Il rischio educativo
Franco Nembrini
Varese, 26 maggio 2015
Franco Nembrini: grazie per avermi chiamato. E' la prima volta che mi viene chiesto
esplicitamente di parlare di don Giussani e sono un po' agitato. Voglio dire subito che non sono un
teorico dell'educazione in senso stretto e non scrivo libri sulle teorie dell'educazione.
Comincio con il leggere la dedica che ho fatto al mio libro "Di padre in figlio"; forse è la prima
volta che leggo interamente le 3 dediche che ho fatto a questo libro perchè il tema, diverso dal
solito, mi costringe a farlo, entrando così direttamente nel tema.
La prima ovviamente è "Ai miei genitori":
"Ai miei genitori, Dario e Clementina che mi hanno dato la vita (se mi fossi fermato qui, avrei detto
una cosa giusta ma anche sbagliata, perchè gli uomini non danno la vita soltanto, quello lo fanno
anche le galline; gli uomini, lo vogliano o no, lo sappiano o no, ne siano consapevoli o no, lo
accettino o no, sempre, insieme alla vita, comunicano un certo sentimento della vita, per cui ho
aggiunto) e con essa il sentimento della sua grandezza e positività".
La seconda dedica è a Clementina Mazzoleni; a volte è incredibile il disegno della Provvidenza per
cui questa, che fu la mia professoressa di italiano alle Medie al suo primissimo incarico non ancora
laureata (una ragazza stupenda, andata in pensione due anni fa e a cui abbiamo fatto una festa con
tutta la 1^C), si chiamava come mia madre.
"A Clementina Mazzoleni, mia professoressa di italiano, cui devo la passione per la Letteratura e
per l'insegnamento".
E poi c'è la terza:
"A don Luigi Giussani che a quel sentimento, ricevuto in casa, e a quella passione, ricevuta a
scuola, ha dato la stabilità e la certezza della fede".
In queste tre dediche c'è tutta la mia storia di uomo, di padre, di insegnante, di educatore perchè
indicano veramente le figure che hanno segnato i punti decisivi della mia esistenza: la nascita, una
infanzia felicissima al seguito dei miei genitori "santi" nel senso non canonico del termine
evidentemente ma sostanziale; questa professoressa che alla sua festa di pensionamento si ricordava
bene che l'avevo salutata alla fine dell'esame di terza media dicendole "Le giuro che diventerò un
insegnante di Italiano", per la passione che mi aveva attaccato; e poi l'incontro con don Giussani
avvenuto quando avevo 17 anni.
Questo incontro con don Giussani mi ha veramente cambiato la vita. Io ero in un momento difficile,
il momento difficile che ha vissuto tutta la mia generazione. Sono del 1955, compio 60 anni (ho 40
anni, ma ne compio 60, c'è qualcosa che non funziona!), quindi nel '69 - '70 (gli anni del devasto,
del colpo di stato, della rivoluzione che, da un certo punto di vista, hanno spazzato via 2000 anni di
cristianesimo) tutta la mia generazione è andata fortemente in crisi; è andata in crisi proprio
quell'educazione che avevo ricevuto dai miei, così solida e così sicura. Così dai 15 ai 17 anni ho
passato un momento molto faticoso. Si sommava, alla normale e naturale crisi dell'adolescenza, a
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una crisi storica, epocale che vedeva crollare tutto quello in cui la generazione precedente aveva
sempre creduto; era saltata la cinghia di trasmissione tra due generazioni.
In questa crisi trovavo conforto solo nella lettura di Leopardi, per cui andavo in giro di notte a
parlare alla luna e i miei amici mi prendevano in giro impietosamente; ma io avevo il problema di
un senso da dare alle cose, perchè tutto crollava, cioè non si sosteneva più ciò che fino a quel
momento mi aveva tenuto su, per es. il rapporto con mio padre e mia madre. Mi ricordo benissimo
quando quella sera, tornando a casa, aprii la porta. In fondo al corridoio c'era la cucina e c'era mia
mamma che lavava i piatti; la scorsi e mi folgorò il pensiero che tra me e lei non ci fosse più niente
da dire, che più niente ci accomunava, l'avevo persa, la stavo perdendo. Il nulla, di cui oggi siamo
impastati e non ce ne rendiamo nemmeno conto, quel nulla mi portava via mia madre, mio padre e i
miei fratelli e la passione per la scuola e la voglia di diventare grande; mi portava via tutto. Questo
fu il sentimento che provai. Perciò veramente mi sosteneva solo Leopardi, con quelle grandi
domande in cui mi identificavo.
Tra i 15 e i 17 anni dunque, come tutta quella generazione che fu grande all'inizio perchè ebbe il
coraggio almeno di porsi delle domande ma che poi non ha saputo darsi delle risposte (per cui
siamo diventati anche una generazione di poveri falliti, cinici, senza ideali e questo è diventato uno
dei problemi educativi più grossi che abbiamo), ho vissuto una grande crisi finchè non è avvenuto
un episodio. Io sono il 4^ di 10 figli, il primo del '52, la seconda del '53, la terza del '54, io del
'55...una cosa scientifica, da manuale; ma il quinto è del '57, c'è stato un salto e questo quinto, il
prete, ne risente ancora adesso.
