MARCO ROVELLI - LIBERTARIA
TRACKLIST
La Comunarda
5'10''
Gloria brucia
4'14''
La mia parte
4'33''
L'intimità
3'56''
Il campo
4'07''
Girotondo
4'03''
Sbandati
4'24''
Il dio dei denari
4'25''
Il tempo che c'è
6'33''
Al vino
4'30''
Lamento per la morte di Pier Paolo Pasolini
3'43''
Mea culpa
4'19''
L'odore del mondo
3'03''
Indiana
3'57''
Del bosco
2'08''
Sante Caserio (live)
5'49''
MUSICISTI
Marco Rovelli – voce, chitarra acustica
Lara Vecoli – violoncello
Davide Giromini – tastiere, fisarmonica
Andrea Marcori – chitarra elettrica
Nicola Bogazzi – basso
Flavio Andreani - batteria
Ospiti
Yo Yo Mundi (Paolo Enrico Archetti Maestri – voce e chitarra; Fabrizio Barale – chitarra;
Andrea Cavalieri – basso; Fabio Martino – fisarmonica e tastiere; Eugenio Merico –
batteria) in Sbandati
Daniele Sepe: sax in Indiana e Del bosco
Eva Milan: voce in L'intimità
Bianca Giovannini: voce in L'odore del mondo
Maurizio Bogazzi: chitarra in Girotondo
Camilla Barone: voce recitante in Al vino
LA COMUNARDA
testo: Francesco Forlani e Marco Rovelli
musica: Marco Rovelli
La comunarda è un canto che celebra la comunità eretica e ribelle della Comune di
Parigi, un canto di rivolta e di amore, dove le due cose tendono a essere la stessa. E',
ancora e sempre, un fatto di visioni. E dunque il poeta sta sulle barricate, anche lui,
Arthur Rimbaud, e scrive, scrive parole magiche che facciano accadere e dischiudano
mondi.
(Gli altri riferimenti del testo – che nasce da un fitto scambio di sms tra me e
Francesco Forlani - siano come un ipertesto che rimanda alla storia della
Comune...).
La comunarda, ovvero i corpi resistenti e barricaderi.
Furia barricadera degli amori
Il tempo en rouge et noir confonde voci
e l'alba con la sera en bandolieres
I canti comunardi
scavano miniere erigono palazzi
sui boulevard della collina
E coi ragazzi in cima ad alzare un drappo nero
sul passato espirato con Lecomte
Si fermino all'ora gli orologi
oggi inizia un tempo nuovo in questa festa
e viva ciò che resta!
Abracadabrantesque, scrive il poeta
sul selciato in fiamme di Parigi
in questa evidente primavera!
Baciami Juliette se si fa sera
resta Menilmontant resiste ai tuoni
e ai lampi dei cannoni
E le baionette come un muro su a Montmartre
Juliette cantami ancora
il canto comunard
Il tuo nome è segnato a dito sul vetro
forse è questo dio, e al mio soffio si schiude
è un volto che ride, o un rigo di luce
io rido al tuo riso che mi dice sì.
Lo spettro si aggira per le piazze
all'hotel de ville in fiamme
appare agli orologi a saint Lazare
La ghigliottina brucia sotto gli occhi di Voltaire
mentre canta Louise Michel
mai più carne all'uomo e schiavi ai re.
Juliette tu sei la rosa come il pane
libertà di maggio
antica sposa floreale allez Juliette
versami da bere Côtes-du-Rhône di botte scura
perché su queste mura
si vive o si muore ma senza più paura
Il tuo nome è segnato a dito sul vetro
forse è questo dio, e al mio soffio si schiude
è un volto che ride, o un rigo di luce
io rido al tuo riso che mi dice sì.
Ton nom est signé du doigt sur la vitre
je vois ça c'est dieu, il s'éclot à mon souffle
un visage qui rit, une lumière qui s'ouvre
moi je ris à ton rire qui me dit oui.
E tra i tamburi il soffio di mille respiri
canti liberi e stendardi come un cielo
suono dei liberi e rumore di corpi vivi
tra i tamburi il soffio di mille respiri
GLORIA BRUCIA
testo e musica: Marco Rovelli
E' un testo che nasce come canzone per una relazione d'amore (e brani di Amelia Rosselli e Samuel
Beckett a definirla), ma che già dentro di sé aveva materiale (bio)politico. Crescendo, quel
materiale ha preso il sopravvento. In tempi di attacco alla 194, il corpo è sempre di più il campo di
battaglia. Un grido di resistenza nell'era biopolitica, dunque.
