MARCO ROVELLI - LIBERTARIA TRACKLIST La Comunarda 5'10'' Gloria brucia 4'14'' La mia parte 4'33'' L'intimità 3'56'' Il campo 4'07'' Girotondo 4'03'' Sbandati 4'24'' Il dio dei denari 4'25'' Il tempo che c'è 6'33'' Al vino 4'30'' Lamento per la morte di Pier Paolo Pasolini 3'43'' Mea culpa 4'19'' L'odore del mondo 3'03'' Indiana 3'57'' Del bosco 2'08'' Sante Caserio (live) 5'49'' MUSICISTI Marco Rovelli – voce, chitarra acustica Lara Vecoli – violoncello Davide Giromini – tastiere, fisarmonica Andrea Marcori – chitarra elettrica Nicola Bogazzi – basso Flavio Andreani - batteria Ospiti Yo Yo Mundi (Paolo Enrico Archetti Maestri – voce e chitarra; Fabrizio Barale – chitarra; Andrea Cavalieri – basso; Fabio Martino – fisarmonica e tastiere; Eugenio Merico – batteria) in Sbandati Daniele Sepe: sax in Indiana e Del bosco Eva Milan: voce in L'intimità Bianca Giovannini: voce in L'odore del mondo Maurizio Bogazzi: chitarra in Girotondo Camilla Barone: voce recitante in Al vino LA COMUNARDA testo: Francesco Forlani e Marco Rovelli musica: Marco Rovelli La comunarda è un canto che celebra la comunità eretica e ribelle della Comune di Parigi, un canto di rivolta e di amore, dove le due cose tendono a essere la stessa. E', ancora e sempre, un fatto di visioni. E dunque il poeta sta sulle barricate, anche lui, Arthur Rimbaud, e scrive, scrive parole magiche che facciano accadere e dischiudano mondi. (Gli altri riferimenti del testo – che nasce da un fitto scambio di sms tra me e Francesco Forlani - siano come un ipertesto che rimanda alla storia della Comune...). La comunarda, ovvero i corpi resistenti e barricaderi. Furia barricadera degli amori Il tempo en rouge et noir confonde voci e l'alba con la sera en bandolieres I canti comunardi scavano miniere erigono palazzi sui boulevard della collina E coi ragazzi in cima ad alzare un drappo nero sul passato espirato con Lecomte Si fermino all'ora gli orologi oggi inizia un tempo nuovo in questa festa e viva ciò che resta! Abracadabrantesque, scrive il poeta sul selciato in fiamme di Parigi in questa evidente primavera! Baciami Juliette se si fa sera resta Menilmontant resiste ai tuoni e ai lampi dei cannoni E le baionette come un muro su a Montmartre Juliette cantami ancora il canto comunard Il tuo nome è segnato a dito sul vetro forse è questo dio, e al mio soffio si schiude è un volto che ride, o un rigo di luce io rido al tuo riso che mi dice sì. Lo spettro si aggira per le piazze all'hotel de ville in fiamme appare agli orologi a saint Lazare La ghigliottina brucia sotto gli occhi di Voltaire mentre canta Louise Michel mai più carne all'uomo e schiavi ai re. Juliette tu sei la rosa come il pane libertà di maggio antica sposa floreale allez Juliette versami da bere Côtes-du-Rhône di botte scura perché su queste mura si vive o si muore ma senza più paura Il tuo nome è segnato a dito sul vetro forse è questo dio, e al mio soffio si schiude è un volto che ride, o un rigo di luce io rido al tuo riso che mi dice sì. Ton nom est signé du doigt sur la vitre je vois ça c'est dieu, il s'éclot à mon souffle un visage qui rit, une lumière qui s'ouvre moi je ris à ton rire qui me dit oui. E tra i tamburi il soffio di mille respiri canti liberi e stendardi come un cielo suono dei liberi e rumore di corpi vivi tra i tamburi il soffio di mille respiri GLORIA BRUCIA testo e musica: Marco Rovelli E' un testo che nasce come canzone per una relazione d'amore (e brani di Amelia Rosselli e Samuel Beckett a definirla), ma che già dentro di sé aveva materiale (bio)politico. Crescendo, quel materiale ha preso il sopravvento. In tempi di attacco alla 194, il corpo è sempre di più il campo di battaglia. Un grido di resistenza nell'era biopolitica, dunque. Ma non solo questo. Oggi la natura essenziale del potere è duplice: biopolitico e insieme spettacolare. Lo Spettacolo è il regno del falso (“lo Spettacolo è il mondo realmente rovesciato, dove il vero è un momento del falso”). E allora, la Gloria del testo non può che essere quella di cui scrive Giorgio Agamben nel suo "Il Regno e la Gloria": “Se i media sono così importanti nelle democrazie moderne, ciò non è, infatti, soltanto perché essi permettono il controllo e il governo dell’opinione pubblica, ma anche e soprattutto perché dispensano e amministrano la Gloria, quell’aspetto declamativo e dossologico del potere che nella modernità sembrava scomparso. Ciò che restava un tempo confinato nelle sfere della liturgia e dei cerimoniali si concentra nei media e si diffonde e penetra in ogni istante e in ogni ambito, tanto pubblico che privato, della società." Gloria brucia, ovvero il corpo come campo di battaglia. Gloria brucia e tutto intorno è acqua e non si basta mai ecco vi è un'ultima volta persino per le ultime volte ultime volte per mendicare ultime volte per amare Ecco ogni ultima volta ancora sempre la prima volta ultima volta per iniziare ultima volta per amare Fluisce fra me e te un chiarore che deforma, un chiarore che deforma ogni passata esperienza Fluisce fra me e te ogni volta per sempre il chiarore che deforma ogni passata esperienza Mi aggrappo alle ossa e vertigine voglio Ma sono fuori controllo Io sono fuori controllo Mi aggrappo alla voce ed è canto che voglio E resto fuori controllo Io sono oltre il controllo E questo mio corpo è un campo di battaglia O questo mio corpo è un canto di battaglia Gloria brucia e tutto intorno è acqua e non si basta mai LA MIA PARTE testo: Maurizio Maggiani e Marco Rovelli musica: Marco Rovelli La mia parte è ispirata a situazioni e personaggi del romanzo Il coraggio del pettirosso di Maurizio Maggiani, e il testo della canzone è stato “congedato” insieme all'autore del romanzo. La comunità a venire è una comunità fatta di singolarità, ognuna delle quali vuole “la mia parte di Dio, la mia parte di anarchia”. “L'anarchia an se po' dir”, diceva un cavatore, echeggiando inconsapevolmente Cusano e i mistici della teologia negativa. Non si può dire l'anarchia, come non si può dire l'amore. (L'anarchia e l'amore. O l'anarchia è l'amore?). Sono cose che si fanno, e poi si tentano confusamente di raccontare. O, ancora meglio, di cantare. La mia parte, ovvero il corpo amante. Anarchico e amante. Nel giardino dei mirti un etiope parlava Azena parola di tagliola diceva a un ingegnere mezzo apuo e mezzo niente che a un poeta basta una parola sola per scintillare mondi e sciogliere frontiere saltare oltre ogni retta via parlò finalmente il giovane ingegnere io voglio la mia parte di Dio la mia parte di anarchia L'anarchia non smette mai di domandare diceva la donna dei deserti e il giovane sostava e aveva voglia di baciare quella bocca sopra i suoi seni offerti dopo il caffè speziato mentre colava miele schiudeva amore splendeva Fatiha e un'altra volta ancora parlò il giovane ingegnere io voglio la mia parte di Dio la mia parte di anarchia Stare dentro un cerchio che non ha circonferenza un cerchio con il centro in ogni dove rispondere in silenzio sguardo all'orizzonte altrove Bello è il deserto, puro e pulito e nulla ci può marcire c'è solo pietra e silenzio infinito e nessuna voglia di morire Risplende forte e lieve il pensiero che pare illumini la via e come cantasse al mondo intero io voglio la mia parte di Dio la mia parte di anarchia Brucia di vita in quelle notti deserte al centro del cielo brucia di vita il giovane aspetta e si trova disarmato e solo Strappati il cuore, il poeta declama voce saggia di follia strappalo e mangia, ché Fatiha ti ama lei è la tua parte di Dio la tua parte di anarchia Stare dentro un cerchio che non ha circonferenza un cerchio con il centro in ogni dove risplendere in silenzio sguardo all'orizzonte altrove L'INTIMITA’ testo: Erri De Luca e Marco Rovelli musica: Marco Rovelli