La mia prima sorella, più grande due anni di me e in crisi quanto me, una sera a Messa (dove non
faceva altro che piangere), viene accostata da un ragazzino più o meno della sua età che faceva
l'Università a Milano e veniva in vacanza dai nonni al nostro paese, a Trescore Balneario. Questo
ragazzo vede varie volte la ragazzina in chiesa che piange finchè prende il coraggio a due mani e le
chiede "Chi sei, cosa c'è? Ti vedo sempre piangere..." E mia sorella gli confida tutto il suo
malessere, fino ai pensieri di suicidio e lui le dice: "No, dai, non fare così" e la invita a Milano agli
incontri con un prete che pare la sappia lunga su queste cose. Mia sorella comincia ad andare a
Milano a questi "misteriosi" incontri. Per farla breve, matura in pochissimo tempo la decisione di
farsi monaca di clausura, al seguito di don Giussani, delle cose che imparava da lui; lui per lei ha
avuto una predilezione speciale che poi è diventata predilezione per tutta la famiglia. Lei in casa
non aveva ancora detto niente di questa sua vocazione e don Giussani decide di venire a conoscere
la famiglia per presentarsi e per dire che non si tratta di pazzia, ma di una decisione seria. Così don
Giussani viene a casa nostra nel '70 - '71 e succede una cosa per me sconvolgente, la cosa che mi ha
convertito. Il mio 1^ fratello, entrato in Seminario in 5^ elementare, sull'onda del '68 che aveva
svuotato i Seminari, era passato in pochissimo tempo da seminarista a cristiano per il socialismo,
come si diceva allora (i libri erano "Il nuovo catechismo olandese", Girardi "Marxismo e
cristianesimo"...), per poi passare in altrettanto brevissimo tempo a posizioni di ateismo e di odio
alla Chiesa. Mia mamma, contadina cattolica da "Albero degli zoccoli", che aveva nel figlio
maggiore prete il coronamento della sua vita di donna e di madre, ha sofferto tantissimo per quello
che ha vissuto per tanti anni come un incomprensibile tradimento. Quando arriva don Giussani (i
santi tra loro si riconoscono al volo), mia madre gli chiede di confessarsi, si chiudono in una stanza
e tornano dopo mezz'ora. Mia madre era sfatta, aveva evidentemente pianto tutte le sue lacrime,
vuotato il sacco ma, nello stesso tempo era sorridente, contenta. Mio fratello quel giorno lì non
c'era. Don Giussani se ne torna a casa e una settimana dopo arriva un pacco, un pacco di libri "per
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Angelo Nembrini", firmato don Giussani. Io, che in quel momento sono in crisi, ce l'ho anch'io con
i preti e con la Chiesa, che non andavo più a Messa senza farlo capire troppo ai miei per non
addolorarli, dico tra me "Il solito prete che adesso, siccome la mamma gli ha detto tutta la storia,
cerca di convertire mio fratello e quindi nel pacco di libri cosa ci sarà? La storia della Chiesa, il
Vangelo, le vite dei Santi e tutte quelle cose lì". Lo davo proprio per certissimo! Arriva alla sera mio
fratello, apre il pacco e il primo libro che compare è di Giovanni Senzani che due mesi dopo fu
arrestato per un omicidio e comparve su tutti i giornali come assassino delle Brigate Rosse e poi un
libro di Marx. La cosa che mi folgorò fu questa: don Giussani, in anni in cui i suoi ragazzi venivano
pestati a sangue fuori dalle Università e dalle scuole dai rossi, regalava a mio fratello, comunista
professo, i libri che gli potevano interessare, libri che lui probabilmente avrebbe bruciato eppure
glieli ha regalati.
Io lo ricordo adesso, a più di 40 anni di distanza, come il giorno della mia conversione, perchè feci
questo pensiero: "Quest'uomo ha a che fare con Dio". Mi ricordavo bene cosa fosse il
cristianesimo, mi ricordavo che all'asilo le suore mi aveva spiegato che "in questo sta l'amore e Dio
ci ha amati per primo mentre eravamo ancora peccatori", cioè che per fortuna non ci ha chiesto di
cambiare prima di dare la pelle per noi, ma l'ha fatto prima. E don Giussani faceva la stessa cosa:
non chiedeva a mio fratello di cambiare, non gli diceva "sei dalla parte sbagliata, convinciti che
stai dicendo un sacco di cretinate, convinciti che sei fuori", no! Lo andava a trovare a casa sua, era
contento che mio fratello esistesse, si compiaceva del fatto che lui ci fosse. Il primo motto che gli
rivolgeva era questa stima, era questo infinito perdono, era una misericordia. Siccome avevo
imparato che Dio è così, mi venne il dubbio che quell'uomo avesse a che fare con Dio e che forse
valesse la pena guardarci dentro.
Così quell'anno partecipai per la prima volta (26, 27, 28 e 29 settembre del 1972) ad un raduno di
studenti di Gioventù Studentesca di don Giussani a Pesaro. Non capii assolutamente niente di tutto
quello che era stato detto, ma capii tutto quello che era importante capire: che lì c'era qualcosa che
valeva la pena approfondire e capire. Ricordo che al mio primo intervento al raggio della
piccolissima comunità di Trescore (eravamo 8 o 10 e la capa era mia sorella che era poco più
grande di me e che fino a un momento prima non potevo sopportare per i toni che aveva) dissi: "Mi
avete fatto venire il sospetto che Dio esista, adesso però fatemelo vedere". Fine dell'intervento. E'
tutta la vita che faccio questo lavoro: andare a vedere se quel presentimento di bene, di bellezza, di
grandezza della vita sia vero o no.
Il cristianesimo, così come l'ho imparato da don Giussani, è questo: una continua verifica di un
presentimento di bene cui non sai nemmeno dare il nome; delle parole non hai capito niente, ma non
vuoi più venir via da quel posto lì. Poi ho imparato tante cose, mi ha spiegato lui negli anni quel che
mi era accaduto. Lui usava un'espressione meravigliosa quando parlava di Giovanni e Andrea.
Diceva che, quando Lo videro per la prima volta al Battesimo sul Giordano, erano lì a "guardarLo
parlare", cioè non capivano niente delle parole, ma vedevano qualcosa di assolutamente interessante
e decisivo. Ecco io ho capito dopo che avevo passato quei giorni a Pesaro "guardandoli parlare":
una lezione di don Luigi Negri, una di don Francesco Ricci e l'ultima di don Giussani; ve le potrei
ripetere adesso a memoria perchè mi si sono incise dentro. Li guardavo parlare e guardavo quei
seimila ragazzi: per me fu l'inizio.
Se mi aveste chiesto un po' di tempo fa in che cosa consiste la proposta educativa di don Giussani,
avrei detto certe cose, ma poi sono diventato papà anch'io (ho 4 figli maschi) e poi c'è stato
l'insegnamento, sempre nello Stato (contemporaneamente ho messo in piedi nel 1983 con alcuni
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amici la scuola "La traccia", ma l'ho aiutata a camminare da esterno perchè il mio lavoro, ci tengo a
ribadirlo, è sempre stato nello Stato; solo 5 anni fa, per ragioni di salute, ho dovuto lasciare e mi
sono autoassunto a La traccia, prima come insegnante, poi come Rettore e adesso ho deciso di
lasciare anche questo per altri incarichi). Se mi chiedeste ora in sintesi cosa è il carisma educativo di
don Giussani, sarei un po' imbarazzato, perchè mi rendo conto che comincio adesso a capire
qualcosa de "Il rischio educativo". Mi sembra di intuire, a distanza di così tanti anni e dopo tanti
tentativi e dopo tanto percorso, qualcosa di quello che lui voleva dire quando ha scritto in quel libro
meraviglioso cosa fosse per lui l'educazione.
