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Olivia Crosio
La felicità
non fa rumore
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Questa è un’opera di fantasia.
Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistiti è puramente casuale.
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© 2015 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia
Prima edizione: luglio 2015
Pubblicato in accordo con Loredana Rotundo Literary Agency
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Anno
2019 2018 2017 2016 2015
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La ragazza entrò in cucina con quello sguardo che sanno avere
solo gli adolescenti, in grado di far indispettire all’istante. Al­
lontanò la sedia dal tavolo facendo più rumore possibile, ma
sorridendo con tutta la falsità di cui era capace.
«Ciao pa’» disse, insinuandosi nella malavogliosa conver­
sazione tra lui e sua madre. «Come mai da queste parti? La tua
bella ti ha sbattuto fuori?»
Lui, che si stava dondolando sulle gambe della sedia co­
me uno scolaretto, si scostò stizzito il ciuffo nero dagli oc­
chi. «È mercoledì» rispose, allargando le braccia muscolose
e guardandola con quel suo fare sommessamente aggressivo.
«Avevo detto che oggi sarei venuto. Tua madre non ti aveva
informato?»
«No, figurati. O forse voleva farmi una bella sorpresa» repli­
cò la ragazza, dispiegando il tovagliolo sulle gambe.
Lui si impose di non alimentare l’incendio.
«Ho pensato che d’ora in poi il mercoledì verrò qui a cena.»
«Oh, ma che bello» disse lei in tono fiacco. E dopo la dovuta
pausa a effetto: «Perché?».
«Per stare un po’ con voi, mi pare ovvio» ribatté il padre,
rimboccandosi con cura le maniche della camicia. Se guerra
doveva essere, che guerra fosse.
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La ragazza lo fissò incredula. «Hai deciso di fare il papà? Ma
guarda che non occorre, sai? Ormai il grosso del lavoro l’ho
fatto io da sola. E con buoni risultati, direi.»
«Qualcosa ti posso ancora insegnare.»
«Davvero? A firmare un assegno, magari? Ah, ho capito! Sei
venuto qui perché vuoi aprirmi un conto in banca! Ma grazie,
papà! È il tuo regalo per il diciottesimo?»
Silenzio.
Sguardo del padre sui vari oggetti sopra la tavola, piatti, salie­
ra, oliera… Sguardo della ragazza penetrante come un trapano
su di lui, inutilmente. Sguardo furtivo della madre su entrambi,
leggermente allarmato.
Rumore di pentole. Rumore di osso sgranocchiato sotto il
tavolo. Lui si versò un bicchiere di vino, dopo aver letto con
cura l’etichetta.
«Questo da dove viene?» domandò, posando la bottiglia.
«Per favore, metti il salvagocce. È nel cassetto delle posate da
cucina» disse la madre alla figlia, senza smettere di mescolare il
risotto con il cucchiaio di legno. «Il vino viene da Duccio, me
ne ha regalata una cassetta non so più quando.»
Mentre la ragazza frugava rumorosamente sotto i mestoli e
le palette d’acciaio, per poi infilare il salvagocce sul collo della
bottiglia, lui fece girare il vino nel bicchiere e lo annusò, quindi
lo assaggiò schioccando la lingua, con una piccola sceneggiata
casalinga da vero intenditore.
«Mica male. Duccio il vino lo sa comprare. A proposito,
come stanno lui e Rossana?»
«Bene. Solito.» La madre servì il risotto allo zafferano con
il mestolo, direttamente dalla pentola. Da sotto il tavolo sbucò
il muso irsuto di uno spinone, che annusò in giro, accettò una
carezza dalla padroncina e tornò a sgranocchiare il suo osso.
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Sblob, fece il risotto, cadendo dal mestolo. La ragazza lo ri­
coprì di grana.
«C’è bisogno di mettere tutto quel formaggio?» disse irritato
suo padre. «A noi non ne lasci?»
Marta guardò la formaggiera e poi lui con un’aria che sem­
brava voler dire: Ma sei fuori?
