il seduttore di Carla. Gli Ardendo, dunque, appaiono, analogamente agli Uzeda, una sorta di carosello di personaggi negativi, a volte patetici e grotteschi, come la mamma, la fatua Maria Grazia (non a caso fotografata dal narratore vestita in maschera nella sua ultima apparizione sulla scena del dramma), per lo più contaminati da una cronica irresolutezza, dalla malattia del vedersi vivere, con la coscienza di non saper trovare antidoti. E il narratore, dopo aver incuriosito il lettore con un attacco giocato sulla penombra e su messaggi contrastanti (Carla indecisa e quasi involontariamente provocante; Leo seminascosto, come un felino pronto a ghermire la preda), lo beffa lasciandolo a un passo da un finale annunciato: Leo chiede a Carla di sposarlo, Michele passivamente acquie- scente, ma nessuno rivelerà a Maria Grazia, ancora ignara del doppio tradimento subito, cosa sta per succedere. Un giallo “assoluto” Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio… Don Ciccio: basta il curioso nomignolo perché il meraviglioso meccanismo della memoria faccia scattare la molla che fa visualizzare il detective che la rivoluzione gaddiana ha portato nella letteratura gialla come una bomba a orologeria10, che ancora oggi fa discutere. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi, onnipresente sugli affari tenebrosi. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po’ tozzo, di capelli neri e folti e cresputi che gli venivan fuori dalla fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sole d’Italia, aveva un’aria un po’ assonnata, un’andatura greve e dinoccolata, un fare un po’ tonto come di persona che combatte con una laboriosa digestione: vestito come il magro onorario statale gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline d’olio sul bavero, quasi impercettibili però, quasi un ricordo della 8. Circa una trentina sono le pellicole tratte dai suoi testi, in virtù di una sorta di predisposizione della sua scrittura, e della padronanza delle tecniche di scrittura cinematografica che Moravia mostra, in virtù della sua attività anche di sceneggiatore e soggettista. 9. Prima edizione: A. Moravia, Gli indifferenti, Milano, Alpes, 1929. Dal libro sono stati tratti due film omonimi: il primo, di Francesco Maselli, nel 1964, con Claudia Cardinale a interpretare il ruolo di Carla, nella fase più intensa della sua carriera, quando era ritenuta la musa dei registi. Al riguardo, si veda S. Masi, Il divismo europeo dagli anni sessanta, in G.P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, vol. I, L’Europa, 1. Miti, luoghi, divi, Torino, Einaudi, 1999, pp. 970-972. Il secondo, di Mauro Bolognini, nel 1987, con Liv Ulman nei panni di Maria Grazia. 10. Il romanzo uscì a puntate sulla rivista «Letteratura» già nel 1946, ma fu l’edizione in volume del 1957, con il testo completo in dieci capitoli, a deflagrare, costituendo un caso letterario dei più singolari e vivaci. C.E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Milano, Garzanti, 1957. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PERCORSI DIDATTICI collina molisana. Una certa praticaccia del mondo detto “latino”, benché giovine (trentacinquenne), doveva di certo avercela: una certa conoscenza degli uomini: e anche delle donne. Don Ciccio, così come il pastiche linguistico del libro, sembra mettere insieme retaggi letterari di altri noti ritratti, dal giudice D’Andrea de La patente, con quei «capelli crespi gremiti da negro», frutto di «mostruosi intrecci di razze» che si perdono negli abissi del tempo, così somiglianti, anche fonologicamente, ai «capelli neri e folti e cresputi» del nostro detective, al capitano di giustizia e al vicario di provvisione de I promessi sposi: il primo, per la fronte che viene colpita da un sasso scagliato dalla folla in tumulto, proprio sulla «protuberanza […] della profondità metafisica» molto prossima ai «bernoccoli metafisici» di don Ciccio; il secondo, per la «digestione laboriosa e lenta». A completare il quadro, una certa trascuratezza nell’abbigliamento (le macchioline d’olio sul bavero anticipano quelle, più cospicue, del tenente Colombo – 1968 –, dall’analogo «fare un po’ tonto»), un’andatura un po’ ciondolante, e una necessaria «praticaccia del mondo detto “latino”» che si sostituisce all’acume infallibile del detective del giallo classico. E, d’altra parte, com’è noto, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana11 è un poliziesco sui generis, che contraddice, per così dire, la stessa ontologia del giallo, in quanto non rivela il colpevole12, ma si ferma nel punto in cui il dottor Francesco Ingravallo ha risolto l’enigma, senza però partecipare le sue conclusioni al lettore, tradito perciò doppiamente, dalla guida a cui si è affidato (il detective, appunto), e dal narratore che, pur presente in modo massiccio nella narrazione, non intende svelargli il mistero, ma lasciarlo nel dubbio. Una beffa ben più grave di Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI quanto abbiamo osservato per il precedente romanzo di Moravia. La frase conclusiva del romanzo, infatti, con quel fermarsi a riflettere di Ingravallo di fronte alla bellissima Tina, la serva dell’affascinante e ricca signora trovata assassinata, con l’equivoco riferimento al pentirsi del detective e quel «quasi»13 che chiude il libro, in realtà schiudendo il passo a una ridda di ipotesi, ha davvero rivoluzionato la maniera di scrivere il giallo: merito dei funambolismi linguistici dell’“ingegner fantasia” (come si autodefinì Gadda); della filosofia dello «gnommero», che così icasticamente realizza il senso del perenne garbuglio della vita; di una storia di delitti che si trasforma in una investigazione sui misteri della vita e della morte, sugli oscuri sentieri dell’eros, e in una “gioiosamente disperata” ricerca non tanto della verità (quella dei fatti narrati) quanto di Verità (la possibilità che all’umanità è concessa di giungervi); di una troncatura finale che trasmette perfettamente l’incompiutezza e l’irrisolvibilità della vita; merito anche di un incipit che già qualifica il testo, con la sua molteplicità14 programmatica di echi e di giochi, e che subito intriga. Incantesimo Uno dei miei primi vanti era stato il mio nome. Avevo presto imparato (fu lui, mi sembra, il primo ad informarmene), che Arturo è una stella: la luce più rapida e radiosa della figura di Boote, nel cielo boreale! E che inoltre questo nome fu portato da un re dell’antichità, comandante a una schiera di fedeli: i quali erano tutti eroi, come il loro re stesso, e dal loro re trattati alla pari, come fratelli. A raccontare in prima persona una storia dai toni fiabeschi, in un’epoca di neorealismo imperante, è il protagonista de L’isola di Arturo15 (1957), il secondo romanzo importante di Elsa Mo- rante (il primo era stato Menzogna e sortilegio, che aveva ottenuto il premio Viareggio nel 1948), che le fece conquistare il premio Strega, con prestigio maggiore del consueto, perché mai prima d’allora assegnato a una donna. L’incipit proietta nella dimensione del sogno e del mito: Arturo, diversamente da Mattia, che si sarebbe accontentato di poter rivendicare un nome come proprio e distintivo, in virtù del proprio nome evocativo, scala lo spazio, fino a raggiungere la sommità dei cieli e le stelle, e si addentra in un tempo remoto, andando a recuperare una storia circondata da un alone di leggenda, di un re così perfetto, così saggio e “democratico” da trattare fraternamente tutti i suoi eroici, fedeli cavalieri. Potenza di un nome e beffa di un destino che non acconsentirà a realizzare l’omen che in esso avrebbe dovuto essere inscritto: il giovane Arturo non sarà re, dopo aver estratto la sua spada dalla 11. Nel 1959 Pietro Germi trasse dal testo di Gadda il film Un maledetto imbroglio, che terminava tuttavia con la scoperta del colpevole, secondo i dettami del giallo tradizionale. Gadda non collaborò alla sceneggiatura, ma diede il suo plauso. Cfr. nota seguente. 12. In verità, nella prima edizione a puntate veniva indicato il nome del personaggio colpevole, ma nella successiva versione Gadda maturò una nuova concezione del giallo “assoluto”, più coerente con la filosofia del nodo inestricabile e del mistero irrisolvibile. Chi legge la seconda stesura, tuttavia, può essere condizionato dalla rivelazione contenuta nella prima, malgrado le variazioni apportate dall’autore, anche sul piano onomastico. 13. La frase ultima suona così: «Quella piega nera verticale tra i due sopraccigli dell’ira, nel volto bianchissimo della ragazza, lo paralizzò, lo indusse a riflettere: a ripentirsi, quasi». 14. Per quanto concerne il laboratorio di Gadda e le sue peculiarità linguistico-lessicali, si è abusato dell’espressione “barocco”, ma si tratta di una vera e propria “questione della lingua” ancora dibattuta, che trae alimento nella filosofia dell’autore, che qui si sintetizza per brevità con un richiamo alla teoria delle “combinazioni infinite” del mondo. 15. Prima edizione: E. Morante, L’isola di Arturo, Torino, Einaudi, 1957. Dal romanzo Damiano Damiani, in un secondo tempo connotatosi come regista “di mafia”, trasse, nel 1962, un delicato film in bianco e nero dal medesimo titolo, in cui anche il linguaggio simbolico della Morante trova un suo correlativo oggettivo nella visione cinematografica. 67 PERCORSI DIDATTICI roccia, né brillerà come la stella omonima nel firmamento, ma avrà la capacità affabulatrice per condurre con mano il lettore nel magico mondo dell’isola di Procida, nelle cui acque le ceneri della scrittrice trovarono approdo reale, e il lettore può scoprire un approdo ideale. Spazio e tempo, dunque, si dilatano a dismisura e si fondono in questo attacco che fa intuire subito che la narrazione è effettuata in focalizzazione su un adolescente, ancora capace di sognare a occhi aperti, ma che dovrà scontrarsi con la durezza disincantante della realtà su ognuna di quelle che riteneva certezze: innanzitutto il padre tanto amato, che compare come il “lui” per antonomasia in apertura, non è quell’essere superiore né il viaggiatore solitario e coraggioso che egli ha creduto, ma un uomo egoista, assai poco affidabile (non manterrà la promessa di portare con sé il ragazzo al compimento del suo sedicesimo anno d’età), bugiardo (si è inventato un’altra vita per nascondere squallide e forse equivoche esperienze, volutamente lasciate nell’ombra e nel dubbio dall’autrice); l’isola è sì una sorta di ventre materno che l’ha custodito, in assenza di una madre deificata dalla morte e di un padre colpevolmente latitante, ma solo il distacco definitivo da quella terra d’incanto rappresenta la ri-nascita, l’inizio di una vita non solo immaginata ma concretamente vissuta, pur con tutta la carica di incertezze e di sofferenze potenziali. Arturo sull’isola conosce le contraddizioni più profonde dell’amore, ma il suo è un sentimento impossibile: solo di là dalle acque azzurre della sua terra potrà tuffarsi nel mondo reale e cominciare a vivere una vita non solo virtuale. Declinazione nuova del romanzo di formazione, dunque, questo della Morante, ma interrotto proprio quando la storia sta per perdere, 68 come il protagonista, le illusioni del sogno e le connotazioni della atemporalità mitizzante della fiaba e della poesia. Impronte d’autore «Nunc et in hora mortis nostrae. Amen». La recita quotidiana del Rosario era finita. Durante mezz’ora la voce pacata del Principe aveva ricordato i Misteri Dolorosi; durante mezz’ora altre voci, frammiste, avevano tessuto un brusio ondeggiante sul quale si erano distaccati i fiori d’oro di parole inconsuete: amore, verginità, morte; e mentre durava quel brusio il salone rococò sembrava aver mutato aspetto; financo i pappagalli che spiegavano le ali iridate sulla seta del parato erano apparsi intimiditi; perfino la Maddalena, fra le due finestre, era sembrata una penitente anziché una bella biondona, svagata in chissà quali sogni, come la si vedeva sempre. Memorabile l’incipit di un romanzo cult della nostra letteratura, Il Gattopardo16 (pubblicato postumo nel 1958), del principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa: la recita del rosario17, rigorosamente in latino com’era ancora d’uso, e l’altra recita, quella consumata di alcuni dei personaggi della storia, come la bionda Maddalena, compunta per l’occasione, e perfino dei pappagalli, insolitamente in soggezione, tutti formalmente devoti e insieme rispettosi dei comandi del direttore d’orchestra, don Fabrizio Corbera, principe di Salina. L’ironia si legge già dalle prime righe: ironia di situazione e di parole, con quel campeggiare della triade di «amore, verginità e morte», quasi a racchiudere e proteggere la verginità all’interno dell’abbraccio degli indissolubili eros e thanatos. Vengono riaffermate le tecniche del narratore onnisciente, che tutto vede, tutto sa e giudica, intervenendo a commentare, ma presto la focalizzazione si sposterà sul protagonista, ondeggiando, o si sdoppierà in alcuni si- L’isola di Procida. gnificativi passaggi nei quali la critica ha voluto vedere il pensiero dell’autore che delega il narratore ad esprimerlo, distintamente dal suo personaggio, o si moltiplicherà in una pluralità di voci, dopo la morte del principe. Il racconto, paradossalmente, non necessita di… essere raccontato, data la sua fama e diffusione, visto che già nel ’59, ottenuto il premio Strega, divenne un best-seller 16. Prima edizione: G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Milano, Feltrinelli, 1958. Del film tratto dal romanzo si dirà nel corso della trattazione. 17. È necessario rilevare, anche in ottica intertestuale, che certamente Tomasi di Lampedusa aveva ben presente la splendida novella di Federico De Roberto, intitolata Il rosario, nella quale, durante la recita ad opera di una famiglia matriarcale, con sole donne, di cui due figlie zitelle e succubi, e un’altra “scandalosamente” andata sposa a un uomo non gradito, si consumano le più sottili cattiverie. La «novellina» fa parte della citata raccolta Processi verbali. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PERCORSI DIDATTICI venze audacemente cinematografiche, che prenderemo in toto, per meglio evidenziarne gli aspetti probanti: Fotogramma dal film Il Gattopardo di Luchino Visconti (1963). della narrativa italiana e tuttora viene letto e studiato anche nelle scuole: basterà ricordare che, sulla scia18 dei romanzi I Viceré e I vecchi e i giovani (1913) di Pirandello, viene descritto il fallimento storico del risorgimento in Sicilia, visto da una precisa prospettiva, coincidente con quella di una decadente classe aristocratica che fa capo al principe di Salina. Che si tratti di romanzo storico (come afferma Lukács)19 o piuttosto di romanzo antistorico (come sostiene Vittorio Spinazzola)20, in questa sede preme rimarcare non solo la forza ammaliatrice dell’incipit, che immette in un mondo cristallizzato nel passato (la formula in latino d’apertura, e quel brusio due volte ripetuto, quasi a farne sentire, con l’onomatopea duplicata, il suono crescente), e appunto per questo tutto da scoprire, ma anche come sia stato il cinema ad aver fatto amare ancora di più il romanzo di Lampedusa, oltre che accrescerne la fama, con la sua efficace cassa di risonanza. La scena del Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI ballo, in particolare, in cui l’esuberante bellezza di Claudia Cardinale-Angelica Sedara irrompe a illuminare la scena, popola le fantasie di milioni di spettatori, molti dei quali, probabilmente, si sono avvicinati al libro, proprio perché conquistati dalle eleganti e raffinate immagini del film di Luchino Visconti (1963), vincitore della Palma d’oro al festival di Cannes. A conferma dell’importanza di un approccio anche didattico alle varie dimensioni della narratività, non più rimandabile. Effetto cinema Abbiamo aperto la carrellata con la regia di Manzoni che fa planare la sua macchina da presa sul ramo del lago di Como e termineremo, circolarmente, sulla medesima falsariga, ma con un vistoso balzo in avanti nel tempo e una giustificazione di interferenze effettivamente possibili tra cinema e letteratura e non solo di suggestioni precorritrici, analizzando un altro incipit dalle mo- L’autobus stava per partire, rombava sordo con improvvisi raschi e singulti. La piazza era silenziosa nel grigio dell’alba, sfilacce di nebbia ai campanili della Matrice: solo il rombo dell’autobus e la voce del venditore di panelle, panelle calde panelle, implorante e ironica. Il bigliettaio chiuse lo sportello, l’autobus si mosse con un rumore di sfasciume. L’ultima occhiata che il bigliettaio girò sulla piazza colse l’uomo vestito di scuro che veniva correndo; il bigliettaio disse all’autista “un momento” e aprì lo sportello mentre l’autobus ancora si muoveva. Si sentirono due colpi squarciati: l’uomo vestito di scuro, che stava per saltare sul predellino, restò per un attimo sospeso, come tirato su per i capelli da una mano invisibile; gli cadde la cartella di mano e sulla cartella lentamente si afflosciò. L’incipit è quello de Il giorno della civetta21 (1961), il best seller di Leonardo Sciascia, che già cinquant’anni fa svelava all’Italia gli intrighi e le connivenze di una mafia insinuante e tentacolare, 18. Va opportunamente ricordato che i tre romanzi appaiono imparentati tra loro, ma non sono frutto di uno spirito di emulazione scattato in grazia del successo ottenuto, come comunemente accade, in quanto non solo I Viceré non ebbe fortuna immediata, ma anche I vecchi e i giovani fu a lungo considerato una prova fallimentare del grande Pirandello. V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, Roma, Editori riuniti, 1990, p. 7. Le poetiche dei tre autori presentano, tuttavia, oggettive analogie. 19. G. Lukács, Il romanzo storico, Torino, Einaudi, 1965. 20. V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, cit. 21. Prima edizione: L. Sciascia, Il giorno della civetta, Torino, Einaudi, 1961. Un anno prima, il 9 ottobre 1960, il testo era stato pubblicato sulla rivista «Nuovo Mondo». Damiano Damiani trasse dal best seller di Sciascia il film omonimo nel 1968, a distanza di un anno dal primo film ispirato a un libro dello scrittore di Racalmuto (Elio Petri aveva, infatti, realizzato la pellicola A ciascuno il suo nel 1967). Il film rispetta globalmente l’impianto del libro, ma si avvale spesso di “equivalenze d’invenzione” significative; sono inoltre riconoscibili le modalità espressive del genere western, appena abbozzate nel testo. Va sottolineato che la scrittura di Sciascia mostra una particolare vocazione per la trasposizione cinematografica (una ventina i film, anche per la televisione, finora tratti dalla sua opera), così come si è detto per quella di Moravia. 69 PERCORSI DIDATTICI prima d’allora negata perfino da autorità civili ed ecclesiastiche. Anche in questo caso la storia è nota: una vicenda di delitti intrecciati sui quali indaga un capitano dei carabinieri, Bellodi, venuto dal Nord a tentare di ripristinare la legalità nel paesello siciliano infestato da una criminalità organizzata, già collusa con le alte classi dirigenti. La partenza del vecchio autobus che apre il racconto è ansimante, e i «raschi e singulti» lo umanizzano: nell’arrancare del vecchio mezzo di locomozione che non ce la fa più a trasportare il peso dei suoi numerosi passeggeri – e che simboleggia l’affanno di una quotidianità ripetitiva ed estenuante – sembra di riconoscere una scena da film di animazione, di matrice fumettistica, con un autobus-persona che avanza a fatica e stride (la figura etimologica formata dalle parole «rombo» e «rombava» ne potenzia il sonoro), prende l’abbrivio, prima di iniziare una corsa destinata a essere bruscamente interrotta sul nascere. Nel silenzio circostante di quell’alba dal cielo sfilacciato di nuvole leggere aleggia un vago presentimento di sventura: la pennellata di scuro dell’abito dell’uomo che rincorre l’autobus appena partito. Colonna sonora le voci: prima quella del panellaro (da notare l’assenza di virgolettato per le parole pronunciate dal personaggio a mo’ di richiamo per possibili acquirenti), dopo quella del bigliettaio che esorta l’autista ad aspettare «un momento» l’uomo in leggero ritardo. Poi, improvvisi e violenti, i due spari «squarciati» che, cacofonicamente, detonano nell’immaginario del lettore, prima turbativa alla pace apparente del luogo: l’uomo vestito di scuro, che stava per saltare sull’autobus, viene freddato con due colpi di lupara. La sua caduta all’indietro, ripresa dalla macchina del narratore, è impre- Due percorsi didattici a cura di E. Andreoni Fontecedro Nel sito di Nuova Secondaria (Sezione Materiali didattici per abbonati / Discipline umanistiche) sono disponibili due Percorsi didattici: L’ambiguo segno dei campi arati e il mito dell’età dell’oro (sulla base scientifica offerta dall’articolo così intitolato di E. Andreoni Fontecedro, «Aufidus» 68, 2009, pp. 7-30) e La grande Dea ovvero i volti della Natura (della stessa autrice, «Aufidus» 32, 1997, pp. 7-22). I Percorsi didattici sono stati curati da E. Andreoni Fontecedro, M. Agosti, C. Senni e si rivolgono a docenti di Latino, Greco, Italiano, Filosofia. ziosita da un accorgimento tecnico che ne dilata la durata: il ralenti22, che si configura, in quanto trattamento del tempo, come elemento connotante una scrittura cinematografica. Dapprima va rimarcato un fermo-immagine che blocca il fotogramma dell’uomo che, mentre «stava per saltare sul predellino, restò per un attimo sospeso, come tirato su da una mano invisibile»: a spiegarne l’effetto-cinema, la teoria di Jean Marie Clerc, secondo la quale «il ralenti appare spesso in rapporto con il tema della morte […]. L’immobilizzazione della durata ritarda il momento fatale, accentua la suspense drammatica e immerge il personaggio in un universo altro»23. Poi la visualizzazione della cartella che gli cade di mano e lui che «sulla cartella lentamente si afflosciò»24, laddove l’avverbio polisillabico traduce la forza espressiva di un amplificante effetto moviola. I movimenti acquistano ieraticità e tutta la scena appare solennizzata, proiettandosi dinanzi agli occhi del lettore che vi riconosce stilemi del cinema e si sente perciò confortato a proseguire; a conferma che non è solo letteratura. Rossana Cavaliere Liceo Scientifico “Gramsci-Keynes”, Prato L’ambiguo segno dei campi arati e il mito dell’età dell’oro Il primo Percorso, che si fonda soprattutto su testi di Lucrezio e Virgilio, ripercorre le posizioni di chi esaltò il lavoro dei campi sino ad assumere il durus labor come una redenzione, o un segno di felicità sulla terra, e chi invece lo interpretò come una vera e propria condanna. L'esame coinvolge la Bibbia, S. Agostino, Arato fino a Hobbes, con particolare attenzione a Vico. La grande Dea ovvero i volti della Natura Il secondo Percorso risale al volto trino della grande Dea preindoeuropea (la Dispensatrice di vita, la Reggitrice di morte, la Rigeneratrice) per esaminarne le tracce che, nei secoli, ha lasciato nella speculazione filosofica relativa alla Natura, entro i termini sempre sfuggenti di un deliberato dualismo. I testi messi a confronto sono soprattutto di Lucrezio, Seneca e Plinio, con ogni riferimento opportuno al relativo pensiero dei Greci e alle testimonianze poetiche. 70 22. Sciascia conosceva le teorie dell’école du regard, che, nata in Francia negli anni ‘’50, ambiva a creare un Nouveau roman, basato su una narrazione puramente percettiva (di Alain Robbe-Grillet, massimo esponente del genere, è nota l’”ossessione del visivo”). In uno dei suoi saggi sul genere poliziesco, inoltre, commentando lo stile minuzioso del famoso giallista d’oltreoceano Dashiell Hammett, il cui detective Sam Spade popolava il grande schermo, Sciascia scrive che ne Il falcone maltese (1930), lo scrittore fa seguire «le azioni […] come al rallentatore» e che «più sono violente e più sono rallentate». L. Sciascia, Breve storia del romanzo poliziesco, in Id., Cruciverba, Torino, Einaudi, 1983, pp. 226-227. 23. J.M. Clerk, Littérature et cinema, Paris, Nathan, 1993, p. 178. 24. I corsivi sono nostri. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PERCORSI DIDATTICI L’attualismo gentiliano come prassismo trascendentale Salvatore Ragonesi La genesi marxiana dell’attualismo secondo Ugo Spirito L’attenzione di Giovanni Gentile per la praxis ha una genesi marxiana segnalata inizialmente da Ugo Spirito in virtù della traduzione delle famose Tesi su Feuerbach pubblicate in appendice ai due saggi costituenti il volume edito da Spoerri di Pisa nel 1899 su La filosofia di Marx :«Nel secondo saggio su La filosofia della prassi, il problema si allarga e il Gentile procede ad una ricostruzione sistematica della filosofia di Marx. Qui l’assunto del primo saggio si chiarisce nei particolari e Marx è portato sul piano della più alta tradizione speculativa. La ricostruzione è condotta principalmente sulle famose undici tesi di Marx sulla filosofia di Feuerbach […] La chiave di volta di questa costruzione filosofica, osserva il Gentile iniziando uno schizzo del nuovo filosofare, sta nel concetto di prassi. Ecco, dunque, il principio fondamentale che ci consente di comprendere davvero il materialismo storico. Non si tratta più di interpretare il mondo, ma di cambiarlo, perché verum et factum convertuntur»1. Sulla base della ricostruzione filosofica di Marx, Gentile edifica il suo attualismo. Dice ancora Ugo Spirito: «Ecco la via per la quale si incamminerà il Gentile per la costruzione del suo attualismo. Nella prassi è già un qualche germe dell’atto puro. La chiave d’oro è la stessa»2. E la passione per la praxis di estrazione marxiana si manNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI tiene costante nel filosofo siciliano dalla giovanile opera su Marx alla sua riedizione nel 1937 «per corrispondere all’insistente desiderio degli studiosi» e riudire «voci che non si sono mai spente in me e qualche cosa di fondamentale in cui ancora mi riconosco e in cui altri forse meglio di me potrà ravvisare i primi germi di pensieri maturati più tardi»3. Essa perdura fino all’estremo limite del testamento spirituale Genesi e struttura della società, «scritto di getto tra l’agosto e i primi di settembre del 1943 a Troghi», nei pressi di Firenze, e, cosa assai più importante, attraversa le opere maggiori in cui si esprime l’elaborazione sistematica dell’attualismo. L’interpretazione spiritiana e delnociana contestata da Gennaro Sasso Appare davvero strano che un grande studioso come Gennaro Sasso voglia negare continuità e profondità all’interesse gentiliano per la prassi marxista, il cui studio non può essere sbocciato all’improvviso per la semplice ambiziosa volontà di partecipare ad un prestigioso dibattito di fine Ottocento o di impartire al vecchio Antonio Labriola una sonora lezione di storia della filosofia: «Non è difficile avvedersi che la lezione hegeliana che in queste pagine Gentile impartiva a Labriola proseguiva a lungo. Andava oltre e al di là di Hegel; e rischiava a tratti di trasformarsi, addirittura, in una lezione di fi- losofia e di storia della filosofia. Così, in un punto della trattazione, non senza qualche volontaria o involontaria perfidia, arrivò ad obiettargli che non vedeva proprio perché si dovesse cercare in Engels ciò che non solo da Hegel, ma già da Eraclito era stato affermato e chiarito»4. No, il marxismo è per Gentile una cosa seria, come chiarisce il suo più acuto interprete, e non è una pura “leggenda” come vorrebbe Gennaro Sasso. Questi ammette che Gentile traduce e commenta le Tesi su Feuerbach, ma non attribuisce all’operazione alcun effetto che possa rappresentare una qualche novità non contenuta nel suo idealismo5. Nella varietà delle interpretazioni, la primazia marxiana arride al più illustre allievo di Gentile, Ugo Spirito, dal quale poi altri studiosi prendono le 1. U. Spirito, Gentile e Marx, «Giornale critico della filosofia italiana», XXVI (1947), pp.153-154. Il fascicolo è interamente dedicato a Gentile e presenta, oltre a quello di Spirito, altri pregevoli interventi. 2. Ibi, p. 161. Sulla correttezza interpretativa di Ugo Spirito, vedi A. Del Noce, Appunti sul primo Gentile e la genesi dell’attualismo, «Giornale critico della filosofia italiana», XLIII (1964), pp. 508-556; E. Centineo, Attualismo e marxismo, «Giornale critico della filosofia italiana», XLIII (1964), pp. 139-147; E. Garin, Cronache di filosofia italiana, vol. I, Laterza, Bari 1975, soprattutto le pp. 211-220. 3. G. Gentile, Avvertenza, in La filosofia di Marx, Le Lettere, Firenze 2003, pp. 9-10. 4. G. Sasso, Giovanni Gentile: gli scritti su Marx, «La Cultura», XXXV, n. 1 (1977), p. 77. 5. G. Sasso, Giovanni Gentile, cit., e particolarmente la p. 65. Secondo Del Noce, invece, l’attualismo è vicino al marxismo nel suo processo di formazione e nel suo sviluppo; esso rappresenta la forma critica del marxismo, «la forma più rigorosa di filosofia della prassi» (A. Del Noce, Appunti sul primo Gentile, cit., p. 528). 71 PERCORSI DIDATTICI Il prassismo attualista e il suo distanziarsi dallo storicismo Giovanni Gentile (1875-1944). mosse in modo più o meno palese. Lo stesso Del Noce gli è assai vicino e ne viene influenzato, soprattutto dagli scritti sul Comunismo o da quelli sul Nuovo Umanesimo, e ne accetta l’interpretazione immanentistica, e ne riprende e perfeziona l’idea della secolarizzazione. Del Noce intacca rovinosamente la struttura oggettivistica del materialismo storico. Su questa revisione, pure Gramsci può acquisire la connotazione attualistica, liberare la dimensione pratico-attivistica della Rivoluzione contro il “Capitale” e rovesciare la nota struttura materialistica (vedi Suicidio della rivoluzione edito da Rusconi nel 1978 e Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea pubblicato dal Mulino nel 1990). Gentile diventa perciò il “suicida” della rivoluzione, il “notaio del nichilismo” e il più severo teorico della morte di Dio grazie ad una radicale operazione di immanentizzazione, nella quale lo Spirito è il “Dio cartesiano reso immanente”. 