Penso ad alta voce. All'alba dei 60 anni mi chiedo: "Ma perchè Giussani, che era già santo, che a
11 anni recitava a memoria Leopardi come ringraziamento per la Comunione e che si esaltava
sulle scale del seminario al pensiero che "Il Verbo si è fatto carne", perchè non ha detto che
l'educazione è far diventare i figli cristiani? " "Il termine, lo scopo dell'educazione è dare la fede ai
propri figli" sembrerebbe una definizione più convincente, più finita, più compiuta, più cristiana.
Ma non ha detto così, ha detto un'altra cosa, presa a prestito da un filosofo; ha detto che
l'educazione è "introduzione alla realtà". Vi giuro che mi sembra solo ora di cominciare ad intuire
che cosa voglia dire.
Lui scrive il libro "Il rischio educativo" e qui dettaglia, in pochissime pagine, 4 parole che, secondo
lui, sono le 4 tappe, i 4 momenti di un corretto itinerario educativo.
Prima introduce la definizione "L'educazione è introduzione alla realtà" e poi pian pianino sviluppa
queste 4 parole e si comincia a capire che cosa vuol dire.
Dice che, perchè l'educazione avvenga in modo corretto, ci vuole prima di tutto la proposta di
un'ipotesi esplicativa della realtà, cioè ci vuole una tradizione, bisogna che l'educatore abbia
un'idea, abbia una sua esperienza del senso della vita perchè l'educando che lo guarda gli chiede
questo. Il mio slogan è "I nostri figli ci guardano sempre". Il mio libro è il racconto di tanti fatti,
episodi e aneddoti dove mi sembrava si illuminassero le parole de "ll rischio educativo".
Tradizione, cioè un'ipotesi, un'ipotesi di senso. Senza un'ipotesi di senso, il bambino cresce malato.
Quante conferme di questo oggi dalla neuropsichiatria, persino nelle sue osservazioni più
fenomenologiche, psicologiche, storiche! Un bambino non può venir su sano se non ha un'ipotesi di
certezza sulla vita. Questa è la richiesta con cui mi fulminò il mo primo figlio "Papà assicurami che
valeva la pena venire al mondo". Sono nato come educatore il giorno in cui sono stato guardato in
silenzio dal mio primo figlio che aveva 5 o 6 anni; ho incrociato il suo sguardo quel pomeriggio di
una domenica, non mi ha detto niente, non mi ha chiesto niente, mi ha sorriso e basta, ma io lì ho
capito, ho capito di colpo. Sono nato come educatore quel giorno, perchè lì ho capito che mio figlio
stava guardando suo padre, senza chiedergli niente di particolare, ma chiedendogli tutto: "Papà
assicurami che valeva la pena venire al mondo, testimoniami una ragione buona per vivere, tu ce
l'hai! Se ce l'hai, ti vengo dietro, se non ce l'hai io sono morto". Questa è l'ipotesi esplicativa della
realtà, quella che don Giussani sintetizza con la parola tradizione; e lui dice che questa tradizione è
condizione di certezza, cioè di sanità anche mentale.
La seconda parola è la parola autorità, nel suo senso nobile, secondo l'etimologia, colui che fa
crescere. L'autorità è condizione di una coerenza nel tempo. Il bambino ha bisogno di un posto che
incarni quell'ipotesi, una famiglia e poi una scuola che coerentemente lo aiutino e lo sostengano
nello stare davanti a quell'ipotesi. Altrimenti non ha tenuta nel tempo.
Terza parola, e siamo all'adolescenza, la verifica personale. C'è un momento in cui il figlio ti dice
"Basta, non posso più fare come prima, cioè crederti sulla parola, devo andare a vedere se tutto
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quello che mi hai insegnato è vero". Questa è la condizione per una vera convinzione. Perchè una
persona sia convinta, deve verificare le cose che le sono state proposte, verificarle personalmente.
E infine l'ultima grande parola resta evidentemente la parola libertà. Tutto il percorso, tutta la
proposta educativa è affidata alla libertà; nulla ci è garantito; in educazione non ci sono risultati
sicuri, non c'è niente di meccanico, non c'è niente di dovuto, è veramente un rischio; ti consegni alla
libertà dell'altro che può dirti di sì o può dirti di no, come ha fatto Dio. Libertà è l'ultima grande
parola ed è la parola che dà il titolo al libro "Il rischio educativo", cioè il rischio, condizione della
libertà.
La tradizione è condizione della certezza, l'autorità è condizione della coerenza, la verifica è
condizione della convinzione, il rischio è condizione della libertà.
In questo impianto, ma con osservazioni clamorosamente moderne e straordinarie, sta racchiuso
l'aspetto, diciamo così teorico, di insegnamento del percorso educativo che propone don Giussani.
Ma voglio fare un passo in più, andare fino in fondo alla domanda, alla provocazione che vi ho
lanciato: perchè questa scansione, queste parole? Perchè non c'è la parola Dio? Perchè l'educazione
è introduzione alla realtà?
Il problema mi sembra questo: don Giussani aveva la fede, cioè aveva già fatto il percorso ed è
come se tornasse indietro e ci dicesse, come Virgilio: "Ragazzi ce la possiamo fare, tranquilli! Sono
tornato a prendervi dopo che ho fatto io il percorso in cui ho scoperto come vanno le cose".
Non riesco a immaginare che un uomo, un prete, un cristiano come lui possa dire che l'educazione è
introduzione alla realtà, se non per una fiducia sconfinata nella realtà stessa, che gli veniva appunto
dalla fede, dall'esperienza che aveva già fatto lui.
Qual è la virtù educativa di don Giussani? Essendo l'educazione alla fine il problema della vita, la
parola educazione qui evidentemente coincide con la vita stessa.
Ma qual è il segreto della vita del prete, dell'uomo, dell'educatore, dell'insegnante don Giussani?
Questa sconfinata fiducia nel fatto che Dio continua a fare quello che ha sempre fatto. Cosa ha fatto
Dio all'inizio, quando ha messo in moto tutto? Prima ha fatto il mondo, la realtà, secondo quella
scansione che poi la scienza ha ampiamente dimostrato, poi ha guardato il mondo e ha detto: "Bello,
bellissimo! Guarda che meraviglia! Però manca qualcosa!" Ha guardato una capra, la capra
brucava l'erbetta e poi ha alzato la testa, ha guardato il cielo e poi è andata avanti a mangiare
l'erbetta. Allora Dio ha capito: "Qui manca qualcuno che, se alza la testa e guarda il cielo, dica: ma
come è bello il mondo e come è grande Dio, come è grande Chi l'ha fatto" (espressone che usava la
mamma di don Giussani quando andavano insieme in Chiesa il mattino presto). Dio ha capito che ci
voleva qualcuno che si stupisse, che si meravigliasse; qualcuno che, quando finalmente decideva di
tirar su la testa dal proprio ombelico e guardava il cielo stellato, fosse capace di dire: "Che
meraviglia! Ma chi deve aver fatto questa cosa? Chi mi ha voluto qui? Da dove vengo? Cos'è
questa grandezza infinita?" "Che fa l'aria infinita e quel profondo infinito seren, che vuol dire
questa solitudine immensa, ed io che sono? Così meco ragiono". Perciò don Giussani a 12 o 13 anni
poteva essersi innamorato di Leopardi.
