Mercoledì 13 di gennaio 2016
Milano – Santa Maria del Caravaggio
Itinerario biblico per il Decanato Milano – Navigli
IL LIBRO DI GIONA/ 1
Preghiera iniziale
Signore, vieni,
prendi il rotolo della mia vita,
aprilo, dissigillalo,
penetrane il mistero, il segreto,
l’enigma, le oscurità,
le contraddizioni, il peccato,
gli aneliti, i desideri,
le aspirazioni...
Vieni,
fanne un disegno sapiente,
una realizzazione santa.
Tu immolato per me:
sei l’unico che puoi farlo.
A te consegno la mia vita...
non piango più,
perché Qualcuno c’è
che può abbracciare,
leggere
costruire
il disegno della mia vita,
salvarlo
liberarlo.
(don Andrea Santoro)
Dal Libro di Giona
(1,1-16)
Fu rivolta a Giona, figlio di Amittài, questa parola del Signore: 2
«Àlzati, va’ a Ninive, la grande città, e in essa proclama che la loro
malvagità è salita fino a me». 3 Giona invece si mise in cammino per
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fuggire a Tarsis, lontano dal Signore. Scese a Giaffa, dove trovò una
nave diretta a Tarsis. Pagato il prezzo del trasporto, s’imbarcò con
loro per Tarsis, lontano dal Signore.
4 Ma il Signore scatenò sul mare un forte vento e vi fu in mare
una tempesta così grande che la nave stava per sfasciarsi. 5 I marinai,
impauriti, invocarono ciascuno il proprio dio e gettarono in mare
quanto avevano sulla nave per alleggerirla. Intanto Giona, sceso nel
luogo più in basso della nave, si era coricato e dormiva
profondamente. 6 Gli si avvicinò il capo dell’equipaggio e gli disse:
«Che cosa fai così addormentato? Àlzati, invoca il tuo Dio! Forse Dio
si darà pensiero di noi e non periremo». 7 Quindi dissero fra di loro:
«Venite, tiriamo a sorte per sapere chi ci abbia causato questa
sciagura». Tirarono a sorte e la sorte cadde su Giona. 8 Gli
domandarono: «Spiegaci dunque chi sia la causa di questa sciagura.
Qual è il tuo mestiere? Da dove vieni? Qual è il tuo paese? A quale
popolo appartieni?». 9 Egli rispose: «Sono Ebreo e venero il Signore,
Dio del cielo, che ha fatto il mare e la terra». 10 Quegli uomini furono
presi da grande timore e gli domandarono: «Che cosa hai fatto?».
Infatti erano venuti a sapere che egli fuggiva lontano dal Signore,
perché lo aveva loro raccontato. 11 Essi gli dissero: «Che cosa
dobbiamo fare di te perché si calmi il mare, che è contro di noi?».
Infatti il mare infuriava sempre più. 12 Egli disse loro: «Prendetemi e
gettatemi in mare e si calmerà il mare che ora è contro di voi, perché
io so che questa grande tempesta vi ha colto per causa mia». 13 Quegli
uomini cercavano a forza di remi di raggiungere la spiaggia, ma non
ci riuscivano, perché il mare andava sempre più infuriandosi contro
di loro. 14 Allora implorarono il Signore e dissero: «Signore, fa’ che noi
non periamo a causa della vita di quest’uomo e non imputarci il
sangue innocente, poiché tu, Signore, agisci secondo il tuo volere». 15
Presero Giona e lo gettarono in mare e il mare placò la sua furia. 16
Quegli uomini ebbero un grande timore del Signore, offrirono
sacrifici al Signore e gli fecero promesse.