72 Il momento più pregnante dell’interpretazione delnociana di Gentile consiste tuttavia nella sottolineatura dell’impossibilità di separare la teoria dalla pratica e perciò nel riproporre lo stretto legame scoperto da Ugo Spirito tra attualismo e praxis, che in concreto si risolve nel profondo e indissolubile intreccio tra attività speculativa e azione politica,con l’ovvio primato che spetta a quest’ultima, poiché il filosofo è anzitutto, marxianamente, un politico e la verità del pensiero si pone solo nel suo aspetto operativo. Mai la filosofia occidentale si era spinta tanto avanti sulla via della prassi, dopo l’abbandono gorgiano della metafisica. Lo stesso incontro di Gentile con il fascismo di Mussolini è un evento puramente incidentale, come riconosce Daniela Coli nel suo Giovanni Gentile edito dal Mulino nel 2004, anche se poi la studiosa ne individua il valore come teorico dello Stato etico,anziché come sostenitore di una praxis funzionale ad una serie di obiettivi personali, non tutti fallimentari, prima che alla fedeltà fascista. Il binomio attualismo-fascismo non è dunque filosoficamente necessario, anche se storicamente l’attualismo assume la difesa dell’ideologia autoritaria, del Capo carismatico e dello Stato etico. Necessario filosoficamente è invece il concetto di una prassi che è creazione, che si fa storia, che rovescia l’oggettività storica e che diviene soggetto di nuova azione: «Questa è una delle più importanti verità scoperte dalla filosofia moderna, e bene fanno alcuni filosofi odierni, che si dicono dell’azione, a difenderla calorosamente. La verità non è spettacolo, a cui tutti sol che ne abbiano un capriccio, possano assistere. No. È nostra creazione, nostra conquista, che addimanda tutte le forze dell’anima, e prima di tutto una riforma morale, che ci spogli del nostro naturale egoismo»6. La mia opinione è che Gentile apprende da Marx filosofo e rivoluzionario che compito della filosofia non è più quello di interpretare il mondo, bensì quello di cambiarlo, poiché è impossibile ed inutile contemplare la realtà e fare un uso disinteressato della scienza. Si tratta di una conquista fondamentale, che stringe in un solo blocco organico storia e filosofia. Nel Concetto della storia della filosofia del 1907 Gentile afferma infatti che non è la filosofia, in quanto speculazione del reale, che entra nel gioco delle forze operanti nel corpo della storia, ma è la volontà che promuove il futuro e orienta sia la storia che la filosofia. I veri rivoluzionari «non sono, poniamo, gli elaboratori del materialismo storico, che è un concetto speculativo, ma i compilatori del Manifesto dei Comunisti, che è un atto pratico»7. E poi vi è l’argomento di indubbia derivazione marxiana, secondo cui a nessuno è dato scrivere la storia della filosofia senza un orientamento operativo, «senza concepire in qualche modo la filosofia, e farsi lume del proprio concetto alla ricerca e alla ricostruzione»8. Sembra una formulazione idealistica, ma in realtà essa proviene dal Marx che concepisce la critica come una battaglia meridiana consacrata pragmaticamente a trasformare il mondo: «Ma, certo, v’ha soggettività vera e v’ha soggettività falsa. Vera soltanto potrà dirsi quella consistente nel concetto, che uno storico abbia della filosofia, adeguato al momento storico a cui egli appartiene […] La coscienza filosofica dello 6. G. Gentile, Il concetto della storia della filosofia, in La riforma della dialettica hegeliana, Principato, Messina 1913, p. 135. 7. Ibi, p. 134. 8. Ibi, p. 147. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PERCORSI DIDATTICI storico deve rispecchiare la storia della coscienza filosofica; sicché la stessa ricostruzione deve contenere già nel suo andamento storico la critica progressiva dei sistemi; e la vera arte storica, come quella del giardino incantato d’Armida, è l’arte che tutto fa, nulla si scopre»9. Anche la storiografia è insomma un’attività rivoluzionaria che non sopporta la vacuità teoretica del crepuscolo. Certo, così l’attualismo si allontana dallo storicismo. La chiusura del circolo ermeneutico Fabio Farotti e Salvatore Natoli appartengono ad una generazione più giovane di studiosi che si distinguono per una poderosa volontà di reinterpretazione monolitica dell’attualismo. La loro lettura converge nella riproposizione dell’immanentismo assoluto, anche se poi i due valenti studiosi si diversificano nel puntare, l’uno, sulla vitalità “europea” della gentiliana filosofia della prassi10 e, l’altro, sulla incompiutezza dell’Atto, da cui deriverebbero la sua continua novità, la “riforma della riforma” della dialettica e il destino tragico dell’ineffabile divenire, che sopprime la staticità dell’essere e nientifica inesorabilmente ogni orizzonte di eternità e di verità11. Ciò che tematizza plasticamente l’indimenticato Antimo Negri nella sua Inquietudine del divenire: «La dialettica hegeliana lascia ad un certo punto precipitare il divenire in un risultato calmo, spegnendone l’inquietudine […] Riformatore di questa dialettica, Gentile opta per la conservazione della inquietudine del divenire che esalta lo spirito nella sua ininterrotta processualità e dinamicità»12. Si tratta di quell’inquietudine della dialettica che passa dalla tesi all’antitesi per non giungere mai ad una sintesi definitiva in quanto il processo è Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI Giovanni Gentile e Leonardo Severi, Ministero della Pubblica Istruzione, Roma 1923. eterno e non attinge in alcun modo e luogo la sua meta. «Ora – commenta Ugo Spirito – è chiaro che il senso più profondo di questa dialettica è la stessa esigenza della ricerca e ha lo stesso carattere drammatico di continuo sforzo per raggiungere l’infinito»13. Il ritmo vertiginoso della prassi sconfinata fa cadere ogni punto di appoggio e procura un senso di angoscia e disorientamento e impedisce di raggiungere la totalità, producendo indifferenza e grigiore e annebbiando la visione: «Se non che, nel vorticoso procedere, tolto ogni punto di appoggio e ogni criterio unitario di giudizio, l’esperienza si realizza in uno stato d’animo di disorientamento, che non può non depauperarla e farla scorrere in superficie. L’ideale di totalità che la muove e che è ancora il bisogno di superare l’antinomia e di raggiungere Dio si converte via via nel principio della sua progressiva indifferenziazione […] La totalità alla quale si ispirava non è stata raggiunta e al suo posto non rimane che il nulla»14. Con Natoli si assiste ad un deciso ri- torno alla prassi che riposiziona il “marxismo” gentiliano dentro la dimensione pratico-attiva e configura l’attualismo come un prassismo che reinterpreta la modernità: «L’interpretazione gentiliana di Marx costituisce un punto di non-ritorno e perciò costringe a ripensare il marxismo in termini di soggettività se non lo si vuol dissolvere in un generico metodologismo […] In questo senso la verità è qualcosa di voluto e come tale è interpretazione»15. Trasformazione o interpretazione che sia, l’attualismo della prassi è in verità filosofia della potenza volitiva illimitata che demolisce la stabilità dell’essere: «In Gentile, l’originarietà del divenire ha intac- 9. Ibi, pp. 147-148. 10. Cfr. S. Natoli, Giovanni Gentile filosofo europeo, Bollati Boringhieri,Torino 1989. 11. Cfr. F. Farotti, Senso e destino dell’attualismo, Pensa Multimedia, Lecce 2000. 12. A. Negri, L’inquietudine del divenire. Giovanni Gentile, Le Lettere, Firenze 1992, p. 63. 13. U. Spirito, La vita come ricerca, Sansoni, Firenze 1943, p. 105. 14. Ibi, p. 115. 15. S. Natoli, Giovanni Gentile, cit., pp. 107-108. 73 PERCORSI DIDATTICI cato definitivamente la stabilità dell’essere, ma non del tutto dissolto le certezze dell’Io. A fronte di questo non bisogna però dimenticare come l’ipertrofia dell’Io sia una via attraverso cui esso attinge la propria autodissoluzione»16. La strada al postmoderno è aperta, anche se permane la potenza del soggetto trascendentale, che può vivere con la sola coscienza infelice del successo effimero e della manipolazione del mondo. Torna di moda quel Protagora più volte evocato da Gentile e s’impone con tutta la sua drammaticità la considerazione già rimarcata di una storia che procede per gli sforzi del volere verso una libertà inafferrabile17. ll dato più singolare e decisivo è dunque che in Gentile,come nel Marx delle Tesi su Feuerbach, il soggetto non è lo spettatore passivo, ma il creatore e costruttore della realtà nel processo dialettico del suo atto, nel quale trova il suo luogo di manifestazione e di realizzazione e scopre la propria qualità attivo-volitiva. Ecco il vero Marx di Gentile. Ed ecco il vero Gentile: «Vero è quel che si fa; il vero della natura è per l’intelligenza divina che è creatrice della natura stessa, e il vero per l’uomo non può essere quello della natura, che non è fatta da noi, nei cui segreti perciò non possiamo penetrare […] Ma di tutto quello che noi intendiamo come fattura nostra, evidentemente il criterio della verità sta dentro di noi»18. E in Genesi e struttura della società pure la natura si fa prodotto della prassi lavorativa. L’esigenza attualistica di unificare uomo e mondo attraverso la prassi presuppone la trascendentalità dell’Io, che è capace di produrre tutte le strutture e di dare un significato alla storia ricostituendo la realtà empirica e l’essere particolare nell’universalità del dover essere. Una pagina del secondo volume del Sistema di logica come teoria del conoscere può fornire un’idea più puntuale del reale valore costitutivo della prassi trascendentale: «La prassi nella sua identità con la teoria, qual è qui intesa, non concetto di una realtà presupposta, non sintesi, ma autosintesi e però autoconcetto, non è la prassi come volgarmente s’intende, produzione di un oggetto che si distingue dal soggetto, e se ne rende indipendente […] La prassi, come autoprassi dell’Io esattamente concepito, dell’Io creatore del Tutto, cioè di se stesso, è quel medesimo pensiero divino che la teologia cristiana ben vide coincidere con la divina attività creatrice»19. Il prassismo attualista risolve drasticamente la molteplicità nell’unità dell’autocoscienza e cancella ogni “distinzione”. Tale monolitismo prepara lo scontro con Benedetto Croce, il cui liberalismo è proprio il frutto della teoria dei distinti. Egli, nel recensire il secondo volume gentiliano del Sistema di logica come teoria del conoscere, segnala il pericolo e fa notare il disaccordo con il suo amico: «Taluni si maravigliano che, col disaccordo di sopra lumeggiato nella concezione filosofica, il Gentile ed io continuiamo a collaborare; ma la loro maraviglia crescerebbe d’assai se apprendessero che quel disaccordo c’è stato sempre, sin dai primi tempi che io conobbi il Gentile, sin dalle prime conversazioni tra noi. Senonché quella meraviglia si dissiperebbe prontamente, se si volesse riflettere che io non potevo certamente collaborare con uno che fosse d’accordo con me, perché avrei avuto a fianco, in tal caso, un collaboratore inefficace e superfluo»20. Ma, come si sa, la rottura definitiva si verifica di lì a poco. Salvatore Ragonesi già preside nei licei Giovanni Gentile, Il discorso agli Italiani del 24 giugno 1943. 74 16. Ibi, p. 93. 17. G. Gentile, Il concetto della storia della filosofia, in La riforma della dialettica hegeliana, cit., p. 136. 18. G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, Mariotti, Pisa 1916, p. 15. 19. G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, II, Laterza, Bari 1923, pp. 215-216. 20. B. Croce, Giovanni Gentile. Sistema di logica come teoria del conoscere, vol. II, «La Critica» XXII (1924), pp. 54-55. La risposta di Gentile, molto tagliente, si trova in «Giornale critico della filosofia italiana» V (1924), p. 71. Sulla genesi e lo sviluppo di tali contrasti, cfr. la biografia di G. Turi, Giovanni Gentile, UTET, Torino 2006. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PERCORSI DIDATTICI Matematica e creatività Roberto Lucchetti RIFLETTERE SULLA MATERIA CHE SI INSEGNA PUÒ INFLUENZARE LA MODALITÀ DI INSEGNAMENTO? QUAL È LA VISIONE CHE SI HA DELLA MATEMATICA? È REALMENTE UNA DISCIPLINA AUSTERA, PERFETTA E IMMUTABILE? L’AUTORE NE DELINEA UNA VISIONE DIFFERENTE CHE COMPORTA UNA GRANDE IMPLICAZIONE NEL MODO IN CUI SI INSEGNA: LA CREATIVITÀ. LA MATEMATICA NON COSTITUISCE SOLO UNA MERA TRASMISSIONE DI REGOLE, MA È PIENA DI IDEE E CONCETTI APPLICABILI AL MODO DI PENSARE E DEL VIVERE QUOTIDIANO SU CUI RIFLETTERE IN MODO DEL TUTTO ORIGINALE. H o letto una volta un libro che mi è molto piaciuto e nel quale ogni capitolo era introdotto con un incipit costituito da una breve frasetta. Quella che mi ha colpito di più diceva: non si pensa mai abbastanza. Condivido questo concetto e mi piace che sia espresso in modo così lapidario. E sottolineo che per me pensare significa non solo fare ragionamenti di qualche tipo, ma soprattutto riflettere su quel che si fa, sul perché facciamo quel che facciamo, sul come lo facciamo. Figurarsi se questo non è tanto più vero nel lavoro di insegnante, in particolare quanto più sono giovani gli allievi. In fondo, se si hanno le competenze tecniche, un corso di dottorato non è così complicato, soprattutto per la buona ragione che chi ascolta in genere è molto interessato ad apprendere quel che viene proposto. Al contrario a scuola gli studenti sono per la maggior parte poco inclini a imparare quanto si fa in molte specifiche materie, e la loro motivazione per studiare, posto che ci sia, è legata al fatto che a scuola bisogna andarci, che serve per il futuro, e ne tralascio altre che francamente suonano ancora meno convincenti. Questo fenomeno è destinato ad accentuarsi, dal momento che il mondo d’oggi offre sempre più possibilità di informarsi e imparare al di fuori della scuola, anche Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI se spesso la qualità dell’informazione stessa lascia parecchio a desiderare. Dal momento che insegno matematica, e non da poco tempo, e che ho seguito da vicino il suo apprendimento da parte dei tre miei figli, su questo argomento ho provato a fare negli anni un po’ di riflessioni, che a volte mi piace condividere, soprattutto per l’intenso legame che sento col lavoro che faccio e con la materia che di questo lavoro è il perno fondamentale. E mi piace rendere esplicite le mie riflessioni anche perché credo che a volte siano un po’ eretiche; d’altra parte sono convinto che l’eresia sia spesso fonte di buone riflessioni. Un primo punto basilare che vorrei affrontare riguarda il fatto che riflettere sulla materia che si insegna e la visione che poi ne elaboriamo dovrebbe influenzare profondamente il nostro modo di insegnare, anzi in effetti lo influenza sicuramente. Allora la prima domanda che io mi pongo è: qual è la mia visione della matematica? Che cosa rappresenta per me la matematica? Ho messo in corsivo mia e per me, in quanto credo profondamente che in queste cose non esista una sola risposta possibile, al contrario; discuterne quindi è importante, per un naturale confronto di idee. Questo è un punto di vista filosofico importante: se sostengo un’opinione è perché ci ho pensato su e penso di avere una visione corretta di una cosa, ma sempre sapendo, e mai dimenticando, che opinioni diverse hanno stessa legittimità. Riprenderò in seguito questo punto. Ritornando a come vedo la matematica, comincio subito col dire che sono convinto che la visione che i non addetti ai lavori hanno di questa disciplina non sia la più adeguata. Non insisterò sui motivi per cui questo accade, anche se penso che la responsabilità più grande sia legata a come una materia viene insegnata (dalla Scuola Primaria all’Università, o addirittura post Università, vedi vari corsi di aggiornamento); piuttosto, vorrei concentrarmi su quel che credo sia la percezione dei più, e sul perché secondo me questa percezione è profondamente sbagliata. Nell’immaginario collettivo la matematica è una disciplina austera, algida, perfetta, immutabile, in cui ogni assunto, ogni affermazione corrisponde a una verità assoluta e immodificabile. Ora non voglio sostenere che questo non abbia un suo fondamento, ma sono convinto che sia una visione troppo settaria delle cose. Che il ragionamento matematico si basi su procedure standard (o quasi), universalmente riconosciute, che da certe premesse ne derivino certe incontestabili conclusioni, non è cosa da mettere in dubbio. Solo che 75 PERCORSI DIDATTICI qualcuno fornito di un’intelligenza e di una profondità sbalorditive, parlo di K. Gödel, ci ha mostrato in maniera lampante quanto fragili siano le basi su cui costruiamo le nostre certezze matematiche. Intanto, ci ha spiegato che esiste un ineliminabile solco tra ciò che è vero e ciò che è dimostrabile in ogni teoria matematica che comprenda l’aritmetica1; però non si è limitato a questo: ha anche dimostrato che una tale teoria non potrà mai essere dimostrata coerente. Ora nessuno, credo, si sogna di pensare che prima o poi qualcuno trovi delle contraddizioni nell’aritmetica, ma è evidente che il panorama disegnato da Gödel è assolutamente diverso da quello sognato da Hilbert, il rappresentante ufficiale della matematica della prima parte del Novecento: «in mathematics there is no ignorabimus». Dalla parte di Hilbert c’è la visone di una scienza trionfante che pensa di poter tutto spiegare e tutto controllare (è solo questione di tempo); dalla parte di Gödel, invece, un profondo atto di umiltà, che ci ammonisce che la matematica, e tutta la scienza in genere, hanno dei limiti ben precisi e invalicabili. Anche se, mi preme sottolinearlo, sto parlando, soprattutto relativamente a Gödel, di una mia interpretazione del suo risultato di incompletezza, non certo della sua visione filosofica. E oggi credo che non ci sia più nessun dubbio, visti i risultati di Gödel, rinforzati da Turing, che una visione meno onnipotente della scienza corrisponde più a un adeguato modo di vedere le cose. Ma la domanda che qui vorrei pormi è: ha tutto questo un impatto sul nostro modo di insegnare? Io credo proprio di sì. Se spieghiamo le cose consci che comunque quel che diciamo non sono verità assolute, ma concetti veri all’interno di certe teorie, che potrebbero però non esserlo in teorie altrettanto 76 efficaci, allora forse la forma mentis, il modo di proporre le cose possono cambiare, e non poco. Perché chi pensa di essere certamente sulla strada giusta, e che il giorno della comprensione assoluta si sta avvicinando, non può che avere un atteggiamento rigido di fronte alla trasmissione della cultura in generale e della matematica in particolare, mentre al contrario chi pensa che non esistano strade giuste, ma modi più o meno efficaci di descrivere e trasmettere la nostra percezione del mondo, non può che avere un atteggiamento aperto alle novità, nonché una sorta di benedetta umiltà intellettuale, che gli ricorda sempre quanto la giustezza di una teoria o di un modo di vedere le cose sia figlia del tempo che si sta vivendo: come la nostra visione della matematica è molto differente (e giustamente la riteniamo più efficace) di quella di 300 anni fa, altrettanto dovremmo ricordarci che tra 300 anni qualcuno potrebbe aver da ridire, a buon diritto, sulla nostra visione delle cose. Tutto questo può sembrare molto teorico, ma non lo è affatto. Chi non crede che tutto sia già scritto nel grande libro della realtà, insomma chi sta con Gödel e non con Hilbert, si porrà qualche volta il problema se quel che insegna o ha insegnato per decine di anni non possa essere visto anche in altro modo. Forse, l’importanza che si dà agli argomenti svolti in classe o previsti dai programmi ministeriali assume una valenza diversa. Non voglio sostenere che certe parti della matematica che si insegnano oggi siano inutili, non voglio sostenerlo, però vorrei almeno insinuarne il dubbio: non è possibile non rimarcare che argomenti come la trigonometria o i logaritmi oggi non solo vadano visti e spiegati in maniera molto diversa, ma sostanzialmente ridimensionati. Dovremmo, credo, riflettere Kurt Gödel (1906-1978). sull’importanza, forse eccessiva, che nei corsi si dà all’insegnamento della geometria euclidea, col suo metodo assiomatico così efficace sì, ma anche così freddo e lontano dall’intuizione. E su questo voglio subito rispondere all’obbiezione che più frequentemente mi si fa a questi discorsi, e cioè che poi siamo proprio noi che insegniamo in Facoltà scientifiche a lamentarci della preparazione degli studenti. In realtà, negli ultimi anni in moltissime facoltà scientifiche sono stati istituiti dei corsi di sostegno (i cosiddetti precorsi) proprio per dare quelle nozioni tecniche su certi argomenti (potenze e radici, funzioni trigonometriche, esponenziali e loga- 1. Uno dei contributi più geniali di Gödel è stato di aver formalizzato in maniera rigorosa, all’interno del mondo matematico, i concetti di vero e di dimostrabile. Ovviamente qui non possiamo che appellarci all’intuizione. Diciamo allora che vero è qualcosa che non contraddice nessuna delle premesse della teoria; detto in parole molto imprecise Gödel ha dimostrato che in ogni teoria così ricca da contenere l’aritmetica esiste sempre un’affermazione vera non dimostrabile Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PERCORSI DIDATTICI ritmi, e poco altro) che sono utili per seguire i corsi di matematica e fisica. E da chi segue questi corsi ci piacerebbe trovare rispondenza non nel fatto che queste cose le conoscano già, ma piuttosto che non facciano troppa fatica a assorbire le nozioni. Per questo, è molto più importante un allenamento al ragionamento logico che una conoscenza approfondita dell’argomento che si tratta. E il ragionamento logico si impara su tante cose, non solo sui programmi classici, e non solo in matematica2. Non sottovaluto il fatto che troppe nozioni nuove non si digeriscono in poche lezioni, ma se a me bastano e avanzano due ore per fare la trigonometria, forse non è necessario che gli studenti siano torturati per troppo tempo su questa parte della matematica nelle scuole. Né è troppo valida l’altra obbiezione ricorrente che c’è l’Esame di Stato in agguato. A parte il fatto che questo riguarda solo una parte degli studenti, per sostenere la prova di matematica non c’è bisogno di legarsi per cinque anni a uno schema ben definito e immutabile… David Hilbert (1862-1943). Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI La visione della matematica che ho delineato precedentemente ha un’altra grossa implicazione nel modo in cui si insegna, ed è di questa che parlo nella seconda parte di questo mio intervento. Si tratta della creatività. Una visione dinamica della matematica, non solo meccanicistica e algoritmica, non può non lasciare grande spazio alla creatività. Certo, fare matematica veramente creativa è prerogativa di pochi. Ma tutti, a scuola, dovrebbero essere incoraggiati a proporre un loro modo di vedere le cose. A me sembra che troppo spesso l’unica preoccupazione di chi spiega sia di insegnare un metodo, cui ci si deve sempre uniformare per risolvere un certo tipo di problemi. Un esempio? Uno che mi sembra significativo è lo studio di funzione. Se fate una prova, la maggior parte di quelli proposti all’Esame di Stato o anche nei compiti di analisi al primo anno di Università si possono fare, per la maggior parte, senza l’uso del calcolo differenziale. Per lo meno, intendo, farsi almeno un’idea intuitiva di come sia il grafico di una funzione data. Poi qualche nozione presa a prestito appunto dall’analisi infinitesimale può darci informazioni ulteriori. Eppure lo standard è quello di insegnare agli alunni un metodo ben preciso di procedere, magari punendo chi divaga. Secondo me questo non va bene. So benissimo, tra l’altro, che spesso sono gli alunni stessi che chiedono un metodo, un metodo meccanico da applicare. Quante volte ci sentiamo dire «ci dia una regola per procedere!» Ora non dico che un’anarchia senza regole sia la cosa giusta da fare, ma in cinque anni di scuola secondaria superiore non mi pare debba essere impossibile trovare i giusti spazi per lasciare un po’ di campo libero alla fantasia nell’affrontare i problemi. Questo è tanto più necessario se si riflette un po’ meglio sul fatto, evidente sperimentalmente, che l’apprendimento è cosa molto individuale: in altre parole, non è affatto vero che spiegare una cosa in un modo piuttosto che in un altro è meglio o peggio per tutti. Ci sarà chi apprezza un certo approccio, e chi ne apprezza un altro. Ci sono persone che hanno bisogno, quando gli spiegate una regola, di dare motivazioni, di sottolineare intuizioni magari di tipo geometrico, e c’è chi invece è disturbato da queste spiegazioni di contorno, e capisce bene solo se gli presentate la regola algebrica senza tanti fronzoli3. Mi pare di essere arrivato al punto cruciale del discorso. Io intendo la matematica come un qualcosa che è molto, 2. D’altra parte la matematica ha un modo suo così peculiare ed efficace di esibire un ragionamento logico, che ritengo sia veramente utile per chiunque impadronirsene, almeno nei suoi aspetti di base. Chi ha imparato la logica in matematica scriverà meglio una sentenza, saprà rigirarsi con disinvoltura nelle piaghe del diritto, sarà un bravo psicologo… 3. Ho fatto questa riflessione spiegando (poche volte!) matematica a uno dei miei figli. Con grande sorpresa, devo confessarlo, mi sono accorto che meno mi soffermavo su motivazioni, e più mi concentravo su fatti puramente algebrici, più lui apprezzava e capiva realmente le cose. Questo forse non è lo standard, ma, come ho 77 PERCORSI DIDATTICI tempi molto recenti! Mostrare maquesto genio ha cercato di affrontare molto di più dell’insieme delle sue regari un altro metodo (molto bello e risolvere può suscitare la sorpresa e gole. Queste sì che si possono considequello per gelosia) può forse in quall’interesse degli alunni. rare intoccabili, almeno al livello in cui che modo attirare la curiosità degli deve essere trasmessa. Ma a me in fondo 2) Occorre sempre ricordarsi che dieallievi, e dare loro anche l’idea che le tro i calcoli ci sono delle idee, e che non interessa che della matematica loro difficoltà sono naturali, se è vero queste sono molto più importanti! siano trasmesse delle regole, o soltanto che prima di arrivare al sistema Non bisogna stancarsi mai di mettere delle regole. Mi interessa che si capisca odierno, che magari è più efficiente in evidenza le idee, prima delle reche la matematica è piena di idee, di di altri, questo non lo nego, ci sono gole! Le menti umane possono esconcetti, di modi di vedere le cose che è voluti secoli e secoli! sere molto diverse, ma penso che nesinteressante conoscere e capire, perché si 4) Occorre dare più spazio ai nuovi suno possa ricordare a memoria possono applicare anche al modo di aspetti. La probabilità, ad esempio, è dimostrazioni pazzesche, così come pensare e di vivere giorno per giorno, difficile, a volte sorprendente, ma si nessuno può suonare un pezzo di perché ti danno un modo originale di può avvalere di esempi interessanti, e musica classica avendo solo memoriflettere. Così come sono convinto che ha anche più ricadute pratiche, nel rizzato le note: è evidente che dietro un matematico migliori la sua commondo di oggi, della trigonometria. c’è una trama, e non svelare questa prensione delle cose, e in definitiva facSia ben chiaro, non è che a scuola si trama è un errore terribile. cia meglio il suo lavoro, se è persona possa fare molto, ma darne un’idea curiosa e ricca di interessi culturali e 3) La matematica non è nata come la sì. Un altro esempio: parlare un po’ vediamo oggi noi, e tra qualche senon di tipo differente, così come allo di strutture sarebbe molto imporcolo sarà enormemente diversa da stesso modo credo che un non matetante, sono l’essenza della matemaquella di oggi. Come ho già ricormatico abbia grandi benefici a conotica, ed è vero che a un livello di codato, l’insegnamento tende secondo scere un po’ di idee che la matematica gli noscenza tecnica non molto elevato me a rendere troppo assoluto l’appuò dare. gli esempi non sono molti, ma qualproccio alla disciplina, dando l’imTutto questo è molto teorico, ma la teocosa si può fare. Un altro ancora: un pressione che questa sia sempre stata ria va messa in pratica. Per questo cerco po’ di teoria dei grafi, che permettecosì, e che lo sarà per sempre. Ma ad sempre di chiedermi come proverei io a rebbe di fare qualche applicazione esempio le moltiplicazioni, così realizzare queste mie idee nell’insegnaforse più interessante e innovativa di come vengono spiegate ai bambini, mento. Ecco allora qualche spunto su quelle che di solito si fanno vedere a l’uomo le fa in questo modo solo da cui lavorerei in classe. scuola… sono solo esempi, ma possibilità da esplorare. 1) Ricordare sempre che di un pro5) L’insegnamento può procedere sia in blema, o di una parte della teoria, maniera deduttiva sia in maniera innon esiste soltanto l’aspetto tecnico. duttiva. Il metodo principe (oggi!) è Che ovviamente è una parte essenquello deduttivo, che spesso si moziale, ma non l’unico che va consistra di gran lunga più efficiente. È la derato. Raccontare un po’ della stodeduzione che ci permette di apria di un problema, o della vita di un personaggio importante del passato o del presente, che di quel prosperimentato in seguito a questa scoperta, è più coblema è stato un protagonista, momune di quel che si pensi. Ecco perché non hanno senso, in didattica, le prese di posizioni troppo estreme. strare a volte un film che parla di C’è chi, per esempio, si trova a suo agio col metodo inmatematica (ce ne sono…) può esduttivo, e chi privilegia quello assiomatico deduttivo. Chi è fortemente motivato, nella comprensione, dal vesere una via da seguire. La vita di dere applicazioni e utilizzi specifici delle regole, e chi in sede di apprendimento della stessa distratto e disturEvariste Galois è più bella e romanbato da tutto ciò che non concerne direttamente l’artica di un romanzo, dedicare un paio gomento matematico in discussione. Può piacermi il Bourbakismo, ma pensare che questo sia il solo metodo, d’ore per raccontarla, passando poi o il metodo più giusto, per presentare tutta la matemal’ora dopo a parlare dei problemi che Évariste Galois (1811-1832) tica, per me è pura follia. 