Ma non solo questo. Oggi la natura essenziale del potere è duplice: biopolitico e insieme
spettacolare. Lo Spettacolo è il regno del falso (“lo Spettacolo è il mondo realmente rovesciato,
dove il vero è un momento del falso”). E allora, la Gloria del testo non può che essere quella di cui
scrive Giorgio Agamben nel suo "Il Regno e la Gloria":
“Se i media sono così importanti nelle democrazie moderne, ciò non è, infatti, soltanto perché essi
permettono il controllo e il governo dell’opinione pubblica, ma anche e soprattutto perché
dispensano e amministrano la Gloria, quell’aspetto declamativo e dossologico del potere che nella
modernità sembrava scomparso. Ciò che restava un tempo confinato nelle sfere della liturgia e dei
cerimoniali si concentra nei media e si diffonde e penetra in ogni istante e in ogni ambito, tanto
pubblico che privato, della società."
Gloria brucia, ovvero il corpo come campo di battaglia.
Gloria brucia e tutto intorno è acqua
e non si basta mai
ecco vi è un'ultima volta
persino per le ultime volte
ultime volte per mendicare
ultime volte per amare
Ecco ogni ultima volta
ancora sempre la prima volta
ultima volta per iniziare
ultima volta per amare
Fluisce fra me e te
un chiarore che deforma,
un chiarore che deforma
ogni passata esperienza
Fluisce fra me e te
ogni volta per sempre
il chiarore che deforma
ogni passata esperienza
Mi aggrappo alle ossa e vertigine voglio
Ma sono fuori controllo Io sono fuori controllo
Mi aggrappo alla voce ed è canto che voglio
E resto fuori controllo Io sono oltre il controllo
E questo mio corpo è un campo di battaglia
O questo mio corpo è un canto di battaglia
Gloria brucia e tutto intorno è acqua
e non si basta mai
LA MIA PARTE
testo: Maurizio Maggiani e Marco Rovelli
musica: Marco Rovelli
La mia parte è ispirata a situazioni e personaggi del romanzo Il coraggio del
pettirosso di Maurizio Maggiani, e il testo della canzone è stato “congedato”
insieme all'autore del romanzo. La comunità a venire è una comunità fatta di
singolarità, ognuna delle quali vuole “la mia parte di Dio, la mia parte di anarchia”.
“L'anarchia an se po' dir”, diceva un cavatore, echeggiando inconsapevolmente
Cusano e i mistici della teologia negativa. Non si può dire l'anarchia, come non si può
dire l'amore. (L'anarchia e l'amore. O l'anarchia è l'amore?). Sono cose che si fanno, e
poi si tentano confusamente di raccontare. O, ancora meglio, di cantare.
La mia parte, ovvero il corpo amante. Anarchico e amante.
Nel giardino dei mirti un etiope parlava
Azena parola di tagliola
diceva a un ingegnere mezzo apuo e mezzo niente
che a un poeta basta una parola sola
per scintillare mondi e sciogliere frontiere
saltare oltre ogni retta via
parlò finalmente il giovane ingegnere
io voglio la mia parte di Dio
la mia parte di anarchia
L'anarchia non smette mai di domandare
diceva la donna dei deserti
e il giovane sostava e aveva voglia di baciare
quella bocca sopra i suoi seni offerti
dopo il caffè speziato mentre colava miele
schiudeva amore splendeva Fatiha
e un'altra volta ancora parlò il giovane ingegnere
io voglio la mia parte di Dio
la mia parte di anarchia
Stare dentro un cerchio che non ha circonferenza
un cerchio con il centro in ogni dove
rispondere in silenzio sguardo all'orizzonte
altrove
Bello è il deserto, puro e pulito
e nulla ci può marcire
c'è solo pietra e silenzio infinito
e nessuna voglia di morire
Risplende forte e lieve il pensiero
che pare illumini la via
e come cantasse al mondo intero
io voglio la mia parte di Dio
la mia parte di anarchia
Brucia di vita in quelle notti
deserte al centro del cielo
brucia di vita il giovane aspetta
e si trova disarmato e solo
Strappati il cuore, il poeta declama
voce saggia di follia
strappalo e mangia, ché Fatiha ti ama
lei è la tua parte di Dio
la tua parte di anarchia
Stare dentro un cerchio che non ha circonferenza
un cerchio con il centro in ogni dove
risplendere in silenzio sguardo all'orizzonte
altrove
L'INTIMITA’
testo: Erri De Luca e Marco Rovelli
musica: Marco Rovelli
L'intimità è il risultato della riscrittura di un testo che Erri De Luca aveva scritto per
me qualche anno fa per essere musicato: la canzone si intitolava “Il maggio di
Belgrado”, e raccontava la comunità dei belgradesi sotto i bombardamenti della Nato
nel 1999. “Quando cresce il pericolo aumenta pure tutto ciò che salva”, recita il
ritornello, che poi è un verso di Hölderlin tradotto da Erri: mi sono chiesto quale sia
stato il mio tempo di massimo rischio e di massima salvezza. E mi sono risposto:
Genova 2001, i giorni di quel luglio. Naturale farlo, anche perché Erri, su quella
“nostra” Genova, ha scritto a lungo.