«Ce n’è ancora un casino!»
Lui finse di non aver nemmeno parlato e se ne versò un
modesto cucchiaino. La madre, intanto, era sempre prudente­
mente zitta.
«Vedo che ti trucchi, ultimamente.»
La ragazza sollevò un po’ di riso con la forchetta e ci soffiò
sopra. «Già.»
«Mi piaci di più acqua e sapone.»
«Già.»
Dopo aver posato la pentola vuota sui fornelli, la madre si
slegò dalla vita il vezzoso grembiulino da cucina e si sedette an­
che lei a tavola. «Com’è venuto?» domandò, studiando i chicchi
gialli nel piatto.
«Manca di sale» ripose il marito.
Lei assaggiò il riso. «Ma no, a me sembra perfetto.»
«Ti dico che è sciapo.»
«Aggiungi un po’ di sale, allora. È lì» suggerì pazientemente
lei, indicando il centro del tavolo.
«No, aggiunto dopo non è la stessa cosa. Ormai lo mangio
così.»
Lei sospirò. La figlia prese la saliera e salò abbondantemente
il riso, che non aveva ancora assaggiato.
«Come va la scuola?» domandò il padre.
«Bene» sintetizzò la ragazza, pensando che tanto non poteva
interessargli davvero.
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Lui la guardò piccato. «Tutto qui?»
«Sì. Come va il lavoro?»
«Bene» sintetizzò lui, pensando che tanto non poteva inte­
ressarle davvero.
La ragazza diede una scrollatina di spalle e allargò la mano
che non reggeva la forchetta. «Lo vedi? Bene è la risposta giu­
sta.»
Da quel momento non aprì più bocca. I suoi genitori chiac­
chierarono distrattamente fra loro fino al dessert, che lei si portò
in camera dicendo che doveva finire di studiare.
Dopo un po’ suo padre srotolò le maniche della camicia,
infilò la giacca e se ne andò senza passare a salutarla. Non per
disinteresse, anzi: stava giusto pensando a come farle scontare
tutta quella spocchia. Non aveva fretta. Davanti a lui si esten­
deva un intero inverno di mercoledì sera. Sua figlia era una
ragazza difficile, andava domata, e la madre non ne era in grado.
Ci voleva il polso paterno, un modello maschile, qualcuno che
dettasse regole precise e controllasse che venissero rispettate.
Si sarebbe messo d’impegno, avrebbe trascorso ogni settimana
almeno un’ora in quella cucina. Prima che qualcuno venisse a
dirgli che non era un buon padre. Già.
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Nella nuvola
Dopo l’aquagym e l’idromassaggio, snellenti, modellanti e to­
nificanti, Letizia del Fante decise di farsi un giretto nell’area
termale della palestra, e per la precisione nel bagno thalasso,
questo invece depurante delle vie respiratorie. Così andò sotto
la doccia tiepida di fianco alla piscina per sciacquarsi di dosso
il cloro e, dopo aver infilato la cuffia nella tasca dell’accappa­
toio blu, appeso con gli altri nel piccolo vestibolo piastrellato,
raddrizzò la bionda coda di cavallo, spinse la porta di vetro e si
ritrovò nella stanzetta piena di vapore. Così tanto vapore che
le parve di entrare in una nube, perché non vedeva nemmeno
il pavimento su cui stava camminando. Era sempre così, nel
bagno thalasso, e Letizia non sapeva neppure come fosse fatto
l’interno: se fosse rotondo o rettangolare, e quanto profondo.
Lei entrava e si sedeva subito sul secondo gradone a destra, vi­
cino alla doccetta. Da lì si sentiva un gorgoglio d’acqua, come se
da qualche parte oltre la densa cortina fumosa ci fosse una fon­
tanella, ma lei non l’aveva mai vista. Non era nata esploratrice.
Nell’aria aleggiava un vago sentore di alghe e salsedine,
insomma un’imitazione sintetica dell’odore del mare. Letizia
sfilò le ciabatte di gomma e fece per inerpicarsi al solito posto,
ma dalla bruma spuntarono due ginocchia magre e spigolose.