L'intimità è il risultato della riscrittura di un testo che Erri De Luca aveva scritto per me qualche anno fa per essere musicato: la canzone si intitolava “Il maggio di Belgrado”, e raccontava la comunità dei belgradesi sotto i bombardamenti della Nato nel 1999. “Quando cresce il pericolo aumenta pure tutto ciò che salva”, recita il ritornello, che poi è un verso di Hölderlin tradotto da Erri: mi sono chiesto quale sia stato il mio tempo di massimo rischio e di massima salvezza. E mi sono risposto: Genova 2001, i giorni di quel luglio. Naturale farlo, anche perché Erri, su quella “nostra” Genova, ha scritto a lungo. L'intimità, ovvero i corpi in strada, esposti al rischio, alla salvezza. Nel mese di luglio di quell'anno primo per le strade sopra il mare erano i corpi all'erta vedevano salire a schiere giù dal mare anime nere Agli occhi i cieli cadevano i fumi accecavano il cammino ma quelle grida non cancellavano un'intimità Quando cresce il pericolo aumenta ciò che salva Quando cresce il pericolo aumenta tutto ciò che salva Ché dai vili di anima serva, sempre c'è chi diserta Quando cresce il pericolo, aumenta pure tutto ciò che salva Lo ha scritto un poeta che non era a Genova nel mese di luglio di quell'anno primo era morto da un secolo e mezzo ma stava con noi nella tempesta E mi sono salvato con la contraerea dei poeti E ci siamo salvati con la contraerea dei poeti E mi sono salvato con lo sguardo teso dei poeti E ci siamo salvati con lo sguardo teso dei poeti Cantano i poeti la dimenticanza cantano il sangue cantano l'erranza cantano i poeti e non hanno memoria di qualche utilità e del danno della storia IL CAMPO testo e musica: Marco Rovelli Ho scritto, nel 2006, Lager italiani. Storie di migranti reclusi nei centri di espulsione (Cpt, ora Cie) – dove si mette mano spesso e volentieri al bastone, per mettere “al loro posto” questi uomini inferiori. Questi “Alì dagli occhi azzurri” le cui traversate erano state profetate poeticamente da Pier Paolo Pasolini molti decenni fa. Qui canto quelle traversate. Nel 2009 ho chiuso un nuovo libro, Servi, dove racconto il mio viaggio nell'Italia dei clandestini al lavoro. E racconto, appunto, la loro natura servile, necessaria alla nostra economia – una natura che prende forma storia dopo storia. Come quella di Soufiane, che qui canto, che mi ha detto “Ma ti dico cosa? E' la parabola!”. Sì, la parabola, che induce desideri, il medium dello Spettacolo. I migranti che rifiutiamo sono l'immagine rovesciata del desiderio della società occidentale. Il campo, ovvero il corpo clandestino. Sul bordo estremo dei secoli orlo di terra solare l’invisibile straccione folle senza protezione Col bastone Scaccia l’animale impertinente Dentro il campo Il bastone fuori non si sente (Con l’approvazione della gente) Sul bordo estremo dei secoli orlo di terra solare l’invisibile straccione folle senza protezione Offre il corpo alle tempeste Sopra i legni dell’addio Rischia tutte le sue vite A imitazione di dio Col bastone… Sunugaal nostra piroga Solca il mare del destino E' il coraggio dell'attesa Luce di un nuovo mattino Sunugaal nostra piroga Solca il mare del destino Ma se riesci ad arrivare Sei solo un altro clandestino Tra le dita scorre il cielo Nostra patria è il mondo intero Soufiane vende la menta E’ da secoli che si accontenta Di stare sull’angolo di un mercato Soufiane sta dietro il banco Di lui si fidano che sembra un bianco Gli occhi chiari giusti per un venditore Con quegli occhi lui vedeva Oltre il mare e s’immaginava Altre vite altre scarpe ed altri mari Ma ti dico cosa? E’ la parabola Che ci alza la pressione E ti spinge sul barcone Dal bastone S’alza l'animale impertinente Clandestino Per lo regno della morta gente GIROTONDO testo e musica: Marco Rovelli Girotondo intorno al fuoco cattivo. Il fuoco dei pogrom ai campi rom. Fuochi che si accendono nella notte della