L'intimità, ovvero i corpi in strada, esposti al rischio, alla salvezza.
Nel mese di luglio di quell'anno primo
per le strade sopra il mare erano i corpi all'erta
vedevano salire a schiere giù dal mare anime nere
Agli occhi i cieli cadevano
i fumi accecavano il cammino
ma quelle grida non cancellavano un'intimità
Quando cresce il pericolo aumenta ciò che salva
Quando cresce il pericolo aumenta tutto ciò che salva
Ché dai vili di anima serva, sempre c'è chi diserta
Quando cresce il pericolo, aumenta pure tutto ciò che salva
Lo ha scritto un poeta che non era a Genova
nel mese di luglio di quell'anno primo
era morto da un secolo e mezzo
ma stava con noi nella tempesta
E mi sono salvato con la contraerea dei poeti
E ci siamo salvati con la contraerea dei poeti
E mi sono salvato con lo sguardo teso dei poeti
E ci siamo salvati con lo sguardo teso dei poeti
Cantano i poeti la dimenticanza
cantano il sangue cantano l'erranza
cantano i poeti e non hanno memoria
di qualche utilità e del danno della storia
IL CAMPO
testo e musica: Marco Rovelli
Ho scritto, nel 2006, Lager italiani. Storie di migranti reclusi nei centri di espulsione
(Cpt, ora Cie) – dove si mette mano spesso e volentieri al bastone, per mettere “al
loro posto” questi uomini inferiori. Questi “Alì dagli occhi azzurri” le cui traversate
erano state profetate poeticamente da Pier Paolo Pasolini molti decenni fa. Qui canto
quelle traversate.
Nel 2009 ho chiuso un nuovo libro, Servi, dove racconto il mio viaggio nell'Italia dei
clandestini al lavoro. E racconto, appunto, la loro natura servile, necessaria alla nostra
economia – una natura che prende forma storia dopo storia. Come quella di Soufiane,
che qui canto, che mi ha detto “Ma ti dico cosa? E' la parabola!”. Sì, la parabola, che
induce desideri, il medium dello Spettacolo. I migranti che rifiutiamo sono
l'immagine rovesciata del desiderio della società occidentale.
Il campo, ovvero il corpo clandestino.
Sul bordo estremo dei secoli
orlo di terra solare
l’invisibile straccione
folle senza protezione
Col bastone
Scaccia l’animale impertinente
Dentro il campo
Il bastone fuori non si sente
(Con l’approvazione della gente)
Sul bordo estremo dei secoli
orlo di terra solare
l’invisibile straccione
folle senza protezione
Offre il corpo alle tempeste
Sopra i legni dell’addio
Rischia tutte le sue vite
A imitazione di dio
Col bastone…
Sunugaal nostra piroga
Solca il mare del destino
E' il coraggio dell'attesa
Luce di un nuovo mattino
Sunugaal nostra piroga
Solca il mare del destino
Ma se riesci ad arrivare
Sei solo un altro clandestino
Tra le dita scorre il cielo
Nostra patria è il mondo intero
Soufiane vende la menta
E’ da secoli che si accontenta
Di stare sull’angolo di un mercato
Soufiane sta dietro il banco
Di lui si fidano che sembra un bianco
Gli occhi chiari giusti per un venditore
Con quegli occhi lui vedeva
Oltre il mare e s’immaginava
Altre vite altre scarpe ed altri mari
Ma ti dico cosa?