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Mercoledì 13 di gennaio 2016
Milano – Santa Maria di Caravaggio
Itinerario biblico per il Decanato Milano – Navigli
IL LIBRO DI GIONA/ 1
don Matteo Crimella
0. Un libro per l’anno giubilare
Papa Francesco, nella Bolla d’indizione del Giubileo straordinario della
misericordia, Misericordiæ vultus (11 aprile 2015), così scrive:
L’architrave che sorregge la vita della Chiesa è la misericordia. Tutto della sua
azione pastorale dovrebbe essere avvolto dalla tenerezza con cui si indirizza ai
credenti; nulla del suo annuncio e della sua testimonianza verso il mondo può
essere privo di misericordia. La credibilità della Chiesa passa attraverso la strada
dell’amore misericordioso e compassionevole. La Chiesa «vive un desiderio
inesauribile di offrire misericordia». Forse per tanto tempo abbiamo dimenticato
di indicare e di vivere la via della misericordia. La tentazione, da una parte, di
pretendere sempre e solo la giustizia ha fatto dimenticare che questa è il primo
passo, necessario e indispensabile, ma la Chiesa ha bisogno di andare oltre per
raggiungere una meta più alta e più significativa. Dall’altra parte, è triste dover
vedere come l’esperienza del perdono nella nostra cultura si faccia sempre più
diradata. Perfino la parola stessa in alcuni momenti sembra svanire. Senza la
testimonianza del perdono, tuttavia, rimane solo una vita infeconda e sterile,
come se si vivesse in un deserto desolato. È giunto di nuovo per la Chiesa il tempo
di farsi carico dell’annuncio gioioso del perdono. È il tempo del ritorno
all’essenziale per farci carico delle debolezze e delle difficoltà dei nostri fratelli.
Il perdono è una forza che risuscita a vita nuova e infonde il coraggio per
guardare al futuro con speranza (n. 10).
Per comprendere a fondo il tema della misericordia ci poniamo in ascolto delle
parole del profeta Giona. Forse in nessun altro libro della Bibbia si esprime con
tanta chiarezza quanto sia grande la misericordia del Signore, ma soprattutto
quanto essa imponga un radicale mutamento di mentalità, sovvertendo
interamente la scala dei valori. Per questo vale la pena meditare il libro di Giona.
La misericordia di Dio non ha nulla di sdolcinato, nulla che somigli ad un
colpo di spugna sulla lavagna, nulla che equivalga alla dissimulazione o alla
dimenticanza. Accogliere la misericordia di Dio chiede, come Giona ha capito
perfettamente ma altrettanto caparbiamente non ha accettato, un modo differente
di pensare, chiede cioè di abbandonare una serie di criteri di discernimento per
assumerne altri. La cosa, quando è vera, non è indolore.
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1. Il libro di Giona
Giona non è un racconto storico ma un racconto di fantasia, una favola, e proprio
per questa ragione è interessante, in quanto è incentrato sul proprio messaggio.
Nel secondo libro dei Re si parla di un profeta chiamato Giona. Si legge:
Nell’anno quindicesimo di Amasia, figlio di Ioas, re di Giuda, Geroboamo, figlio
di Ioas, re d’Israele, divenne re a Samaria. Egli regnò quarantun anni. Egli fece
ciò che è male agli occhi del Signore; non si allontanò da nessuno dei peccati che
Geroboamo, figlio di Nebat, aveva fatto commettere a Israele. Egli recuperò a
Israele il territorio dall’ingresso di Camat fino al mare dell’Araba, secondo la
parola del Signore, Dio d’Israele, pronunciata per mezzo del suo servo, il profeta
Giona, figlio di Amittài, di Gat-Chefer (2 Re 14,23-25).
Non ci vuole molto a comprendere che i nessi fra le scarne notizie dei Re e la
vicenda del libro di Giona sono davvero pochi e fragili. Vi sono solo due punti di
contatto: il nome (Giona), che significa «colomba» e il nome di suo padre
(Amittai) che significa «la mia verità». Da qui l’idea che il racconto profetico sia
una specie di novella, una continuazione di quanto afferma molto succintamente
il racconto dei Re.
Quali sono le caratteristiche essenziali del libro di Giona? Naturalmente le
caratteristiche contenutistiche le scopriremo a poco a poco, leggendo ogni sera
un capitolo di questo aureo libretto. Vorrei semplicemente introdurre alcune
caratteristiche formali.
La prima caratteristica: Giona è un libro profondamente ironico. È un
racconto che spesso esprime una geniale parodia, con garbati tocchi addirittura
comici. Il segreto di Giona è una gioiosa e ilare parodia satirica. La parodia è una
trascrizione della realtà al contrario, è il suo letterale capovolgimento rispetto alla
tradizione convenuta e attestata. Far satira significa castigare ridendo mores,
ridicolizzando atteggiamenti ingiusti e malsani per ottenere un
ridimensionamento e una correzione.