ragione. Notte percorsa da lupi, come nella giungla hobbesiana. Guerra tra uomo e uomo, guerra tra poveri, paura. E dalla paura, il sovrano assoluto a cui si cedono volentieri tutti i diritti. Ripartire dalla visione della catastrofe, dunque. Tenere gli occhi spalancati nella catastrofe è la salvezza: proprio la considerazione del fatto dell’impossibilità della salvezza – l’irredimibilità del tutto - è la salvezza. Iniziare, dunque, ancora una volta. Girotondo, ovvero il corpo inarreso. Guarda quanto s'approssima il giorno che non ci si può sporger più in là e bisogna che togli di torno chi a te essere simil non sa Guarda quanto è fonda la notte non ci sono che lupi oramai tu da solo ti farai giustizia anche se luce non ne vedrai Guarda quel fuoco che s'alza davanti brucia ogni cosa che voce non ha guarda le fiamme che s'alzan d'intorno in ogni campo un nemico ci sta Guarda quanto rigoglio di roba occhi gonfi di specchi e irrealtà cuori pieni di vuoto e paura mano che tutto consumerà Guarda il marchio dell'uomo nuovo testa alta e fierezza gli dà brucia il senso di un tempo sbagliato lava colpe che lui non ha Guarda quel passo dell'oca che avanza in vesti morbide, così charmant guarda quell'uomo che ride da squalo sta digerendo la sua civiltà Guarda che bello questo girotondo che la terra cascare ormai fa guarda che rotola in un precipizio con gli occhi chiusi a questa immensità E si spalanca il mondo e cade nell’aperto La bocca si apre muta al suo deserto Si apre il corpo al mondo in viscere e parole Versate e messe a seccare al sole Si versa il sangue è sparso, si aprono le vene si perde tutto ciò che ci appartiene Si versano le lacrime, hai lacrimato troppo Si spalanchi la luce nel tuo occhio E orbite e fuochi, e atomi innocenti che inclinano ad ignoti movimenti E l’universo è solo un attimo d’incendio Inclina il cuore all’ultimo dispendio E non c’è mai scampo allo spazio aperto Accoglie il sangue il prossimo deserto E vive il sangue un nuovo ricambio di stagione Il cuore ha la sua rivoluzione SBANDATI testo e musica: Marco Rovelli Scrissi il ritornello di Sbandati (Fuochi sulla montagna) un 25 aprile, al sacrario partigiano di Ca' Malanca, in Romagna. Quella di sbandati è la condizione della guerriglia partigiana, ma è al tempo stesso una condizione universale, di resistenza ed esodo. Per questo ho voluto che a suonarla fossero gli Yo Yo Mundi. Un segno sonoro di fratellanza. Come un 20 luglio a piazza Alimonda, con Paolo Archetti Maestri, dove si trattava, ancora, di iniziare. Sbandati, ovvero il corpo in esodo. Fuochi sulla montagna e sotto il mare Un canto s’innalza E’ ora d’andare Lasciarsi alle spalle tutto il male Con un inno nuovo da imbracciare C’è tutta una strada da segnare E mentre cammini continua a cantare Noi sbandati noi disertori che sosteniamo la terra Miscredenti d’immensa fede noi che spalanchiamo il cielo Da una vetta all’altra per il crinale Prenditi il tuo tempo per respirare Lubrifica i sensi per mirare E sottovoce ricorda di cantare Noi sbandati noi disertori che sosteniamo la terra Miscredenti d’immensa fede noi che spalanchiamo il cielo Apri il cuore all’improvviso Faccia a faccia col destino La tua libertà lo sorprenderà Cambia identità Fuochi sulla montagna e un altro mare Ancora un canto s’innalza E’ ora d’andare Guardarsi in avanti ed iniziare Guardare in avanti e raccontare C'è un'altra strada da tracciare E quando vedi il fuoco riprendi a cantare Noi sbandati noi disertori che sosteniamo la terra Miscredenti d’immensa fede noi che spalanchiamo il cielo IL DIO DEI DENARI testo e musica: Marco Rovelli Ho fatto un viaggio nell'Italia delle morti da lavoro, per capire che cosa significa morire di lavoro, perché lavorare uccide. Ho incontrato molte donne: madri, mogli. Che raccontavano un'assenza. Uomini sacrificati al dominio della Macchina Produttiva, e del Profitto. Di questo