E’ la parabola
Che ci alza la pressione
E ti spinge sul barcone
Dal bastone
S’alza l'animale impertinente
Clandestino
Per lo regno della morta gente
GIROTONDO
testo e musica: Marco Rovelli
Girotondo intorno al fuoco cattivo. Il fuoco dei pogrom ai campi rom. Fuochi che si
accendono nella notte della ragione. Notte percorsa da lupi, come nella giungla
hobbesiana. Guerra tra uomo e uomo, guerra tra poveri, paura. E dalla paura, il
sovrano assoluto a cui si cedono volentieri tutti i diritti. Ripartire dalla visione della
catastrofe, dunque. Tenere gli occhi spalancati nella catastrofe è la salvezza: proprio
la considerazione del fatto dell’impossibilità della salvezza – l’irredimibilità del tutto
- è la salvezza. Iniziare, dunque, ancora una volta.
Girotondo, ovvero il corpo inarreso.
Guarda quanto s'approssima il giorno
che non ci si può sporger più in là
e bisogna che togli di torno
chi a te essere simil non sa
Guarda quanto è fonda la notte
non ci sono che lupi oramai
tu da solo ti farai giustizia
anche se luce non ne vedrai
Guarda quel fuoco che s'alza davanti
brucia ogni cosa che voce non ha
guarda le fiamme che s'alzan d'intorno
in ogni campo un nemico ci sta
Guarda quanto rigoglio di roba
occhi gonfi di specchi e irrealtà
cuori pieni di vuoto e paura
mano che tutto consumerà
Guarda il marchio dell'uomo nuovo
testa alta e fierezza gli dà
brucia il senso di un tempo sbagliato
lava colpe che lui non ha
Guarda quel passo dell'oca che avanza
in vesti morbide, così charmant
guarda quell'uomo che ride da squalo
sta digerendo la sua civiltà
Guarda che bello questo girotondo
che la terra cascare ormai fa
guarda che rotola in un precipizio
con gli occhi chiusi a questa immensità
E si spalanca il mondo e cade nell’aperto
La bocca si apre muta al suo deserto
Si apre il corpo al mondo in viscere e parole
Versate e messe a seccare al sole
Si versa il sangue è sparso, si aprono le vene
si perde tutto ciò che ci appartiene
Si versano le lacrime, hai lacrimato troppo
Si spalanchi la luce nel tuo occhio
E orbite e fuochi, e atomi innocenti
che inclinano ad ignoti movimenti
E l’universo è solo un attimo d’incendio
Inclina il cuore all’ultimo dispendio
E non c’è mai scampo allo spazio aperto
Accoglie il sangue il prossimo deserto
E vive il sangue un nuovo ricambio di stagione
Il cuore ha la sua rivoluzione
SBANDATI
testo e musica: Marco Rovelli
Scrissi il ritornello di Sbandati (Fuochi sulla montagna) un 25 aprile, al sacrario
partigiano di Ca' Malanca, in Romagna. Quella di sbandati è la condizione della
guerriglia partigiana, ma è al tempo stesso una condizione universale, di resistenza ed
esodo.
Per questo ho voluto che a suonarla fossero gli Yo Yo Mundi. Un segno sonoro di
fratellanza. Come un 20 luglio a piazza Alimonda, con Paolo Archetti Maestri, dove
si trattava, ancora, di iniziare.
Sbandati, ovvero il corpo in esodo.
Fuochi sulla montagna e sotto il mare
Un canto s’innalza E’ ora d’andare
Lasciarsi alle spalle tutto il male
Con un inno nuovo da imbracciare
C’è tutta una strada da segnare
E mentre cammini continua a cantare
Noi sbandati noi disertori che sosteniamo la terra
Miscredenti d’immensa fede noi che spalanchiamo il cielo
Da una vetta all’altra per il crinale
Prenditi il tuo tempo per respirare
Lubrifica i sensi per mirare
E sottovoce ricorda di cantare
Noi sbandati noi disertori che sosteniamo la terra
Miscredenti d’immensa fede noi che spalanchiamo il cielo
Apri il cuore all’improvviso
Faccia a faccia col destino
La tua libertà lo sorprenderà
Cambia identità
Fuochi sulla montagna e un altro mare
Ancora un canto s’innalza E’ ora d’andare
Guardarsi in avanti ed iniziare
Guardare in avanti e raccontare
C'è un'altra strada da tracciare
E quando vedi il fuoco riprendi a cantare
Noi sbandati noi disertori che sosteniamo la terra
Miscredenti d’immensa fede noi che spalanchiamo il cielo
IL DIO DEI DENARI
testo e musica: Marco Rovelli
Ho fatto un viaggio nell'Italia delle morti da lavoro, per capire che cosa significa
morire di lavoro, perché lavorare uccide. Ho incontrato molte donne: madri, mogli.