Se è così, tutto il moto educativo di don Giussani, alla fine è riducibile a questo: un'esperienza che
gli veniva da 2000 anni di cristianesimo, da una catena di testimoni arrivata a sua mamma, che poi
l'ha detto a lui, una catena di testimoni che gli ha fatto verificare nei termini e nei modi propri di
quell'epoca, in quel contesto, a Desio, nella pianura padana etc..., gli ha fatto verificare la fede, cioè
che le cose stavano proprio così, che Dio continuava a fare oggi quello che ha fatto sempre: ha
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creato la realtà e ha creato il cuore dell'uomo capace di desiderio, capace di movimento, capace di
subire l'attrattiva del bene, del vero, del bello.
Mi pare che la cosa più rivoluzionaria che mi ha insegnato don Giussani sia questa: che il primo
problema dell'uomo non è il problema di Dio. Questo è il problema secondo, non secondario, ma
secondo. Esistenzialmente l'uomo viene al mondo e, appena apre gli occhi, non ha davanti Dio o il
problema di Dio, ha davanti la realtà, la realtà di cui subisce un'attrattiva invincibile: prima il seno
della mamma e pensiamo che il sommo bene sia il latte della mamma, poi via via tutto il resto... E
tutto sembra tradire la promessa di bene con cui ci attira, ma questo serve ad allargare
continuamente il desiderio finchè, usando la testa, l'uomo capisce di essere fatto per il Sommo bene,
cioè per l'infinito e l'eterno, come diceva il laicissimo Leopardi.
Don Giussani a me ha insegnato questo: che il primo movimento, il primo problema dell'uomo è
l'attrattiva che subisce; e l'attrattiva è quello che gli fa dire appena arriva al mondo, come in un
famoso brano de "Il senso religioso", "se sbucassi adesso trentenne dal ventre di mia madre, quale
è la cosa che registrerei immediatamente? Il dato dell'essere, che le cose sono e mi precedono, cioè
che io dipendo". Questo sentimento dell'essere e della positività dell'essere (don Giussani è morto
dicendo "la realtà non mi ha mai tradito"), il sentimento positivo dell'essere e dell'essere creatura,
dell'essere appartenenza, è il primo sentimento dell'uomo.
Nella dinamica conoscitiva che scatta, che è anche una dinamica affettiva evidentemente - perchè
non si conosce se non ciò che si ama e non si ama se non ciò che in qualche modo si conosce piano piane nasce la grande domanda sul perchè, sul chi e sul come; cioè nasce il problema di Dio,
non come problema, ma come esigenza posta dalla ragione di conoscere Colui che ha fatto tutte le
cose, Colui che mi dà la vita ora.
Tutto questo mi sembra di averlo capito per la prima volta in questi ultimissimi tempi e, se è vero,
Dio fa adesso quello che ha sempre fatto. Se stanotte nasce un bambino, in qualunque parte del
mondo sia, quel bambino, figlio d'uomo, nasce esattamente con un cuore infallibile perchè glielo dà
Dio; si chiama anima, o ragione, o senso religioso, come volete. Questo è ciò che fa il bambino
diverso dalla gallina.
Una fiducia incrollabile nell'infallibilità del cuore fatto da Dio e nella bontà della realtà fatta da Dio.
Se è così, si comincia a capire; se l'educazione è possibile, deve essere questo, non il problema di
farti diventare cristiano, di metterti qualche etichetta, di farti andare in Chiesa, di farti andare
all'Oratorio, no! Il problema è che tu diventi grande, grande, cioè che tu ti prenda in mano, che tu
abbia un momento di tenerezza vera per te stesso, che tu cominci a funzionare per quello che sei,
ragione, cuore, istinto, tutto.
Che tu abbia una possibilità di grandezza, che tu abbia la possibilità di vivere all'altezza del tuo
desiderio, cioè della tua natura, questo inevitabilmente ti farà incontrare Dio. Poi saranno affari tuoi
dirgli di sì o di no, perchè potrai anche dirgli di no, come il Capaneo dantesco!
"Quando sono entrato in classe al Berchet la prima volta, ho detto ai ragazzi: non sono venuto a
convincervi delle mie idee, sono venuto a darvi gli strumenti per andare a vedere voi se le mie idee
sono giuste". Capite che c'è un abisso tra una educazione ideologica e perciò tendenzialmente
violenta, anche cattolica, e l'educazione così intesa a cui preme solo la tua libertà, che tu metta in
moto ragione, cuore, sentimento, la tua storia, le tue circostanze e faccia tutto il percorso per cui tu
possa dire "che meraviglia" davanti al cielo stellato, tu possa sentire venir su la domanda "ma chi
ha fatto queste cose?", tu senta la tragedia della tua donna che muore (Beatrice) e perciò ti
incammini verso la possibilità inaudita di riposta, se mai è vera.