Proprio lì, dove in genere si metteva lei.
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«Buongiorno» disse educatamente.
«Buongiorno» rispose una profonda voce maschile.
Letizia si voltò, spostò le ciabatte con una spintarella del
piede e andò a occupare il posto di fronte. Mai e poi mai si sa­
rebbe addentrata nei meandri di quella nuvola, con il rischio di
imbattersi in altre ginocchia. E perché poi? Si stava così bene lì
vicino all’ingresso, al sicuro da inciampi e fontanelle. Si bagnò
con la doccetta e aspettò di cominciare a sudare.
«Le dispiace se faccio scendere ancora un po’ di vapore?»
domandò la voce maschile.
«Prego, faccia pure» rispose lei. Sembrava di parlare con l’ar­
cangelo Gabriele avvolto in un cirrocumulo. L’ uomo racchiuso
nella nebbia premette un pulsante che Letizia non vide e un
nuovo getto di vapore odoroso andò a infittire la nuvola, un
lembo della quale era evaso quando lei aveva aperto la porta.
Pssssst, fece la valvola del vapore.
Letizia si domandò se ci fossero altre persone acquattate nel­
la nebbia. Si sentiva vagamente a disagio, da sola con quell’uo­
mo invisibile. Con gli uomini Letizia a dire il vero era sempre
un po’ a disagio, soprattutto da quando suo marito non stava
più con lei, perché la guardavano. La guardavano molto, anzi,
per meglio dire, la divoravano con gli occhi. Alcuni le con­
ficcavano addosso due pupille sfacciate che frugavano sotto
il suo cappottino di cachemire, altri cercavano felinamente di
incontrare il suo sguardo, altri ancora le sorridevano come se
si aspettassero di essere ricambiati. Gli operai le fischiavano
dalle impalcature, i vecchietti arzilli le facevano l’occhiolino
da sopra le lenti bifocali, gli uomini della sua età iniziavano a
osservarla dai capelli, che portava sempre sciolti, per poi scen­
dere lungo il viso e bloccarsi sul petto prorompente, vuoi perché
non c’era tempo, durante un fugace incrocio sul marciapiede,
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per andare oltre, vuoi perché quello era il suo punto forte. Era
un problema che Letizia aveva fin dal liceo. O meglio, fuori dal
liceo, perché era andata dalle Marcelline, classi solo femminili
e tentazioni zero. Ma tra i ragazzi che aspettavano in piazza
Tommaseo per lustrarsi gli occhi con le bellezze che uscivano
di scuola, ce n’era sempre uno che doveva commentare con un
sonoro «Che bocce!». Letizia lo trovava terribilmente volgare e
arrossiva. Lo sapeva che molti fratelli maggiori e anche minori
delle sue amiche la chiamavano «la Tettona» e per lei, molto più
pura e pudica delle monache che la ospitavano ogni mattina,
era una tortura. Lo sopportava solo perché le sue compagne di
classe la invidiavano molto per questa caratteristica. «Me ne
dai un po’?» dicevano, e le volevano tutte bene, perché Letizia,
oltre a essere stratosfericamente bella, era un pezzo di pane e
non sapeva che cosa fosse la cattiveria.
Naturalmente quell’uomo non la poteva guardare, per via
del vapore. Questo la tranquillizzò e le permise di rilassarsi.
La voce profonda perforò la nebbia. «Questi vapori fanno
miracoli per le vie respiratorie.» Oh no, pensò Letizia. Non vorrà mica attaccare discorso. «Io appena sento un raffreddore in
arrivo vengo subito qui, ci sto dieci minuti e può stare sicura
che non mi ammalo.»
«Ha ragione. Ci vengo anch’io per i vapori. Se fosse solo per
il sudore, andrei nel bagno turco.»
«O nella sauna.»
«O nella sauna. Ma il caldo secco non mi piace molto. Pre­
ferisco l’umido.»