Che raccontavano un'assenza. Uomini sacrificati al dominio della Macchina
Produttiva, e del Profitto. Di questo poi ho scritto nel libro Lavorare uccide. E nel
corso di questo viaggio ho scritto questa canzone, per il coraggio e la forza di quelle
donne. Canzone che poi si estende ad altre donne – come Haidi Giuliani.
Il dio dei denari, ovvero il corpo ridotto a ingranaggio della Macchina Produttiva.
L’angelo schiavo, accecato, impotente
sigilla di sangue innocente le porte
poi viene il signore onnipotente
e alle soglie imbiancate scombina la sorte
Siede per terra, la donna E soffia via la cenere
Guarda il cielo di sbieco E non può più attendere
Intorno tutto è infecondo E negli occhi il deserto
In fine è un grido che s'alza Dal suo seno aperto
Eccolo il dio dei denari
Che brucia vite e ne fa scorta
Macchina viva, carne morta
Non tutti gli umani sono uguali
Eccolo il dio dei denari
Questo tempo labile ha un segno indelebile
che chiama a raccolta la forza dei mari
per aprire bocche dischiudere mani
ed un'altra vita sia in salvo domani.
Lo sguardo davanti al passato disperso,
la donna si vede riflessa nel suo rovescio
Lo sguardo davanti al passato impuro,
la donna si strappa di bocca il tempo futuro
Ma come una terra profonda che trema
si alza e conosce da un segno che è tempo di andare
Si alza e impone un ritmo al suo passo,
non più silenzio né pianto, è pronta a gridare
Eccolo il dio dei denari
Che brucia vite e ne fa scorta
Macchina viva, carne morta
Non tutti gli umani sono uguali
Eccolo il dio dei denari
IL TEMPO CHE C'E'
testo e musica: Marco Rovelli
E se la strada per arrivare a un tempo altro, diverso, migliore – fosse la lentezza? Se
fosse l'ascolto dei nostri bisogni più intimi e lenti, e sottovoce – la sola strada
percorribile per uscire dall'impasse? Si parla di decrescita – ma si può decrescere il
consumo solo a patto di accrescere l'ascolto del corpo, del suo alfabeto, del suo
silenzio. E del corpo dell'altro nel cui occhio sappiamo “vedere” il tempo che non c'è.
Ché sapendo vedere il tempo che non c'è, si può vivere con pienezza il tempo che c'è.
Il tempo che c'è, ovvero il corpo visionario - l'utopia sulla pelle.
Lentamente
Lentamente
Come gocce di terra
Lentamente
Come sangue
Di serpente
Scorre piano dentro me
Lentamente
Lentamente io divento incandescente
Lentamente io sono lucente pelle
Lentamente sono come diamante
Lentamente divento trasparente
Io amo il tempo che non c’è
E’ un’altra distrazione Mi distoglie dalla presa
È la mia condizione La visione e poi l’attesa
Ma dentro il tuo occhio Riconosco la mia forma
Che assomiglia al tempo che non c’è
Finalmente
Sono assente
La mia pelle non è più
Respingente
Finalmente
Sono assente
La mia pelle non è più
Respingente
Dentro il fuoco chiama
E niente lo consuma
Fiamma fiamma di sale bagliore
Si leva in alto il cuore
E' un’altra distrazione Mi distoglie dalla presa
E' la mia condizione La visione dell’attesa
Ma dentro il tuo occhio Riconosco la mia forma
Che assomiglia al tempo che non c’è
Io amo il tempo che non c’è
Il tempo che c'è
AL VINO
testo: Francesco Forlani e Marco Rovelli
musica: Marco Rovelli
Un'altra celebrazione del “comune”, della comunità come festa: Al vino, il cui testo è
stato scritto insieme a Francesco Forlani e – nonostante la distanza spazio-temporale
- a Omar Khayyam.
E allora un brindisi, alla carrarina. Si leva il bicierin in alto, lo si fa digradare verso
terra, poi lo si porta a sinistra e infine a destra: un segno della croce, insomma, e
l’importante è che l’occhio non perda mai di vista il vino. Si salmodia nel gesto
apotropaico: “ciar i è ciar - muss’lin a ni né - te ‘n t’l vo - te nemanc - al bev me”
(chiaro è chiaro – moscerini non ce n'è – te non lo vuoi – te neanche – lo bevo io). Va
da sé che si pronuncia l’ultimo verso levando il bicierin alla bocca per assimilare il
Verbo.