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Con molto realismo, usando la testa, dici che non è possibile che tu sia fatto per l'infinito, per
l'eterno, non è possibile che, innamorato, tu voglia dire a quella donna "tu non morirai" e invece
muore. Cosa c'è che non va? Bisognerebbe che chi ha fatto tutto l'universo non ci prendesse in giro,
non ci avesse condannati all'infelicità, bisognerebbe che, se esiste quello che ha combinato tutto
questo pandemonio, fosse quella verità sognata e fosse compagna di viaggio, fosse con me, fosse
qui, fosse abbracciabile, bisognerebbe che ci fosse veramente Beatrice, cioè una donna che fosse
capace di portarmi la felicità. "Te viatrice (assonanza meravigliosa) in questo arido suolo io mi
pensai - dice Leopardi -. Ma non è cosa in terra che ti somigli. E s'anco pari alcuna ti fosse all'atto,
alla voce, alla favella, sarìa così conforme, assai men bella. Viva mirarti omai nulla speme,
m'avanza". Questo è il desiderio dell'uomo: arrivare fin lì e poi sentire vibrare perchè si sente la
grande notizia, che comunque ci raggiunge, piaccia o non piaccia, atei o cristiani. E' una notizia:
"Pare - dicono i giornali dell'epoca- che uno 2.000 anni fa ce l'abbia fatta". Questa è la sfida che,
quando guardavi negli occhi don Giussani, portavi a casa e non potevi più stare tranquillo, quando
ci augurò a Rimini quell'anno "Vi auguro di non stare mai tranquilli" e voleva dire: "Ditemi se c'è
una cosa più seria, un problema più urgente, più concreto, più grave di questo: sapere se è vero o
no che uno è resuscitato dai morti". Perchè, se ce l'ha fatta lui, vivaddio, c'è posto anche per me, se
quello lì è falso, è tutto falso, la vita stessa è una menzogna infinita e un tradimento infinito. Don
Giussani, che viene dall'esperienza di una fede ricevuta e accolta per grazia e santità sua e per meriti
di padre e madre, a 15 anni era già così, a 20 anni era già così. E quando vede dei ragazzi sul treno
che discutono su cose di cui non capiscono niente, si impietosisce. Li vede come dei paralitici che
cercano di correre i 100 metri, come fa a non avere pietà! Aveva una brillante carriera di teologo
davanti, ma decide di andare alle scuole superiori perchè vuole occuparsi di questi ragazzi "bisogna
dire loro come stanno le cose, li stanno riempiendo di menzogne clamorose" e chiede di insegnare
religione al Liceo Berchet.
Quella passione educativa lì ha fatto nascere scuole come la vostra e come la mia.
In questo senso, non mi piace quando le chiamano scuole "cattoliche"; io vorrei spiegare che sono
scuole "laiche", perchè Giussani è l'uomo più laico che io abbia mai conosciuto, così laico da non
aver bisogno di dire che andava a scuola per far diventare cristiana la gente; saranno affari loro se
vogliono diventare cristiani! La missione mia di educatore, cioè la cosa più laica che c'è, è
insegnare a dei ragazzi a usare la testa, a usare la ragione, a usare il cuore, a usare tutto per fare tutto
il percorso lungo e faticoso che devono fare per riconoscere se stessi, per vivere bene, per andare
dentro le cose in un certo modo. In questo senso il cristianesimo è la cosa più laica che c'è.
Ma devi avere una stima della realtà e del cuore dell'uomo e un amore alla sua libertà, fino a
permettergli di dirti "no". Questo è l'amore. In questo senso amare è la più grande opera educativa
che ci sia e non c'è educazione evidentemente, per quello che abbiamo detto, senza un amore. Come
si fa ad educare senza questo amore alla libertà? Io voglio che tu sia, che tu sia tu e faccia tutto il
tuo percorso, prenda le tue cantonate (parabola del figliol prodigo); non ti posso convincere delle
mie idee, a cosa serve? Devo darti gli strumenti per andare a vedere se l'ipotesi esplicativa della
realtà con cui ti ho cresciuto funziona.
Quando il mio secondo figlio Andrea in prima Liceo mi disse "Papà sei sicuro di tirarci su
normali?", io volevo prenderlo a sberle per questa domanda e invece lui insistette "Guarda che la
questione è seria; voglio sapere se ci stai tirando su abili alla vita sociale". Altra sberla ti viene da
dargli! Ma era così serio, che capii che stava facendo una domanda seria. Indicando la porta di casa
disse: "Fuori da quella porta lì il mondo dice il contrario di quello che mi insegni, per cui certe
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volte faccio la figura del deficiente. Dammi degli strumenti per affrontare il mondo". Non avere il
problema di renderli cristiani, ma di renderli così uomini che hai la fiducia che diventino cristiani se
non per una ribellione demoniaca, è un'altra cosa.
Sono rimasto sconvolto quando ho letto questa frase nel libro di Savorana sulla vita di don
Giussani: "Tutto per me si è svolto nella più assoluta normalità e solo le cose che accadevano,
mentre accadevano, suscitavano uno stupore tanto era Dio a operarle (questo è il salto della fede
che lui ha perchè, fino allo stupore qualsiasi persona arriva), facendo di esse la trama di una storia
che mi accadeva e mi accade davanti agli occhi". In due righe, quattro volte il verbo "accadere"!
Vuol dire una capacità di stare davanti alle cose, vuol dire che vengono prima le cose dei nostri
pensieri.
Negli anni '50, quando nasceva GS al Liceo Berchet, fece dei convegni. Basterebbe ricordare i titoli
di quei convegni per capire tutto il genio educativo che c'era già dentro. Il primo, se non ricordo
male, fu "Vivere le dimensioni del mondo", un altro fu "Vivere intensamente il reale". Per diventare
uomini serve solo una cosa: vivere intensamente il reale. Il primissimo libretto che scrive ha per
titolo "Riflessioni su un'esperienza". Non i pensieri che poi dovrebbero farmi vivere bene, non viene
prima il pensiero e poi l'esperienza, come vuole il razionalismo moderno a partire da Cartesio che
dice: siccome l'esperienza non conta niente, partiamo dal pensiero; la realtà facciamo finta che non
esista e partiamo dal pensiero. E' stata qui la svolta che ci ha rimbambiti tutti. Vai a spiegare a dei
ragazzi oggi che viene prima l'esperienza e poi la riflessione sull'esperienza, che viene prima il dato
della realtà. Se fai il contrario è un macello perchè ci metti su prima i pensieri e la realtà poi non ci
sta mai dentro, la fracassi, la fai a pezzi, non ti torneranno mai i conti. E' così facile obbedire
(Claudel)! A chi? Al dato, alla realtà. Questa fiducia nella realtà, riflettendo sulla quale piano piano
si costruisce. Non si può non riconoscere che tutto è segno ma, se tutto è segno, bisogna trapassare
il segno, andare a vedere che cosa segna il segno; perciò il venir meno del segno fa paura, ferisce,
addolora, ma non schianta la vita, non dispera. Bisogna andare a capire cosa c'era dietro quel segno
che era la donna e che è venuta meno. E' veramente un viaggio di conoscenza diverso da quello cui
siamo abituati normalmente. Dante lo formulava con quel meraviglioso "A te convien tenere altro
viaggio, se vuoi campar da sto loco selvaggio". Devi rifare il percorso della conoscenza perchè
altrimenti non ce la si fa. Mi sembra veramente di aver capito in questa frase anche tutto l'amore di
don Giussani per Leopardi: ha amato Leopardi perchè Leopardi ragionava così ed è stato l'ultimo
grande ottimista della nostra letteratura. Lui è stato in piedi e non c'è giovane in crisi che non lo
vada a leggere esattamente come è successo a me e Leopardi lo sostiene. Andate a leggere Verga,
"Nedda", non tenete un coltello o una pistola nei paraggi mentre leggete... O preferite "Il fu Mattia
Pascal"? Non abbiate corde vicine perchè vi attaccate a una trave. Il pessimismo vero mi sembra
venuto tutto dopo. Anche Leopardi registra il male della vita, pensate a "Il canto notturno", ma poi
prende il volo una cosa che tutta la sua riflessione filosofica, la sterminata cultura che aveva, la sua
intelligenza acutissima non riescono a fermare. "Ma forse tu, giovinetta immortal": introduce la
categoria della possibilità, davanti al male di vivere dice ma forse da qualche parte qualcosa c'è; è la
chiusa de "La vita nova" di Dante. C'è qualcosa che non capiscono e vogliono capire. E Leopardi,
nel cuore della poesia, per tre volte usa quell'incredibile "certo". Poi di nuovo non regge di fronte a
questa certezza perchè non la sperimenta, non la vede e allora torna giù, ma non torna giù come
Icaro fino in fondo, si ferma al "forse", lascia aperta la categoria della possibilità, definendo l'uso
della ragione, per l'ultima grande volta nella poesia italiana, secondo il realismo. Dice: quando io
apro gli occhi, cosa vedo? Il mio pensiero? No. La prima cosa che registro nella vita come uomo, è
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l'urto della realtà e mi viene proprio da inginocchiarmi e adorarla. "Ma quando miro", in poesia
"mirare" è il verbo dell'adorazione, della contemplazione. "Ma quando miro in ciel arder le stelle,
dico tra me pensando". Capite come funziona? Prima lo stupore infinito della realtà; è la
registrazione della realtà, la meraviglia per il reale che mette in moto il pensiero, non il contrario!