«È meglio anche per la pelle. Io ho un po’ di acne e il vapore
mi fa un sacco di bene.»
Letizia pensò che, se aveva l’acne, il suo invisibile dirimpet­
taio doveva essere un uomo giovane. Un ragazzo, un universi­
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tario, qualcosa del genere. Aveva una bella voce profonda, con
un lieve accento meridionale e la tendenza a incrinarsi sui
toni più acuti. Doveva essere alto e moro, o almeno le piac­
que immaginarlo così. Leggermente butterato, forse, ma nei
maschi non è una cosa fastidiosa, vedi Clive Owen. Avrebbe
potuto chiedergli da dove veniva, perché l’accento del Sud
l’aveva vagamente incuriosita, ma non lo fece, visto che in
realtà non gliene importava niente. Sarebbe stata più volentieri
in silenzio.
«Oggi è una giornata importante per me, comincio un nuovo
lavoro» disse il tipo.
Ohilà, questa sì che è voglia di chiacchierare! Quindi non è
uno studente, pensò Letizia. Ma, a giudicare dalla tensione nel­
la voce, il tipo era pieno di trepidazione e si aspettava, se non
curiosità, almeno un minimo di incoraggiamento. «Oh! Allora
auguri!»
«Grazie, ne ho proprio bisogno. Oggi avrò il piacere di ac­
cogliere dei nuovi clienti.»
«È emozionato?» domandò controvoglia Letizia, tanto per
non essere villana.
«Sì, moltissimo. Ho anche paura.»
Letizia capì che il giovane arcangelo acneico dalla voce pro­
fonda aveva bisogno di un’infusione di autostima, e gliela pra­
ticò subito.
«Lei ha una voce bellissima. Se il suo lavoro comporta delle
telefonate, avrà sicuramente molto successo.»
Lui rise sommessamente. «No, niente telefonate. Contatto
diretto. Lei invece che lavoro fa?»
Evidentemente il tipo era di quelli che scaricano la tensione
parlando, parlando, parlando. Con chiunque capitasse a tiro.
«Io faccio… la mamma.»
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«Ah, un lavoro a tempo pieno, quello!»
Letizia sorrise al vuoto. «Sì.»
«Contatto molto diretto.»
«Non più. Adesso ci sono molte telefonate. Mamma questa
sera resto fuori a cena, mamma faccio tardi a pranzo… Sa, mia
figlia ha appena compiuto diciotto anni.»
«Una donna, ormai.»
Sentirlo dire da quella voce che pareva provenire dall’aldilà
le fece una certa impressione. Che in quella nuvola ci fosse Dio
in persona? Ma il tipo aspettava che lei replicasse e Letizia non si
sarebbe permessa di essere maleducata nemmeno con Belzebù.
«Una ragazzina capricciosa, più che altro. Ma tutto sommato
brava. Non mi posso lamentare.»
«Dev’essere bello per una mamma avere una figlia femmina.
Chissà che complicità c’è tra voi.»
Ma che cosa ne sapeva lui? Erano discorsi da fare nel bagno
thalasso? Eppure Letizia rispose. Schiacciò la schiena contro il
muro di piastrelle come per assecondare una improvvisa acce­
lerazione e gli disse la verità. L’ invisibilità garantiva loro una
riservatezza da confessionale.
«C’era una volta. Adesso siamo ai ferri corti. Sa, mia figlia
ha avuto un’adolescenza difficile. Suo padre…» Aveva senso
parlarne a un cirrocumulo? Letizia fece spallucce e decise che
tanto era lo stesso, ormai raccontarlo non le faceva più nessun
effetto. «Suo padre mi ha lasciata per un’altra donna quando
lei non aveva ancora quindici anni e mia figlia non glielo ha
ancora perdonato. Non fa che provocarlo e cercare di colpe­
volizzarlo. Anche ieri sera…» Ora, non era proprio il caso di
entrare nei particolari. Letizia ci piazzò un bel sospiro. «Ma è
una fase anche questa, e passerà.» Se la nebbia si fosse diradata
di colpo, forse non sarebbe stata tanto sincera. Così invece era
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come parlare a se stessa. «A volte ho quasi l’impressione che
odi anche me.»