Al vino, ovvero il corpo ebbro, estatico.
Si beve quando è luce e allora sei felice
si beve quando è scuro e hai paura
oppure bevi se non succede niente
perchè non ti sembra vero che non succede niente
Si beve quando c'è troppo da capire
e il troppo è già tutto capito
Si beve per non avere più nulla da dire
Vini da pietra che fu terra un giorno
rosso rubino da portare in bocca
demoni che la sete spegne
versando ai calici le ali dei vitigni
Ci sono bottiglie che conservo e non bevo nella mia cantina
Ci sono bottiglie vuote da molto prima
Ci sono bottiglie che avranno sempre vino da dare
Vino dei liberi
Vino rubino color tulipano
libera sangue dalla gola di bottiglia
perchè oggi non esiste per me
un altro amico intimo e puro
Vino rubino color tulipano
Apri alla gola il bicchiere di sangue
che oggi oltre la coppa di vino
altro intimo amico non c'è
Vini che scendono lenti la sera
ed ogni sorso è un brivido di luce
come di sole all'alba in primavera
Fonte aperta sulla bocca
decanta avvenire e versa coi sogni
perché domani è ai vinti il vino e i suoi rintocchi
LAMENTO PER LA MORTE DI PIER PAOLO PASOLINI
testo e musica: Giovanna Salviucci Marini
Un antico lamento per la morte di Cristo, canto paraliturgico medievale nelle sacre
rappresentazioni. Un canto che nel dicembre del 1975 Giovanna Marini riprese e
trasformò per Pier Paolo Pasolini, assassinato il mese prima. E sulla presenza di
Pasolini a noi, non serve spendere ulteriori parole. E' qualcosa che si vive, e si sa.
Lamento per la morte di Pier Paolo Pasolini, ovvero il corpo sacrificale.
Persi le forze mie persi l'ingegno
la morte m'è venuta a visitare
"e leva le gambe tue da questo regno"
persi le forze mie, persi l’ingegno.
Le undici le volte che l'ho visto
gli vidi in faccia la mia gioventù
o Cristo me l'hai fatto un bel disgusto!
le undici le volte che l'ho visto
l'undici e un quarto mi sento ferito
davanti agli occhi ho le mani spezzate
e la lingua mi diceva "è andata è andata"
l'undici e un quarto mi sento ferito
l'undici e mezzo mi sento morire
la lingua mi cercava le parole
e tutto mi diceva che non giova
l'undici e mezzo mi sento morire
mezzanotte m'ho da confessare
cerco perdono dalla madre mia
e questo è un dovere che ho da fare
mezzanotte m'ho da confessare
ma quella notte volevo parlare
la pioggia il fango e l’auto per scappare
solo a morire lì vicino al mare
ma quella notte volevo parlare
e non può non può può più parlare può più parlare
e non può non può può più parlare può più parlare
e non può non può può più parlare può più parlare
Persi le forze mie persi l'ingegno
e la morte m'è venuta a visitare
"e leva le gambe tue da questo regno"
persi le forze mie, persi l’ingegno.
MEA CULPA
testo e musica: Marco Rovelli
Céline, nel suo pamphlet Mea culpa, scritto nel 1936 di ritorno dalla Russia dov'era
andato a riscuotere i diritti d'autore del Viaggio al termine della notte (il romanzo di
Bardamu), gridava con rabbia come in quel paese l'uomo fosse asservito al lavoro,
fosse diventato mera appendice della macchina produttiva, né più né meno che in
Occidente. Da quel momento, il “Bardamu” in carne e ossa si diede alla sua deriva
delirante, carica d'odio per l'umanità.
Due anni prima Henry Miller aveva scritto nel Tropico del capricorno: "Il lato buffo
di tutti questi sistemi di governo utopistici è che continuano a promettere di liberare
l'uomo… ma anzitutto cercano di farlo funzionare come un orologio caricato per otto
giorni. Chiedono all'individuo di diventare schiavo per rendere possibile la libertà del
genere umano. E' una strana logica. Non dico che il sistema attuale sia migliore; in
realtà, sarebbe difficile immaginare qualcosa di peggio di quel che abbiamo adesso.
Ma so che non si miglioreranno le cose rinunciando ai piccoli diritti di cui ancora
disponiamo".