Ma noi facciamo il contrario: pretendiamo di pensare e, pensando, di produrre la realtà che ci pare e
piace, facendo una confusione bestiale.
"Così meco ragiono". In questa poesia è anche detto per due volte come funziona la ragione. Di
questo uso della ragione deve essersi innamorato don Giussani che diceva sempre che il 10^
capitolo de "Il senso religioso", dove si parla di come nascono le grandi domande, è il segreto di
tutto il suo insegnamento, l'insegnamento di un'anima autenticamente religiosa.
Che bisogno c'è oggi di tutto questo? La tragedia di oggi è esattamente questa, la mancanza di senso
della realtà.
Come mi disse un ragazzino di 16 anni una volta: "Cosa è successo in questo mitico '68?" In due
parole ho cercato di spiegare e lui risponde "Però secondo me a voi è andata bene perchè, se le cose
sono andate come mi hai detto, a voi hanno portato via soltanto la fede. A noi hanno portato via la
condizione della fede, ci hanno portato via la realtà. Voi, se ho capito bene, potevate essere rossi o
neri, ammazzarvi di botte sulle barricate, spararvi per le strade.. ma, se alla sera andavate a bere
una birra, un libro, rossi o neri, era un libro, un bicchiere, rossi o neri, era un bicchiere. Per noi
no. Ni ci sediamo davanti a una birra e ciascuno pensa quello che vuole di quello che ha davanti.
Non abbiamo certezza della realtà". Come fanno ad aver la fede? Questa è la fotografia della
tragedia educativa che viviamo. Quel che è venuto meno non è la fede, non è la tradizione, non sono
i valori, è venuta meno una certezza sulla realtà e perciò quella positività da cui può venire la fede.
Se non hai certezza sulla realtà, dove puoi avventurarti, visto che ti tremano le gambe?! Quando un
ragazzino ti dice "Sa che io ho paura a entrare nella camera di mia mamma e accovacciarmi nel
letto al buio?" "Paura a entrare nella camera dove c'è tua mamma?" "Sì perchè nel buio penso che
potrebbe non essere mia mamma e rivelarsi come una cosa mostruosa". E' da ospedale! Se ha un
pensiero così sulla realtà di sua mamma, sulla cosa più sacra che c'è, mi dite come fa a diventare
grande? Un dubbio posto sulla radice dell'essere, sulla bontà e sulla verità delle cose; sono venute
meno le esigenze e le evidenze più elementari, quelle che sostengono, anche psicologicamente, la
persona.
Voglio dire questo: un'educazione intesa come l'abbiamo descritta stasera allora, è la cosa di cui
abbiamo più bisogno adesso, infinitamente di più che negli anni '50, dove don Giussani
profeticamente aveva intravisto come andavano le cose - parlò 40 anni fa di una Chernobil
spirituale che colpiva le giovani generazioni, cioè che gli cambiava la dinamica del cervello, il suo
dinamismo profondo. Un metodo così che scommette comunque sul fatto che Dio continua a fare le
cose dell'uomo giuste e continua a fare la realtà buona e aiuta e accompagna, un metodo che, pur
con infinita fatica rispetto a 100 anni fa, riconosce che la dinamica è la stessa, che accompagna la
libertà, la ragione, il sentimento ad andare a vedere se è vero che la realtà è buona, cioè che fa fare
tutto il percorso della conoscenza, è l'unica cosa di cui abbiamo bisogno.
A conferma di questo, ero a Minsk l'altro ieri a un convegno per presentare il mio libro. Siccome
nel libro ci sono aneddoti della mia vita e più bergamaschi di così si muore, pensavo che a Brescia
non si capisse. Pensavo: a Bergamo non lo leggerà nessuno perchè "nemo propheta in patria", fuori
non lo leggerà nessuno perchè nessuno lo capisce, cosa lo faccio a fare? Invece vai a Minsk e ti
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capiscono perfettamente: è la grande sorpresa di sentire o di verificare che il carisma di don
Giussani è per il mondo intero. Mi hanno chiamato in una scuola a Karaganda a parlare a 100
docenti, un intero collegio docenti, e anche lì ho parlato di Leopardi. Di colpo mi è venuto in mente
che queste persone erano i nipoti del pastore errante. Leopardi scrive il "Canto notturno di un
pastore errante dell'Asia" perchè legge un giornale dove c'è un reportage di un viaggiatore che era
andato in Kirghisia e lì aveva visto dei pastori che strimpellavano alla luna delle nenie molto tristi;
l'immagine l'aveva colpito e aveva scritto il "Canto notturno". La Kirghisia è dove c'è Karaganda.
Mi sono fermato e ho detto loro che avrei letto una poesia che raccontava dei loro nonni e bisnonni.