«Questo è un peccato. Probabilmente sua figlia sta ancora
cercando di districare la matassa dei suoi affetti, che voi avete
aggrovigliato con la separazione.» Letizia la trovò una frase bel­
lissima. «Non sa che avere una madre affettuosa e preoccupata
è una fortuna inestimabile. Io mia madre la veneravo, finché
non mi ha cacciato di casa.»
«Oh! Che cosa terribile!» Davvero bizzarro, questo ragazzo.
Andava subito al cuore delle cose. Forse subiva anche lui l’ef­
fetto “nuvola divina” e credeva di parlare con la Madonna. «Ma
vedrà che prima o poi farete pace» rispose Letizia, che amava
il lieto fine.
«Impossibile. È morta.»
Morta! Letizia sentì il calore che emanava dal suo corpo
concentrarsi tutto nelle guance. Aveva fatto una gaffe, ma era
tutta colpa di quel tizio. Le parlava di cose troppo personali e
pretendeva delle risposte. E lei che cosa poteva dirgli, se non
delle banalità da palestra?
«Mi dispiace» mormorò accorata.
«Di crepacuore per colpa mia, secondo mio padre.»
No! La psicanalisi no! Era davvero troppo, troppo per un
bagno thalasso. Eppure Letizia cominciava a sentirsi in qualche
modo coinvolta.
«Può darsi che non sia andata affatto come dice suo padre.
Non deve cedere ai sensi di colpa. Possono guastarle l’esistenza,
sa? Ha provato… ha provato a farsi aiutare?» Sì, da qualcun altro
che non sia io.
«Da un analista, intende? No. Non ne ho bisogno. Io non mi
sento per niente in colpa nei confronti dei miei genitori. Ho solo
chiesto che mi lasciassero vivere come volevo io. E invece ho
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scoperto che mi avevano messo al mondo per fare di me quello
che volevano loro. Peccato, gli è andata male.»
La voce del tipo si incrinò. Sembrava pieno di rabbia, ma
anche molto sofferente. Di sicuro si considerava più vittima
che involontario carnefice e Letizia sentì di parteggiare per lui.
«Ma avrà altre persone che le vogliono bene. Degli amici, per
esempio. O magari una fidanzata…»
Silenzio. Poi, dopo un po’: «L’ avevo».
Il poveretto pareva proprio sfortunato. Era anche senza una
donna. «Lei è ancora giovane, un giorno troverà quella giusta. Sa
come diciamo noi a Milano? Se perdi un tram, non ti disperare.
Prima o poi ne passa un altro.»
«Ah, conosco questi detti. Il mare è grande, i pesci sono
tanti… Morto un papa se ne fa un altro…» Una risatina caver­
nosa. Forse c’era Caronte, dietro quella nebbia. «Trovarmi una
persona fissa non è la mia principale preoccupazione. Sto bene
anche senza. Ora però esco, altrimenti finirò per sciogliermi,
qua dentro. Sa che mi ha fatto bene parlare con lei?»
«Sono contenta» si rallegrò Letizia. «Ma non credo di averle
detto niente di speciale.»
«Però non si è tirata indietro. Sa, a volte si parla con la gente
per parlare più che altro con se stessi. E lei ce l’ha messa tutta
per darmi una mano. Non è cosa da poco. La ringrazio. Come
si chiama sua figlia?»
«Marta.»
«Marta» ripeté il tipo, dilungandosi sulla r come se fosse
un motore da mandare su di giri. «Significa “la signora”, “la
padrona”. Sono sicuro che è una bellissima ragazza. Arrivederci.
O forse sarebbe meglio dire a risentirci!»
Letizia sorrise. «Sì, a risentirci. E in bocca al lupo per il suo
nuovo lavoro.»