poi ho scritto nel libro Lavorare uccide. E nel corso di questo viaggio ho scritto questa canzone, per il coraggio e la forza di quelle donne. Canzone che poi si estende ad altre donne – come Haidi Giuliani. Il dio dei denari, ovvero il corpo ridotto a ingranaggio della Macchina Produttiva. L’angelo schiavo, accecato, impotente sigilla di sangue innocente le porte poi viene il signore onnipotente e alle soglie imbiancate scombina la sorte Siede per terra, la donna E soffia via la cenere Guarda il cielo di sbieco E non può più attendere Intorno tutto è infecondo E negli occhi il deserto In fine è un grido che s'alza Dal suo seno aperto Eccolo il dio dei denari Che brucia vite e ne fa scorta Macchina viva, carne morta Non tutti gli umani sono uguali Eccolo il dio dei denari Questo tempo labile ha un segno indelebile che chiama a raccolta la forza dei mari per aprire bocche dischiudere mani ed un'altra vita sia in salvo domani. Lo sguardo davanti al passato disperso, la donna si vede riflessa nel suo rovescio Lo sguardo davanti al passato impuro, la donna si strappa di bocca il tempo futuro Ma come una terra profonda che trema si alza e conosce da un segno che è tempo di andare Si alza e impone un ritmo al suo passo, non più silenzio né pianto, è pronta a gridare Eccolo il dio dei denari Che brucia vite e ne fa scorta Macchina viva, carne morta Non tutti gli umani sono uguali Eccolo il dio dei denari IL TEMPO CHE C'E' testo e musica: Marco Rovelli E se la strada per arrivare a un tempo altro, diverso, migliore – fosse la lentezza? Se fosse l'ascolto dei nostri bisogni più intimi e lenti, e sottovoce – la sola strada percorribile per uscire dall'impasse? Si parla di decrescita – ma si può decrescere il consumo solo a patto di accrescere l'ascolto del corpo, del suo alfabeto, del suo silenzio. E del corpo dell'altro nel cui occhio sappiamo “vedere” il tempo che non c'è. Ché sapendo vedere il tempo che non c'è, si può vivere con pienezza il tempo che c'è. Il tempo che c'è, ovvero il corpo visionario - l'utopia sulla pelle. Lentamente Lentamente Come gocce di terra Lentamente Come sangue Di serpente Scorre piano dentro me Lentamente Lentamente io divento incandescente Lentamente io sono lucente pelle Lentamente sono come diamante Lentamente divento trasparente Io amo il tempo che non c’è E’ un’altra distrazione Mi distoglie dalla presa È la mia condizione La visione e poi l’attesa Ma dentro il tuo occhio Riconosco la mia forma Che assomiglia al tempo che non c’è Finalmente Sono assente La mia pelle non è più Respingente Finalmente Sono assente La mia pelle non è più Respingente Dentro il fuoco chiama E niente lo consuma Fiamma fiamma di sale bagliore Si leva in alto il cuore E' un’altra distrazione Mi distoglie dalla presa E' la mia condizione La visione dell’attesa Ma dentro il tuo occhio Riconosco la mia forma Che assomiglia al tempo che non c’è Io amo il tempo che non c’è Il tempo che c'è AL VINO testo: Francesco Forlani e Marco Rovelli musica: Marco Rovelli Un'altra celebrazione del “comune”, della comunità come festa: Al vino, il cui testo è stato scritto insieme a Francesco Forlani e – nonostante la distanza spazio-temporale - a Omar Khayyam. E allora un brindisi, alla carrarina. Si leva il bicierin in alto, lo si fa digradare verso terra, poi lo si porta a sinistra e infine a destra: un segno della croce, insomma, e l’importante è che l’occhio non perda mai di vista il vino. Si salmodia nel gesto apotropaico: “ciar i è ciar - muss’lin a ni né - te ‘n t’l vo - te nemanc - al bev me” (chiaro è chiaro – moscerini non ce n'è – te non lo vuoi – te neanche – lo bevo io). Va da sé che si pronuncia l’ultimo verso levando il bicierin alla bocca per assimilare il Verbo. Al vino, ovvero il corpo ebbro, estatico. Si beve quando è luce e allora sei felice si beve quando è scuro e hai paura oppure bevi se non succede