78 Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PERCORSI DIDATTICI come funghi. Però è vero che l’atanche se non ne viene fuori quasi prendere più in fretta, non solo in tenzione delle persone si cattura più mai qualcosa di originale, e spesso le matematica: qualcuno risolve con facilmente facendo vedere cose sorconclusioni non sono corrette. Pagrandi difficoltà un problema quaprendenti, non cose un po’ scontate. zienza! E’ molto creativo discutere lunque, gli altri poi dal suo sforzo E questo è vero sempre. Con i bamanche degli errori, di come nascono deducono che fare, e lo fanno con bini, l’attenzione dei quali viene cate si sviluppano. Le persone incoragmaggiore facilità. Chi ha scritto un turata con grande facilità facendo giate a pensare con la testa loro, a lavoro di matematica sa benissimo vedere loro cose non scontate, con i trovare soluzioni alternative avranno che le cose alla fine sono presentate ragazzi a scuola, se gli proponete sempre un approccio meno negativo in maniera ben diversa da come sono qualcosa di insolito che magari ha alla materia. venute alla mente: quest’opera di ririsposte insolite. Ma succede anche traduzione è essenziale ed utile agli 7) Incoraggiare anche il lavoro di con gli adulti, succede con gli esperti. gruppo. Dare compiti non solo ed altri (se ben fatta, naturalmente). L’ho sperimentato persino nel laesclusivamente standard. Ogni tanto Quindi, nessuna obbiezione al mevoro: ho avuto la fortuna di essere organizzare prove più impegnative todo deduttivo. Ma occorre ribellarsi invitato a pranzo da un (futuro) preche gli alunni devono provare a rise questo diventa l’unica maniera di mio Nobel, che gentilmente mi ha solvere in gruppi. E’ vero che in quepresentare le cose. Anche un matechiesto che cosa stavo studiando; ho sto modo si formano dinamiche non matico bravo, esperto e profondo, se cominciato a dirgli che avevo fatto sempre del tutto positive: c’è chi si dà si trova a leggere o ascoltare cose lonnell’ultimo lavoro, che risultati avevo da fare e chi segue passivamente, chi tane dal suo campo di ricerca, spesso trovato, e lui mi ha detto che erano sfrutta il lavoro altrui. Ma questo ha difficoltà a catturare le idee in un risultati prevedibili. Ma quando gli non succede solo in ambito scolaapproccio formale deduttivo che non ho parlato dell’ultimo, che lui aveva stico, queste meccaniche di gruppo si spieghi da dove hanno origine certe predetto in maniera un po’ diversa, ritrovano in ogni ambiente, perché astrazioni. Per questo a scuola ocsolo allora ho catturato davvero la non cominciare a sperimentarle a corre alternare le cose, occorre dedisua attenzione e il suo interesse! scuola? Senza contare che l’insecare del tempo anche a impostare un gnante ha la possibilità di interveproblema, e soprattutto ad ascoltare nire, almeno in parte, di correggere e Non voglio qui trarre delle conclusioni i tentativi, quasi sempre sbagliati, deprecise. Come insegnare la matematica indirizzare. gli studenti, su come affrontarlo. 8) Infine, forse questo è il punto cui è un tema eterno, che non si esaurisce Non è tempo perso! tengo di più, ed è la costante nelle mai. E renderla più appetibile una fatica 6) Occorre sempre incoraggiare lo stumie lezioni, mostrare il più spesso di Sisifo. Parlarne però serve a chi lo fa dente a cercare le sue soluzioni a un possibile quanto sorprendente può per lavoro a non appiattirsi nell’abituproblema. Occorre premiare lo stuessere la matematica. Quanti para- dine e nella noia. Ma se una morale dal dente che va in cerca di una soludossi può portare con sé. Il para- mio discorso la devo tirare, vorrei sotzione sua, magari inefficiente, a volte dosso attira l’attenzione. Stimola il tolineare come la cosa più importante pure sbagliata, ma lo sappiamo bene pensiero. Certo, lo standard è la re- sia un atteggiamento flessibile, mirato e che nella vita si impara più dagli ergola, quella regola rassicurante, so- intelligente nei confronti della materia e rori che osservando e ripetendo prattutto per chi la insegna. Perché sa di coloro cui questa materia si insegna. meccanicamente le cose spiegate! maneggiarla, ne ha esperienza. Ma Occorre ricordarsi sempre che il comQuesto è un punto cruciale, troppe non esiste solo lo standard, anzi! So pito di insegnante, credo, sia quello di volte ho visto (allibito!) studenti puche la mia visione mi influenza mol- trasmettere il più possibile idee, culniti attraverso lo strumento del voto tissimo. Sono curioso delle teorie di tura, voglia di sapere. Su quali argoper non aver utilizzato il metodo apGödel, che sono basate su un uso so- menti, in fondo non è il punto più impena spiegato in classe, pur avendo fisticatissimo di uno dei più famosi portante. trovato la soluzione corretta. A me paradossi della logica, il paradosso piacerebbe poter punire quegli inseRoberto Lucchetti del mentitore. Mi occupo di teoria gnanti! Lo studente che propone una Università Cattolica del Sacro Cuore, dei giochi, dove i paradossi nascono soluzione sua fa qualcosa di creativo, sede di Brescia Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI 79 PERCORSI DIDATTICI Sfasamenti tra grandezze e metodi statistici Il caso dell’inerzia termica nel sistema riscaldamento solare e atmosfera terrestre Carlo Genzo Premessa Le indagini sulle relazioni esistenti tra grandezze diverse possono essere tra le più fruttuose nella ricerca scientifica, anche nei casi in cui queste grandezze sono di natura diversa ed esprimibili o in base a formule matematiche o in sequenze di valori desunti da dati empirici con metodi statistici. Una certa importanza è offerta dai casi in cui le grandezze da confrontare risultano periodiche o quasiperiodiche (ossia con periodi simili tra loro), nei quali, con un metodo che qui illustreremo, è possibile dedurre lo sfasamento tra le grandezze esaminate, interpretabile successivamente a livello fisico. Il metodo, qui applicato al riscaldamento giornaliero medio dell’atmosfera in relazione alla variazione della declinazione solare, si presenta quindi come una esercitazione scolastica di notevole valore didattico, utilizzabile, una volta appresa, anche in contesti diversi. L’uso del foglio elettronico, al quale gli allievi sono indirizzati in modo concretamente operativo, consente numerose indagini eseguibili in tempi brevi, con rapide elaborazioni dei numerosi dati raccolti in virtù dei programmi di calcolo qui inseriti. molto simili tra loro), è possibile confrontare le loro oscillazioni. Le curve, infatti, potranno essere in concordanza di fase, coi massimi e minimi dell’una coincidenti con quelli dell’altra, o in opposizione di fase, con i massimi dell’una coincidenti con i minimi dell’altra, e viceversa, oppure, più in generale, in altri casi, potranno rivelare un certo sfasamento. Questo è apprezzabile già da una osservazione qualitativa dell’andamento delle due curve, quando esse siano tracciate sullo stesso grafico. Ma è anche possibile usare metodi forniti dalla statistica, per apprezzare meglio quantitativamente lo sfasamento delle due curve. Il coefficiente di correlazione di Pearson r può servire a questo. Un esempio applicativo n ∑x y i r= i i =1 n n ∑x ∑y 2 i i =1 2 i i =1 In questa formula xi e yi rappresentano gli scostamenti dalla media aritmetica delle due grandezze, ossia le differenze dei singoli dati dalle rispettive medie aritmetiche1. Oltre che con laboriosi calcoli algebrici, i valori di r possono essere dedotti immediatamente applicando programmi La teoria Se due curve oscillanti hanno la stessa già inseriti sui fogli elettronici, come lunghezza d’onda (o lunghezze d’onde ad esempio Excel, Linux ed altri. 80 Se le due curve sono concordanti, il coefficiente tende al valore + 1, se sono in opposizione il coefficiente tende a – 1, se sono sfasate, ha un valore compreso nell’intervallo tra questi due numeri (figure 1 e 2). Valori prossimi a zero (da r = – 0,3 a r = + 0,3) indicano assenza di correlazione tra le due grandezze esaminate. Facendo slittare una delle due curve rispetto all’altra, prima di un solo posto della sequenza, poi di due, di tre, e così avanti, si otterranno via via valori diversi di tale coefficiente: il valore massimo coinciderà con un certo slittamento di una curva rispetto all’altra, che corrisponderà allo sfasamento esistente tra le due curve stesse. Abbiamo voluto ricercare se esiste uno sfasamento tra l’oscillazione dell’altezza del Sole nei singoli giorni dell’anno e la variazione della temperatura media giornaliera dell’aria in una determinata località. Com’è noto, il riscaldamento della Terra dipende dall’inclinazione con cui 1. Per l’ applicazione di tali formule, vedi ad esempio gli esempi numerici riportati in Genzo, 2012 (vedi bibliografia). Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PERCORSI DIDATTICI Per comodità di calcolo, conviene trasformare i valori angolari sessagesimali in numeri decimali, secondo il seguente esempio: Qual è l’altezza massima del Sole a Roma il giorno 25 maggio? Applicando la formula (2) si ha: Altezza massima Sole = 90° – lat. di Roma + 23,45° sen (360 × 65/365) = = 90° – 41,92° + 21,09° = 69,17 ° = 69° 10’ Fig. 1. Se le curve sono in concordanza di fase il loro coefficiente di correlazione è r = +1. Nel calcolo, i minuti secondi sono stati per semplicità trascurati. Per calcolare le temperature medie giornaliere di una località è opportuno disporre dei valori non di un solo anno, in quanto nelle singole annate le variazioni di temperatura possono essere piuttosto notevoli, ma considerare piuttosto la media aritmetica giornaliera di un numero consecutivo di molti anni, preferibilmente almeno di 303. Per non rendere eccessivamente noiosi i calcoli, Fig. 2. Se le curve sono in discordanza di fase il loro coefficiente di correlazione è r = −1. è possibile calcolare le medie aritmetiche giornaliere non di tutti i giorni dell’anno, ma solo di quelli presi a interFig. 3. valli di 5, oppure di 4 giorni, o di un Andamento dell’altezza altro intervallo breve a scelta. massima del Nell’esempio qui riportato ci siamo avSole (Serie 1) e valsi di dati di temperatura giornaliera della temperatura media già calcolati per i vari giorni delmedia a Trieste l’anno per un periodo di 50 anni con(Serie 2) (in °C) secutivi per la città di Trieste (Polli S., nel corso di un 1942). anno. Le curve dell’altezza massima del Sole sull’orizzonte e delle temperature medie giornaliere sono riportate sullo i raggi solari raggiungono la superficie Per determinare l’altezza massima del stesso grafico (figura 3). del nostro pianeta, secondo la formula: Sole sull’orizzonte, per ciascun giorno R’ = R cos a (1) dell’anno, si può applicare la seguente formula2, che è valida per qualsiasi lo- 2. Essa deriva dalla formula di Cooper, che riguarda le dove a rappresenta l’angolo che ha per variazioni giornaliere della declinazione solare in funcalità della Terra: zione della data. lati la verticale e la direzione del rag3. Le diversità di temperature giornaliere presenti in una Altezza massima Sole = determinata località nella stessa data in annate diverse gio solare, R il riscaldamento solare dipendono dalla variabilità delle condizioni meteorolo90° – latitudine del luogo (2) della superficie terrestre quando il giche presenti, in conseguenza del fatto che l’atmosfera +23,45° sen (360° × N/365) costituisce un sistema complesso. Il numero 30 non è Sole sia in posizione zenitale, ed R’ il stato scelto arbitrariamente: esso segue la norma emriscaldamento quando il Sole occupi dove N rappresenta il numero dei pirica secondo cui il clima di una località viene caratteuna qualsiasi altra posizione sulla giorni a partire dall’equinozio di pri- rizzato sulla base dei valori medi degli elementi meteorologici, registrati giornalmente per 30 anni conmavera (21 marzo). volta celeste. secutivi. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI 81 Tabella 1. 82 Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PERCORSI DIDATTICI Si è quindi calcolato il coefficiente di correlazione R per le due curve4. Esso corrispondeva al valore di R = + 0,853 che rappresenta un forte vincolo tra le due grandezze. Successivamente, si è fatta slittare di una casella verso il basso la sequenza della grandezza altezza max Sole, ricalcolando il coefficiente di correlazione nella nuova situazione (tabella 1), ed ottenendo ora il valore di R = + 0.8835 Si è quindi passati allo scivolamento della prima grandezza (altezza massima sole) di un’altra casella verso il basso, Tabella 2. Valori del coefficiente di correlazione in relazione allo sfasamento in giorni. calcolando ancora una volta il coefficiente di correlazione, che ora risultava essere: R = + 0,914. E così avanti, con lo scivolamento della prima sequenza di casella in casella. I dati così ottenuti, per uno scivolamento fino a 15 caselle, pari a un totale di 60 giorni (tabella 2) sono stati riportati su un grafico, dando origine a una parabola con la concavità rivolta verso il basso (figura 4). Il vertice della parabola corrisponde al valore massimo della correlazione (R = + 0,997), la sua ascissa rappresenta lo sfasamento esistente tra le due curve. Nel nostro caso esso corrisponde a 32 giorni. Quindi, il riscaldamento massimo solare si verifica il 21 giugno, al solstizio d’estate, ma occorre attendere un mese affinché l’aria raggiunga mediamente le temperature massime. Analoga situazione si verifica nella stagione invernale: il riscaldamento minimo coincide col solstizio d’inverno (22 dicembre), ma le temperature più basse si registrano circa un mese dopo6. È necessario quindi un certo tempo affinché si producano gli effetti massimi del riscaldamento e del raffreddamento dell’aria, in seguito a fenomeni di inerzia termica. Chi scrive determinò l’inerzia termica per il sistema aria-mare nel golfo di Fig. 4. Valori del coefficiente di correlazione in relazione allo sfasamento in giorni. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI Trieste, verificando che le temperature massime e minime dell’acqua in tale golfo hanno uno sfasamento (cioè ritardo) di 20 giorni rispetto alle temperature della sovrastante atmosfera7. Altre applicazioni e considerazioni didattiche finali È evidente che il metodo testé illustrato può essere applicato per indagini di qualsiasi tipo, purché si disponga di sequenze opportune, e abbastanza abbondanti, di dati. Vi sono influenze tra il ciclo lunare e il numero dei nati, come a volte si afferma? Oppure tra il numero dei nati e le varie stagioni? C’è qualche relazione tra il traffico automobilistico extraurbano e il rispettivo mese dell’anno? O tra i consumi di elettricità e i rispettivi mesi? Tutte queste indagini, con dati facilmente ricavabili navigando per Internet, e calcoli eseguibili molto rapidamente attraverso i programmi inseriti sul foglio Excel od altri similari, consentono di verificare se esistono corre- 4. Sul foglio Excel è inserito il programma per il calcolo automatico del coefficiente di correlazione. 5. Ovviamente, in tal caso si è potuto calcolare il coefficiente di correlazione solo laddove per entrambe le sequenze si disponeva di un dato, trascurando il primo valore in alto della sequenza temperatura e l’ultimo valore in basso della sequenza altezza max sole. La diminuzione di un valore per ogni slittamento non ha portato a modifiche sostanziali, purché le sequenze contengano un numero adeguato di dati, come nel nostro caso. Calcoli eseguiti con un raddoppio delle sequenze come numero dei dati portano a risultati e considerazioni finali analoghe. 6. Questi giorni corrispondono popolarmente ai cosiddetti “giorni della merla”. Anche la durata del soleggiamento può avere importanza nei fenomeni di riscaldamento e raffreddamento terrestre. In questa indagine non se ne è tenuto conto, anche perché essa risulta subordinata all’inclinazione dei raggi solari. Basti pensare che, nelle zone polari, tale durata corrisponde, per un periodo dell’anno, a 24 ore giornaliere; ciò nonostante le temperature rimangono estremamente basse, in conseguenza della limitata altezza del Sole sull’orizzonte durante tutto il dì. 7. C. Genzo, 1990. Va tenuto conto che il Golfo di Trieste è piuttosto chiuso, con profondità del mare non superiori generalmente ai 30 metri, e via via inferiori nel settore più occidentale. 83 PERCORSI DIDATTICI lazioni (positive o negative) tra due sequenze di fenomeni, o se esse risultino assenti. È indispensabile tuttavia notare che una correlazione tra due grandezze non significa ancora necessariamente un loro rapporto diretto tra causa ed effetto. Già nell’Ottocento si era ad esempio notato che le cicogne nidificavano nei paesi nordici sulle case dei villaggi ove vi erano bambini appena nati. Da questa osservazione nacque probabilmente la poetica tradizione che fossero le cicogne a portare i neonati. Una spiegazione più razionale è quella che i focolari delle case con bambini molto piccoli fossero più a lungo riscaldati nella stagione invernale, per ottenere l’acqua calda con cui accudire i bimbi, per cui i pennuti preferivano disporre il proprio nido sui tetti e in prossimità dei camini più caldi. La rivoluzione informatica sta radicalmente modificando le nostre abitudini di vita. Come per ogni stru- mento importante, anche il PC va utilizzato in modo razionale ed adeguato. I programmi inseriti nel foglio elettronico, tra i quali il calcolo del coefficiente di correlazione, consentono un’enorme rapidità e risparmio di fatica nello svolgimento dei calcoli, mentre Internet consente di trovare dati, tra i più disparati, numerosi ed aggiornati, da ogni parte del mondo. Questi strumenti permettono quindi di poter svolgere ricerche interessanti, anche a livello scolastico, appuntando l’attenzione degli studenti soprattutto sui collegamenti (eventuali) tra i diversi fenomeni e l’individuazione di possibili cause ed effetti tra essi. Il che costituisce la spina dorsale della scienza. Senza contare le possibili smentite ad opinioni magari consolidate ma prive di fondamento, il che può aiutare la crescita dello spirito critico. Carlo Genzo docente di scuola secondaria BIBLIOGRAFIA AA.VV., Valori normali del clima di Trieste relativi al trentennio 1973-2002. ISMAR-CNR. Sezione di Oceanografia fisica e chimica “F. Vercelli” Trieste. AA.VV., Dati meteorologici di Trieste, RF 2002 e successivi, a cura di ISMAR-CNR Sezione di Oceanografia fisica e chimica “F. Vercelli” Trieste 2002-2009. C. Genzo, L’inerzia termica del sistema aria-mare nel Golfo di Trieste. Atti Museo Civico Storia naturale di Trieste, Trieste 1990, Vol. 43, fasc. 1: 323-328. C. Genzo, Correlazioni tra elementi meteorologici, «Nuova Secondaria» Anno X, n.4:81-82, Brescia 1992. C. Genzo, La trasmissione termica nel sistema aria-suolo sul Carso triestino, Atti Museo Civico Storia naturale di Trieste, Trieste 1995, Vol. 46: 173-178. C. Genzo, Meteorologia, climatologia e cambiamenti di clima. L’uso del foglio elettronico 1, «Nuova Secondaria», Anno XXIX, n. 6: 99-102, Brescia 2012. C. Genzo, Meteorologia, climatologia e cambiamenti di clima. L’uso del foglio elettronico 2, «Nuova Secondaria», Anno XXIX, n. 7: 105-110, Brescia 2012. S. Polli, Cento anni di osservazioni meteorologiche eseguite a Trieste (1841-1940), Parte I: Generalità e serie termometriche, «Boll. Soc. Adriatica di Scienze», Vol. XL: 5 - 28, Trieste 1942. S. Polli, Il clima della Regione, in Enciclopedia monografica del Friuli Venezia Giulia, Ist. Encicl. Regione Friuli Venezia Giulia, Udine 1971, Vol. I, tomo 1. F. Stravisi, Considerazioni statistiche sui valori medi mensili di cinque elementi meteorologici: Trieste 1841-1975, Ist. Talassografico TS, Trieste 1976. F. Stravisi, Climatic variations at Trieste during the last Century, CNR Istituto Talassografico TS, Trieste 1987, pp. 610. 84 Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PERCORSI DIDATTICI Sali: nomenclatura e formule Gian Giacomo Guilizzoni IN UN CORSO DI CHIMICA DI BASE, SOVENTE, GLI STUDENTI INCONTRANO DIFFICOLTÀ NELLO SCRIVERE LA FORMULA DI UN SALE, E ANCOR DI PIÙ QUELLA DI UN IDROGENOSALE, RICORRENDO SPESSO AD ELENCHI DI CATIONI E ANIONI CHE TROVANO SUI TESTI SCOLASTICI. M olte persone, anche colte, incappando in nomi e formule chimiche, di- desinenza –ICO e tutti i loro sali desichiarano candidamente: «io di chimica non ho mai capito niente; i ter- nenza –ATO. mini chimici mi sembrano volutamente oscuri, per soli iniziati. Certe formule di composti organici mi ricordano un dipinto astratto». Esempi. HClO, acido ossoclorico(I) → ossoclorato(I); HClO3, acido diossoclorico(III) → diossoclorato(III); HClO3, acido triossoclorico(V) → triosssoclorato(V); HClO4, acido tetraossoclorico(VII) → tetraossoclorato(VII). Tuttavia, poiché sono ancora largamente usate, per gli ossoacidi più comuni, le desinenze –OSO e –ICO e per alcuni composti binari aventi carattere acido la desinenza –IDRICO, è risaputo che ai tre suffissi corrispondono, per i sali, rispettivamente -ITO, -ATO, -URO. Formula abbreviata dello spinetoram, un insetticida Ovviamente, la situazione non è questa: al chimico, un nome o una formula dicono molto e gli ricordano una sostanza solida, liquida o gassosa, colorata o incolore, profumata o di odore cattivo, pesante o leggera, che si può toccare, annusare, riscaldare, congelare, ecc. La nomenclatura chimica non è la chimica ma è indispensabile conoscerne le regole. Ha scritto Isaac Asimov: «Quando due persone si accingono a parlare in modo che il loro dialogo sia sensato, devono preventivamente accordarsi sui simboli che utilizzeranno Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI Esempi. HCl, acido cloridrico → cloruro; HClO, acido ipocloroso → ipoclorito; HClO2, acido cloroso → clorito; HClO3, acido clorico → clorato; HClO4, acido percome mezzo di comunicazione (parole, clorico → perclorato. ad esempio, o altri); tutte le loro affermazioni dovranno essere in accordo con le norme relative al mezzo di comunicazione scelto». È qui riportata la scaletta di un semplice metodo per trovare la formula di un sale, di un idrogenosale e di un idrossosale anche poco comune, conoscendo quella del corrispondente acido. Nomenclatura di un sale Denominare un sale è semplice: tutti gli ossoacidi, secondo la IUPAC, hanno Si potrebbe a questo punto chiedere il nome dei sali corrispondenti ad acidi sconosciuti agli studenti, pronunciandoli a raffica. Esempi. Acido talluridrico → tellururo; acido telluroso → tellurito; acido tellurico → tellurato; acido ipofosforoso → ipofosfito; acido malonico → malonato; acido maleico → maleato; acido malico → malato; acido nitriloltriacetico → nitriloltriacetato; acido etilendiammino- 85 PERCORSI DIDATTICI tetracarbossilico → etilendiamminotetracarbossilato; acido. 4-4’-dimetilamminoazobenzensolfonico → 4,4’-dimetilamminoazobenzensolfonato. 1,5-pentandioati (citrati) di potassio C3H5O(COOK)3, di magnesio [C3H5O(COO)3]2Mg3 e di alluminio C3H5O(COO)3Al. Dall’acido 1,4-benzendioico (acido tereftalico) derivano gli 1-2-benzendioati (tereftalati) di potassio, magnesio e alluminio Formula di un sale Poiché i sali sono composti costituiti da un catione unito all’anione di un acido, per ricavare la formula di un sale si deve conoscere la formula dell’acido da cui il sale deriva; poi, si unisce il catione all’anione dell’acido. Esempi acido anione catione + K HCl Cl− H2S S2− HClO4 ClO4− H2SO4 SO42− H3PO4 PO43− catione Mg 2+ catione Al3+ KCl MgCl2 AlCl3 cloruro cloruro cloruro K2S MgS Al2S3 solfuro solfuro solfuro KClO4 Mg(ClO4)2 Al(ClO4)3 perclorato perclorato perclorato K2SO4 MgSO4 Al2(SO4)3 solfato solfato solfato K3PO4 Mg3(PO4)2 AlPO4 fosfato fosfato fosfato Idrogenosali Gli idrogenosali (talvolta detti ancora impropriamente sali acidi) sono sali derivanti dagli acidi per sostituzione formale, soltanto in parte, degli atomi di idrogeno con cationi. Per ricavare la formula degli idrogenosali si unisce il catione con gli anioni dell’acido contenenti ancora atomi di idrogeno. I nomi IUPAC indicano il numero di atomi di idrogeno presenti nell’anione dell’idrogenosale. Esempi acido anione catione + K A questo punto, per controllare se gli studenti padroneggiano l’argomento, si potrebbero fornire le formule di alcuni acidi carbossilici, a loro sconosciute, chiedendo di scrivere le formule e denominare i rispettivi sali di sodio, magnesio e alluminio, avvertendoli che l’idrogeno sostituibile dal catione è quello del gruppo carbossile -COOH. Esempi Dall’acido etanoico CH3COOH (acido acetico, anione CH3COO−) derivano gli etanoati (acetati) di potassio CH3COOK, di magnesio (CH3COO)2Mg e di alluminio (CH3COO)3Al. Dall’acido esandioico HOOC(CH2)4COOH (acido adipico, anione −OOC(CH2)4COO−) derivano gli esandioati (adipati) di potassio KOOC(CH2)4COOK, di calcio (CH2)4(COO)2Ca e di alluminio [(CH2)4(COO)2]3Al2. Dall’acido 3idrossi-3-carbossi-1,5,pentandioico C3H5O(COOH)3 (acido citrico, anione C3H5O(COO)33−) derivano i 3-idrossi-3-carbossi- 86 H2S S2− HS− H2SO4 SO42− HSO−4 H3PO4 PO43− HPO2− 4 H2PO4− K2S solfuro KHS idrogenosolfuro K2SO4 solfato KHSO4 idrogenosolfato K3PO4 fosfato K2HPO4 idrogenofosfato KH2PO4 diidrogenofosfato catione 2+ Mg MgS solfuro Mg(HS)2 idrogenosolfuro MgSO4 solfato Mg(HSO4)2 idrogenosolfato Mg3(PO4)2 fosfato MgHPO4 idrogenofosfato Mg(H2PO4)2 diidrogenofosfato catione Al3+ Al2S3 solfuro Al(HS)3 idrogenosolfuro Al2(SO4)3 solfato Al(HSO4)3 idrogenosolfato AlPO4 fosfato Al2(HPO4)3 idrogenofosfato Al(H2PO4)3 diidrogenofosfato Come si vede la nomenclatura IUPAC, a differenza di quella tradizionale, è chiarissima ma purtroppo ancora poco usata. Valgano due esempi dell’ingannevole nomenclatura tradizionale; sono domande poste più volte dagli studenti a chi scrive. Esempi 1. Bicarbonato significa due volte carbonato? Per rispondere alla domanda si deve tornare nel XVIII secolo, quando i sali venivano considerati come prodotti di addizione tra una «base» (l’attuale ossido metallico) e un «acido» (l’atNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PERCORSI DIDATTICI tuale ossido non metallico) e talvolta acqua. L’ossido di sodio Na2O veniva detto soda e il diossido di carbonio CO2, acido carbonico. Quindi, il sodio carbonato Na2CO3 veniva scritto in formula dualistica Na2O·CO2 e chiamato carbonato di soda. Il sodio idrogenocarbonato NaHCO3 si scriveva Na2O·2CO2·H2O e si chiamava coerentemente bicarbonato di soda. Nella formula NaHCO3 non si vede nulla che possa giustificare il prefisso bi-. 