Ecco. L'Uomo Nuovo non è arrivato, se ci troviamo di nuovo in un tempo in cui i
diritti fondamentali sono sotto attacco, e pare non esserci un adeguato pensiero di
resistenza, né di un movimento che la faccia. E' giunto il momento di andare “oltre il
Novecento” e ripensare la politica. Riaccendere un fuoco di prassi e di pensiero che
parta da singolarità inappartenenti, e che pratichino una costante, quotidiana opera di
resistenza e contrattacco nei confronti dello stato di cose presente.
Mea culpa, ovvero il corpo perduto di Bardamu.
Giù la testa
Stiamo per essere circondati
Il glorioso esercito della salvezza
Non è riuscito nella sua eroica missione
Sembrava semplice attraversare la strada
Evitare tutte quelle storie
Che incrociavano il nostro cammino
Sembrava semplice
E siamo stati travolti
Sull’asfalto bagnato
Da queste strisce di luce
Di questo dio dilaniato
Dai cattivi pensieri di Bardamu di ritorno dalla guerra
Da fatica e solitudine che lo avevano preso in trappola
Dalla musica che non c’era più per far danzare la vita
Dagli incubi
E siamo stati travolti
Sull’asfalto bagnato
Da queste strisce di luce
Di questo dio dilaniato
Siamo stati travolti
Da questa e da mille altre storie
E pensare che il marciapiede di fronte
Pareva lì a due passi Proprio a portata di mano
Lì davanti c’era il sole
La luce L’alba
Su la testa
Adesso lo facciamo noi un bel cerchio
Non più eserciti, non più gloria
Ma un fuoco
Reclamo la mia inappartenenza
il barbaro richiamo senza terra
l’accoglienza al vento che devasta
e libera presenza
l’occhio rivoltato al poi
il furore placato
il corpo abbandonato al suo deserto.
Reclamo l’odio senza oggetto
l’amore che ne stilla senza colpa
il tormento che abita il silenzio.
Reclamo la parola
la sua notte.
La mia riconoscenza.
La poesia recitata, Reclamo la mia inappartenenza, è contenuta nel libro Corpo
esposto.
L'ODORE DEL MONDO
testo e musica: Marco Rovelli
L'odore del mondo è un canto a margine di Gomorra, nato da un'idea condivisa con
Roberto Saviano. Dopo la cena di una sera, quando ho scoperto l'amore di Roberto
per “Briganti se more”, antico inno resistente di un Sud ribelle. Facciamolo volto
all'oggi, ho detto, con la resistenza alla Gomorra. Quale l'arma dell'oggi, per chi a
essa si vuole sottrarre? Anzitutto, gli occhi aperti, attenti: il sapere, anzitutto. Ecco
allora l'incipit: "Noi che sappiamo". Un sapere incarnato in una matericità tattile,
nelle cose - in quelle cose, in quell'impasto di calce e sangue che tira giù dall'empireo
i frattali dei manuali d'economia. Prendere in mano le pietre e i mattoni e farne pietre
d'angolo di una "nostra" intifada - in forme da sapere, da immaginare, da creare.
L'odore del mondo, ovvero il corpo che odora il potere.
Noi che sappiamo l’odore del mondo
E facciam conto della verità
Ora cantiamo una nuova canzone
Che altre genti dovranno cantar
Che altre genti dovranno cantar
Dentro l'odore di malta e cemento
pietre e mattoni senza pietà
in una tomba di mala creanza
è chiuso il colmo della nostra età.
La verità è di questa parola
riscatto che prigionieri non fa
tutto divora e di tutto fa prova
Questa è la prova della verità
Prendere in mano le pietre e i mattoni
farne scuppetta per un'altra età
vedere Ciro che torna alla terra
e che con noi si mette a cantar
E mo cantammo sta nova canzone
tutta la gente se l'adda 'mparà
nun ce ne fotte d'o chisto sistema
'a terra è 'a nosta e nun s'adda tuccà
INDIANA
testo: Giovanni Cattabriga (Wu Ming 2) e Marco Rovelli
musica: Marco Rovelli
Il testo di Indiana è stato scritto insieme a Giovanni Cattabriga, ovvero Wu Ming 2 in margine al suo reading Pontiac, che a sua volta nasce in margine al romanzo dei
Wu Ming Manituana.
È la storia di una rivolta di nazioni indiane, dodici anni prima della Rivoluzione
Americana, nel 1763. Una storia di tribù clandestine e senza diritti. Un’alleanza che
scavalca miglia e linguaggi, per chiedere dignità.
(E ho pensato che su questa canzone l'intervento di un musicista “in rivolta” come
Daniele Sepe fosse perfetto).
Indiana, ovvero il corpo in rivolta, il corpo in Comune.