niente perchè non ti sembra vero che non succede niente Si beve quando c'è troppo da capire e il troppo è già tutto capito Si beve per non avere più nulla da dire Vini da pietra che fu terra un giorno rosso rubino da portare in bocca demoni che la sete spegne versando ai calici le ali dei vitigni Ci sono bottiglie che conservo e non bevo nella mia cantina Ci sono bottiglie vuote da molto prima Ci sono bottiglie che avranno sempre vino da dare Vino dei liberi Vino rubino color tulipano libera sangue dalla gola di bottiglia perchè oggi non esiste per me un altro amico intimo e puro Vino rubino color tulipano Apri alla gola il bicchiere di sangue che oggi oltre la coppa di vino altro intimo amico non c'è Vini che scendono lenti la sera ed ogni sorso è un brivido di luce come di sole all'alba in primavera Fonte aperta sulla bocca decanta avvenire e versa coi sogni perché domani è ai vinti il vino e i suoi rintocchi LAMENTO PER LA MORTE DI PIER PAOLO PASOLINI testo e musica: Giovanna Salviucci Marini Un antico lamento per la morte di Cristo, canto paraliturgico medievale nelle sacre rappresentazioni. Un canto che nel dicembre del 1975 Giovanna Marini riprese e trasformò per Pier Paolo Pasolini, assassinato il mese prima. E sulla presenza di Pasolini a noi, non serve spendere ulteriori parole. E' qualcosa che si vive, e si sa. Lamento per la morte di Pier Paolo Pasolini, ovvero il corpo sacrificale. Persi le forze mie persi l'ingegno la morte m'è venuta a visitare "e leva le gambe tue da questo regno" persi le forze mie, persi l’ingegno. Le undici le volte che l'ho visto gli vidi in faccia la mia gioventù o Cristo me l'hai fatto un bel disgusto! le undici le volte che l'ho visto l'undici e un quarto mi sento ferito davanti agli occhi ho le mani spezzate e la lingua mi diceva "è andata è andata" l'undici e un quarto mi sento ferito l'undici e mezzo mi sento morire la lingua mi cercava le parole e tutto mi diceva che non giova l'undici e mezzo mi sento morire mezzanotte m'ho da confessare cerco perdono dalla madre mia e questo è un dovere che ho da fare mezzanotte m'ho da confessare ma quella notte volevo parlare la pioggia il fango e l’auto per scappare solo a morire lì vicino al mare ma quella notte volevo parlare e non può non può può più parlare può più parlare e non può non può può più parlare può più parlare e non può non può può più parlare può più parlare Persi le forze mie persi l'ingegno e la morte m'è venuta a visitare "e leva le gambe tue da questo regno" persi le forze mie, persi l’ingegno. MEA CULPA testo e musica: Marco Rovelli Céline, nel suo pamphlet Mea culpa, scritto nel 1936 di ritorno dalla Russia dov'era andato a riscuotere i diritti d'autore del Viaggio al termine della notte (il romanzo di Bardamu), gridava con rabbia come in quel paese l'uomo fosse asservito al lavoro, fosse diventato mera appendice della macchina produttiva, né più né meno che in Occidente. Da quel momento, il “Bardamu” in carne e ossa si diede alla sua deriva delirante, carica d'odio per l'umanità. Due anni prima Henry Miller aveva scritto nel Tropico del capricorno: "Il lato buffo di tutti questi sistemi di governo utopistici è che continuano a promettere di liberare l'uomo… ma anzitutto cercano di farlo funzionare come un orologio caricato per otto giorni. Chiedono all'individuo di diventare schiavo per rendere possibile la libertà del genere umano. E' una strana logica. Non dico che il sistema attuale sia migliore; in realtà, sarebbe difficile immaginare qualcosa di peggio di quel che abbiamo adesso. Ma so che non si miglioreranno le cose rinunciando ai piccoli diritti di cui ancora disponiamo". Ecco. L'Uomo Nuovo non è arrivato, se ci troviamo di nuovo in un tempo in cui i diritti fondamentali sono sotto attacco, e pare non esserci un adeguato pensiero di resistenza, né di un movimento che la faccia. E' giunto il momento