2. Perché il fertilizzante CaHPO4, pur contenendo un solo atomo di calcio, è chiamato fosfato bicalcico? Dall’acido fosforico H3PO4 derivano tre sali di calcio, i cui nomi IUPAC non lasciano dubbi: calcio fosfato Ca3(PO4)2, calcio idrogenofosfato CaHPO4 e calcio diidrogenofosfato Ca(H2PO4)2. Un tempo, per denominare gli idrogenosali, ci si riferiva non agli atomi di idrogeno presenti nella loro formula ma a quelli sostituiti nell’acido, da cui i nomi di fosfato tricalcico, bicalcico e monocalcico. La confusione era aumentata da chi li chiamava rispettivamente trifosfato, bifosfato e monofosfato di calcio. Idrossosali Gli idrossosali (detti ancora impropriamente sali basici) si possono considerare come derivanti dagli idrossidi per sostituzione formale di parte degli idrossili con gli anioni di un acido. Esempi idrossido catione anione Cl− Cu(OH)2 Cu2+ HOCu+ Al(OH)3 Al3+ HOAl2+ (HO)2Al+ CuCl2 cloruro HOCuCl idrossocloruro AlCl3 cloruro HOAlCl2 idrossocloruro (HO)2AlCl diidrossocloruro Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI Sali complessi 2. Quando il coordinatore è un catione I sali complessi sono composti di coordi- e i leganti sono molecole o aggruppanazione in cui nel catione, o nell’anione, menti elettricamente neutri, la carica ad un atomo coordinatore sono uniti elettrica dello ione complesso è la stessa atomi o aggruppamenti atomici o ioni, del coordinatore. detti leganti, in numero superiore al numero di ossidazione del coordinatore. Esempi (Ni2+ + 6H2O) I leganti in grado di mettere a disposi- Ni(H2O)62+Cl2 tetraaquonichelio(II) cloruro zione del coordinatore due o più dop2+ (Cu2+ + 4NH3) pietti elettronici si dicono polidentati. Cu(NH3)4 Cl2 tetraamminorame(II) cloruro Per alcuni di questi G.T. Morgan e H.D. Drew hanno coniato il termine chelante, e quindi i loro complessi si chiamano 3. Quando il coordinatore è un catione chelati, perché il coordinatore si trova e i leganti sono anioni, la carica elettrica come ghermito dalle chele di un artro- dello ione complesso è la somma algebrica delle cariche elettriche del coorpodo. dinatore e dei leganti. Se il complesso 1. Secondo Alfred Stock, il nome di un risulta essere un anione, il nome del lecomplesso si scrive indicando prima il gante prende la desinenza -ato. Così ad numero e il nome dei leganti, poi il esempio, ferro diventa ferrato; cromo, nome del coordinatore e, se necessario, cromato, ecc. In alcuni casi si usa il nome latino dell’elemento; così oro diil suo numero di ossidazione. venta aurato; nichelio, niccolato; Esempi di leganti e loro nomi IUPAC piombo, plumbato; rame cuprato; stagno stannato. − F fluoroEsempi aquoH2O − NaAlCl4 (Al3+ + 4Cl−) cloroCl sodio tetracloroaurato amminoNH2 − (Zn2+ + 4CN−) CaZn(CN)4 idrossoOH calcio tetracianozincato(II) NO nitroso− (Fe2+ + 6CN−) K4Fe(CN)6 mercaptoSH potassio esacianoferrato(II) nitritoNO−2 − (Fe3+ + 6CN−) K3Fe(CN)6 cianoCN potassio esacianoferrato(III) CO carbonil− (Hg2+ + 4CN−) (NH4)2Hg(NH3)2(CN)4− tiocianoSCN ammonio diamminotetraciano CS tiocarbonilmercurato(II) anione anione (Fe3+ + 5CN-) Na2Fe(NO)(CN)5 SO42− CHCOO− sodio nitrosopentacianoferrato(III) CuSO4 (CH3COO)2Cu (Pb2+ + 3OH−) NaPb(OH)3 solfato acetato sodiotriidrossoplumbato(II) (HOCu) SO HOCuOOCH 2 4 idrossosolfato Al2(SO4)3 solfato HOAlSO4 idrossosolfato [(HO)2Al]2SO4 diidrossosolfato 3 idrossoacetato (CH3COO)3Al acetato HOAl(OOCCH3)2 idrossoacetato (HO)2AlOOCCH3 diidrossoacetato Gian Giacomo Guilizzoni ITIS “Cobianchi”, Verbania 87 PERCORSI DIDATTICI La nave aerea di Lana Terzi Ledo Stefanini L’AUTORE IN QUESTO ARTICOLO PRESENTA L’INVENZIONE DEL GESUITA BRESCIANO FRANCESCO LANA TERZI CHE FECE MAGGIOR SCALPORE E CIOÈ “UNA NAVE CHE CAMINI SOSTENTATA SOPRA L’ARIA A REMI” SOTTOLINEANDO CHE L’ASPETTO CHE PIÙ PUÒ INTERESSARE GLI STUDENTI DI UN CORSO DI FISICA NON È TANTO IL PROGETTO STESSO, MA LE PROBLEMATICHE E LE SITUAZIONI FISICHE CONNESSE ALLA SUA FATTIBILITÀ. Come collocare la nave volante di Lana Terzi in un corso di fisica teologia unì l’interesse per le scienze naturali e, in particolare, per quelle che oggi si chiamerebbero scienze applicate. Francesco Lana Terzi, nato a Brescia nel L’opera che attirò l’attenzione delle ac1631 e quivi morto nel 1687, fu un ge- cademie scientifiche del tempo fu il suita di multiforme ingegno che alla Prodromo overo Saggio di alcune inven- tioni nuove premesso all’arte maestra… per mostrare li più reconditi principi della naturale filosofia, pubblicato a Brescia nel 16701. Tra le inventioni nuove ritrovate dall’autore medesimo quella che fece maggior scalpore fu il progetto di «Fabricare una nave che camini sostentata sopra l’aria a remi; & à vele; quale si dimostra poter riuscire nella prattica» esposto nel capitolo sesto del trattato, corredato da una bellissima figura esplicativa (figura 1). In realtà, si tratta di quello che oggi sarebbe uno studio preliminare; ma Lana Terzi non ha dubbi sulla sua fattibilità: Hor’io che sempre habbi genio di ritrouare inventionhi di cose le più difficili, dopo lungo studio sopra di ciò, stimo hauere ottenuto l’intento di fare una machina più leggiera in specie dell’aria si, che non solo essa con la propria leggerezza stia sololevata in aria, ma possa portare sopra di se huomini, e qualsivoglia altro peso; ne credo d’ingannarmi, essendo che dimostro il tutto con esperienze certe, e con una infallibile dimostrazione del libro undecimo di Euclide, riceuuta per tale da nittidi matematici. Fig. 1. La nave volante di Lana Terzi illustrata in una figura del Prodromo (1670). 88 1. Prodromo, overo Saggio di alcune invenzioni nuove premesso all’arte maestra. Opera che prepara il P. Francesco Lana bresciano della Compagnia di Giesù. Per mostrare i più reconditi principij della Naturale Filosofia, riconosciuti con accurata Teorica nelle più segnalate inuentioni, ed esperienze fin’hora ritrouate da gli scrittori di questa materia & altre nuoue dell’ autore medesimo. Dedicato alla Sacra Maesta Cesarea del Imperatore Leopoldo I. In Brescia, M.DC LXX, per li Rizzardi. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PERCORSI DIDATTICI Il fatto che un secolo prima dei fratelli Mongolfier un oscuro gesuita bresciano probabilmente influenzato dall’opera di Blaise Pascal sulla pressione atmosferica2 concepisse il progetto di una nave aerea è cosa di grande interesse per gli storici della tecnologia; ma non è questo l’aspetto che può interessare nell’ambito di un corso introduttivo di fisica, ma piuttosto i problemi che si presentano a chi voglia seriamente affrontare un siffatto progetto con le conoscenze scientifiche di quel tempo. Le questioni fisiche preliminari La prima questione che Lana Terzi si trova ad affrontare è quella della densità dell’aria. Il metodo sperimentale che utilizza è il seguente. Preso un gran vaso di vetro, al collo del quale ha applicato un rubinetto a tenuta, lo pesa con cura. Indi, lo riscalda al fuoco, in modo che la maggior parte dell’aria che contiene ne esca e, chiuso il rubinetto lo pesa di nuovo. La differenza dei pesi è pari al peso dell’aria che è uscita dal vaso. Rimane da determinarne il volume. Si immerge la bocca del vaso in acqua e si apre il rubinetto, con la conseguenza che l’acqua invade di nuovo il recipiente. Una nuova pesata ci fornisce la massa (quindi il volume) dell’acqua passata nel vaso che è uguale al volume dell’aria che ne era uscita. La differenza delle masse nel primo caso risultava di un’oncia, nel secondo 640 once (1 oncia equivaleva a 28,35 g circa). Ne segue che il rapporto delle masse dell’aria e dell’acqua è 1/640. Lana Terzi ci informa che un piede cubico di acqua pesa 80 libre ovvero 960 once, come risulta dalle esperienze compiute da Villalpando3. Ora, poiché Il valore della densità dell’acqua, seNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI condo Villalpando (confermata da Lana Terzi), dev’essere e poiché in unità moderne Ne segue che la densità dell’aria per Lana Terzi è sorprendentemente vicina al valore accettato a 0 °C: Come fare il vuoto senza una pompa La possibilità di estrarre l’aria da un recipiente a tenuta senza far uso di una pompa è il primo problema che si presenta. Infatti, la prima pompa pneumatica di cui si abbia notizia è quella realizzata da Robert Boyle, descritta in un saggio pubblicato 12 anni dopo quello di Lana Terzi4. Si tratta di una trovata audace dal punto di vista concettuale e delicata dal punto di vista operativo, tenuto conto che, nel momento in cui Lana Terzi sviluppa le sue riflessioni sull’aria, sono passati poco più di vent’anni dai primi esperimenti di Torricelli (1644) e dalle già citate ricerche di Pascal (1648). Dice dunque il nostro gesuita: Piglisi qualsivoglia gran uaso, che sia tondo, & abbia un collo, e al collo sia connessa una canna di rame, o di latta lunga almeno 47. palmi Romani moderni, conforme alla misura che è registrata verso il fine di questo libro, nel trattato de cannocchiali; & essendo più lunga l’effetto sarà più sicuro; uicino al lato A. sia una chiavetta B. che chiuda per tal modo il uaso, che non ui possa entrare aria: si riempia di aqua per tal modo il uaso, che non ui possa entrare aria: si riempia di aqua tutto il uaso con tutta la canna; poi chiusa la canna nella parte estrema C. si rivolti il uaso sì. Che stia nella parte di sopra, e la parte estrema C. della canna, si sommerga dentro all’aqua; e mentre è immersa nell’aqua si apra, acciò esca l’aqua dal vaso, la quale uscirà tutta, restando piena la canna fino all’altezza di palmi 46. minuti 26. e tutto il rimanente di sopra sarà voto, non potendo entrar aria per alcuna parte; all’hora si chiuda il collo del uaso con la chiavetta B. e si hauerà il uaso uoto; che se alcuno non lo crede lo pesi, e ritroverà, che quanti piedi cubici d’acqua sono usciti da esso, altre, e tante oncie, e mezze oncie di meno pesarà di quello pesaua prima, quando era pieno di aria… Ciò che Lana Terzi suggerisce è di fare con l’acqua ciò che negli esperimenti di Torricelli si fa col mercurio. Posto che il palmo romano moderno equivalga a circa 22 cm, si tratta di applicare alla bocca di una damigiana di vetro una canna di rame lunga almeno 11 m; riempire il tutto di acqua e rovesciare il sistema avendo cura che l’estremità della canna peschi nell’acqua contenuta in una vasca. Operazione tutt’altro che agevole che gli storici ci dicono sia stata realizzata da Gasparo Berti (1600-1643) a Roma nell’anno della sua morte5 (figura 2). Lana Terzi non può immaginare che l’acqua che rimane nel tubo abbia un comportamento fisico molto diverso da quello del mercurio nel tubo barometrico. Infatti, alla temperatura ambiente e alla bassa pressione che con questa tecnica si raggiunge, l’acqua comincia a bollire in maniera tale che il vaso si riempie di vapore. 2. B. Pascal, Traitez de l’Equilibre des Liqueurs et de la Pésanteur de la Masse de l’Air, Desprez, Parigi 1663. 3. Juan Bautista Villalpando (Cordoba, 1552 - Roma, 1608) fu padre gesuita, matematico e architetto. 4. R. Boyle, New Experiments Physico-Mechanical touching the Spring of the Air, Londra 1682. 5. P. Gasparis Schotti, Regiscuriani e Societate Jesu, Technica curiosa sive mirabilia artis, libris XII comprehensa, Herbipol 1687, p. 202. 89 onde il pallone può sollevare 2,3 kg ovvero 5 libbre circa. Il risultato di Lana Questa è la condizione che deve essere Terzi è più ottimistico: 25 libbre e 7 soddisfatta ai fini del galleggiamento in once, equivalenti a 11,5 kg circa, ma rimane troppo modesto. aria. Il materiale scelto da Lana Terzi è il Ma – osserva – accio che si possa alzar rame (rm =8,9 g/litro), per cui la conmaggior peso, e solleuare huomini in aria dizione precedente diventa Il nostro gesuita parte dall’ipotesi di utilizzare rame di spessore tale che una lastra quadrata di lato un piede pesi tre once: ‘il che non è cosa difficile’, aggiunge. Ora, poiché e Fig. 2. Esperimento di Gaspare Berti [da Gaspar Schotti, Technica curiosa, sive, Mirabilia artis, Würzburg 1664]. lo spessore della lastra di rame sarà Per il diametro Lana Terzi sceglie 14 L’idea di base piedi, cioè un raggio R= 2,14 m, per Non sono i particolari tecnici a preoc- cui cupare il nostro visionario scienziato; l’idea che lo guida è che «se noi potessimo fare un vaso di vetro o d’altra ma- è appena al di sopra della condizione di teria, il quale pesasse meno dell’aria, galleggiamento. In effetti, il peso del che vi stà dentro, e poi ne cavassimo rame è tutta l’aria, nel modo insegnato di sopra; questo vaso restarebbe più leggiero e la spinta aerostatica in spezie dell’aria medesima; si che … galleggiar ebbe sopra l’aria, & andrebbe in alto». Consideriamo una sfera e siano R il suo raggio ed s lo spessore (Figura 3). La massa della boccia (vuota) è dove r indica la densità dell’aria e rm quella del materiale con cui è realizzata. La condizione di galleggiamento è che 90 Con ciò Lana Terzi riprende (in maniera meno brillante) il discorso sulle leggi di scala che Galileo sviluppa nella Giornata Seconda dei Discorsi6. Per dirlo in linguaggio moderno, la spinta aerostatica è data da che mette in evidenza che aumenta più del quadrato del raggio. La conclusione è che è possibile realizzare palloni volanti di rame, a condizione che si facciano grandi a sufficienza. Perché non si possono fare palloni di rame Qui si pone – per noi posteri – un problema ineludibile: la resistenza del pallone alla pressione atmosferica è indipendente dalle dimensioni? Lana Terzi mostra di averne consapevolezza quando parla delle difficoltà che si presentano nella realizzazione: mentre la spinta aerostatica è da cui pigliaremo il doppio di rame, cioè piedi 1232. Che sono libre di rame 308.con il qual rame duplicato potremo fabricare un vaso, non solo al doppio più capace, ma più capace quattro volte del primo, per la ragione più volte replicata della quarta supposizione; e per conseguenza l’aria, che si conterrà in detto vaso sarà libre 718.oncie 4 e due terzi, si che cauata quest’aria dal vaso, questo resterà 410.libre, & oncie 4. e due terzi, più leggiero di altretant’aria, e per conseguenza potrà solleuare tre uomini, o due almeno; ancor che pesino più di otto pesi per uno. Fig. 3. Una sfera metallica di raggio R e spessore s. 6. G. Galilei, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, Elzeviri, Leida 1638. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PERCORSI DIDATTICI … si può fare difficoltà in ordine alla sottigliezza del vaso; poiché facendo gran forza l’aria per entrar dentro ad impedire il vacuo, o almeno la violenta rarefattione, pare che dourebbe comprimere esso vaso, e se non romperlo, almeno schiacciarlo, e guastare la sua rotondità. tuttavia, la pressione è quella esercitata dall’atmosfera esterna e l’involucro è soggetto a compressione piuttosto che ad una tensione. Pertanto, più il pallone è grande, maggiore è il rischio che collassi sotto la pressione atmosferica. È questo un problema che preoccupa Lana Terzi, se fa osservare che: Ma si tratta di una difficoltà superabile: A questo rispondio, che ciò auuenirebbe quando il vaso non fosse tondo; ma essndo sferico l’aria lo comprime ugualmente da tutte le parti sì, che più tosto lo rassoda, che romperlo: cio si è veduto per esperienza in vasi di vetro, li quali anchor che fatti di vetro grosso, e gagliardo, se non hanno figuran rotonda, si rompono in mille pezzi; doue all’incontro i vasi tondi di vetro ancor che sottilissimi, non si rompono; ne è necessariam una perfe4ttissima rotondità; ma basta, che non si scosti molto da una figura sferica. A questo proposito, conviene ragionare su una situazione di cui abbiamo esperienza e che ne è, per così dire, speculare: quella di un pallone nel vuoto, tenuto gonfio dalla pressione interna dell’aria. Immaginiamo allora di aver praticato un taglio nel pallone e di volerne tenere uniti i lembi. La forza da applicare sarà tanto maggiore quanto più lungo è il taglio (figura 4). Quindi, conveniamo di chiamare tensione della superficie la forza per unità di lunghezza che occorre applicare per tenere uniti i lembi del taglio (come in una cucitura): Fig. 4. Un taglio nell’involucro del pallone. Si vede dunque manifestamente, che quanto più grande si farà la palla, o vaso si potrà anche adoperare lastra di rame, o di latta più grossa, e soda; Impercioche se bene crescerà il peso di esso, crescerà pero sempre più la capacità del medesimo vaso, e per conseguenza il peso dell’aria; onde potrà sempre alzare in aria maggior peso. Il progetto operativo Risolti che siano i problemi di fondo, Lana Terzi passa alla parte progettuale: Fig. 5. La tensione su un elemento della superficie di un pallone. Se gonfiamo il pallone facendone passare il raggio da R ad R + DR, il volume aumenta di 4pR2DR e il lavoro compiuto sarà p×4pR2DR, se p è la pressione all’interno. Contemporaneamente la superficie della sfera aumenta di 8pRDR. Per la conservazione dell’energia Alla stessa grandezza si può dare un’altra interpretazione, se la scriviamo nella da cui forma Da cio si raccoglie facilmente, come si possa formare una machina, la quale a guisa di naue camini per aria; Si facciano quattro palle ciascuna delle quali sia atta ad alzare due, o tre uomini, come si è detto poco auanti; le quali si votino dall’aria nel modo sopra mostrato, e siano le palle, o vasi A, B, C, D. Queste si connettano insierme con quattro legni, come si vede nella figura, si formi poi una machina di legnoE.F. simile ad una barca, con il suo albero, vele, e remi: e con quattro funi uguali si leghi alle quattro palle, dopo che si sarà cauata fuori l’aria, tenendole legate a terra accio non sfuggano, e si solleuino prima, che siano entrati gl’huomini nella machina; all’hora si sciolgano le funi rallentandole tutte nel medesimo tempo: così la barca si solleuerà sopra l’aria, e porterà seco molti uomini piu, o meno conforme la grandezza delle palle; i quali potranno servirsi delle vele, e de remi a suo piacere per andare velocissimamente in ogni luogho fino sopra alle montagne più alte. il cui contenuto fisico essenziale è che la tensione dell’involucro, fissata la pres- Il buon gesuita confessa di non aver Quella che chiamiamo tensione è l’energia associata all’unità di superficie sotto sione, è proporzionale al raggio. Lo fatto alcuna prova della sua inuentione; tensione (figura 5). stesso vale per il pallone di rame, dove, ma di averne parlato con diverse perNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI 91 PERCORSI DIDATTICI sone intendenti, le quali «hanno solo desiderato di poter vedere la proua in una palla, che da se stessa salisse in aria». Ci informa che motivi che gli hanno impedito di realizzare l’esperienza erano di natura economica: Che i fisici, che posero le loro capacità al servizio degli Stati Uniti in guerra, abbiano qualcosa in comune con l’oscuro gesuita che si limitava a escogitare macchine realizzabili con le conoscenze di fisica del XVII secolo è difficile da accettare. Eppure, i periodi conclusivi del discorso sulla possibilità di realizzare navi volanti contengono un avvertimento di singolare preveggenza che attribuisce una responsabilità etica non teologica all’attività dello scienziato: … hauerei fatta volontieri prima di pubblicare questa mia inuentione, se la pouerta religiosa che professo mi hauesse permesso lo spendere un centinaio di ducati, che sarebbero d’auantaggio per sodisfare a si dilettevole curiosità: onde prego i lettori di questo mio libro a quali venisse curiosità di fare questa esperienza, che mi vogliano ragguagliare del successo, il quale se per qualche difetto commesso nell’operare non sortisse felicemente, potrò forsi additarli il modo di correggere l’errore… Fra i problemi che potranno porsi una volta che la nave sia realizzata, vi è il controllo della quota che, qualora sia eccessiva, potrebbe creare difficoltà per i passeggeri: … può nascere difficoltà circa l’altezza alla quale salirà per aria la nave; poiche s’ella si sollevasse sopra tutta l’aria che comunemente si stima esser alta cinquanta miglia piu, o meno come vedremo dopo, seguitrarebbe che gl’huomini non potessero respirare. Al che rispondo, che quanto piu si va in alto nell’aria, ella è sempre più sottile, e leggiera; onde arrivata la naue ad una certa altezza non potrebbe salire piu alto, perche l’aria superiore essendo più leggiera, non sarebbe atta a sostenerla, si che si fermerà doue ritroueràl’aria tanto sottile, che sia uguale nel peso a tutta la machina; con la gente che vi sta sopra… Un brano che rivela che il Lana Terzi aveva conoscenza del fatto che la densità dell’aria decresce con la quota. Oggi si assume che l’andamento della densità dell’aria con la quota z sia esponenziale7. Sia cioè descritto da una funzione del tipo 92 F. Lana Terzi, Prodromo overo Saggiodi alcune inventioni nuove premesso all’arte maestra, Brescia 1670. Fontespizio. dove r0 indica la densità al livello del suolo e Z una quota di riferimento il cui valore dipende dalla temperatura, ma che non è molto diversa da 8 km circa. Un areostato raggiunge la quota in corrispondenza della quale la densità media della macchina è uguale a quella dell’aria a tale quota. Ciò si verifica per una quota tale che dove indica la densità media della nave. Lana Terzi e il progetto Manhattan Progetto Manhattan è il nome in codice attribuito alla grande impresa tecnicoscientifica che dal1943 al 1945 condusse alla realizzazione della prima bomba nucleare. È noto che in molti degli scienziati che collaborarono all’impresa nacquero degli scrupoli di fronte ai terribili scenari che la nuova arma rendeva possibili8. «Altre difficoltà non vedo che si possano opporre a questa invenzione, toltane una, che a me sembra maggiore di tutte le altre, & è che Dio non sia per mai permettere, che una tale machina sia per riuscire nella prattica, per impedire molte conseguenze, che perturbarebbero il governo civile, e politico tra gl’huomini: Impercioche chi non vede, che niuna Città sarebbe sicura dalla sorprese, potendosi ad ogn’hora portar la nave a dirittura sopra la piazza di esse, e lasciatala calare a terra descendere la gente? L’istesso accaderebbe nelle corti delle case private; e nelle navi che scorrono il mare, anzi con solo descendere la nave dall’altezza dell’aria, fino alle vele della nave maritima potrebbe stroncarle le funi;& anche senza descendere, con ferri, che dalla nave si gettassero a basso sconvolgere i vasce4lli, uccider gl’huomini, & incendiare le navi con fuochi artificiali, con palle, e bombe; ne solo le navi, ma le case, i castelli, e le città, con sicurezza di non poter esser offesi quelli, che da una smisurata altezza le facessero precipitare. Ledo Stefanini Università di Mantova-Pavia 7. J.V. Iribarne, H.R. Cho, Atmospheric Physics, D. Reidel Publishing Company, Dordrecht, Holland 1980, cap. l. 8. F. Dürrenmatt, Die Physiker, 1962, tr. it., Einaudi, Torino 1972. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PERCORSI DIDATTICI Fisica della sobrietà (2) Giovanni Vittorio Pallottino … in cucina Pentola grande o pentola piccola? Una storiella che si racconta per scherzare su come gli scienziati a volte affrontino i problemi è quella della vacca. Per studiare la quale, la prima cosa che propone un fisico, per semplificarne la forma, è quella di approssimarla con una sfera. E qui facciamo lo stesso, considerando però, invece di un ruminante, una pentola, più precisamente la scelta di una pentola per cuocere qualcosa. Arrivando a concludere che per evitare sprechi di energia conviene sempre usare la più piccola pentola in grado di contenere il qualcosa che si vuol riscaldare o cuocere. Il ragionamento è immediato: il calore (sprecato inutilmente) che la pentola disperde comunque verso l’esterno è proporzionale alla sua superficie. E quindi se usiamo una pentola di dimensioni lineari doppie rispetto al necessario, la sua superficie (proporzionale al quadrato del raggio) sarà quattro volte maggiore e con essa quattro volte maggiore il calore perduto e quindi il gas sprecato. Avendo appunto approssimato la pentola con una sfera. E quindi, l’uovo sodo, cuociamolo in un pentolino! L’acqua che bolle: un termostato naturale o un invito allo spreco? Mettiamo sul fuoco di cucina una pentola con l’acqua per il tè. Che per riscaldarsi ci mette un po’ di tempo (soprattutto quando la si guarda, come afferma Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI il proverbio Pentola guardata non bolle mai), sicché nel frattempo conviene fare qualcos’altro, magari una telefonata. E mentre il tempo passa l’acqua comincia a bollire. Nessun problema (ma solo in apparenza): infatti sappiamo bene che perché l’acqua evapori apprezzabilmente ci vuole del tempo (e del gas). L’acqua che bolle funziona infatti da termostato: una volta raggiunti 100 °C, la temperatura smette di aumentare, per lo meno fintanto che l’acqua, vaporizzata, non si esaurisce. Ma dove va a finire, nel frattempo, il calore che il fuoco del fornello continua a fornire alla pentola? Quello che non si disperde lietamente attorno va tutto a trasformare l’acqua da liquido a vapore. E ce ne vuole tanto! Per vaporizzarne un litro ce ne vuole oltre 500 volte1 più che per innalzarne la temperatura di un grado. Sicché lasciar evaporare la metà dell’acqua che sta bollendo significa consumare inutilmente (a parte il piacere della telefonata) circa il triplo del gas strettamente necessario, cioè quello impiegato per portare l’acqua all’ebollizione. Il conto è presto fatto: per riscaldare da 10 °C a 100 °C un litro di acqua del rubinetto ci vogliono 90 Calorie, per vaporizzarne mezzo litro ne occorrono 537/2 cioè circa 270. E 270/90 fa appunto 3. E se invece di preparare il tè vogliamo bollire delle patate o qualcos’altro? Il discorso di prima, evidentemente, vale allo stesso modo. Ma ora c’è da dire Per continuare a cuocere dopo che l’acqua ha raggiunto l’ebollizione è assai opportuno ridurre la fiamma al minimo necessario per mantenere la temperatura. Facendo magari anche l’immane fatica di spostare la pentola su un fuoco più piccolo. O forse è chiedere troppo? qualcosa di più, che riguarda un punto tanto ovvio quanto di solito trascurato. E cioè che riempire la pentola d’acqua oltre il necessario, fino all’orlo, non serve a nulla, salvo richiedere più tempo per raggiungere l’ebollizione, consentire telefonate più lunghe e, naturalmente, far godere la società che fornisce il gas (oltre a quella dei telefoni). Il coperchio: a che serve? Molti, il coperchio delle pentole, semplicemente lo ignorano. Forse ritenendo che abbia funzioni puramente ornamentali e che in cucina costituisca soltanto un impiccio in più. Invece il coperchio è molto utile per ridurre il consumo di gas. Esso svolge infatti due funzioni, mirate entrambe allo scopo anzidetto. La prima riguarda i moti convettivi dell’aria. Perché l’aria al di sopra di una pentola, durante il riscaldamento dell’acqua o di qualsiasi altro liquido, si riscalda a sua volta e si espande: così diventa più leggera e allora sale verso 1. Per la precisione, occorrono 537 Calorie per vaporizzare un litro d’acqua a 100 °C. 93 P. Klee, Natura morta (1910), Monaco, Städtische Galerie im Lenbachhaus l’alto, disperdendo calore e richiamando dal basso aria fredda. Mentre la presenza del coperchio interrompe evidentemente queste dispendiose manovre. Evitando, fra l’altro, l’accumulo di umidità nell’ambiente. Ma c’è di più: il vapore che si sviluppa2 durante il riscaldamento dei liquidi acquatici in parte viene intercettato dal coperchio, dove si ritrasforma in acqua e gocciola giù, e in parte permane al di sopra del liquido rallentandone alquanto l’evaporazione, e quindi l’assorbimento del calore a ciò occorrente (a spese di quello che serve a riscaldare il contenuto della pentola). Dario Bressanini, nel suo blog3, ha valutato che l’impiego del coperchio porta mediamente a un risparmio di combustibile di oltre il 20%, che non è davvero poco. 94 Utilissimo durante il riscaldamento, per esempio per portare l’acqua a bollire, il coperchio serve a poco quando l’acqua sta bollendo. Per risparmiare energia, in queste condizioni, non resta che ridurre l’intensità della fiamma al minimo necessario a mantenere il bollore. Come si era già detto. L’azione mirata del forno a microonde Uno strumento di cottura assai efficiente in termini di energia è certamente il forno a microonde: prima trasforma in energia a microonde l’energia elettrica prelevata dalla rete e poi la utilizza per irraggiare i cibi in modo mirato. Perché assorbono le microonde, e quindi si riscaldano, soltanto le vivande, cioè solo l’acqua, i grassi e gli zuccheri in esse contenuti. A differenza dei piatti o di altri contenitori di ceramica oppure di plastica, che restano freddi finché non li riscalda il calore trasmesso dai cibi con cui sono a contatto. Ma che sono le microonde? Si tratta di onde elettromagnetiche, parenti strettissime di quelle usate nei telefoni cellulari, con lunghezza d’onda appena poco diversa, pari a circa 12 cm. Queste onde hanno la proprietà di eccitare le molecole dell’acqua e di altre sostanze, che così entrano in vibrazione e dissipano poi in calore l’energia assorbita dalla radiazione. Così i cibi si riscaldano direttamente al loro interno, abbreviando considerevolmente i tempi di cottura rispetto alle altre tecniche di cottura. In realtà il calore si genera dove la radiazione viene assorbita, cosa che avviene grosso modo nei primi due centimetri al di sotto della superficie dei cibi, dove dunque la cottura si compie rapidamente; mentre le parti più interne si riscaldano per conduzione, più lentamente, e quindi ci vuole un po’ più di tempo perché si cuociano anch’esse. È interessante il confronto fra l’effetto delle microonde e quello delle radiazioni infrarosse emesse dalle pareti calde di un forno tradizionale, che hanno la stessa natura di onde elettromagnetiche, ma lunghezza d’onda estremamente diversa. Le microonde che colpiscono la superficie del cibo, come si è detto, penetrano al suo interno per un paio di centimetri, ed è in questo spessore che vengono assorbite; più in profondità non arrivano perché appunto completamente assorbite. Assai diverso 2. È vero che l’acqua bolle a 100 °C, ma è pure vero che essa evapora anche a temperatura più basse, tanto più rapidamente quanto più alta è la sua temperatura. E infatti evapora apprezzabilmente anche a temperatura ambiente, sennò come farebbe un pavimento ad asciugarsi dopo esser stato lavato? 