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«Crepi.»
Nel fumo si materializzò un paio di cosce maschili lunghe e
muscolose, interrotte da uno slip da bagno. Di più Letizia non
vide, perché la nebbia più in alto si infittiva. La porta di vetro
si aprì e si richiuse.
Che incontro astruso, pensò lei. Che conversazione assurda.
Roba che nemmeno dal parrucchiere.
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Marta, quinta liceo scientifico, diciotto splendidi anni compiu­
ti da una settimana e i postumi della megafesta in discoteca
non ancora smaltiti, puntava la sveglia alle sette, e alle sette e
un minuto era già in piedi, vispa come un cucciolo che ogni
mattina scopre di essere vivo e circondato da un mondo tutto
da rosicchiare. Oppure, come avrebbe detto sua madre in quel
periodo, vigile come una pantera assetata di sangue.
Letizia rimase ad ascoltare da dentro la stanza chiusa. Un
tempo Marta appena sveglia si scapicollava da lei e da Pietro,
saltando nel lettone con la voracità di un piccolo angelo in cami­
cia da notte bianca. Ora usciva per andare a scuola senza nem­
meno salutare. Da un po’ di tempo incontrare Marta di primo
mattino era come passare dal tepore del letto al gelo invernale
del terrazzo, ma senza il conforto dei gerani. Era diventata la
Regina delle Nevi, la Principessa dei Ghiacci. A toccarla ci si
poteva scottare, tanto era fredda.
Letizia si voltò dall’altra parte, sperando di riuscire a riad­
dormentarsi. Chiuse gli occhi e provò a riacchiappare il sogno
che lo scalpiccio di Marta in cucina aveva interrotto. Era im­
mersa nelle profondità di un mare turchese, pieno di pesci gialli
che le nuotavano intorno senza toccarla, in grado di respirare
nell’acqua come loro e con in mano un cocktail arancione che
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chissà come non si disperdeva nel mare – in pratica lo spot di
un Club Med. Ma venne ripiombata nella realtà da un rumore
di passi furiosi che risalivano il corridoio e dalla voce adirata di
Marta, accompagnata dall’abbaiare eccitato di Spina, lo spinone
femmina bianco e arancio della figlia.
«Ma cosa ne sai! Cosa ne sai tu che non ci sei mai! Adesso
ti fai vivo per farmi i predicozzi sulla scuola! Come se te ne
fregasse qualcosa, della mia scuola!»
Silenzio. Un guaito scorato. Letizia intuì una telefonata iste­
rica di Pietro, lui che tuonava dall’altra parte della linea, Marta
viola in faccia, con i capelli ancora più elettrici del solito e il
cuore sul punto di esplodere di rabbia.
«Hai finito? Mi farai arrivare in ritardo!»
Letizia soppesò se intervenire o meno. Erano le sette e mez­
zo, troppo presto per prendere iniziative anche del tipo più
blando, figuriamoci gettarsi in mezzo ai tuoni e fulmini di uno
scontro telefonico tra titani.
«Io truccata? Io bistrata?» strillò Marta.
«Bau! Bau bau!» si indignò Spina.
Letizia sospirò e sgusciò fuori dalle lenzuola, mettendosi a
sedere sulla sponda del letto per cercare le pantofole bianche. Si­
stemò le spalline della camicia da notte di seta, candida e lunga
fino a metà polpaccio. Non sapeva ancora se sarebbe interve­
nuta, ma di sicuro non sarebbe più riuscita a riaddormentarsi.
«Cosa? Cosa? Non credo alle mie orecchie! Mio padre che mi
dà della zoccola perché mi faccio una riga nera sugli occhi! Ce
l’avevi già sul gozzo ieri sera, questa cosa. Non capisci proprio
un cazzo.»