La seconda caratteristica: Giona è comprensibile solo sullo sfondo degli
altri libri biblici, proprio in ragione della sua ironia. Come si vedrà, mettendo a
confronto il racconto del profeta e altri racconti dell’Antico Testamento, si coglie
il capovolgimento e dunque il messaggio che la favola di Giona intende
trasmettere. Rintracciando ed evocando alcuni episodi anticotestamentari si
comprende il paradosso e lo scandalo di questo libro.
La terza caratteristica: il libro è un’efficace terapia per chiunque non riesca
o non voglia schiodarsi dal proprio risentimento. Mentre il racconto offre una
bella diagnosi proprio del risentimento che alberga nel cuore di Giona, il Signore
s’inventa una duplice terapia per guarire il suo profeta. La prima terapia è umida,
perché avviene in mare: prima sulla nave e poi dentro il pesce (sono i capitoli 1 e
2
2); la seconda terapia invece è secca, sull’asciutto della terraferma (sono i capitoli
3 e 4). La prima terapia, quella umida, è legata allo straordinario e al prodigioso,
dentro una serie di effetti speciali: la tempesta, Giona buttato a mare, il pesce che
lo ingoia, il profeta nel ventre del pesce. La seconda terapia, quella secca, è
decisamente più ordinaria, interamente basata sulla parola.
Ancora una nota: il libro di Giona si può comodamente articolare in
quattro momenti, corrispondenti ai quattro capitoli: il primo è tutto ambientato
sulla nave, il secondo nel ventre della balena, il terzo a Ninive e il quarto a oriente
della città, nei pressi di una pianta di ricino.
2. La narrazione del primo capitolo
Il primo capitolo è articolato in due quadri, ben definiti dal mutamento dello
spazio e del tempo (cfr. vv. 1-3.4-16).
Il primo quadro (1,1-3) è contrassegnato da un luogo (Giaffa) e dalla
presenza di due personaggi: Dio e Giona. Manca un’indicazione temporale: non
si dice quando è avvenuto tutto ciò. L’inizio è tipicamente profetico: «Avvenne
che la parola del Signore» (v. 1). Vengono alla mente vari passi biblici nei quali si
ricorda lo stesso avvenimento legato all’irruzione della parola di Dio nella vita di
una persona. A onore del vero tutte queste occasioni sono nel bel mezzo della
vita del profeta e non all’inizio: così è per Samuele (cfr. 1 Sam 15,10), per Geremia
(cfr. Ger 29,30) e per Zaccaria (cfr. Zc 7,8). A parlare poi è la voce narrativa,
un’istanza anonima e esterna, non implicata nel racconto. Il grande protagonista
tuttavia è Dio che chiama Giona e gli dà un ordine ben preciso.
In questi primi tre versetti siamo di fronte a tre sorprese, tutte riguardanti
Giona. Dopo il riferimento alla missione profetica (v. 1), c’è un preciso ordine di
Dio (v. 2) e il rifiuto di Giona cui segue la fuga (v. 3). Anzitutto stupisce (è la
prima sorpresa) che la missione profetica sia affidata così d’improvviso ad un
personaggio sconosciuto al lettore: chi è Giona? Quali sono le sue credenziali? La
missione profetica, poi, consiste in un annuncio di giudizio di cui non si precisa
il contenuto (è la seconda sorpresa). Inoltre qui c’è un’ambiguità: si può infatti
intendere: «Alzati, va’ a Ninive, la grande città, e in essa proclama che la loro
malvagità è salita fino a me», oppure: «Alzati, va’ a Ninive, la grande città, e in
essa proclama, perché la loro malvagità è salita fino a me». In altre parole, la
malvagità di Ninive è la causa della proclamazione e dunque dell’invio, oppure
semplicemente l’oggetto della proclamazione. Ci si chiede poi quali siano le
ragioni che spingono Giona a fuggire (è la terza sorpresa). Il testo non lo dice,
lasciando spazio a semplici congetture. Risulta invece chiaro che Giona fugge «da
davanti a JHWH», cioè rifiuta il ministero profetico, in quanto uno dei compiti del
3
profeta è proprio quello di stare davanti al Signore (cfr. 1 Re 18,15; 22,21; Ger
15,19). Qui si percepisce una grande ironia perché Dio è dappertutto (cfr. Sal
139,7-11) ed è quindi impossibile sfuggire al suo sguardo. Inoltre gli ebrei non
avevano un rapporto positivo col mare, considerato un luogo minaccioso e colmo
di rischi mortali (cfr. Es 14).