3. http://bressanini-lescienze.blogautore.espresso.re pubblica.it/2009/09/09/bollire-lacqua/ Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PERCORSI DIDATTICI è il caso delle radiazioni termiche del forno, la cui lunghezza d’onda è estremamente più piccola di quella delle microonde, millesimi di millimetro anziché centimetri. E allora esse vengono assorbite completamente negli strati superficiali del cibo, che si riscaldano assai vivacemente, e non penetrano affatto al suo interno, dove la cottura procede poi per graduale conduzione del calore. Che è un processo lento, come sa bene chi deve cuocere un grosso pezzo di carne. Attenzione però al vapor d’acqua! Proprio perché usando il microonde il calore si produce all’interno dei cibi occorre attenzione nella cottura delle uova, più precisamente nella preparazione delle uova sode. Essendo l’uovo (quasi) ermeticamente racchiuso nel guscio, il riscaldamento vaporizza l’acqua contenuta al suo interno, generando una pressione vivacemente crescente che a un certo punto ne spacca il guscio. L’esplosione, così, proietta brandelli di uovo semicotto sulle pareti della camera di cottura del forno, che è poi assai fastidioso riportare in ordine. Lo stesso problema può verificarsi anche con altri cibi, per esempio con le castagne o con le patate quando la loro buccia è integra. Queste esplosioni si evitano facilmente cuocendo le vivande in una vaschetta contenente acqua, prevenendo così la vaporizzazione dell’acqua contenuta al loro interno. Nel caso delle castagne, praticando una incisione sulla loro buccia, come d’altronde occorre fare anche nella preparazione delle castagne arrosto. Il forno tradizionale: quando ha senso usarlo? Vogliamo riscaldare alla svelta degli avanzi di cibo per la cena, oppure preparare un buon crostino al formaggio con la pasta d’acciughe. Accendiamo il Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI Acceleriamo i tempi di cottura a propagarsi all’interno della carne è proporzionale al quadrato della distanza percorsa. Distanza che, approssimando al solito con una sfera il pezzo di carne da cuocere, corrisponde al raggio della sfera, cioè alla radice cubica del peso della carne: se ne può concludere che il tempo di cottura è proporzionale alla radice 2/3 del peso. In parole povere, raddoppiando il peso, il tempo aumenta della radice 2/3 di 2 cioè diventa circa 1,6 volte maggiore; dimezzando il peso, il tempo diminuisce di 1,6. Ma in realtà, oltre che dal peso, il tempo di cottura dipende anche dalla forma della vivanda in esame (che difficilmente sarà una sfera) e naturalmente dalla temperatura del forno. Il calore, come si è detto prima, penetra attraverso la superficie della carne, fortemente riscaldata dalla radiazione emessa dalle pareti del forno. All’interno, il calore procede per conduzione, secondo la legge di Fourier, con un processo piuttosto lento perché la carne non è un buon conduttore del calore. Come fare per abbreviarlo, accelerando i tempi? Una tecnica interessante, che talvolta viene suggerita, è quella di cortocircuitare il cattivo conduttore termico con uno buono: un metallo. Cioè conficcare nella carne degli spiedini, che trasporteranno più velocemente il calore all’interno. È utile, in ogni caso, disporre un termometro da cucina, con la sua sonda bene all’interno della carne, per con- La durata dei tempi di cottura al forno (carne rossa, polli, tacchini…) è un argomento molto dibattuto5. C’è chi suggerisce un’ora al chilogrammo e chi mezz’ora, implicando una sorta di proporzionalità fra tempo di cottura e peso, sebbene poi andrebbe specificata anche la temperatura del forno. Per arrivare a qualche conclusione va premesso che il tempo impiegato dal calore 4. Questa reazione, che coinvolge le proteine e gli zuccheri contenuti nei cibi, si sviluppa a temperature di 140°C o poco maggiori. I suoi prodotti hanno colore bruno e profumo e sapore gradevoli. Proprio alla reazione di Maillard si deve la crosta croccante del pane ben cotto e degli arrosti, come pure la piacevolissima crosticina dei fritti. Attenzione però a non esagerare, perché a temperature ancora più alte, oltre i 180-200°C, si sviluppano sostanze di gusto sgradevole, alcune delle quali addirittura cancerogene. 5. P. Barham, La scienza in cucina, Le Scienze, 2010. forno e vi disponiamo le vivande. La fiamma del gas riscalda gradualmente tutte le pareti del forno, l’aria al suo interno e finalmente anche il cibo, cosa che ovviamente richiede un certo tempo, non poco. Ma valeva la pena di consumare tutto questo gas (della serie usare un bazooka per colpire un ranocchio)? Certamente no. Perché è facile capire che il calore utilizzato effettivamente, cioè quello che è andato a riscaldare il cibo, è molto, molto minore di quello che è stato necessario per riscaldare tutto il forno (e che poi verrà inevitabilmente ceduto all’ambiente circostante). La situazione, naturalmente, cambia quando le vivande in gioco sono abbondanti, e allora la cottura al forno diventa conveniente, oltre che necessaria. È vero d’altra parte che il forno tradizionale permette di arrostire le vivande. A differenza di quello a microonde che si limita a riscaldarle (al limite fino a far evaporare, con risultati sgradevoli, tutta l’acqua in esse contenuta). Le temperature decisamente più alte che si raggiungono nei forni tradizionali provocano sulla superficie delle vivande la cosiddetta reazione di Maillard4, che le rende particolarmente gustose. Oggi però molti forni a microonde sono corredati da un minigrill elettrico, che consente di friggere o di arrostire. 95 PERCORSI DIDATTICI trollare la situazione e, soprattutto, per evitare che la temperatura della carne superi certi limiti (al sangue a 55 °C, ben cotta a 60-65 °C), perché oltre i 7075 °C essa diventa grigiastra e s’indurisce. Va notato che la temperatura delle parti più interne della carne continua un po’ ad aumentare anche dopo che la si è estratta dal forno. E perché? Perché il calore continua a propagarsi verso l’interno dalle parti più esterne, che sono più calde e che si raffreddano solo assai lentamente. I corpi caldi, quando si raffreddano, rilasciano calore. Il caso del frigorifero e quello del forno Così come, per riscaldarsi, un corpo deve assorbire calore da qualche parte (più calda), allo stesso modo, per raf- freddarsi, esso deve rilasciare calore verso l’esterno (più freddo). E la quantità di calore in gioco, nei due casi, è esattamente la stessa, naturalmente a parità di salto di temperatura. Si capisce allora che riporre nel frigo una tazza di brodo caldo (o qualunque altra cosa a temperatura maggiore dell’ambiente) è assai poco ragionevole. Perché così facendo affidiamo al frigorifero anche il compito di raffreddare a temperatura ambiente il brodo (cosa che avremmo potuto facilmente ottenere facilmente senza spesa e senza fretta, semplicemente lasciandolo sul tavolo di cucina o raffreddandone il contenitore nell’acqua del rubinetto). Questa incauta manovra richiede dunque un maggior consumo di elettricità rispetto al normale funzionamento del frigo, cioè quando esso deve limitarsi a estrarre dal suo interno il calore che vi penetra attraverso le pareti. Inoltre, il consumo addizionale dovuto alla tazza di brodo caldo, è tanto più rilevante, in termini relativi, quanto migliore è la qualità dell’elettrodomestico, la quale dipende soprattutto dal buon isolamento termico fra interno ed esterno. Il rilascio del calore entra in gioco anche a proposito del forno: dopo una sessione di cottura impiega parecchio tempo a raffreddarsi. Ciò significa che, dopo il suo spegnimento, la temperatura al suo interno si mantiene relativamente elevata per tempi ben apprezzabili, dunque ancora capace di esercitare utili funzioni di cottura. E allora perché non spegnere il forno un po’ prima dell’usuale, utilizzandone il calore residuo per completare la cottura? Basta ricordarsene. Lo stesso ragionamento vale anche per il ferro da stiro, che è un apparecchio energeticamente assai vorace. Per questo conviene spegnerlo un po’ prima di aver finito di stirare, approfittando del suo calore residuo per completare il lavoro. Il frigorifero P. Klee, Forme e colori (1914), Filadelfia, The Barnes Foundation. 96 Tirar fuori calore dallo scomparto interno del frigo portandolo all’esterno, più caldo, è come far rotolare una palla su un percorso in salita, cioè fare qualcosa che non può avvenire spontaneamente, come si era detto a proposito delle pompe di calore in un precedente intervento. E infatti questa impresa, a cui provvedono i congegni interni del frigorifero, richiede energia, quella che si ottiene prelevando elettricità dalla rete. Tanta più energia, è evidente, quanto maggiore è il salto di temperatura, a cui costringiamo il calore, fra il dentro e il fuori. Dove per fuori s’intende la zona, sul retro dell’elettrodomestico, dove si trova la serpentina che serve a cedere all’ambiente il calore preNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PERCORSI DIDATTICI Gli alimenti a chilometro zero Gli alimenti detti a km zero o anche a filiera corta sono quelli che si acquistano a breve distanza dai luoghi di produzione, spesso dagli stessi agricoltori che li producono, e quindi hanno costi minori sia di trasporto che di intermediazione. Si ottiene così anche un recupero del legame con il territorio, nella valorizzazione delle produzioni locali e delle sue specialità gastronomiche. La logica del km zero deriva soprattutto dall’intento di ridurre l’energia impiegata per trasportare gli alimenti dai luoghi di produzione a quelli di consumo, cosa che oggi avviene spesso anche su grandi distanze, a volte addirittura da un continente all’altro. In questa logica è implicito anche il ritorno all’impiego dei prodotti stagionali, con indubbi vantaggi di freschezza e genuinità naturale, per quante sofferenze possa provocare a qualcuno il dover rinunciare al cocomero a Capodanno. Il km zero non va però mitizzato, come ha illustrato nel suo blog Dario Bressanini (http://bressaninilescienze.blogautore.espresso.repub blica.it/2008/05/05/contro-la-spesa-a-chilometri-zero/). Vi sono infatti autorevoli studi che mostrano come a un minor numero di chilometri percorsi dagli alimenti non necessariamente corrisponda un vantaggio energetico ed ecologico complessivo. E del resto se possiamo certamente rinunciare alla frutta che proviene dall’America del Sud, perché gli abitanti del meridione d’Italia dovrebbero fare a meno delle mele prodotte in grandi quantità nel Trentino o in altre zone del Nord? levato dall’interno per raffreddarlo, assieme a quello prodotto dai congegni interni del frigo. E quindi è assai opportuno tenere ben pulita la serpentina per facilitare il trasferimento di questo calore, tenendo presente che la polvere è un ottimo isolante termico, e soprattutto lasciare un debito spazio fra il retro della macchina e la parete, in modo che l’aria possa scorrere agevolmente e mantenere più fresca, cioè meno calda, possibile la serpentina. Un altro caso in cui i moti convettivi tornano utili. Si capisce allora, per quanto detto sopra, che non è molto conveniente costringere l’interno del frigo a portarsi a temperature troppo basse (oltre tutto col rischio di congelare l’insalata). Il consumo di elettricità, d’altra parte, dipende parecchio dal calore che penetra all’interno del frigorifero attraverso le sue pareti, che a sua volta dipende dalla qualità dell’elettrodomestico. E questa è Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI definita dalla classe energetica, che conviene dunque scegliere con oculatezza quando è arrivato il momento di sostituire questo apparecchio. Deve anche essere chiaro che al consumo di energia contribuisce anche il calore che inevitabilmente penetra all’interno al frigorifero attraverso il vano della porta quando la si apre, a causa dell’aria calda esterna che entra a rimpiazzare quella fredda che vi si trovava. Sicché è fortemente sconsigliato trascorrere il proprio tempo ad esaminare il contenuto dell’elettrodomestico. La porta va aperta infatti il meno possibile, e solo assai brevemente. Si noterà, a questo proposito, che quando si riapre la porta una seconda volta a breve dalla prima, occorre uno sforzo un po’ maggiore. Questo perché il frigorifero ha raffreddato l’aria calda che vi era entrata, riducendone quindi la pressione6 e creando una depressione rispetto al- l’esterno, che conseguentemente richiede un maggior sforzo per aprire la porta dell’apparecchio. È anche possibile aiutare il frigorifero nella sua opera di tirar fuori calore dal suo interno. Quando si devono scongelare delle vivande, anziché usare il microonde consumando quindi energia, conviene porle nel frigo (purché a temperature un po’ maggiori di 0°C). Per potersi scongelare, qui, i surgelati dovranno succhiare calore e non poco, sollevando da ciò i congegni dell’apparecchio e quindi riducendone il consumo di energia. Per scongelare in questa maniera ci vorrà certamente assai più tempo, veramente tanto, ma l’operazione è troppo elegante per farne a meno. I prodotti di stagione Lo scorrere delle stagioni, fino a qualche decennio fa, era accompagnato, anzi segnato, dalla disponibilità di frutta e di verdure proprie del tempo, e certi prodotti erano addirittura presenti sui banchi del mercato soltanto per poche settimane. Oggi, invece, si possono acquistare prodotti estivi d’inverno e prodotti invernali d’estate, perché sempre disponibili al supermercato. Consumare prodotti non di stagione non è però una scelta felice: provengono da coltivazioni in serra oppure da paesi lontani (magari addirittura agli antipodi); in entrambi i casi richiedono quantità di energia tutt’altro che trascurabili, per il riscaldamento delle serre o per il trasporto a distanza. Ma anche perché la loro qualità è inevitabilmente inferiore a quella degli stessi prodotti coltivati al tempo giusto oppure non assoggettati a lunghi viaggi. 6. Una legge dei gas stabilisce che la pressione di un gas, a parità d’altro, è inversamente proporzionale alla sua temperatura. E quindi quando l’aria contenuta nel frigorifero si raffredda, la sua pressione diminuisce. 97 PERCORSI DIDATTICI … in automobile Il frenetico che ci precede Capita a volte, sulle strade, di trovarsi in marcia dietro a una macchina le cui luci di stop lampeggiano continuamente, indicando così che il suo guidatore alterna a breve rapide accelerazioni e convulse frenate. Il frenetico individuo, così facendo, brucia inutilmente benzina a ogni accelerazione dato che l’energia di movimento appena acquistata dalla sua vettura, un attimo dopo viene dissipata frenando, quindi riscaldandone i freni, e per di più usurandone le pastiglie. Ma questo è solo uno dei tanti modi per consumare più carburante del necessario, che sono riassunti brevemente nella tabella qui sotto. Quanto al frenetico che ci precede, non conviene assolutamente tallonarlo a breve distanza, a nostra volta accelerando bruscamente e frenando continuamente, per non ricalcarne la frenesia e farci carico degli sprechi conseguenti, oltre che per ridurre il rischio di incidenti. È bene anzi accelerare sempre dolcemente, con grande attenzione a non premere mai troppo l’acceleratore: dalla pressione sull’acceleratore dipende la quantità di carburante che, ad ogni suo giro, viene risucchiata dal motore(Tabella 8). Se si seguono le indicazioni della tabella, è garantito un notevole risparmio di carburante: naturalmente si resta sempre ben lontani da quanto è possibile ottenere disponendo di veicoli speciali ultraleggeri, come avviene nella gara annuale chiamata Eco-Marathon, dove i consumi arrivano a ridursi a meno di un millesimo di litro al chilometro! Con una tecnica di guida ultrarisparmiosa che consiste essenzialmente nell’alternare fasi di lenta accelerazione a tratti percorsi a motore spento. Dove va a finire l’energia del carburante? Tutti sanno ovviamente che il carburante serve a far camminare la macchina. Ma vale la pena di farsi un’idea di cosa avviene davvero, cioè dove va a finire effettivamente l’energia, ossia il calore, che si sviluppa quando il carburante, nel motore, viene bruciato. E Tabella 8 Cause di maggior consumo di carburante Maggior consumo (dati approssimati) ● pneumatici sgonfi ● motore mal regolato ● portapacchi vuoto sul tetto ● condizionatore in funzione ● guida aggressiva (cercare continuamente di sorpassare le altre macchine, accelerare inutilmente in prossimità di un semaforo rosso…) ● guida troppo veloce - 2-4% - 5-10% - 5-10% - 3-6% - 20-40% - 40-60% guidando alla velocità massima anziché a circa 2/3 di questa ● mantenere a lungo il motore acceso du- - il motore in folle consuma in tre minuti il carrante le soste burante necessario a percorrere circa 1 km 98 Gli pneumatici sgonfi, oltre ad aumentare il consumo di carburante, riducono la sicurezza di guida. Come se questo non bastasse, il maggior attrito con il fondo stradale provoca una più rapida usura del battistrada, e quindi le gomme durano di meno (20-40%). Eppure da un’indagine del 2006 risulta che il 90% degli automobilisti europei viaggia tranquillamente con pneumatici più o meno sgonfi. allora bisogna ricordare che, sventuratamente, il secondo principio della termodinamica vieta la trasformazione integrale del calore in lavoro meccanico, cioè in quello che serve per far marciare una automobile. Quindi solo una frazione dell’energia del carburante risulta effettivamente utilizzabile, mentre il resto va inevitabilmenteva disperso nell’ambiente cioè, in parole povere, sprecato. La frazione utile, in pratica, ammonta all’incirca a poco meno di un terzo (motori diesel) o a un quarto (motori a benzina) del totale, mentre il calore residuo, che è la frazione maggiore, va smaltito presto e bene. A questo pensa il radiatore, sennò il motore si riscalda fino a cuocere qualche sua parte mettendola fuori uso, e allora sono guai1. Ma anche il calore residuo, a volte, può risultare utile, E il frenetico che ci segue? Lasciamoci superare, senza esitazione, in modo che vada a strombazzare qualcun altro! 1. È per questo che, ogni tanto, l’occhio del guidatore dovrebbe posarsi sul termometro dell’acqua di raffreddamento, per intervenire in caso di temperature eccessive (di solito segnalate da una spia rossa di allarme). Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI PERCORSI DIDATTICI come quando, d’inverno, lo impieghiamo per il riscaldamento. E la parte utile, cioè l’energia meccanica sviluppata dal motore? Questa, oltre a far funzionare vari congegni interni, fra cui l’alternatore che mantiene sotto carica la batteria e il condizionatore, serve a due scopi principali. Il primo, quando occorre, è quello di accelerare la macchina, che acquista così energia di movimento, e di farla marciare in salita, in tal caso facendole acquistare energia di posizione. Queste forme di energia si conservano: quella di posizione fino alla prossima discesa, quella di movimento fino a che la macchina resta in moto mantenendo la sua velocità, cioè fino alla prossima frenata. Si capisce allora, come si è già detto, che una guida convulsa, che alterni continuamente accelerazioni a frenate, è insensata: ogni volta si usa energia per accelerare la vettura ma subito dopo, frenando, la si dissipa. Trasformandola tutta nel calore che va a riscaldare i freni. Notiamo comunque che l’energia necessaria ad accelerare la macchina, come pure a farla marciare su un percorso in salita è direttamente proporzionale alla sua massa, cioè al suo peso. Molto approssimativamente, si valuta che per una vettura media 100 kg di peso addizionale comportino un aumento dei consumi di circa il 3%. E questo è un buon motivo per non sovraccaricare la macchina con pesi inutili, ma anche, a maggior ragione, per orientare gli acquisti verso vetture non troppo massicce. L’altro impiego principale dell’energia meccanica del motore è quello di vincere gli attriti, cioè le forze che si oppongono al moto. Ed è qui che va a finire quasi tutta l’energia del motore quando la macchina marcia in piano a velocità costante, quindi con energia di Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI Ecco dove va a finire effettivamente l’energia del carburante per una automobile con motore a benzina nel caso di un percorso medio, parte in città e parte in autostrada. I numeri riportati nella figura sono soltanto indicativi. movimento e di posizione costanti anch’esse. Fra questi attriti c’è quello fra le gomme e la strada, chiamato attrito di rotolamento, che dissipa all’incirca il 20% dell’energia utile. È possibile Fra le regole anti-smog che leggiamo su un settimanale molto diffuso troviamo: «RISPETTA IL PESO: i consumi aumentano del 6/7% a ogni carico aggiuntivo di 100 kg su un veicolo di classe media di 1500 kg di peso». Sarà vero? Ora la potenza necessaria per accelerare la macchina o per spingerla in salita è certamente proporzionale alla massa in gioco e quindi con 100 kg in più su 1500 la maggior potenza è proprio 100/1500 = 6,7%. Non così però per la potenza necessaria a vincere gli attriti, che è pressoché indipendente dalla massa. Dando ugual peso, mediamente, alla due potenze anzidette si conclude che con cento chili in più i consumi aumentano di circa il 3%. diminuire questa perdita mantenendo gli pneumatici ben gonfi; meglio ancora utilizzando pneumatici più efficienti, che possono contribuire a ridurre di circa l’1% i consumi di carburante. Non demonizziamo però questo attrito, perché se si annullasse le ruote girerebbero a vuoto e le macchine resterebbero ferme (come del resto avviene su una superficie ghiacciata perfettamente liscia, dove l’attrito è veramente minimo). E del resto noi stessi, senza attrito, non potremmo camminare! L’attrito più insidioso è costituito dalla resistenza che offre l’aria al moto dell’auto. Quello cioè che i costruttori cercano di ridurre dando alle vetture una forma aerodinamica. Perché insidioso? Perché il suo effetto non è semplicemente proporzionale alla velocità, ma al suo cubo. Il che significa che, raddoppiando la velocità, la potenza necessaria per vincere la resistenza dell’aria non si raddoppia ma diventa ben 23 = 8 volte maggiore. Cosa della quale, viaggiando più veloci del ragionevole, nessuno si 99 PERCORSI DIDATTICI accorge e nessuno ci avverte. Per esempio, basta portare la velocità da 120 km/h a 150 km/h perché la potenza necessaria a vincere la resistenza dell’aria cresca del fattore (150/120)3 = 1,95, cioè praticamente si raddoppi. E con essa, come è ovvio, aumenta anche il consumo di carburante. Modificare l’assetto aerodinamico della macchina contribuisce ad aumentare la resistenza dell’aria e quindi il consumo di carburante. Ciò avviene, per esempio, quando si viaggia velocemente con i finestrini aperti, e soprattutto quando si dispongono valigie, sci o altro sul tetto della vettura. Anche l’energia persa a causa dei vari attriti va a finire tutta in calore, andando a riscaldare l’aria circostante e le gomme (meglio non toccarle dopo un lungo tragitto). Perché l’energia si conserva, cioè non si distrugge e quindi, come stabilisce il primo principio della termodinamica, va sempre a finire da qualche parte, dove magari non serve a nulla. Quando il motore romba al meglio, è meglio davvero? Il rendimento del motore dipende parecchio dal numero di giri, che è indicato dal contagiri come numero di giri al minuto. Perché c’è un numero di giri ottimo, tipicamente fra 1500 e 2500, per cui il rendimento è massimo, allontanandosi dal quale la potenza meccanica sviluppata si riduce a parità di consumo di carburante. Il cambio serve proprio a questo, cioè a fare in modo che il motore funzioni nelle condizioni migliori, indipendentemente dalla velocità della macchina: alla partenza come durante una marcia veloce. Per non far girare troppo velocemente il motore, conviene seguire una regola generale: quella di utilizzare sempre la marcia più alta possibile. Che significa anche, alla partenza, passare rapida- 100 A proposito di velocità, è piuttosto istruttivo calcolare a che altezza verrebbe scagliata una macchina la cui energia di movimento, a seguito di un urto, venisse integralmente convertita in energia di posizione. Il risultato, che non dipende dalla massa della vettura, è il seguente, marciando a 100 km/h si potrebbe venire scagliati all’altezza di 38 metri, che si quadruplica a oltre 150 metri viaggiando a 200 all’ora. mente dalla prima alla seconda e poi alle altre marce. Così facendo, il motore romba di meno e l’orecchio del guidatore è meno gratificato, ma anche di benzina ne scorre meno. Qui aggiungiamo ancora un suggerimento a favore di una guida non troppo veloce, approssimativamente fra metà e due terzi della velocità massima, a cui corrisponde generalmente la condizione di ottimo, cioè di minimo consumo. SUV, ovvero l’apoteosi del superfluo2 Non è impresa facile realizzare un prodotto che al tempo stesso sia superfluo, dannoso e costoso; ancor meno riuscire a piazzarlo sul mercato con largo successo. Eppure l’industria automobilistica mondiale ha conseguito pienamente questo assai riprovevole risultato, che si chiama SUV, dall’inglese Sport Utility Vehicle. Si tratta di un grosso fuoristrada, un gippone, dotato di quattro ruote motrici e di fondale sollevato, che è caratterizzato da ingombrante e arrogante imponenza, da incongruo impiego di grandi quantità di metallo e altri materiali, da elevati consumi di carburante e da intrinseca instabilità. Queste possenti vetture, i cui nomi (Cherokee, Touareg, Cayenne…) evo- cano il mitico West o altri luoghi di lontane e favolose avventure, sono largamente superflue dato che nella gran maggioranza dei casi sono usate in città per raggiungere il supermercato di quartiere o per accompagnare a scuola i bambini. Sono poi dannose per l’ambiente sia per la quantità dei materiali e dell’energia impiegata per fabbricarli sia perché consumano più carburante delle auto usuali, da una volta e mezzo al doppio, provocando un corrispondente maggiore inquinamento. E sono anche pericolose: non soltanto per i danni che possono provocare al prossimo i loro parafanghi rinforzati più alti dell’usuale ma soprattutto per l’altezza del loro baricentro che ne facilita il ribaltamento. Infatti in Usa, dove i SUV sono particolarmente diffusi, c’è un apposito sito che fornisce consigli legali per le cause intentate contro i produttori di queste vetture a seguito di incidenti di ribaltamento. E infine i SUV sono costosi perché rivolti a un pubblico speciale, quello che è ben disposto a pagare per acquisire il supposto particolare status sociale derivante dal possesso di macchine siffatte, che permettono di guardare il prossimo dall’alto in basso e che per la loro imponenza consentono stili di guida arroganti. E del resto i maggiori profitti delle case automobilistiche provengono proprio da questo settore di mercato. Settore che in Italia è in rapida crescita avendo superato di recente il 10% delle nuove immatricolazioni. (Tratto dal libro La fisica della sobrietà – Ne basta la metà o ancora meno, Edizioni Dedalo, Bari 2012) Giovanni Vittorio Pallottino Università di Roma Sapienza 2. V. Del Soldato, Un comportamento consumistico insostenibile: i SUV (http://www-dse.ec.unipi.it/persone/ docenti/luzzati/documenti/SUVDelsoldato.pdf. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE a cura di Giovanni Gobber - Università Cattolica, Milano Il ruolo dell’arte nella didattica delle lingue, con attenzione al tedesco Lucia Salvato L’arte intesa come “arte di educare” La grande importanza che la letteratura e l’arte in genere hanno per la vita dell’uomo è riconosciuta lungo i secoli. In ogni epoca l’uomo ha sempre guardato alle opere d’arte come ad una fonte da cui poter attingere una luce che illuminasse il suo (spesso faticoso) cammino umano. Attraverso l’arte l’uomo ha dunque sempre cercato di conoscere qualcosa di sé e della propria vita, perché nei modi più diversi ogni artista tende a rappresentare la natura dell’uomo, mettendone in risalto problematiche ed esperienze. Fin dall’antichità classica, in particolare attraverso la pittura, la scultura, la letteratura, vengono illustrate le miserie e le gioie dell’uomo, i suoi bisogni e desideri, le sue meschinità e la sua grandezza, con lo scopo di “elevarlo” ad una vita più degna. Gli artisti, perciò, mentre arricchiscono il patrimonio culturale di una nazione, fruibile poi dall’intera umanità, «rendono un servizio sociale qualificato a vantaggio del bene comune». Questo accade grazie al fatto che, attraverso le loro opere, essi in un certo senso si fanno garanti della crescita umana della singola persona e di conseguenza dello sviluppo della comunità in cui essa vive «attraverso quell’altissima forma d’arte» che è «l’arte educativa»1. Già gli antichi avevano messo per iscritto gli scopi primari di un discorso. Nel De oratore Cicerone ne delineò tre; tra questi spicca – in modo particolare Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI in campo didattico – il coinvolgimento emotivo degli ascoltatori: suscitare i sentimenti più profondi significava arrivare anche a coinvolgerli, commuoverli (movēre), piegando il loro animo (flectere) ad aderire al contenuto proposto. Prima di Cicerone, Aristotele nella Poetica e nell’Etica Nicomachea identificò ulteriormente tale cambiamento in un fenomeno di purificazione (katharsis), che egli descrisse come il vero scopo e l’auspicato effetto che l’arte poetica della tragedia doveva avere sullo spettatore. Da qualunque punto di vista lo si osservi, si tratta in ogni caso di un cambiamento che ha inizio nell’interiorità dell’individuo; l’effetto più profondo dell’arte, infatti, è sempre stato quello di “mettere in movimento” l’uomo, scuotendone l’animo e suscitando in lui un mutamento, avente spesso come conseguenza una trasformazione ben più ampia, nell’ambiente in cui egli vive e opera a contatto con altri individui. Pertanto, proporre all’interno di un’unità didattica di una lingua straniera l’analisi e la descrizione di un dipinto ha un duplice scopo: da una parte è occasione per ampliare il vocabolario dei discenti, esercitando la capacità di riflettere direttamente in lingua straniera per descrivere in un tempo ristretto il dipinto scelto; dall’altra tende a migliorare le capacità del discente di prendere coscienza della realtà che ha di fronte in tutte le sue sfumature. L’arte pittorica medievale e rinascimentale L’arte può essere considerata a pieno titolo “arte educativa”, e ogni forma d’arte contiene in sé questa possibilità, dalla pittura alla scultura, dalla poesia alla prosa. In tale momento educativo è ravvisabile un implicito scambio dialogico tra l’artista e il fruitore della sua opera, nel quale il cambiamento del singolo può essere identificato con la risposta che egli implicitamente dà accostando quell’opera. La risposta, però, potrà derivare solo da quell’umile atteggiamento di identificazione di sé con il contenuto proposto, e quindi con qualcosa che proviene da fuori e che è altro da sé. Per tale motivo l’uso di un’opera d’arte all’interno di un progetto didattico (nelle scuole secondarie di I o II grado come in alcuni corsi universitari) può essere di grande stimolo per il discente, in particolare per le giovani generazioni. L’arte medievale e rinascimentale ne è un esempio. A quel tempo l’educazione era ad ampio raggio: come per gli antichi un discorso doveva insegnare e nello stesso tempo smuovere l’animo dell’ascoltatore per farlo aderire alla tesi proposta suscitandone l’interesse, così l’arte medievale aveva lo scopo di veicolare un contenuto provocando reazioni ed emozioni. Molte chiese vennero af- 1. Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti, 1999, Nr. 4 (www.vatican.va). 