Seguì un silenzio agghiacciante. Dopo un attimo, il tempo
della risposta di Pietro, Letizia sentì tremare il pavimento, o
forse le sembrò soltanto, per via delle potentissime vibrazioni
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simil­sismiche emesse da sua figlia, e la porta della stanza ex
coniugale si spalancò con un boato, andando a sbattere con­
tro l’armadio. Il cordless di casa arrivò volando, scagliato da
Marta­la­Furia, e atterrò con un tonfo sulla nuvola di cuscini
ancora tiepidi dai quali era appena sorta Letizia, seguito dalla
massa pelosa di Spina, che saltò sul letto abbaiando come per
sollecitare la padrona a riportare la quiete.
«Vuole parlare con te, lo stronzo» disse Marta alla madre.
«Comunque io non ne posso più di voi due. Vi odio!»
Dal telefono usciva la voce nevrastenica di Pietro. «Marta!
Marta! Letizia!»
Letizia prese il cane per il collare e lo fece scendere dal letto,
poi allungò la mano curata verso il cordless, pensando che al
mondo probabilmente non esistevano un padre e una figlia che
si assomigliassero di più di Pietro e Marta. Sì, ma quanto erano
difficili. Raccolse controvoglia l’apparecchio.
«Eccomi.»
«Ha preso un quattro in latino» attaccò subito Pietro, senza
nemmeno salutarla. «L’ ho visto proprio adesso sul registro dei
voti on­line.»
«Un quattro in latino? Strano. È sempre stata brava in lati­
no.»
«Be’, l’ultimo voto era un quattro. E non ce lo ha detto.»
«No.»
«Allora mi sono incazzato e lei si è permessa di rispondermi.»
«Ho sentito.»
«Devi starle più dietro.»
Letizia accarezzò il cane, che le si era seduto davanti dime­
nando la coda, e calzò con calma le pantofole. «Pietro, non è
così semplice. Non la vedo mai e quando le chiedo della scuola
mi dice che va tutto bene.»
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«Invece ci ha tenuto nascosto un brutto voto. Si comincia
così, mentendo sui voti, poi si mente sulle frequentazioni, e
piano piano ci si abitua a mentire su tutto, pensando che tanto
non è grave, fa lo stesso, l’importante è non avere grane. E poi
chissà dove si va a finire.»
Letizia si strinse nelle spalle. Era solo un quattro in latino, a
cui Marta avrebbe prontamente rimediato. Difficilmente avreb­
be provocato una catena di eventi apocalittica, ma non volle
contraddire il suo ex marito e si limitò a sospirare.
«Se fossi in te non lo sottovaluterei, questo episodio» incalzò
lui. «Lo so che è faticoso, ma stalle addosso, non darle tregua.»
«La conosci, ha un carattere forte come il tuo. Ed è nell’età
della rabbia, della ribellione. Non è facile tenerle testa, Cuori­
cino.» Il vezzeggiativo le era sfuggito. Da un paio d’anni ormai
non nutriva più sentimenti ostili nei confronti di Pietro, anzi lo
considerava il suo unico amico di sesso maschile.
«Sequestrale le chiavi del motorino» proruppe lui.
«Cosa? Ma perché?»
«Come “perché”! Per darle una lezione, no? Devi farti va­
lere, Letizia. Sei sua madre! Io mi sbatto come posso, lo vedi,
telefono, vengo lì a cena, ma quella che ci vive insieme sei tu.
Tira fuori le palle, cazzo! Vengo lì all’una e voglio trovare quelle
fottutissime chiavi!»
Letizia pensò che Pietro doveva aver dormito male, forse a
causa di problemi sul lavoro. O per via di una delle sue cicliche
défaillances, che lei aveva sempre accettato con pazienza e com­
prensione, ma forse non Fabrizia, la sua nuova fidanzata ven­
tottenne. Comunque questa idea di dover tirare fuori le “palle”
che nemmeno volendo avrebbe mai potuto avere, la terrorizzò.
Al massimo avrebbe potuto sfoderare un po’ di tenerezza, ma
dubitava che fosse adatta all’occasione.