di andare “oltre il Novecento” e ripensare la politica. Riaccendere un fuoco di prassi e di pensiero che parta da singolarità inappartenenti, e che pratichino una costante, quotidiana opera di resistenza e contrattacco nei confronti dello stato di cose presente. Mea culpa, ovvero il corpo perduto di Bardamu. Giù la testa Stiamo per essere circondati Il glorioso esercito della salvezza Non è riuscito nella sua eroica missione Sembrava semplice attraversare la strada Evitare tutte quelle storie Che incrociavano il nostro cammino Sembrava semplice E siamo stati travolti Sull’asfalto bagnato Da queste strisce di luce Di questo dio dilaniato Dai cattivi pensieri di Bardamu di ritorno dalla guerra Da fatica e solitudine che lo avevano preso in trappola Dalla musica che non c’era più per far danzare la vita Dagli incubi E siamo stati travolti Sull’asfalto bagnato Da queste strisce di luce Di questo dio dilaniato Siamo stati travolti Da questa e da mille altre storie E pensare che il marciapiede di fronte Pareva lì a due passi Proprio a portata di mano Lì davanti c’era il sole La luce L’alba Su la testa Adesso lo facciamo noi un bel cerchio Non più eserciti, non più gloria Ma un fuoco Reclamo la mia inappartenenza il barbaro richiamo senza terra l’accoglienza al vento che devasta e libera presenza l’occhio rivoltato al poi il furore placato il corpo abbandonato al suo deserto. Reclamo l’odio senza oggetto l’amore che ne stilla senza colpa il tormento che abita il silenzio. Reclamo la parola la sua notte. La mia riconoscenza. La poesia recitata, Reclamo la mia inappartenenza, è contenuta nel libro Corpo esposto. L'ODORE DEL MONDO testo e musica: Marco Rovelli L'odore del mondo è un canto a margine di Gomorra, nato da un'idea condivisa con Roberto Saviano. Dopo la cena di una sera, quando ho scoperto l'amore di Roberto per “Briganti se more”, antico inno resistente di un Sud ribelle. Facciamolo volto all'oggi, ho detto, con la resistenza alla Gomorra. Quale l'arma dell'oggi, per chi a essa si vuole sottrarre? Anzitutto, gli occhi aperti, attenti: il sapere, anzitutto. Ecco allora l'incipit: "Noi che sappiamo". Un sapere incarnato in una matericità tattile, nelle cose - in quelle cose, in quell'impasto di calce e sangue che tira giù dall'empireo i frattali dei manuali d'economia. Prendere in mano le pietre e i mattoni e farne pietre d'angolo di una "nostra" intifada - in forme da sapere, da immaginare, da creare. L'odore del mondo, ovvero il corpo che odora il potere. Noi che sappiamo l’odore del mondo E facciam conto della verità Ora cantiamo una nuova canzone Che altre genti dovranno cantar Che altre genti dovranno cantar Dentro l'odore di malta e cemento pietre e mattoni senza pietà in una tomba di mala creanza è chiuso il colmo della nostra età. La verità è di questa parola riscatto che prigionieri non fa tutto divora e di tutto fa prova Questa è la prova della verità Prendere in mano le pietre e i mattoni farne scuppetta per un'altra età vedere Ciro che torna alla terra e che con noi si mette a cantar E mo cantammo sta nova canzone tutta la gente se l'adda 'mparà nun ce ne fotte d'o chisto sistema 'a terra è 'a nosta e nun s'adda tuccà INDIANA testo: Giovanni Cattabriga (Wu Ming 2) e Marco Rovelli musica: Marco Rovelli Il testo di Indiana è stato scritto insieme a Giovanni Cattabriga, ovvero Wu Ming 2 in margine al suo reading Pontiac, che a sua volta nasce in margine al romanzo dei Wu Ming Manituana. È la storia di una rivolta di nazioni indiane, dodici anni prima della Rivoluzione Americana, nel 1763. Una storia di tribù clandestine e senza diritti. Un’alleanza che scavalca miglia e linguaggi, per chiedere dignità. (E ho pensato che su questa canzone l'intervento di un musicista “in rivolta” come Daniele Sepe fosse perfetto). Indiana, ovvero il corpo in rivolta, il corpo in Comune. C'è una rivolta di genti