101 LINGUE, CULTURE E LETTERATURE frescate con storie dall’Antico e dal Nuovo Testamento con lo scopo anche di insegnare la storia della tradizione cristiana a chiunque vi si accostasse, in particolare a chi non sapeva leggere e non poteva accedere alle Scritture. La forma educativa aveva perciò duplice carattere: “leggendo” la sequenza delle immagini ogni spettatore poteva contemporaneamente essere istruito e ricevere un insegnamento morale; grazie alla rappresentazione realistica intensa ed emozionante, i racconti della Genesi, la vita di Gesù o dei Santi, nelle quali gli osservatori si possono facilmente immedesimare, lo spettatore traeva un esempio per sé e per la propria vita all’interno della comunità in cui viveva. In molti dipinti e affreschi la forza dei colori e delle immagini ravviva la rappresentazione dei fatti e, attraverso il coinvolgimento dei sensi, rende più immediata l’adesione al contenuto proposto. Grazie ad esempio a cicli pittorici o affreschi sulle pareti delle chiese il piatto mondo rappresentato nei secoli precedenti venne trasformato in un analogo del mondo reale, nel quale lo spettatore ha più facilmente la possibilità di vedere riflesso se stesso, le proprie emozioni, i propri dolori, e in genere le umane esperienze della vita quotidiana. Dal modo in cui vengono rappresentate, e dunque dall’atteggiamento delle figure di fronte alle situazioni anche più dolorose, lo spettatore può trarre un modello da seguire, da ricordare, da imitare. Particolarmente adatto a un corso di Esercitazioni di una lingua straniera (non solo a livello universitario) è l’osservazione di un dipinto o di un affresco, già noto agli studenti, da analizzare e descrivere insieme. Partendo dal concetto di “testo”, inteso come atto comunicativo portatore di senso, è possibile affrontare l’analisi del linguaggio di un 102 “testo iconico” per imparare a comprenderne il contenuto, ovvero il significato che l’artista ha in esso racchiuso. Lasciando agli studenti la scelta all’interno di una (più o meno ampia) gamma di immagini artistiche, capita spesso che la scelta cada su uno dei dipinti del Caravaggio o, in ambito tedesco, di un dipinto di Friedrich. Il motivo è solitamente la conoscenza del soggetto e l’immediatezza del contenuto. La sorpresa sta però nel vedere quanto poco in realtà siano abituati gli studenti a descrivere un dipinto – e quindi un fatto che sta al di fuori di essi – dovendo tralasciare, ad una prima osservazione, l’espressione dei sentimenti che esso evoca. Mostrare ad essi senza alcuna introduzione l’immagine de La vocazione di Matteo (15991600) del Caravaggio o del Cristo nel limbo (1450) del Beato Angelico, chiedendo semplicemente di fornire una prima immediata descrizione, è un’esperienza molto interessante. Subito ci si ac- corge di una scarsa capacità di osservazione del semplice dato reale e dell’istintiva reazione a voler subito includere il contenuto del dipinto in uno stereotipo già noto. Scopo dell’analisi dovrà pertanto essere quello di “educare” gli studenti all’osservazione dell’oggetto così come esso è, con le sue peculiarità che l’hanno reso un’opera d’arte. Utile a tale scopo è una serie di domande a cui si chiede di rispondere oralmente (ma singolarmente), semplicemente osservando il dipinto. Per l’affresco del Beato Angelico, ad esempio, sono state fornite le seguenti domande in lingua tedesca: ● Was steht im Vordergrund der Schilderung? ● Was geschieht an der Tür? ● Was sehen Sie links der Szene? ● Was steht im Mittelpunkt der Schilderung? ● Was steht im Hintergrund? ● Worum geht es? (eine mögliche Deutung der ganzen Szene) Michelangelo Merisi da Caravaggio, La vocazione di San Matteo (1599-1600), Roma, San Luigi dei Francesi. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE La prosa letteraria: un’esperienza con Kafka Beato Angelico, Cristo nel Limbo (1450), Firenze, Convento di San Marco. La necessità di rispondere a domande mirate mette gli studenti in grado di osservare il dipinto nella sua totalità, e quindi di fornirne una spiegazione più appropriata, partendo anche da quegli elementi che altrimenti verrebbero tralasciati. In questo modo i discenti acquisiscono la capacità di analizzare e descrivere ogni tipo di immagine da un punto di vista più oggettivo, riconoscendo anche i dettagli come importanti portatori del significato. Riuscire a cogliere tutti gli elementi (anche i più nascosti) fra le pieghe di un dipinto o fra i colori più o meno marcati delle figure permette, infatti, di godere di un dato della realtà in tutta la sua portata. Frutto di tale metodo è una maggiore attenzione nell’approccio conoscitivo e interpretativo anche della vita quotidiana: può capitare che il momento finale dell’interpretazione divenga l’occasione per osservare più da vicino un fatto personale, giudicandolo alla luce dell’esperienza conoscitiva avuta di fronte al dipinto analizzato e descritto. È quanto accaduto con un breve testo di Franz Kafka. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI Particolarmente diffuso nelle scuole è l’uso di testi in prosa letteraria. Negli ultimi anni la III prova di maturità linguistica ha riguardato un testo letterario o di attualità da analizzare rispondendo ad alcune domande. Queste hanno il compito di sollecitare gli studenti a un’osservazione più attenta del testo, per poter dare risposte esaurienti, portando esempi dalla propria esperienza e dalle conoscenze acquisite nel corso degli studi. Un testo molto semplice ma anche stimolante è un breve racconto di Franz Kafka, Gemeinschaft2, utile a sviluppare le capacità produttive, sia nell’orale che nello scritto. La storia riguarda cinque ragazzi che, uscendo da un cancello, si dispongono in fila uno accanto all’altro. Fin da quel momento essi decidono di restare sempre insieme, trascorrendo le giornate indisturbati. Accade però un imprevisto: un sesto ragazzo si presenta e bussa alla porta del gruppetto di amici, nella speranza di essere accolto e poterne fare parte. Nonostante non vi sia alcuna ragione particolare, i cinque amici decidono di rifiutare la richiesta. Come dimostrato da diverse frasi nel testo e da diversi verbi in forma negativa, il gruppo si chiude a qualunque possibilità di cambiamento3. Qualunque nuovo elemento è interpretato come un attacco alla loro quiete, alle loro abitudini, in quanto implicherebbe la difficoltà (o meglio il fastidio) di dover fornire le spiegazioni necessarie affinché egli possa partecipare ai vari gesti di cui ancora non conosce le “regole”. Il racconto termina con un’affermazione rilevante: per i cinque ragazzi non ha alcuna importanza che il sesto incomodo metta il broncio, essi lo rifiutano ugualmente opponendo la propria forza; ciononostante, più essi tentano di sbarazzarsene, più egli si ostina a tornare. Ed è proprio questo desiderio così tenace a ribaltare il punto di vista: il racconto si chiude mettendo in secondo piano la forza ostile dei cinque ragazzi e dando l’ultima parola alla forza del desiderio del singolo. Ad un gruppo di studenti universitari sono state proposte alcune domande, lasciando loro la scelta tra la possibilità di rispondere ad esse singolarmente e la possibilità di accorpare le risposte attraverso un unico racconto. Ogni studente ha optato per la seconda possibilità, e assai interessante è stato il racconto con cui ognuno ha voluto delineare un episodio della propria vita passata che corrispondesse al tema proposto da Kafka. Le domande sono le seguenti: ● Haben Sie schon in Ihrem Leben eine derartige Erfahrung erlebt? Wann? mit wem? (mit Freunden / in der Familie…) ● Wie haben Sie reagiert? ● Wie haben die anderen Freunden/Verwandten reagiert? ● Waren Sie schon beisammen, wie Franz, oder haben Sie gespürt, dass Sie etwas mehr brauchten? ● Sind Sie mit dem Verhalten von Franz Kafka (nicht) einverstanden? Warum? Dai commenti degli studenti si è potuta riscontrare la grande capacità che sempre ha la letteratura di veicolare contenuti e proporre attraverso essi una visione della vita con cui potersi confrontare. La maggior parte degli studenti ha ammesso di avere ricevuto dal racconto di Kafka uno spaccato molto realistico e crudelmente sincero della 2. F. Kafka, Gemeinschaft, in Sämtliche Erzählungen, hrsg. von P. Raabe, Fischer, Frankfurt a.M. 1970, pp. 308-309. 3. Tra le frasi in forma negativa spiccano le seguenti: «Er tut uns nichts, aber er ist uns lästig, das ist genug getan»; «Wir kennen ihn nicht und wollen ihn nicht bei uns aufnehmen»; «Außerdem sind wir fünf und wir wollen nicht sechs sein»; «aber eine neue Vereinigung wollen wir nicht»; «wir erklären lieber nichts und nehmen ihn nicht auf»; Ibidem. 103 LINGUE, CULTURE E LETTERATURE vita quotidiana che li riguarda in prima persona. Nell’atteggiamento negativo dei cinque ragazzi essi hanno riconosciuto la descrizione di un più ampio atteggiamento negativo nei confronti del mondo circostante, in particolare di tutto ciò che è portatore di novità, e che li riguarda in prima persona. Questo ha fatto sì che essi potessero rivedere e correggere anche tutti quegli atteggiamenti negativi che spesso si hanno nei confronti delle persone che si avvicinano con una richiesta che costringe a mettere in moto una risposta. Inoltre, poiché un testo di fiction raccontato in prima persona permette all’autore di fingersi di essere uno dei personaggi all’interno di esso4, Kafka ha saputo dipingere la situazione in modo realistico, arricchendola con particolari osservati da un punto di vista soggettivo. Tuttavia, poiché il messaggio è veicolato dal testo ma non è immediatamente riconoscibile in esso, sta al lettore inferirlo. Inoltre, tipico dell’autore Kafka è quel modo di presentare una situazione in modo metaforico ma semplice, così che ogni lettore vi si possa rispecchiare, rintracciando tra le righe qualcosa di sé. La capacità di inferire il messaggio, il più delle volte veicolato metaforicamente, ruota attorno alla presa di coscienza che il racconto risulterebbe in difetto, ovvero mancante di qualcosa, qualora venisse letto in modo letterale. Pertanto, analizzare assieme agli studenti il testo attraverso alcune domande rende possibile l’immedesimazione con la situazione descritta e insieme la graduale presa di coscienza di un giudizio su di essa e su un’esperienza personale dai contorni simili. L’intento del lavoro su un testo letterario è dunque quello di portare gli studenti a “rispondere” in prima persona all’invito che in esso sempre si nasconde. Questo significa anche inse- 104 gnare loro a giudicare un fatto ad essi accaduto alla luce di quello stesso testo, in particolare alla luce del giudizio che essi arrivano a dare su di esso. Come afferma Michail Michajlovi Bachtin, il primato di un’opera in prosa è da rintracciare anche nella risposta del lettore. In essa si esprimerebbe quella capacità di comprendere il contenuto proposto che si manifesta in un cambiamento del lettore stesso. L’influenza che un testo può esercitare è infatti vista da Bachtin come un terreno fertile, sul quale il lettore può sviluppare in modo creativo la propria personale risposta, derivante dall’immedesimazione con il contenuto. Tale sviluppo sarebbe dunque possibile perché, non appena le parole penetrano nell’interiorità del lettore, questi incomincia a interrogarle, arricchendole con le proprie esperienze, creando una sorta di dialogizing background5. La poesia: un’esperienza con Lutz Nel corso dell’insegnamento di una lingua straniera, all’interno di un’unità didattica l’uso di una poesia è sempre stato un ottimo espediente per l’attenzione da porre non solo al contenuto, ma anche alla modalità linguistica con cui tale contenuto è veicolato. Inoltre, se la poesia è particolarmente semplice e breve, essa potrà essere usata per testare le capacità traduttive degli studenti senza l’uso del dizionario bilingue. Osservando, ad esempio, le due seguenti poesie del poeta svizzero-tedesco Werner Lutz (1930-): Nicht resignieren nie weggeworfene Wörter wieder einsammeln es könnte Rares darunter sein Sich ausdehnen maisfeldähnlich jene Armbewegung wagen die einen ganzen Himmel auszufüllen vermag si nota che i testi non presentano particolari difficoltà; tuttavia la loro traduzione non è risultata immediata neppure a studenti di livello universitario. La semplicità del lessico tedesco, infatti, non corrisponde pienamente alla semplicità del lessico italiano, e questo perché spesso si tratta di termini composti (maisfeldähnlich; Armbewegung) o di strutture sostantivate (Rares), che in italiano devono essere resi con espressioni più complesse. Diversi studenti rischiano di proporre una traduzione superficiale; la ricerca dei termini corrispondenti più adeguati nella lingua italiana richiede pertanto una certa meditazione. Per poter rendere nella propria lingua un testo occorre sempre dare il tempo necessario a un’attenta riflessione sul contenuto veicolato dalle espressioni linguistiche e sulla conseguente scelta del termine adeguato che nella lingua di arrivo veicoli quello stesso contenuto. Leggere per la prima volta una poesia (in particolare di un autore sconosciuto) è come incontrare per la prima volta una persona, il cui sguardo generalmente coincide con un particolare atteggiamento nei confronti del mondo circostante. Ogni volta che ci si avvicina a un testo letterario ha dunque inizio quell’affascinante e interessante lavoro dell’interpretazione, che richiederà un determinato tempo anche a seconda della lunghezza e della difficoltà del testo. Inoltre, se nella poesia vi sono frasi interrogative, il lettore sarà in qualche modo invitato a rispondere alle domande in esse contenute, possibilmente partendo dalla propria esperienza per- 4. J.R. Searle, Expression and Meaning. Studies in the Theory of Speech Acts, Cambridge University Press, Cambridge 1979, pp. 68-69. 5. M.M. Bakhtin, The Dialogic Imagination. Four Essays by M.M. Bakhtin, ed. by M. Holquist, transl. by C. Emerson - M. Holquist, University of Texas Press, Austin 1981, p. 358. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE sonale. Se il testo è costituito da frasi imperative, è auspicabile che queste vengano prese sul serio per un lavoro di immedesimazione con quanto richiesto dall’autore. Se, invece, come nel caso delle due poesie qui proposte, il testo è caratterizzato da verbi all’infinito, questi tendono a descrivere un’esperienza più generica, che può essere estesa ad ogni uomo come invito a coinvolgersi con le parole e in esse immedesimarsi. Riflessioni conclusive Come si è potuto notare dagli esempi proposti, l’arte in genere è quel luogo affascinante e privilegiato dell’incontro tra due soggetti, autore e fruitore della sua opera. Essa, però, è in grado di attivare tale gioco interattivo tra i due soggetti, solo se il fruitore del testo è disposto a mettere in gioco tutte le sue risorse culturali e personali, così da offrire la propria risposta all’appello che il testo intende esercitare. Il contenuto veicolato da un’opera d’arte ha in genere il potere di coinvolgere lo spettatore in un’esperienza personale di “unità dell’io”, esperienza che può essere definita come “la cura dell’anima”6. Esporsi a una tale esperienza significa accettare il confronto con il bello, il buono, il vero, e questo è profondamente edificante. Tale esperienza permette, infatti, di riconoscere in modo immediato la differenza tra ciò che è bello, buono, vero e ciò che non lo è, predisponendo l’animo a un atteggiamento benevolo nei confronti della realtà. In tale esperienza pedagogica consiste il cambiamento che si sperimenta nella propria vita, a partire dal cambiamento avvenuto nel proprio animo di fronte a un’opera d’arte. Inoltre, per tornare a quanto già affermato, approcciare un’opera alla luce dell’insegnamento degli antichi rende possibile quell’esperienza della conoscenza che è gioia di conoscere, non solo a livello intellettivo (docere) ma anche sensoriale (delectare). La bellezza ha infatti sempre un forte impatto sull’uomo, tale da portarlo il più delle volte a un istintivo ma profondo silenzio, nel quale l’uomo si sente spinto alla verità delle cose e quindi di se stesso: tale esperienza cambia e dona una nuova direzione alla vita verso il bene più alto. La drammatica bellezza dell’affresco del Giudizio Universale di Michelangelo nella Cappella Sistina, ad esempio, ha il potere straordinario di lasciare in profondo silenzio un’intera aula universitaria. Di fronte agli occhi di giovani discenti – a volte poco abituati all’attenta osservazione di un’opera d’arte – si apre uno spettacolo che veicola un messaggio spesso trascurato nella frenesia della quotidianità: il dramma delle anime dannate che nel “giorno del Giudizio” si allontanano dalla salvezza perché sedotte dalle forze del male. Nello stesso tempo, però, i colori vivaci e le forme mascoline delle figure rendono l’affresco un vero e proprio «annuncio di speranza», un «invito potente ad elevare lo sguardo verso l’orizzonte ultimo», perché la storia dell’umanità è «inesausta tensione verso la pienezza, verso la felicità ultima, verso un orizzonte che sempre eccede il presente mentre lo attraversa»7. Questo è lo straordinario contributo delle più grandi opere d’arte, le quali hanno “il potere” di smuovere (movere) l’uomo cambiandolo nel suo intimo, facendogli ritrovare quell’anelito tutto umano alla verità di sé. Tale cambiamento può essere visto come l’effetto di un’interazione dialogica tra l’artista e il singolo fruitore, effetto che – se positivo – è auspicabile si possa riversare nel più ampio ambito sociale. Ulteriori studi potrebbero essere condotti su altre forme d’arte o opere artistiche espresse in altre lingue in grado di commuovere lo spettatore e renderlo docile a quella interazione dialogica che, il più delle volte, avviene tra due soggetti che non si incontrano mai. Lucia Salvato Università Cattolica, sede di Milano Michelangelo Buonarroti, Giudizio universale, particolare della barca di Caronte (1536-1541), Città del Vaticano, Cappella Sistina. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI 6. A. Ramos, Art, Truth, and Morality: Aesthetic Self-forgetfulness vs. Recognition, in Mimesi, verità e fiction. Sulla scia della ‘Poetica’ di Aristotele, ed. by R. Jiménez Cataño - I. Yarza, Edusc, Roma 2009, p. 93. 7. Benedetto XVI, Incontro con gli artisti. Discorso del Santo Padre Benedetto XVI, Cappella Sistina. Sabato, 21 novembre 2009 (http://www.vatican.va). 105 LINGUE, CULTURE E LETTERATURE I think this could possibly be… An appreciation of hedging strategies in English Sonia Rachele Piotti T he notion of hedging has been in the linguistic literature and vocabulary since the term hedges was introduced by Lakoff (1972) to describe a range of lexical units, such as sort of, think, suppose, etc., «whose job is to make things more or less fuzzy». The original definition and interpretation has been recently widened to include more discourse-oriented interpretations. In the more recent literature, hedging may be best described as a large and complex language phenomenon whereby items semantically associated with uncertainty, tentativeness, vagueness and related meanings are used to realise various and very different pragmatic/rhetorical purposes, from facesaving, deference and politeness to mitigation of the illocutionary force of one’s speech acts, mitigation of responsibility and/or certainty, doubt, denial of responsibility, and even evasiveness and obfuscation for dubious purposes. Not surprisingly, the vast majority (but not all) of publications treat hedges and hedging as phenomena of the English and German language. Yet, its nature and its consequences for foreign language teaching, and English Language Teaching in particular, is not adequately covered in textbooks. This article provides an introductory survey of the notion of hedging in linguistics, with an eye to the categories and types of hedging strategies in Present-Day English. This brief survey provides the theoretical framework behind 106 the research on hedging carried out in Applied Linguistics, which is described in the latter part of the article. This part presents some recent themes and issues in Secondary Language Acquisition and offers a description of the difficulties learners experience with the phenomenon of hedging, focussing especially on EFL/ESL learners, both in secondary and higher education. In order to enable teachers to «make better informed judgements about the communicative usefulness of particular features, assisting them in decisions about what items to teach ad when to teach them» (Hyland 1998, p. 243), this part also pres- Piet Mondrian (1872-1944), Sun, Haags Gemeentemuseum. ents some activities that have been suggested in the literature to foster an awareness and understanding of hedging strategies as part of L2 learners’ pragmalinguistic competence. Hedging: Origins of the concept The words hedge and hedging can be broadly defined as referring to a barrier, limit, defence or the act or means of protection or defence (Oxford English Dictionary, s.v. hedge and hedging). In linguistics, many interpretations of the two terms have been advanced and discussed that are associated with these general meanings. Lakoff (1972) is universally acknowledged as the first linguistic approach to and treatment of the concept of hedging. Lakoff ’s research especially focused on the linguistic indeterminacy of the lexical items used to talk about those natural phenomena that fall outside the central core of broad conceptual categories of natural language such as ‘animal’, ‘fish’ or ‘bird’ and are therefore less representative members of these categories: he refers to such linguistic items as hedges. He explained his theory as follows (Lakoff 1972, p. 471): For me, some of the most interesting questions are raised by the study of words whose meaning implicitly involves fuzziness – words whose job is to make things fuzzier or less fuzzy. I will refer to such words as ‘hedges’. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE According to Lakoff, expressions such as “Penguins are birds” are categorical expressions which place penguins in the category of birds, of which they share the prototypical characteristics. If we insert a fuzzy or vague expression or hedge such as sort of into the statement, we can modify the degree of penguins’ membership to the category of birds, vaguely placing penguins outside the central core of the category of “bird”: “Penguins are sort of birds”. The capacity of language expressions to modify category membership is typical of a variety of hedging devices, including hedged performatives such as suppose, think, seem, etc., that is, hedges that can be used to modify or control the illocutionary force of the speech act specified. Skelton (1988) includes hedges among the strategies which realise the commentative potential of any language; «it is by means of the hedging system of a language that a user distinguishes between what s/he says and what s/he thinks about what s/he says» (Skelton 1988, p. 38). This discourse-oriented approach to hedging has been, and still is, particularly evident in research on specialised discourse in general and English for Specific Purposes (ESP) and English for Academic Purposes (EAP) in particular: research has especially focused on such areas as medicine and biology and business, and includes genres such as research articles, popular science texts, and newspapers. Hedging and politeness Later interpretations of hedging: research in pragmatics and related concepts Since Lakoff, research in the field of hedging and hedges has increased rapidly as a result of the broadening of the concept of hedges from the point of view of semantics and logic to pragmatics, rhetoric and stylistics. Hedging research in pragmatics has been highly productive since the 1980s and has especially focused on the phenomenon of hedging as a feature of metadiscourse: writers and speakers qualify their commitment to assertions, soften and mitigate their judgements and orders, boost and strengthen the expression of their feelings and opinions in a variety of ways. Hedging, along with other strategies such as emphatics and other devices, are examples of the ways in which a writer/speaker can show the reader how to interpret the text, and how confidently to regard the claims and statements it contains. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI Linguistic politeness is a concept that is very close to hedging in its more extensive definitions as a feature of the interpersonal function of language. The interpretation of politeness to which most researchers have connected their studies on hedging is represented by Brown-Levinson (1978): politeness is necessary in situations which could pose a threat to the speaker’s or their hearer’s face. Hedging has most often been seen as a negative politeness strategy used by the writer or speaker to indicate that they do not want to impose upon the hearer’s/reader’s desires or beliefs. From this perspective, the goal of hedging strategies such as I think that, more or less, is to mark the utterance as a subjective view. This attitude leaves the audience free to judge for themselves while at the same time protecting the sender’s negative face and preventing them from criticism. Myers (1989) regards hedging as a wellknown academic convention used to show negative politeness and avoid direct criticism in academic writing. The author agues that hedging is not related to the probability of the claim it modifies, but shows the writer’s proper level of deference when offering his or her claim to the scientific community (Myers 1989, pp. 12-13, 18). Hedging scientific claims is actually so prevalent that «a sentence that looks like a claim but has no hedging is probably not a statement of new knowledge» (Myers 1989, p. 13). Categories and types of hedges in English A multitude of linguistic phenomena can function as hedging devices in English. Among them, Skelton (1988, p. 37) argues, «are the use of impersonal phrases, the modal system, verbs like ‘seem’, ‘look’, and ‘appear’, sentence-introductory phrases like ‘I think’, ‘I believe’, and the addition of -ish to certain (but not all) adjectives […]». In the following examples, the sentences on the right represent hedged sentences, while those on the left represent their ‘unhedged’ version (Skelton 1988, p. 37)1: The world is flat. It is said that the world is flat. God is good. God may be good. Frank Bruno is unstoppable. Frank Bruno may be unstoppable. David Gower has a forceful personality. I doubt if David Gower has a forceful personality. Sarah Ferguson has red hair. Sarah Ferguson has reddish hair. Myers’ (1989) discussion of the use of politeness strategies in academic articles on biology is one of the earliest attempts to offer a taxonomy of hedging 1. Italics not in the original. 107 LINGUE, CULTURE E LETTERATURE strategies. These include lexical items and syntactic constructions such as modal verbs, modifiers such as plausible or probably, non-factive verbs such as suggest, framing expressions such as it is unlikely that, personal attribution as in I would like to argue that, attribution of claims to an impersonal agency, such as the results, the findings, apologizing for the face threatening act as in I hope that those working on mammalian viruses will forgive me for not describing their results more fully (1989, p. 20). Myers seems to point to the fact that lexical items are among the phenomena that the readers of scientific texts most readily associate with hedging. Similarly, Hyland (1994, p. 245) states that when native speakers of English use hedges to express doubt and tentativeness, the choice falls predominantly upon lexical hedging elements. These elements represent five central wordclasses, namely modal auxiliaries (e.g., may), main verbs (argue, believe), adverbs (possibly, perhaps), adjectives (potential, probable) and nouns (hypothesis, idea, notion). Varttala proposes a subdivision of these lexical items on functional grounds distinguishing between epistemic main verbs, epistemic adverbs, epistemic adjectives and nouns. In 2001, Varttala refines this subdivision on syntactic-semantic grounds. Main verbs and nouns are subdivided into three subcategories as follows: - non-factive reporting full verbs (e.g. claim, propose, suggest, allege); - tentative cognition full verbs (e.g. expect, estimate, believe, assume, evaluate, think); - tentative linking full verbs (e.g. look, appear, seem, tend); - tentative cognition nouns (e.g. assumption, expectation, estimation, hypothesis, belief, expectancy); 108 - nouns on tentative likelihood (possibility, probability, tendency, likelihood); - non-factive assertive nouns (e.g. claim, proposal, suggestion, allegation); Adverbs fall into four sub-categories: - adverbs of indefinite frequency (e.g. generally, typically, frequently, often); - adverbs of probability (e.g. potentially, possibly, perhaps, probably, admittedly, apparently, etc.); - adverbs of indefinite degree (e.g. broadly, entirely, fairly, fully, greatly, etc.); - approximate adverbs (e.g. about, almost, approximately, nearly, virtually, etc.). Other studies have also included nonlexical items such as that-clauses (e.g. It could be the case that), to-clauses + adjective (e.g. It may be possible to; It is important to; It is useful to study, etc.), if-clauses and passive constructions. In her attempt to provide an overview of the most important strategies along with their relevant modifying devices to achieve hedging that have been discussed in the literature, Clemen (1997, p. 243) defines five distinct strategies including politeness, indirectness, mitigation, vagueness, and understatement, and a variety of related modifying devices: hedged performatives, epistemic qualifiers, modal verbs, modal particles or downtoners, adjectives and adverbs, certain personal pronouns, passive constructions, impersonal and indirect constructions, parenthetic constructions, subjunctive, concessive conjunctions and negation. Some of these devices, Clemen points out, can be attributed to more than one strategy. Despite the multitude of the linguistic phenomena that can function as hedging devices, many scholars agree that the analysis of what really counts as a hedge depends on context and subjectivity, that is, on the context of use and the person doing the observation. Given the context and the researcher’s subjective assessment of the discourse in question, items in some genres may be identified as hedges although the same linguistic units in other contexts might not. In other words, hedging is determined by a variety of factors including «the type of discourse, the colloquial situation and the speaker’s/ writer’s intention, plus the background knowledge of the interlocutors» (Clemen 1997, p. 243). Accordingly, automatic counting of specific lexical items is not sufficient or even possible; a thorough contextual analysis is needed in order to identify and label hedges correctly. Hedging and ESL/EFL learners: some studies in Applied Linguistics Since the early 1980s, research in Second Language Acquisition (SLA) has extensively contributed to understanding the potential applications of hedging research in applied linguistics, focusing on interlanguage hedging as a legitimate field of enquiry. This section surveys some authoritative studies on hedging conducted in the field of Applied Linguistics2, focusing on ESL/EFL learners, especially adult and graduate learners. These studies mainly approach hedging as a (meta)pragmatic, discourse-oriented strategy to express epistemic modality in both spoken and written communication, all the more difficult to achieve for second/foreign learners as it is part 2. For a detailed description of studies and research in interlanguage hedging and pragmatics see J. Whishnoff (2000). Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE of their pragmatic competence. They all argue for the inclusion of ways and activities that help ESL/EFL learners develop a sort of metapragmatic awareness, which should aid them in the development of pragmatic competence. Some of these studies focus on the use and interpretation of hedging strategies for general purposes, others discuss their use in academic or scientific contexts. Kasper’s (1979) study on the interlanguage of German learners of English suggests that modality is present at an early stage of the learner’s speech act planning, but does not for some reasons occur in its surface realisation. This reduction, she claims, is «a consequence of low awareness of modality as a pragmatic category» (Kasper 1979, p. 274). Holmes (1982) discusses hedges as expressions of epistemic modality and identifies three different types or sources of difficulty ESL learners experience with hedging: the problem of establishing the precise degree of certainty expressed by particular linguistic forms; the range of linguistic forms available for signalling this aspect of meaning; and the interaction of different types of meanings in different contexts. The author then suggests some ways in which the appropriate use and interpretation of degrees of certainty and conviction can be fostered by means of hedging strategies. Similarly, Skelton (1988) discusses hedges as truth-judgment strategies, namely mitigations of responsibility and/or certainty to the truth-value of a proposition: as such, they are part of a large and complex phenomenon, namely the commentative potential of a language. The skilful use of hedges requires subtlety and sophistication not only in a foreign language but even in the mother tongue and is clearly part of Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI Piet Mondrian, Lighthouse in Westkapelle (1909), Haags Gemeentemuseum. a language user’s pragmatic competence, lack of which may lead in foreign language use to communicative failure. In analysing the writing of Finnish learners of English, Ventola/Mauranen (1990) observe that direct and unqualified writing is more typical of ESL students than native speakers. In addition, non-native students had less variation in the expression of modality than native speakers of English did. Hyland (1998) investigates the difficulties ESL students experience with hedging devices as markers of epistemic modality in academic writing3. Following Holmes, Hyland (1998, p. 218) points out that The main difficulty is the fact they can simultaneously convey a range of different meanings, not only signaling the writer’s confidence in the truth of referential information, but also contributing to a relationship with the reader. Students also experience difficulties because epistemic meanings can be signaled in many different ways, with a variety of devices and expressions used for this purpose. The author laments that this obstacle is «further compounded by the absence of adequate pedagogical materials», not only in the field of English for Academic Purposes (EAP) but also in the field of English for Specific Purposes (ESP). Hyland then surveys a range of EAP and ESP style guides and textbooks available on the market at the time and evaluates their adequacy in providing learners with information on hedging, focusing on lexical items. The author concludes by pointing out that most EAP textbooks reflect rather outmoded pedagogical assumptions. Nevertheless, «while the EAP writing texts seem to deal with the issue more comprehensively than the ESP materials, it appears that the interest in modality in the research literature is not widely reflected in the pedagogical materials». (Hyland 1998, p. 225) A turning point in the research on interlanguage hedging is represented by Kasper (1992): the author argues for the inclusion of Interlanguage Pragmatics (ILP) as a legitimate focus of inquiry within research on SLA. Since then, there has been a growing interest in the effects of instruction on ILP development4. In this respect, experimental studies have been conducted, supporting the idea that instruction can help the appropriate interpretation and use of hedging devices (as well as other types of pragmalinguistic strategies) and increase students’ pragmatic awareness and pragmalinguistic competence, especially for academic purposes. 3. It must, however, be pointed out that Hyland (1998) never uses the term interlanguage. 4. See Wishnoff 2000. 109 LINGUE, CULTURE E LETTERATURE Hedging in the ESL/EFL classroom tematically taught». Therefore, the authors conclude, «some kind of awareness-raising may be the only possible method of teaching in this area of language use» (Markkanen-Schröder 1997, p. 12). This section deals with some activities that can help teachers develop ESL/EFL learners’ pragmalinguistic awareness and competence through an understanding of the several forms and meanings of hedging in different contexts. The first part of the section surveys the activities that have been suggested in some of the above mentioned studies on (interlanguage) hedging in ESL/EFL in both spoken and written communication, namely Hyland (1998). Hedges are here best described as markers of epistemic modality to express degree of certainty, i.e. as markers of tentativeness. The second part delves into the forms and uses of hedges as pragmatic markers of politeness, indirectness, tactful- Markkanen-Schröder (1997) claim the difficulties ESL learners (and foreign language learners in general) experience both in spoken and written communication may partly be due to the lack of teaching in this area of language use. The authors acknowledge that teaching the appropriate use of hedges, and, accordingly, their interpretation, like other pragmatic phenomena can be very challenging and difficult for several reasons: hedging depends on context and circumstances, but also on people’s values, beliefs, culture, even repertoires and idiolects. The appropriate use of hedging may cause problems in some communicative situations even in the mother tongue; not surprisingly, it is problematic in a foreign language, because the rules of appropriateness vary across cultures. Because of the lack of teaching in this area of language use, «students are not taught to modulate their propositions, not even sensitized to the issue» (Markkanen-Schröder 1997, p. 12) and this may even lead to communicative failure: pragmatic errors, though not being «so obviously erroneous’ as faulty syntax […] make the foreign language user sound, in the case of hedging, more impolite or aggressive, more tentative or assertive that he/she intends to be». The lack of teaching in this area of language use, the authors claim, is further compounded by the fact that «the use of hedges in writing may even be discouraged, perhaps because many of the words and phrases used as hedges are seen as empty fillers» (MarkkanenSchröder 1997, p. 12). The claim is supported by an evaluation of the adequacy of some guidebooks for good Piet Mondrian, Composition with Oval writing, in which «these items may be in Color Planes II (1914), Haags commented on in passing but not sys- Gemeentemuseum. 110 ness and deference, especially used in spoken interactions. In this respect, these strategies are regarded as examples of a language behaviour indicative of Englishness (Fox 2004; Potts 2012). The ideas presented and discussed in this section are taken from the activities designed by other teachers and teacher trainers, mainly Potts (2012)5. Hedges as markers of epistemic modality to express degrees of certainty and tentativeness These activities include both comprehension and productions tasks. They were originally meant at adults, as well as students engaged in or preparing for academic study or specialist science courses in English, but they can be adapted to meet the needs of a wide range of ESL/EFL learners, «from postbeginners to advanced» (Hyland 1998, p. 224), with a particular focus on their writing skills. Before engaging in any type of activity, students should first receive very basic instruction on the principles and mechanisms of hedging, along with the most frequent lexical hedges. Hyland (1998) stresses the importance of focussing initially on lexical hedges when developing the hedging skills of ESL/EFL learners: apart from disciplinary conventions, from a pedagogical point of view lexical hedges are «the simplest devices for L2 learners to acquire, and we might reasonably expect them to occur in textbooks more frequently than other devices» (Hyland 5. John Potts is a teacher and teacher trainer as well as a CELTA (Certificate in Teaching English to Speakers of Other Languages) assessor. He is also a presenter for Cambridge ESOL Examinations. He is a regular columnist for the magazine English Teaching Professional, with a section entitled Language Log. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE 1998, p. 224). As lexical devices are the easiest type of hedges to acquire, they offer «the greatest benefit for the least learning effort» (1998, p. 237). Hyland suggests teachers should be especially careful with modal verbs, because of the wide range of meanings they express. Unlike modal verbs, lexical verbs and adverbs present students with far less semantic confusion. They are also highly frequent in casual conversation (Holmes 1988) and «thus provide high learning returns by allowing a transfer to other contexts» (Hyland 1998, p. 237). Sensitization tasks. The first step is to encourage an appreciation of hedges in context. This can be done by means of consciousness-raising tasks: students can be asked to look at how writers use hedging strategies in their texts. After being provided with a text/text fragment selected for in-class examination and being given some information on the text as a genre, students can be asked to perform the following tasks (Hyland 1998, p. 235): - identify all hedges in a text, circling the forms used, and assign a meaning to them; - distinguish statements in a text which report facts and those which are unproven; - identify all hedges in a text and state what is being hedged in each case; - locate and remove all hedges and discuss the effect on the meaning of the text; - identify hedges in a text and substitute a statement of certainty and precision; - identify hedges and rank them by the amount of certainty they express (high-mid low); - […]. These tasks require and trigger a wide variety of skills from learners. Some activities are more “passive”, such as identifying, circling, locating and removing Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI hedges, while others are more engaging and challenging, such as assigning a meaning to hedges, distinguishing facts from unproven statements, stating what is being hedged, thinking of alternatives to existing hedges, ranking hedges according to the amount of certainty they express and discussing the effects of removing hedges from a text. In addition to that, some of these activities (e.g. discussing the effect on the meaning of the text after removing all hedges, substituting hedges with a statement of certainty and precision, ranking hedges by the amount of certainty they express) can also be used to sensitise students to the fact that the same text can be adjusted and adapted to serve different communicative purposes and audiences and fit into different registers. As a matter of fact, what students are actually asked to do by means of these activities is to compare two versions of the same material. At a more advanced level, the skills acquired or developed through these activities could provide the basis of/for activities on genre-variation, i.e. variations on/of relevant genres selected for in-class examination. According to Hyland (1998), another way of analysing hedges and raising awareness of their effects on statements is the use of Data-Driven Learning (DDL) activities: they require the use of a concordancer, «which is a computer programme designed to search large amounts of computer-readable texts for particular words and combinations» (Hyland 1998, p. 233). A computer approach is an alternative to manual analysis, but its advantages in the case of hedging strategies (and other types of features as well) are manifold: it is an important means of stimulating inquiry and encouraging independent engagement with the foreign/second language. With the aid of a concor- dancer, teachers can also think of and design activities alternative to those described above and also include “limited production” tasks. For example, after selecting a specific text and familiarising students with the genre it belongs to, teacher can create a gapped text and «encourage students to predict missing forms and think of alternatives, or use contextual clues to complete gapped concordance printouts» (Hyland 1998, p. 234), etc. At more advanced stages of ESL/EFL instruction, a concordance approach can also help teachers and students manage several authentic samples of the standard genre selected for in-class examination and its variations Production tasks. Following Hyland (1998, pp. 238-239), production activities on hedges can provide the basis of reformulation activities. Some of these activities involve limited production while others involve some form of extended production as follows: - complete sentence frames, in an appropriate context, which employ common hedges such as in spite of…, if …then, although …, under these conditions …, according to our method …, the model implies …, viewed in this way …, etc; - present uncertain information or disputable beliefs in a variety of ways […]; - paraphrase a description of an experiment using hedges to refer to uncertain claims; - […]. Hedges as markers of politeness, tactfulness, deference In his September 2012 article on the intricacies and idiosyncrasies of the English language, Potts focuses on indirectnesss and includes it among the pragmatic strategies, which, like politeness, tactfulness, discretion and deference, diminish «any potential pushi- 111 LINGUE, CULTURE E LETTERATURE ness» of a request (Potts 2012, p. 40). Fox (2004, p. 400) depicts politeness, courtesy and indirectness from an anthropological point of view and includes them among the defining characteristics of Englishness, that is, «distinctive regularities in English behaviour»: key phrases like (Fox 2004, p. 408) ‘Sorry’; ‘Please’’; Thank-you/Cheers/ Ta/Thanks; […] ‘I’m afraid that…’; ‘I’m sorry but,…’; ‘Would you mind…?’; ‘Could you possibly…?’; […] Excuse me, sorry, but you couldn’t possibly pass the marmalade, could you?’; ‘Excuse me, I’m terribly sorry but you seem to be standing on my foot’; ‘With all due respect, the right honourable gentleman is being a bit economical with the truth’. are almost a matter of form. They correspond to what «sociolinguists call ‘negative politeness’, which is concerned with other people’s need not to be intruded or imposed upon […]» (Fox 2004, p. 408). Every culture has these words, but the English use them more than «other less ‘polite’ nations» (Fox 2004, p. 408): the reason is that the English «are not naturally socially skilled and need these rules to protect them from themselves». This raises the issue of the possible intercultural misunderstandings, as the English judge others by themselves, and assume that everyone shares their obsessive need for privacy (Fox 2004, p. 408). To enable non-native speakers of English readers appreciate and understand the “Englishness” of indirectness and similar strategies, Potts (2012, p. 40) provides further examples of indirect utterances he has encountered personally as a native speaker: Perhaps the most extreme expression of indirectness I have ever encountered personally was on a very crowded rushhour Northern Line tube train ap- 112 serves, is further compounded by the spread of English as the lingua franca of international communication, which «may well result in some of these more indirect uses diminishing: they could be too opaque, too open to being misunderstood or even risk being missed altogether» (Potts 2012, p. 41). As a matter of fact, from the ESL/EFL speaker’s perspective, Potts remarks, an indirect utterance like «we were hoping you might be available to join us…» is an example of a language behaviour that puzzles many non-native speakers of English, «namely the way that some English native speakers don’t always state things directly» (Potts 2012, p. 40): is the speaker actually asking or simply Piet Mondrian, Lily, telling a friend to join him/her? SupHaags Gemeentemuseum. pose students are also asked whether the utterance refers to the present or the past time: the use of the past progressive form was hoping in addition to the use of the modal might can be misproaching Leicester Square, when one commuter said to another ‘Excuse me, leading. but my foot seems to have become acciPotts points out that such phrases as I dentally trapped beneath yours’. was hoping you might…, I was hoping you…, I was wondering whether you Discussing the use and appropriate inwanted/could…, are very popular ways terpretation of indirect expressions, to make indirect questions in English, Potts claims that indirectness is as proven by the high numbers of results with/by means of Google search. partly a matter of context […], but also one of language variety, age, culture, upAll these expressions combine grambringing and personality. What is permatical hedges, like the use of past fectly clear to a certain British English forms of state of mind verbs-whether speaker may be maddeningly vague to past simple, past progressive, past peran American English speaker, while the fect, along with lexical hedges, such as directness of a bluff, down-to-earth the modal verbs could or might. This Northerner may seem abrupt to others (Potts 2012, p. 41). use of past forms to refer to present time means creating some distance in This, in turn, raises the issue of the time: speaker’s personal language choices the increase in distance-in-time of the and, accordingly, of his idiolect: using forms is reflected in an increased dissuch forms may not always be the aptance-from-immediacy of the request, propriate strategy, even among native which means more ‘space’ for me as the speakers, as these utterances may not be reader. As modern idiom puts it, the part of someone’s repertoire. writer ‘isn’t in my face’-there’s little risk The situation, Potts (2012) neatly obthat I feel imposed upon, and therefore Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE there’s a greater chance that the request will be successful and not declined. This use of the past forms in creating distance from immediacy results in politeness, indirectness, tactfulness, discretion, deference, and so on, depending on the context and the speakers (Potts 2012, p. 40). To make indirect suggestions, questions represent an alternative to the use of past forms with affirmative statements (Potts 2012): what distinguishes ‘Should we start earlier?’ from ‘Shall we start earlier?’ and ‘Let’s start earlier’ is that the first question is quite tentative, offering most of the decision-making to the respondent, while the second offers at least 50 per cent of that decision-making process. The third is quite different: it takes command, and gives a clear lead (Potts 2012, p. 41). Potts’ insights offer interesting ideas for ESL/EFL teachers and teaching. The production activities students can be asked to perform mainly involve reformulation tasks: very clear, direct utterances should be transformed into “super-tentative” and less categorical ones, ranking them by the amount of deference, tactfulness, indirectness or politeness they express. The process can also go in the opposite direction, from very indirect utterances to direct ones. A comprehension test he describes allows teachers to integrate listening skills into their teaching of hedging: to help students appreciate how the use of hedges varies across contexts, language varieties, age, cultures, upbringing and personality, he suggests teachers listen “to the test match cricket commentary on the BBC, with its mix of speakers from different backgrounds”. He also regards “tuning in regularly over the five days of the game as essential field of research” (2012, p. 41). Conclusions While there are still questions about the definition of hedging, its existence along with its effects on human language and interactions are a matter of fact on which all researchers agree. In particular, research on hedging shows how this phenomenon can influence and change people’s attitudes. The amount and type of hedging used and, accordingly, its interpretation, can depend on context, language variety, age, culture, people’s repertoires and idiolects. ESL/EFL instruction, therefore, should take account of this phenomenon as a very important part of the pragmalinguistic competence of L2 learners, even in secondary education, and, accordingly, integrate it into the classroom. Sonia Rachele Piotti Università Cattolica REFERENCES S. Brown Levinson, Universals in Language Usage: Politeness Phenomena, in E.N. Goody (ed.), Questions and Politeness: Strategies in Social Interaction, Cambridge University Press, Cambridge 1978, pp. 56-289. G. Clemen, The concept of hedging: origins, approaches and definitions, in R. Markkanen H. Schröder (eds.), Hedging and Discourse, 1997, pp. 235-248. K. Fox, Watching the English. The Hidden Rules of English Behaviour, Hodder, London 2004. J. Holmes, Expressing doubt and certainty in English, «RELC Journal» XIII.2 (1982), pp. 9-28. J. Holmes, Doubt and certainty in ESL Textbooks, «Applied Linguistics» IX.1 (1988), pp. 20-44. K. Hyland, Writing Without Conviction? Hedging in Science Research Articles, «Applied Linguistics» XVII.4 (1996), pp. 433-454. K. Hyland, Hedging in Scientific Research Articles, John Benjamins (Pragmatics & Beyond New Series 54), Amsterdam-Philadelphia 1998. G. Kasper, Communication strategies: Modality reduction, «The Interlanguage Studies Bulletin» IV.1 (1979), pp. 266-283. G. Kasper, Pragmatic transfer, in R. Bley Vroman - C. Stato (eds.), «University of Hawai’i Working Papers in ESL» XI.1 (1992), pp. 1-34. G. Lakoff, Hedges: a Study in Meaning Criteria and the Logic of Fuzzy Concepts. Papers from the eighth Regional Meeting Chicago Linguistic Society, 14-16 April 1972, pp. 183-228. R. Markkanen - H. Schröder (eds.), Hedging and Discourse. Approaches to the Analysis of a Pragmatic Phenomenon in Academic Texts (Research in Text Theory 24), Walter de Gruyter, Berlin-New York 1997. G. Myers, The pragmatics of politeness in scientific articles, «Applied Linguistics» X.1 (1989), pp. 1-35. J. Potts, Indirectness, «English Teaching Professional» LXXXII (2012), pp. 40-41. J. Skelton, The care and maintenance of hedges, «ELT Journal» XLII.1 (1988), pp. 37-43. T. Varttala, Hedging in scientifically oriented discourse. Exploring variation according to discipline and intended audience, Acta Electronica Universitatis Tamperensis 138, Tampere University Dissertation, Tampere 2001. J. Whishnoff, Hedging Your Bets: L2 Learners’ Acquisition of Pragmatic Devices in Academic Writing and Computer-mediated discourse, «Second Language Studies», XIX.1 (2000), pp. 119-148. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI 113 LINGUE, CULTURE E LETTERATURE CLIL e Italiano L2: un’esperienza per non italofoni Silvia Gilardoni IL CONTINUO INCREMENTO DI STUDENTI NON ITALOFONI ISCRITTI ALLA SCUOLA SECONDARIA DI SECONDO GRADO, UNITAMENTE ALLE NUMEROSE ESPERIENZE DI INSEGNANTI COINVOLTI IN PROGETTI DI ACCOGLIENZA E INTEGRAZIONE SCOLASTICA, EVIDENZIA LA NECESSITÀ DI INDIVIDUARE LINEE DI AZIONE NEL CAMPO DELLA DIDATTICA DELL’ITALIANO L2 CHE RISPONDANO ALLA SPECIFICITÀ DEI BISOGNI LINGUISTICO-COMUNICATIVI DEGLI STUDENTI STRANIERI NEL CONTESTO DELLA SECONDARIA SUPERIORE. IN QUESTO CONTRIBUTO SI PROPONGONO PERCORSI DIDATTICI PER L’INSEGNAMENTO E L’APPRENDIMENTO DELL’ITALIANO L2, CHE SI COLLOCANO NEL QUADRO DI QUELL’APPROCCIO METODOLOGICO NOTO COME CLIL – CONTENT AND LANGUAGE INTEGRATED LEARNING, BASATO SUL CONCETTO DI INTEGRAZIONE TRA SVILUPPO LINGUISTICO E FORMAZIONE NEI CONTENUTI DISCIPLINARI. L’integrazione tra lingua e contenuto nell’insegnamento disciplinare La didattica dell’italiano L2 in contesto scolastico prevede due direzioni di intervento: - l’alfabetizzazione nell’italiano di base, ossia l’italiano della comunicazione quotidiana, per lo sviluppo della competenza nella lingua e cultura italiana, con l’obiettivo di raggiungere quel livello di utente competente, secondo il Quadro comune europeo di riferimento per le lingue, che permette allo studente di usare la lingua per diversi scopi e in diversi contesti; - la formazione nel cosiddetto “italiano per lo studio”, che riguarda la padronanza nell’italiano delle discipline scolastiche, con l’obiettivo di facilitare lo studio e l’apprendimento delle discipline stesse. Si identificano quindi due tipi di competenze linguistiche, accogliendo una distinzione proposta da Cummins: una competenza di tipo BICS nelle “basic interpersonal communicative skills” e una competenza di tipo CALP, la “co- 114 gnitive/academic language proficiency”, che si riferisce alla capacità di comunicazione ad elevata richiesta cognitiva e in contesto ridotto, come nel caso delle competenze comunicative e delle abilità richieste nello studio delle discipline1. Pur nella consapevolezza che l’italiano della comunicazione e l’italiano dello studio non sono certo da intendersi in modo dicotomico ma rimandano a contesti di apprendimento che si integrano vicendevolmente, occorre tuttavia riconoscere che essi corrispondono a bisogni specifici e richiedono una pianificazione didattica differenziata. Riflettendo sui bisogni linguistico-comunicativi degli apprendenti, possiamo ritenere che gli studenti non italofoni nella scuola secondaria di secondo grado, in generale, con l’eccezione dei neoarrivati o di studenti da poco inseriti nel sistema scolastico, abbiano già sviluppato una certa competenza comunicativa nell’italiano di base durante il loro percorso di formazione; il loro bisogno formativo si concentra pertanto principalmente nel campo dell’italiano per lo studio, anche in considerazione del maggior grado di specializzazione delle discipline scolastiche rispetto agli altri ordini di scuola. L’uso dell’italiano L2 per studiare implica una serie di compiti ad elevato contenuto cognitivo, quali: la comprensione e l’espressione di contenuti e concetti delle discipline; la comprensione e la produzione di generi di testi specialistici propri della comunicazione scolastica; la comprensione, la memorizzazione e la definizione di termini settoriali. Nel contesto didattico dell’italiano per lo studio occorre dunque considerare sia obiettivi legati alla formazione linguistica dell’apprendente sia obiettivi di natura disciplinare, legati alla didattica delle diverse discipline scolastiche. Nel campo dell’insegnamento disciplinare in italiano ad alunni non italofoni si può quindi efficacemente adottare la prospettiva del CLIL (Content and Language Integrated Learning) che prevede, 1. Cfr. in proposito P.E. Balboni, Le sfide di Babele, UTET, Torino 2012, p. 236. Segnaliamo che la distinzione tra l’italiano di base e l’italiano per lo studio, denominati rispettivamente ItalBase e ItalStudio, si ritrova anche nei documenti ministeriali (cfr. Ministero della Pubblica Istruzione, La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri, ottobre 2007). Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE attraverso l’uso di una L2 per veicolare contenuti di discipline non linguistiche, una forte correlazione tra apprendimento della lingua e apprendimento del contenuto, «raggiungibili attraverso un unico processo di apprendimento integrato», come afferma Coonan2. Il CLIL, in ragione dei vantaggi riscontrabili a livello glottodidattico, sta conoscendo, come è noto, un’ampia diffusione nel campo della didattica delle lingue straniere, come si può osservare anche in riferimento alla realtà scolastica italiana. La definizione di CLIL offerta dallo European Framework for CLIL Teacher Education permette tuttavia un uso estensivo del concetto stesso di CLIL: «CLIL is a dual-focused educational approach in which an additional language is used for the learning and teaching of content and language with the objective of promoting both content and language mastery to predefined levels»3. Con il termine additional language gli studiosi intendono una lingua “altra” rispetto alla L1, sia essa una lingua straniera, una lingua seconda o anche la lingua d’origine dell’apprendente, proponendo in tal modo la possibilità di adottare il CLIL in diversi contesti. Si può così distinguere un CLIL finalizzato alla promozione dell’apprendimento delle lingue straniere e un CLIL volto a favorire l’integrazione linguistica e culturale degli studenti non nativi, come nel caso del CLIL applicato nel contesto dell’italiano L2 nelle classi plurilingui della scuola italiana. Dobbiamo peraltro ricordare che il CLIL in lingua straniera e il CLIL per l’italiano L2 nella classe plurilingue rappresentano due contesti didattici differenti, in cui i principali fattori di variazione possono essere individuati nel livello di immersione linguistica e nelle caratteristiche del gruppo classe: la preNuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI senza di una L1 comune tra gli studenti e conosciuta dal docente può essere opportunamente utilizzata in alternanza con la lingua straniera nella classe CLIL, diversamente dal contesto della classe plurilingue in cui gli studenti, con L1 diverse e generalmente non conosciute dagli insegnanti, si trovano in una situazione di immersione totale nella L2; la presenza di competenze linguistiche e disciplinari relativamente omogenee tra gli studenti permette una pianificazione curricolare comune nella classe CLIL, mentre l’eterogeneità dei livelli di competenza in lingua italiana tra studenti stranieri e italofoni e, come è generalmente riscontrabile, anche tra gli studenti stranieri stessi, può rendere necessari interventi didattici differenziati nella classe plurilingue. Nella consapevolezza della diversità dei contesti, vogliamo ora sottolineare come il CLIL, finora adottato nella scuola italiana nel campo delle lingue straniere, possa essere efficacemente applicato anche nell’ambito della didattica dell’italiano L2, dal momento che rappresenta una «risposta metodologica adeguata», come segnala Mazzotta, alla situazione didattica che si verifica nell’insegnamento delle discipline non linguistiche a studenti non italofoni, in cui l’italiano è una lingua/cultura oggetto di apprendimento e contemporaneamente veicolo di contenuti di apprendimento4. Dal punto di vista metodologico il CLIL si caratterizza infatti per una doppia focalizzazione sulla lingua e sul contenuto disciplinare, che emerge ai vari livelli della pianificazione didattica, dall’identificazione di bisogni e obiettivi, alla creazione del sillabo, con la segnalazione di contenuti disciplinari e contenuti linguistici, alla valutazione. Il CLIL inoltre prevede una particolare attenzione alla comprensibilità dell’in- put, perseguita attraverso il ricorso a strategie e interventi di facilitazione della comprensione nella comunicazione didattica, come la ridondanza dell’input, l’uso di riformulazioni, l’uso chiaro di marche di relazioni connettivali, il controllo della velocità dell’eloquio, l’impiego di materiali di supporto come uno schema della lezione, immagini, ecc.5. Progettare il CLIL per l’italiano L2 Entrando nel merito della progettazione didattica, in un percorso CLIL per l’italiano L2 si possono individuare i seguenti obiettivi educativi e glottodidattici: - l’apprendimento dei contenuti disciplinari curricolari e la capacità di comprenderli ed esprimerli in italiano L2; - lo sviluppo di abilità di studio (leggere per studiare, sintetizzare un testo, prendere appunti, ascoltare una lezione, ecc.) e di strategie di apprendimento; - lo sviluppo delle competenze linguistiche relativamente alle modalità espressive e alle strutture linguistiche dell’italiano nel suo uso specialistico (morfosintassi, lessico, connettori, ecc.); - lo sviluppo della competenza testuale in italiano L2 in relazione ai generi di testo dell’italiano disciplinare nel contesto della comunicazione scolastica (manuali di studio, testi di approfondimento, lezioni, verifiche, e interrogazioni, ecc.). 2. C.M. Coonan, La lingua straniera veicolare, UTET, Torino 2002, p. 75. 3. D. Marsh - M.J. Frigols Martín - P. Mehisto - D. Wolff, European framework for CLIL teacher education, Council of Europe/European Centre for Modern Languages, Strasbourg/Graz 2011 (http://www.ecml.at/tabid/277/Pu blicationID/62/Default.aspx). 4. P. Mazzotta, Il CLIL nella didattica dell’italiano agli immigrati, «Rassegna Italiana di Linguistica Applicata» I (2006), p. 74. 5. Sulla metodologia del CLIL segnaliamo, tra gli altri, D. Coyle - P. Hood - D. Marsh, CLIL. Content and Language Integrated Learning, Cambridge University Press, Cambridge 2010. 115 LINGUE, CULTURE E LETTERATURE centi di discipline linguistiche e non»7. Nel campo dell’educazione linguistica si possono individuare diversi obiettivi didattici, per sviluppare le competenze al livello del sistema linguistico o al livello dell’uso della lingua, ossia nel campo della ricezione e produzione di testi. Considerando il contesto del CLIL per l’italiano L2 nella scuola secondaria di secondo grado vogliamo ora proporre alcune attività didattiche che rinviano a due obiettivi didattici, che ci sono sembrati di particolare interesse alla luce dei bisogni formativi degli apprendenti, quali lo sviluppo della competenza testuale nelle tipologie discorsive del linguaggio disciplinare e l’acquisizione del lessico settoriale. Joan Miró, Carnevale di Arlecchino (1924-1925). Lo sviluppo della competenza testuale: il testo disciplinare e le tipologie testuali Tali obiettivi devono poi essere precisati in rapporto a due livelli di italiano per lo studio che occorre distinguere, come osserva Mezzadri, un «livello di italiano per lo studio generale», che comprende le abilità di studio e le competenze linguistico-comunicative trasversali rispetto alle varie discipline, e un «italiano per lo studio di tipo specifico», che rimanda alla specificità delle modalità espressive e comunicative proprie delle singole discipline. Un intervento didattico nella direzione dell’italiano per lo studio si rivolge primariamente agli studenti stranieri, nel caso per esempio di laboratori mirati, ma nel contesto della classe riguarda evidentemente anche gli studenti italofoni; anche per questi ultimi, del resto, una formazione nelle competenze relative all’uso della lingua italiana nell’apprendimento delle discipline può essere altrettanto efficace e rilevante, pur nella diversità dei bisogni linguistici. Dal punto di vista operativo si può quindi prevedere in primo luogo l’or- 116 ganizzazione di laboratori di CLIL per l’italiano L2 nell’ambito del livello generale della lingua per lo studio, che risulta essere propedeutico allo sviluppo dell’italiano delle singole discipline, come suggerisce ancora Mezzadri6. Occorre poi pianificare la realizzazione di percorsi CLIL nel contesto dell’insegnamento/apprendimento delle diverse discipline scolastiche. In tale prospettiva vengono ad essere coinvolti tutti gli insegnanti del curricolo, l’insegnante di italiano (L1 e/o L2) e gli insegnanti delle diverse materie, che potranno avviare una riflessione comune per la realizzazione di percorsi didattici basati su quella doppia focalizzazione su lingua e contenuto disciplinare che caratterizza la metodologia CLIL. Si riafferma così la centralità del concetto di educazione linguistica, da intendersi, come ricorda Chini, «nel senso dell’insegnamento volto allo sviluppo e al potenziamento delle abilità linguistico-comunicative, ma anche metalinguistiche, svolto trasversalmente dai do- Sviluppare la competenza testuale in un percorso CLIL per l’italiano L2 significa lavorare sul processo di interpretazione e realizzazione del progetto comunicativo di un testo, così da portare gli studenti a essere in grado di riconoscere e attivare i meccanismi che contribuiscono alla coesione e alla coerenza testuale, nonché padroneggiare le modalità di organizzazione formale e logico-semantica dei generi testuali di interesse nel contesto comunicativo dell’italiano per lo studio. Nel processo di comprensione e produzione di un testo risulta rilevante, come è noto, il concetto di tipologia testuale e la differenziazione tipologica dei testi. Riconoscendo il dibattito esistente in merito alla classificazione tipologica e, nel contempo, l’irriducibilità 6. M. Mezzadri, Studiare in italiano. Certificare l’italiano L2 per fini di studio, Mondadori Università, Milano 2011, pp. 12-13. 7. M. Chini, Educazione linguistica e bisogni degli alunni (stranieri), «Italiano LinguaDue» I (2009), p. 185. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE del testo ad una rigida tassonomia, faremo riferimento in questa sede a una classificazione ampiamente impiegata nell’ambito dell’educazione linguistica, che distingue i testi in relazione al tipo di atto linguistico dominante tra testi narrativi, descrittivi e argomentativi8. Il contatto con i testi disciplinari e lo studio delle discipline vedono lo studente impegnato nella comprensione e nella produzione di narrazioni di eventi storici, descrizioni di oggetti o di fenomeni naturali, argomentazioni di critica letteraria, filosofica, storica, ecc. Nell’ambito della storia, ad esempio, si possono riscontrare testi ad andamento prevalentemente narrativo, come per esempio quando vengono raccontate le vicende di una battaglia o di un popolo, testi che presentano un andamento dominante descrittivo, come nel caso dell’illustrazione delle caratteristiche di una società, oppure testi con una struttura argomentativa, quando vengono esposte le ragioni di determinati eventi. L’individuazione delle tipologie testuali è poi naturalmente strettamente connessa con la riflessione sull’organizzazione logico-semantica del testo e sulle diverse relazioni connettivali tra le sequenze testuali, di carattere narrativo, descrittivo o argomentativo (successione temporale, consecuzione, opposizione, dimostrazione, ecc.). Nel contesto del CLIL per l’italiano L2 ai fini di studio si può quindi prevedere la progettazione di percorsi didattici sull’italiano disciplinare, lavorando sulle diverse tipologie testuali che caratterizzano i testi disciplinari e sulle relazioni connettivali che si instaurano tra le sequenze testuali; un percorso di tal genere mira a sviluppare nell’apprendente la consapevolezza dell’organizzazione del discorso disciplinare, così da promuovere l’apprendimento dell’italiano e, contestualmente, della disciplina. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI Joan Miró, Testa di contadino catalano (1925). Al fine di offrire alcuni suggerimenti operativi, presentiamo, a titolo esemplificativo, un percorso per la formazione della competenza testuale in relazione a un genere di testo specifico della comunicazione scolastica, ossia il testo del manuale disciplinare. A partire da un lavoro di comprensione di un testo scritto tratto da un manuale ci proponiamo di sviluppare l’abilità di trasformazione e manipolazione testuale attraverso la tecnica del riassunto, che viene a rappresentare una forma di scrittura al servizio dello studio, come osserva Corno9. Il nostro percorso didattico prende avvio dunque da un’attività di lettura, che, come è noto, deve prevedere una prima fase di pre-lettura, dedicata, come osserva Grassi, a «elicitare preconoscenze, sia linguistiche che enciclopedico-contestuali», a «fornire e chiarire parolechiave e termini microlinguistici necessari alla comprensione del testo», così da «indirizzare nella giusta direzione le aspettative [...] rispetto al testo» e facilitare il processo di comprensione10. Durante l’attività di lettura, che è fina- 8. Cfr. R.-A. De Beaugrande - W. Dressler, Introduzione alla linguistica testuale [1981], Il Mulino, Bologna 1994. 9. D. Corno, Scrivere per comunicare. Teoria e pratica della scrittura in lingua italiana, Mondadori, Milano 2002, pp. 29-30. 10. R. Grassi, Compiti dell’insegnante disciplinare in classi plurilingui: la facilitazione dei testi scritti, in M.C. Luise (a cura di), Italiano Lingua Seconda: Fondamenti e metodi. Coordinate, Guerra Edizioni, Perugia 2003, vol. 1, p. 130. 117 LINGUE, CULTURE E LETTERATURE lizzata alla comprensione e all’analisi del testo, proponiamo di avviare una riflessione sulla tipologia testuale del testo disciplinare, ponendo attenzione alle relazioni connettivali tra le sequenze testuali e alla presenza di connettori che segnalano tali relazioni (congiunzioni, avverbi, locuzioni congiuntive, espressioni di vario genere). Si potrà così rilevare la presenza di andamenti narrativi, descrittivi o argomentativi, con le rispettive procedure di organizzazione delle sequenze, come la successione di avvenimenti e la causalità narrativa nel caso di narrazioni, la procedura di aspettualizzazione con l’individuazione di proprietà e parti dell’oggetto nel caso di descrizioni, la presenza di una tesi, di dati e di argomenti pro e contro nel caso di argomentazioni. In questa fase si possono impiegare le classiche tecniche didattiche utilizzate per lo sviluppo dell’abilità di comprensione, come le domande aperte, le domande a scelta multipla, le griglie, il cloze, le attività di riordino del testo, ecc. Gli esercizi proposti dovranno però avere lo scopo di guidare lo studente nello svolgimento del compito finale, ossia la scrittura del riassunto, che, come ricorda Balboni, implica diverse abilità, quali comprendere il testo, riconoscere i nuclei concettuali e ordinarli gerarchicamente, produrre il nuovo testo11. Gli esercizi saranno funzionali al riconoscimento e all’espressione dei nuclei concettuali fondamentali del testo e all’identificazione delle relazioni sequenziali. Occorre quindi prevedere esercizi differenziati in base alla tipologia testuale dominante: nel caso di testi narrativi si presenteranno esercizi come domande o attività di riordino, per il riconoscimento dell’ordine cronologico degli avvenimenti e dei nessi di causalità; per i testi descrittivi può essere efficace la realizzazione guidata di schemi 118 come i diagrammi ad albero, che permettono di evidenziare gli elementi della descrizione (l’oggetto descritto, le proprietà generali dell’oggetto, le sue parti, le proprietà delle parti); nel caso di testi argomentativi si proporranno esercizi, come domande aperte o chiuse, finalizzati all’individuazione di tesi e argomenti. Nella fase di elaborazione del riassunto lo studente dovrà produrre un testo a partire dai nuclei concettuali individuati; inizialmente lavorerà sotto la guida del’insegnante, che potrà per esempio indicare alcuni connettori da utilizzare per mettere in relazione le sequenze o suggerire modalità di trasformazione delle frasi del testo, per arrivare poi alla capacità di svolgere il compito in autonomia. I testi di sintesi prodotti possono infine essere utilizzati come canovaccio per un’esposizione orale dei contenuti, così da favorire l’apprendimento disciplinare e la capacità di produzione orale. Il lessico disciplinare L’acquisizione del lessico disciplinare permette l’accesso ai contenuti delle materie e la loro trasmissione nell’ambito della comunicazione scolastica e rappresenta dunque una parte essenziale del processo di insegnamento/apprendimento dell’italiano per lo studio. Per facilitare l’individuazione e la memorizzazione del lessico disciplinare si può realizzare un glossario che raccolga i concetti e i termini appresi durante lo studio di una disciplina. Il glossario sarà da concepire dunque come uno strumento che accompagna lo studente nel percorso di apprendimento e che diventa oggetto di attività specifiche in classe o a casa, finalizzate all’analisi del lessico settoriale che ricorre nei testi di studio. Al fine di focalizzare l’attenzione sia sul contenuto sia sulla lingua, come richiede il CLIL, il glossario potrà contenere diverse informazioni quali: il termine corredato da informazioni di carattere grammaticale; una definizione del termine, che potrà essere fornita dall’insegnante oppure reperita in un testo specialistico, in un glossario di settore o in un dizionario; un contesto d’uso del termine, che potrà essere estratto direttamente dal testo di studio o da un altro testo di approfondimento. La redazione di un glossario implica dunque un lavoro di analisi del significato e dell’uso dei termini in un determinato ambito disciplinare. Nel corso dell’analisi è possibile anche riflettere sull’univocità semantica dei termini specialistici, così come sul fenomeno della rideterminazione semantica di parole di uso comune, che si può riscontrare nei linguaggi settoriali. Una parte fondamentale del lavoro consiste poi nella ricerca delle definizioni dei termini; in tale attività occorre focalizzare l’attenzione non solo sul significato dei termini ma anche sulle modalità espressive impiegate nelle definizioni, con l’obiettivo di sviluppare la competenza lessicale e metalinguistica. In un glossario si possono anche inserire, ove possibile, gli equivalenti dei termini nella L1 dell’apprendente o anche in un’altra lingua nota, come ad esempio la lingua straniera studiata, così da favorire la formazione di una competenza lessicale bilingue attraverso un’analisi terminologica comparativa. Silvia Gilardoni Università Cattolica, sede di Milano 11. Cfr. P.E. Balboni, Tecniche didattiche per l’educazione linguistica. Italiano, lingue straniere, lingue classiche, UTET, Torino 1998. Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI LIBRI a cura di Luigi Tonoli e Lucia Degiovanni Nodi della politica e della storia A. Duce Storia della politica internazionale (1945-2013) Studium, Roma 2013, pp. 577, € 43. Mancava, nel panorama degli studi di settore, un contributo che aiutasse a definire il senso profondo di uno degli eventi più complessi del recente passato e, per molti versi, ancora oggi vivo e capace di chiamarci in causa. Il fenomeno della decolonizzazione non si lascia ingabbiare in facili etichette storiografiche, poiché nasce da una realtà di rapporti in divenire tra popoli, culture e sistemi economici e politico-miltari diversi. Tanto più preziosa risulta allora la seconda parte della ricerca di Alessandro Duce, docente di Relazioni internazionali presso l’Ateneo di Parma, quando precisa come non sia facile e possa al contrario risultare mistificatorio legare a un prima e un dopo lo sforzo dei Paesi europei – e non solo – ad occuparne altri e lo slancio di questi verso la propria autonomia dalla madrepatria. Sono movimenti sostanzialmente “indistinti” e quasi “contemporanei”, nel senso che sottomissione e liberazione si verificano in modi e tempi dissimili, alcuni insospettabilmente a noi vicini. Il verbo latino colĕre, fondare, alla base di “colonia” rischierebbe di essere assunto in modo acritico, se il lavoro di Duce non intervenisse a declinarlo con ricchezza e precisione nei diversi teatri in cui si manifesta: Medio Oriente, Palestina, Cuba, India, Indocina, America del Sud. La prospettiva conduce il lettore in due direzioni. Da una parte, ci si trova di fronte al confronto fra il sistema liberal-democratico, nel quale la libertà si intreccia con la libera iniziativa, e quello marxista dell’Urss, in cui decolonizzare significa creare l’opportunità di «collocare i nuovi paesi all’interno del mondo comunista». Dall’altra, l’autore apre un innovativo scenario sulle nuove frontiere della colonizzazione: le calotte polari e l’esplorazione dell’universo, ponendole al centro di accordi, anche unilaterali, tra gli Stati, con il realismo di chi non esclude, per il prossimo futuro, la probabilità di conflitti di vasta portata. (Domenico Rizzoli) corso difficile e tortuoso, caratterizzato dall’irrisolto nodo della creazione di un reale spirito di appartenenza comune. Ripercorrendo questo iter e affrontando una disamina delle interpretazioni e delle metodologie di ricerca storiografica, il volume fornisce un contributo per un rinnovato dibattito (aperto agli specialisti del settore, nonché al vasto campo di studiosi di scienze sociali) relativo al “caso italiano” e a quei caratteri peculiari che continuano a determinarne l’assoluta specificità nel panorama dei sistemi politici europei. R. Tottoli (a cura di) L’autunno delle primavere arabe La Scuola, Brescia 2013, pp. 90, € 8,50. P. Carusi I partiti politici dall’Unità ad oggi Studium, Roma 2013, pp. 288, € 23,50. Dall’Unità a oggi, la storia dei partiti italiani viene qui ripercorsa, nei suoi passaggi fondamentali, attraverso lo svolgimento cronologico delle diverse fasi politiche: dai problemi e dalle questioni emerse all’indomani dell’unificazione, passando attraverso la crisi del liberalismo e l’avvento dei partiti di massa, superando la soppressione della vita democratica messa in atto dal regime fascista, e arrivando, infine, alla creazione, al consolidamento e alla crisi del sistema dei partiti dell’Italia repubblicana. Un per- Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI «Quello che sta succedendo tra Nordafrica, Vicino Oriente e, in forma ridotta, in molti altri Paesi musulmani rappresenta uno degli esempi migliori di come le vicende storiche siano razionali e logiche nel momento in cui prendono forma, ma allo stesso tempo imperscrutabili e non prevedibili nelle dimensioni, nei tempi, e nelle modalità». La considerazione di R. Tottoli, a introduzione dei saggi di M. Campanini, R. Angiuoni, M. Borraccino e L. Nocera, fa rilevare la difficoltà di una presentazione chiara, precisa e sintetica di un fenomeno che si evolve con una velocità superiore a ogni tentativo di sistemazione ordinata, ma dichiara al contempo l’utilità stessa di un saggio che sappia cogliere le linee essenziali che soggiacciono a una cronaca complessa, contraddittoria e incalzante. Tre i temi principali. In primo luogo l’intreccio di relazioni che le primavere arabe intrattengono con la realtà mediterranea e con le regioni limitrofe come la fascia sub-sahariana, la Siria, il Libano, l’Iraq, la Turchia, Israele e la Palestina. Realtà tutte dai complessi equilibri etnico-religiosi e dai rapporti interni in radicale cambiamento rispetto al passato. In secondo luogo la natura delle organizzazioni partitiche che hanno guidato le rivolte e che si sono rivelate presto inadeguate alla gestione dei rapporti politici interni e che hanno sovente lasciato al solo l’esercito il compito di compiere i passi successivi alle proteste di piazza. In terzo luogo la diffusione del radicalismo islamico che grava sul Mediterraneo in stretta connessione con i flussi migratorii e che contribuisce all’instabilità radicando in molti paesi formazioni jihadiste che si richiamano più o meno direttamente ad Al Qaeda. Moti del cuore A. Prete Compassione Bollati Boringhieri, Torino 2013, pp. 190, € 16. Intensa unione possibile fra esseri umani che condividono lo stesso dolore? modo ipocrita di avvicinarsi al dolore dell’altro? sentimento inutile che rivela solo debolezza ed elude la domanda 119 LIBRI a cura di Luigi Tonoli e Lucia Degiovanni di giustizia ed eguaglianza? La compassione è un sentimento ambiguo e complesso: il volume ne traccia una possibile storia. Della compassione la scrittura e l’arte ci restituiscono, scrive l’autore, «insorgenze e vibrazioni, segnali e compimenti, sospensioni e deviazioni, eccessi e attenuazioni». I filosofi tendono invece, da sempre, a guardarla con sospetto: in ogni caso rimane «la principale esperienza del riconoscimento del legame che trascorre tra tutti gli esseri». Il libro non è una ricostruzione storica in senso proprio, ma un percorso che, soprattutto attraverso letteratura e filosofia, descrive i modi in cui questo sentimento è stato vissuto, interpretato, giudicato. Percorso più tematico che cronologico, con largo spazio a Dante, ma anche ai Persiani di Eschilo e all’Antigone di Sofocle, figura emblematica del coraggio fedele alla pietà. In rilievo anche la disumanizzazione delle guerre mondiali: «La compassione, assolutamente ignota agli aguzzini, è uno dei primi sentimenti che si estingue anche fra gli internati». E Guernica, il capolavoro di Picasso, è un urlo che potrebbe avere «la funzione del Cristo nelle Pietà della storia dell’arte». I miti antichi rappresentano la compassione in personaggi drammatici e positivi: Filottete, Prometeo, Demetra. Anche don Chisciotte, eroe della compassione nel proteggere i deboli in una società ostile. L’ospitalità è figura mediterranea della compassione e dell’accettazione dell’altro, come nell’Odissea. E mentre Baudelaire modula «una forma particolare di compassione, quella che ha per oggetto se stesso», cioè la propria dolorosa condizione umana, in Manzoni la compassione che l’Innominato prova per Lucia si trasforma in conversione, «passaggio verso un altro modo 120 di essere uomo» e «verso un’altra morale». Ancora, la compassione nelle civiltà orientali e quella del Dio cristiano verso l’uomo. Ma anche la compassione verso l’animale, in poeti e pensatori. I filosofi non sono soliti considerare la compassione fra le virtù necessarie: la filosofia occidentale, infatti, ha privilegiato la diffidenza e il sospetto nei confronti di un sentimento «ritenuto per sua natura ipocrita, autoassolutorio, incapace di rispettare l’autonomia, la libertà e il pudore di colui che è stato colpito dal dolore». In risposta alla domanda conclusiva, «come farsi prossimi al dolore dell’altro?», si pone «la grande scena in cui la compassione prende forma: la comunità dei viventi, uomini e animali. Con la singolarità dei loro corpi, e desideri, e ferite». P. De Benedetti - M. Giuliani Farsi perdonare. Il valore della teshuvà Morcelliana, Brescia 2013, pp. 78, € 10. Chiedere scusa è un’esperienza talmente quotidiana da aver perso il nesso profondo con il perdono, che invece mantiene l’aura di un concetto religioso, attinente alla sfera del sacro e al senso del peccato. Da una fenomenologia di tale esperienza, emerge nelle pagine del volume di De Benedetti e Giuliani la stretta correlazione tra la colpa e il male, la giustizia e il perdono, come si declinano nel pensiero ebraico: alla riconciliazione, che prende il nome di sha- lom, fanno da contrappunto i temi della teshuvà, espiazione e perdono, e del tiqqun, la restaurazione dell’ordine infranto del mondo. Un’analisi cui corrisponde, nella Bibbia, il lessico della misericordia che, per Paolo De Benedetti, si declina in tre momenti emblematici: la meditazione-confessione della presenza di Dio nella storia; l’uscita, individuale e collettiva, dal peccato; la promessa messianica. G. Antonioli L’ospite più strano. Conversazioni sul dolore Morcelliana, Brescia 2012, pp. 224, € 11. «Per illuminare le gallerie devi avere le lampade, ma per far luce nel cuore devi bruciarti», così dicevano i vecchi minatori; con l’arcano dei detti antichi e popolari si apre questa conversazione sul Dolore che, della premessa iniziale, mantiene la nettezza dei contorni e l’attitudine conversevole. Trentacinque capitoli scandiscono le fasi di una riflessione pacata, che ha i toni talvolta dell’apologo, talvolta della meditazione filosofica, nutrita però sempre dall’esperienza di vita. Si seguono le vie del Dolore, Dove soggiorna, Come entra sono i titoli dei capitoli iniziali, rapidi nel delineare i vari itinerari che esso può percorrere, ma efficaci nell’individuare «l’aspirazione al più», come sentiero più battuto. L’essere umano esposto alla sofferenza appare fragile, totalmente sopraffatto dalla propria condizione, in- capace di suscitare empatia o di provarla lui stesso. Eppure è possibile fare l’esperienza di incontrare Chi sa ospitare il dolore ed è san Francesco, il paradigma di colui che, accogliendo il dolore nella propria radicalità, lo sa mutare e rendere foriero di valori. Giovanni Antonioli, sorridente, bonario, ma non ingenuo, guarda la vita senza alcun ottimismo consolatorio: la fragilità, la miseria umana, sono continuamente presenti; paiono vicini Lucrezio, Leopardi, ma poi la luce della croce indica con chiarezza la via ed essa non è altro che accogliere la croce stessa pienamente, con un’autenticità che disarmi e che unisca, rivelare appieno le proprie fragilità per ritrovare vincoli con gli altri uomini e con Dio, vero balsamo che può lenire le sofferenze della vita. Il Dolore è antidoto del potere, che illude circa la propria invulnerabilità. Il Dolore accompagna l’uomo, dalla notte dei tempi, nelle infinite varianti e lo rende ungarettianamente «presente alla sua fragilità». L’uomo contemporaneo, che erige continue barriere alla ricerca di una vita che esorcizzi la prova e la sofferenza, finisce per affrontare le vie oscure della malattia e della morte, ma spesso non è sorretto da un contesto ideologico-culturale che gli consenta un percorso spirituale efficace. Il testo è una conversazione lucida e serena, una lettura serale, una guida che senecanamente accompagna, ma non risolve, si apre al mistero della Fede senza eluderne la complessità. È l’invito ad uscire da sé, lasciare la terra nota per la terra promessa. Si sente Antonioli parroco e l’uomo di cultura, amico di Breton, il fine letterato e l’uomo che ha lui stesso accolto pienamente la sofferenza e la malattia e, grazie ad esse, «si è rifatto un cuore...» (Elisabetta Lazzari) Nuova Secondaria - n. 5 2014 - Anno XXXI