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Nel frattempo Pietro aveva riattaccato, lavandosi come al
solito le mani degli effetti della sua telefonata. Letizia sprofon­
dò i piedi delicati nelle pantofole e si alzò. La porta era rimasta
spalancata e lei, seguita da Spina, raggiunse la figlia, che stava
finendo di riempire lo zaino in camera sua. Si fermò sulla so­
glia, appena fuori dalla tana della pantera. Nella stanza regnava
un caos indescrivibile… almeno per le possibilità descrittive di
Letizia. Spina si avventurò dentro fiutando dappertutto.
«Marta, papà vuole che ti sequestri le chiavi del motorino»
disse con dolcezza Letizia dal corridoio, quindi tese una mano
che tremava un po’.
Marta­la­Furia si voltò e le puntò addosso due occhi di brace.
«Sei fuori?»
Letizia avvertì un vuoto improvviso nel petto. Era terrore.
«Per favore, Marta, non facciamolo arrabbiare. Dammi le
chiavi e vedrai che tutto si sistemerà.»
Marta la fissò. Sembrava non voler credere alle proprie
orecchie. «Ma allora sei fuori. E io secondo te come ci vado a
scuola?»
Letizia si leccò le labbra e si fece coraggio. «Per oggi ci vai in
metropolitana. All’una papà viene qui a controllare che le chiavi
siano rimaste a casa. Ti prego, non farmi passare dei guai con
lui. E non importa per quel quattro, io so che rimedierai. Su,
da brava, dammi le chiavi. Stasera te le restituisco.» Letizia tese
un po’ di più la mano.
Marta cacciò brutalmente un quaderno nello zainetto, che
sembrava sul punto di scoppiare da tanto era pieno. «Scordatelo.
Ormai è troppo tardi per andare in metropolitana.»
Letizia deglutì. «Ti faccio la giustificazione per entrare un’ora
dopo. Diciamo che hai dovuto fare gli esami del sangue, eh?»
Questo allettò Marta, che si immobilizzò per qualche secondo
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soppesando la proposta. «Alla prima ora c’è fisica…» Quindi,
senza nemmeno voltarsi per prendere la mira, lanciò le chiavi.
Il mazzo arrivò volando scompostamente, e andò a sbattere
contro lo stipite di legno. Letizia pensò che forse avrebbe dovuto
ordinare a sua figlia di raccoglierlo e metterglielo su quell’esile
manina tesa, ma la situazione era già abbastanza difficile, quindi
piegò graziosamente le ginocchia e lo raccattò dal pavimento
un attimo prima che se ne impadronisse Spina.
«Brava. Grazie. Ora, se mi vuoi dare il libretto per la giusti­
ficazione…»
Marta si voltò di scatto. «Fessa che sono! Come ho fatto a
non pensarci prima? Sono maggiorenne, le giustificazioni posso
farmele da sola, adesso! Tutte quelle che voglio!»
A Letizia non pareva vero: era riuscita a gabbare sua figlia.
Senza volerlo, ma ci era riuscita. Corse subito a rifugiarsi in
camera da letto con il suo bottino, chiudendo la porta a chiave.
Fu così svelta che neppure il cane riuscì a starle dietro, e rimase
fuori a uggiolare.
Marta ringhiò, ma non la rincorse per avere indietro le chia­
vi. Conosceva suo padre e, nonostante disprezzasse la mitezza
di sua madre, non voleva costringerla ad assorbire i pugni che
lui non aveva mai imparato a trattenere.
«Grazie per la mediazione, cara mammina!» gridò passando
davanti alla porta di Letizia con lo zainetto stracarico. «E scusa se
ti ho tirata giù dal letto a quest’ora antelucana. Buono shopping.
Comprati un altro paio di scarpe che ne hai bisogno, mi racco­
mando!» disse, non mancando di affondare le unghie nel tenero.
La porta di casa sbatté così forte che Letizia sussultò anche
nel bozzolo ovattato in cui si trovava, con la testa affondata nei
cuscini.
Dio mio, che terribile inizio di giornata.
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