diverse che porta il tuo nome ma le rivolte sono una festa che non ha un padrone passano, vanno, non si accasano mai – traversano terre e frontiere chi le battezza le vuole fermare - vederle morire Pontiac in fondo è anche il nome di un'auto Pontiac in fondo è un'auto A me non importa il mio nome Un nome solo si può sedare Ma voglio sognare un sogno in comune Io devo sapere chi siamo Un'alleanza di genti diverse – nel '63 Nazioni indiane, coloni e tribù - cacciare gli inglesi, sconfiggere il re Non per le terre nè per i fucili, l'orgoglio o il passato Ma per sapere che cosa adesso - noi siamo Pontiac in fondo è anche il nome di un auto Pontiac in fondo è un'auto A me non importa il mio nome Un nome solo si può sedare Ma voglio sognare un sogno in comune Io devo sapere chi siamo Ti hanno ammazzato nel bosco o in un forte delle praterie, ti hanno ammazzato invidia o vendetta, o gelosia, Hai avuto molte morti, e non è strano, per uno che era di molte nazioni, profeta dell'arco, guerriero col fucile, devoto a molti dei. Hai avuto molte morti ma non una risposta Pontiac in fondo è un auto A me non importa il mio nome Un nome solo si può sedare Ma voglio sognare un sogno in comune Io devo sapere chi siamo DEL BOSCO testo e musica: Marco Rovelli Un giorno, nel bosco. Un giorno di molti anni prima, nel canto. Del bosco, ovvero il corpo che respira. Giravo nel bosco di Monte Morello, col verso del corvo che gracchia, mi fermo, rispondo a quel verso girando, con un passo in tondo, risuona nel bosco, il corvo risponde al mio passo, ai miei passi, i passi di me che rispondo al suo verso, io che giro in tondo e rispondo, con le braccia aperte ed arrese, io e il corvo parliamo, un verso ed un passo, due passi e due versi, un verso più urlato ed un passo strusciato, e quando il discorso è compiuto io chino la testa, io che sono grato, e il corvo non dice più niente. Poi torno indietro, ed esco dal bosco, e dal limitare, appena ad un passo, il corvo riprende il suo verso, come a salutare, rispondo con un altro passo, ed un giro, ed un verso, a due passi due versi, e di nuovo, ed ancora, un altro silenzio. SANTE CASERIO Dal vivo. Valeva la pena chiudere con questo canto. Il più bello di tutta la tradizione anarchica. Ero al festival Fino al cuore della rivolta, organizzato dagli Archivi della Resistenza a Fosdinovo. A suonare, il gruppo di Daniele Sepe. Il cd è stato co-prodotto dal Comitato della Memoria della Spezia nell'ambito del progetto “I giovani e la memoria – 2009”. Produzione artistica ed esecutiva: Marco Rovelli Mixaggio: Fabio Martino e Marco Rovelli (studi Casa Bollente, Acqui Terme) Editing e mastering: Fabio Martino Registrazioni: voci, violoncelli, fisarmoniche e chitarre acustiche nello studio DDA productions di Marco Della Bona; fisarmoniche, tastiere e voci nell'home studio di Davide Giromini; chitarre elettriche e bassi nell'home studio Kobayashi; batterie nello studio di Luca Bertone. Grafica: Caterina Livi Bacci (Artico Design – www.articodesign.it) Foto: Giuseppe Mistretta Qualche ringraziamento personale (oltre quelli, impliciti, a chi ha fraternamente condiviso parole e musica). A Camilla Barone per le empatie semiologiche e tutte le inattese vicinanze. A Caterina Livi Bacci per il tratto grafico e il dono dell'amicizia. A Fabio Martino per il suo acuto ascolto. A Giulio Milani che ha permesso a questo cd di essere distribuito nelle librerie con Transeuropa edizioni. A Marco Ferrari e Patrizia Gallotti, essenziali per la sua realizzazione. All'Istituto De Martino e agli Archivi della Resistenza per i palchi. A Michela Camerini per la chitarra. Alla Scighera perché ci sono di casa. A Paolo Monteleone per la sua accoglienza negli amati boschi della Brugiana. Per contatti: mail: [email protected] sito web: www.marcorovelli.it myspace: www.myspace.com/marcorovellisbandati blog: www.marcorovelli.splinder.com