Ho letto e spiegato tutta la poesia; c'era anche il problema della traduzione, ma alla fine, in un
silenzio totale, di una densità incredibile, ho chiesto cosa ne pensassero. Si è alzata una signora in
prima fila, penso musulmana perchè era velata, con le lacrime agli occhi, ha detto solo questa frase:
"Io sono quel pastore" e si è seduta. Io tornerò a Karaganda per questa persona, perchè tu non puoi
non sentire l'urgenza di portare nel mondo queste cose.
Il metodo di don Giussani aiuta, ma non aiuta i cattolici ad essere più cattolici, aiuta l'uomo ad
essere uomo e ognuno farà la sua strada. Quelli a cui parlavo a Minsk erano tutti ortodossi, l'altra
era musulmana, ma io per quella donna torno là e facciamo un pezzo di strada insieme.
Mi pare di aver scoperto l'universalità del carisma educativo di don Giussani con chiarezza, perchè
semplicemente dice la verità.
A maggior ragione abbiate e abbiamo fiducia che tutto quello che abbiamo descritto questa sera è
esattamente ciò di cui abbiamo bisogno e di cui hanno bisogno i nostri figli. E' solo un problema di
potenza del segnale: se prendo il cellulare e lo accendo di fuori, basta una tacca e suona; se accendo
il cellulare in un bunker antiatomico, lui è a posto, funziona, ma non lo raggiunge nessun segnale e
quindi non suona.
Per i nostri figli, che vivono sotto 20 metri cubi di letame che accuratamente il giornalismo
moderno ha a cuore di riversargli addosso da sera a mattina e da mattina a sera, e quindi hanno
questo sentimento indicibile di schifo della vita, di tutto quello che hanno intorno e di se stessi, il
loro cellulare, cioè il loro cuore che è giusto perchè glielo ha dato Dio ed è fatto bene, fa fatica a
ricevere il segnale e a suonare. Il problema qual è? Mandare un segnale così potente da trapassare
tutti i metri cubi e raggiungerli. Quando li raggiunge, si mette a suonare, lo sdraiato si sveglia e
comincia a gustarsi la vita.
Dobbiamo fare questo lavoro.
Domanda: c'è in me una contraddizione. Tutte le mattine, quando accompagno a questa scuola i
miei figli, spero non tanto di mandare un segnale talmente forte da intercettare il loro cuore, ma di
risparmiare loro un po' di "letame", cioè spero che la crosta sia un po' meno spessa. Ho capito
questo qualche anno fa, quando ho letto la frase di un tema di una ragazzina di 3^ media sulla fine
della scuola, che diceva: "Finalmente adesso sono pronta a entrare nella vita". Ho pensato che, se
era solo questo, era la fine. E' come se tutto il tentativo educativo di cui hai parlato fosse solo, da un
lato un preservarli (almeno qui ci sono ancora maschi e femmine, c'è meno letame...) e dall'altro un
"così poi...", come se la vita fosse sempre dopo. Mi sono accorto che ho dentro questo tarlo. In che
senso non è una contraddizione il lasciarli andare?
Franco Nembrini: questa è la questione. Il genitore dice "io voglio il bene dei miei figli", e sa qual
è il bene perchè l'ha incontrato anche lui - il bene per me è stato l'incontro con la fede, con Cl, con
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la Chiesa, con l'Oratorio, ma può essere anche una situazione diversa dalla fede. Un genitore, se è
leale, ha la presunzione di offrire ai propri figli un'ipotesi esplicativa della realtà, quale che sia,
tendenzialmente identificandola con il bene della vita e quindi augurandosi che il figlio incontri
quello che ha reso felice lui. Questo è assolutamente legittimo, il problema non è questo.
Il problema è che, nell'equivoco mortale di evitare ai figli la fatica e il dolore, noi tendiamo non a
scegliere per loro il loro percorso, ma la scorciatoia.
Spiego con un'immagine. Quel ragazzino che mi aveva fatto l'osservazione sul '68, una volta mi
disse: "Franco, sai che cos'è un maglione? Il maglione è quell'indumento che i figli devono mettere
quando le mamme hanno freddo". Già questa mi parve geniale, un'osservazione non di poco conto.
Ma poi si fece piuttosto serio e mi disse: "E sai che cosa è C.L.? E' il Movimento in cui i figli
devono entrare quando le mamme hanno paura". Quando parlo della laicità di don Giussani, parlo
di questo; quel che distrugge i figli è quella paura lì, ma è una paura della loro libertà, perchè è una
paura che abbiamo noi della realtà e del nostro cuore. Siamo noi che non abbiamo fatto la verifica
della fede e perciò non testimoniamo ai figli la certezza di cui ho parlato stasera. E' una paura che
crediamo di risolvere con la scorciatoia "se diventi di C.L., se diventi cristiano, se vai in
Parrocchia, se vai in chiesa almeno la domenica, se non bestemmi, se studi qualcosina per avere
almeno la sufficienza...è andata bene". Ma queste scorciatoie sono una menzogna alle quali i nostri
figli si ribelleranno, magari a 30 anni, ma si ribellano.
Desiderare il bene dei propri figli e contemporaneamente permettere, anzi facilitare che facciano
tutto il percorso per arrivarci, questa è la contraddizione che avverti. Bisogna educarsi, bisogna
sostenersi, bisogna aiutarsi. Per il genitore, come per il professore, a quello che legittimamente
sente come il bene dei figli, preferisce le scorciatoie: è un attimo! Le scorciatoie per il lavoro che i
figli e lui stesso devono fare.
Una mamma mi scrive: "Ho un figlio di 15 anni che mi fa tribolare, non capisco, sta sempre male".
Qual è il problema? Un grande ragazzo che veniva da una situazione gravissima in casa, un anno
dopo essere stato accolto da un'altra famiglia, scrive alla madre che lo accoglie: "Come è bella una
casa dove si sta così bene che si può anche star male". La lettera della mamma con il figlio che la
fa tribolare finisce con la frase "Voglio capire". Le ho scritto una rispostaccia che non le è piaciuta,
perchè le ho detto: "Ti prego, lascialo star! Possibile che tuo figlio non abbia il diritto di star
male?". Nella lettera faceva degli esempi da cui si capiva che il figlio era assolutamente acuto sulle
cose. Ho aggiunto. "Tu hai fatto il tuo lavoro di educatrice e di mamma, cioè l'hai portato dentro la
realtà e hai cominciato a farlo ragionare, a fargli leggere i segni della realtà e i segni che in te
documentano inequivocabilmente che Dio è dentro le cose perchè tu hai già fatto la strada; ma, se
viene il momento in cui Lui Dio desidera incontrarlo e deve fare la sua battaglia (cedere al mistero
di Dio in una cultura come la nostra è fatica, è guerra), magari in modo doloroso, tu mamma vai
fuori dai piedi, non puoi sostituirlo". Alla mamma italiana viene voglia di evitare tutte le fatiche al
figlio e di fare la battaglia lei, lancia in resta, al posto del figlio. Non si può! La mamma al
massimo, a quel punto, può fare il tifo e guardare il figlio fare la sua battaglia. Voglio esagerare:
potrà fargli da scudiero cioè, se gli si spezza la lancia, gli potrà portare quella nuova, ma la battaglia
è del figlio; e potrà durare anni, o giorni, o settimane, ma è la sua battaglia. E finchè non l'avrà vinta
lui, non sarà un uomo. Se la vinci tu al suo posto, lo tieni bambino anche a 30 anni o a 40.