C'è una rivolta di genti diverse che porta il tuo nome
ma le rivolte sono una festa che non ha un padrone
passano, vanno, non si accasano mai – traversano terre e frontiere
chi le battezza le vuole fermare - vederle morire
Pontiac in fondo è anche il nome di un'auto
Pontiac in fondo è un'auto
A me non importa il mio nome
Un nome solo si può sedare
Ma voglio sognare un sogno in comune
Io devo sapere chi siamo
Un'alleanza di genti diverse – nel '63
Nazioni indiane, coloni e tribù - cacciare gli inglesi, sconfiggere il re
Non per le terre nè per i fucili, l'orgoglio o il passato
Ma per sapere che cosa adesso - noi siamo
Pontiac in fondo è anche il nome di un auto
Pontiac in fondo è un'auto
A me non importa il mio nome
Un nome solo si può sedare
Ma voglio sognare un sogno in comune
Io devo sapere chi siamo
Ti hanno ammazzato nel bosco o in un forte delle praterie,
ti hanno ammazzato invidia o vendetta, o gelosia,
Hai avuto molte morti, e non è strano, per uno che era di molte nazioni,
profeta dell'arco, guerriero col fucile, devoto a molti dei.
Hai avuto molte morti ma non una risposta
Pontiac in fondo è un auto
A me non importa il mio nome
Un nome solo si può sedare
Ma voglio sognare un sogno in comune
Io devo sapere chi siamo
DEL BOSCO
testo e musica: Marco Rovelli
Un giorno, nel bosco. Un giorno di molti anni prima, nel canto.
Del bosco, ovvero il corpo che respira.
Giravo nel bosco di Monte Morello, col verso del corvo che gracchia, mi fermo,
rispondo a quel verso girando, con un passo in tondo, risuona nel bosco, il corvo
risponde al mio passo, ai miei passi, i passi di me che rispondo al suo verso, io che giro
in tondo e rispondo, con le braccia aperte ed arrese, io e il corvo parliamo, un verso ed
un passo, due passi e due versi, un verso più urlato ed un passo strusciato, e quando il
discorso è compiuto io chino la testa, io che sono grato, e il corvo non dice più niente.
Poi torno indietro, ed esco dal bosco, e dal limitare, appena ad un passo, il corvo
riprende il suo verso, come a salutare, rispondo con un altro passo, ed un giro, ed un
verso, a due passi due versi, e di nuovo, ed ancora, un altro silenzio.
SANTE CASERIO
Dal vivo. Valeva la pena chiudere con questo canto. Il più bello di tutta la tradizione
anarchica. Ero al festival Fino al cuore della rivolta, organizzato dagli Archivi della
Resistenza a Fosdinovo. A suonare, il gruppo di Daniele Sepe.
Il cd è stato co-prodotto dal Comitato della Memoria della Spezia nell'ambito del progetto “I
giovani e la memoria – 2009”.
Produzione artistica ed esecutiva: Marco Rovelli
Mixaggio: Fabio Martino e Marco Rovelli (studi Casa Bollente, Acqui Terme)
Editing e mastering: Fabio Martino
Registrazioni: voci, violoncelli, fisarmoniche e chitarre acustiche nello studio DDA
productions di Marco Della Bona; fisarmoniche, tastiere e voci nell'home studio di Davide
Giromini; chitarre elettriche e bassi nell'home studio Kobayashi; batterie nello studio di Luca
Bertone.
Grafica: Caterina Livi Bacci (Artico Design – www.articodesign.it)
Foto: Giuseppe Mistretta
Qualche ringraziamento personale (oltre quelli, impliciti, a chi ha fraternamente condiviso
parole e musica). A Camilla Barone per le empatie semiologiche e tutte le inattese vicinanze.
A Caterina Livi Bacci per il tratto grafico e il dono dell'amicizia. A Fabio Martino per il suo
acuto ascolto. A Giulio Milani che ha permesso a questo cd di essere distribuito nelle librerie
con Transeuropa edizioni. A Marco Ferrari e Patrizia Gallotti, essenziali per la sua
realizzazione. All'Istituto De Martino e agli Archivi della Resistenza per i palchi. A Michela
Camerini per la chitarra. Alla Scighera perché ci sono di casa. A Paolo Monteleone per la sua
accoglienza negli amati boschi della Brugiana.
Per contatti:
mail: [email protected]
sito web: www.marcorovelli.it
myspace: www.myspace.com/marcorovellisbandati
blog: www.marcorovelli.splinder.com
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Marco Rovelli