Ma che maturità ci vuole per avere questo coraggio di lasciarlo andare, il coraggio del padre del
figliol prodigo per intenderci, conoscendo Dio, conoscendo il bene! E' la maturità di superare quella
contraddizione di cui parlavi che in realtà non c'è, perchè desiderare il bene per tuo figlio, quel bene
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che tu conosci, vuol dire non imporglielo e farglielo amare, cioè fargli fare tutto il percorso in modo
che lui lo riconosca. E' tutto qui il rischio educativo.
Domanda: quando hai parlato dei tuoi genitori, hai detto che erano santi, invece io penso di non
esserlo. Il punto cruciale per me adesso è che la battaglia con il Mistero, io la conduco a mia volta. I
nostri figli vedono che stiamo male, vedono il limite generato dal fatto che il rapporto con la realtà è
proprio una battaglia e alle volte picchia duro. Mi colpisce che si possa mantenere una autenticità,
cioè che uno possa essere uomo di fronte ai propri figli.
Franco Nembrini: stai serena perchè, come disse mio figlio una volta, "Papà, se andiamo in
Paradiso, io quasi non vengo, perchè il pensiero che tu in Paradiso possa vedere tutte le cretinate
che ho fatto, mi sconvolge; potresti non amarmi più". Gli ho spiegato che, secondo Dante, l'accesso
al Paradiso avviene solo dopo il bagno nell'Eunoè e nel Letè, cioè dopo aver dimenticato tutto.
Ricorderemo solo il bene, nemmeno noi ricorderemo le nostre cretinate.
Il male certo che c'è, ma c'è qualcosa che vince questo male e i nostri figli lo sanno. Non penserai
che i tuoi figli finora ti abbiano guardata pensando "La mia mamma è la più bella del mondo, o il
mio papà è il più forte del mondo". I miei figli hanno sempre detto "Lo zio Giorgio è più forte del
papà", facendomi arrabbiare che non ne avete idea. Sanno dalla nascita del nostro male e del nostro
limite. Ma, grazie a Dio, l'educazione avviene perfino contro ogni apparenza e ogni limite.
L'educazione è veramente misteriosa.
Sappiate che i nostri figli ci perdonano molto più di quello che noi perdoniamo a loro (altrimenti
sarebbero già scappati di casa al 99% con buone ragioni e invece, è incredibile, tornano tutte le
sere); ci perdonano, cioè vedono il bene che portiamo, anche se lo portiamo, come dice S. Paolo, in
vasi di creta. L'importante è sfangarla, cioè avere il coraggio di superare il misero messaggero che ti
porta il tesoro. State sul tesoro. Questo loro lo sentono in un modo lieto e forte. Don Giussani dice
che la funzione dell'adulto non è una funzione etica - cioè i figli non ti guardano per vedere se sei
perfetto o no -, ma una funzione di coerenza ideale: "Papà assicurami che valeva la pena venire al
mondo". Dopo di che si vedono spettacoli di cui non avete neanche idea: questa generazione di figli
è anche eroica e bellissima, anche se debole e fragile.
Faccio un esempio. E' come se un papà dicesse: "Adesso che sei un po' grandicello, ti porto in
montagna. Io il Resegone l'ho fatto tante volte, su e giù, è ora che tu mi segua; ti porto in cima al
Resegone". Si prepara tutto e si parte. Il papà non si è accorto che nel frattempo è un filino
invecchiato e, proprio la volta che porta il figlio, a metà scoppia, non ce la fa più. Un nervoso, una
mortificazione! Ecco io ho visto questa scena: il figlio è come se prendesse in braccio suo padre e
gli dicesse: "Ehi, ti porto io; non ce la fai? Io ho vent'anni, ti porto io. Se non ce la fai più, ti
capisco. Sei debole, sei vecchio e adesso vengono fuori di più anche tutti i tuoi difetti, sei più
peccatore di quando mi hai messo a mondo perchè hai più peccati da scontare...non fa niente, ti
porto io. Tu però continua ad insegnarmi la strada. Io la strada non la so. Se sei così debole da non
poterla più fare, ti porto io, ma tu continua a dirmi che la strada c'è". Si può arrivare fin qui. Ed è
un'esperienza meravigliosa. E noi dovremmo avere il problema di se siamo perfetti, se siamo bravi,
se siamo arrabbiati?
In educazione funziona così: si prova. Come ti gita ti gira, domani è un altro giorno e fai un altro
tentativo. Come genitori facciamo tante di quelle sciocchezze! Pensate al primogenito che patisce
queste pazzesche sperimentazioni pedagogiche di due deficienti di 25 anni che devono
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improvvisarsi padre e madre! Ma come faranno a resistere? Eppure quasi tutti hanno salvato la
pelle! Il secondo figlio invece guarda il primo e impara; il terzo, misteriosamente, come sapete, vien
su da solo, non si sa dove si nutre, dove si ciba e dove si veste. Così scopri che l'educazione è non
preoccuparsi di educare, perchè si educano benissimo da soli.
Per cui stai serena, perchè non è quello il problema. Il problema che abbiamo è quello di
testimoniare una vera coerenza ideale, cioè un amore infinito. E' quello che ha fatto mio padre e per
cui lo ringrazierò per tutta l'eternità: si è occupato della sua santità e non della mia. occupandosi
della sua, mi ha reso curioso di come si potesse vivere così. Se si fosse occupato della mia mi
avrebbe rotto e basta. Lasciateli stare, scommettete sul loro cuore, sulla potenza del segnale che
mandate loro, cioè della verità della vostra testimonianza davanti alla vita e della bontà del reale. Di
questo fidatevi, il resto vien da sè. Poi ci si aiuta, si sceglie la scuola che in qualche modo ci sia
alleata in questo, e ci si dà una mano.
Appunti non rivisti dall’autore
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Franco Nembrini e Il rischio educativo