La fuga è descritta in modo dettagliato: Giona fugge a Tarsis (luogo non
precisamente identificato, molto probabilmente in Spagna, cfr. Is 23,6; 66,18-19),
ovverosia in una direzione diametralmente opposta a Ninive (oggi Mossul, in
Iraq).
Dopo questo primo momento è necessaria una pausa. Non ci vuole molta
scienza per capire che il simbolo fondamentale intorno a cui gravita tutta la
narrazione è Ninive. Ninive è per eccellenza la città nemica d’Israele (cfr. 2 Re
19,36; Nm 3,1-4), la capitale di quell’impero assiro che distrusse il regno d’Israele
nel 722 a.C. Ninive è grande e fa paura perché è una città pagana e nemica
d’Israele; Giona proprio in quella città è chiamato a proclamare che il Dio
d’Israele è scontento di loro! Inutile dire che è un compito davvero paradossale.
In poche battute il narratore ha costruito un quadretto davvero singolare:
Dio chiama Giona e Giona fugge lontano dal Signore.
Il secondo quadro (1,4-16) si svolge altrove, in mare. I personaggi sono
Dio, Giona, i marinai e il capitano. Il protagonista è ancora il Signore. Colui che
ha chiamato Giona ora scatena una tempesta sul mare (v. 4). Dio riprende
l’iniziativa ma solo il lettore sa che l’autore della tempesta è Dio. Dopo questa
notizia (davvero una notizia chiave per il lettore), il narratore descrive i marinai
e in particolare la loro reazione alla tempesta. Sul piano religioso si sottolinea la
preghiera dei marinai, i quali si affidano ciascuno al proprio dio; sul piano
tecnico, questi uomini cercano di alleggerire la nave, gettando in mare la zavorra.
In realtà la zavorra più pesante è proprio Giona, causa della tempesta (dato che i
marinai ignorano).
A questo punto (v. 5) il narratore torna un attimo indietro, raccontando
qualcosa che è accaduto prima dell’inizio della tempesta: si tratta dell’ulteriore
fuga di Giona, sceso nella stiva della nave per dormire. Come sempre, chi scappa,
fugge da tutto: prima da Dio, poi dal suo paese, infine dagli uomini. Il sonno,
anticipazione della morte, pare essere l’unico rifugio. Il contrasto è davvero
grande: da una parte un gruppo di persone che si danno da fare per sopravvivere,
dall’altro un uomo che si chiude sempre più in sé, ignaro della realtà che lo
attornia. Nel testo ebraico v’è una nota ironica, perché letteralmente si dovrebbe
tradurre «la nave pensava di rompersi» (v. 4). Ecco, mentre Giona non pensa a
nulla, la nave invece pensa di sfasciarsi: animato e inanimato vedono
un’inversione dei ruoli.
4
Nel momento in cui Giona è raggiunto dal capitano della nave, si sente
rivolgere una parola che è esattamente come quella di Dio: «Alzati!» (v. 6). Non
solo, ma il capo dell’equipaggio dimostra di essere alla ricerca di Dio: «Forse Dio
si darà pensiero di noi» (v. 6). Questa sfumatura («forse») mostra che l’uomo
cerca Dio e non intende mettere le mani su di lui, piuttosto attende le decisioni
del cielo.
Tirare la sorte (v. 7) è una modalità tipica per comprendere la volontà di
Dio. Sicché l’indicazione di Giona come causa del male della tempesta è già di
per sé sufficiente per sbarazzarsi di lui e mettere in salvo la vita. Il lettore attende
che i marinai buttino a mare Giona, ma così non è. Contro ogni attesa, i marinai
pongono a Giona ben cinque domande (v. 8), tutte riguardanti la sua persona.
Sembra che a quegli uomini pagani interessi di più l’origine del male che la fine
del pericolo immediato. Osservando attentamente ci si rende conto che gli
interrogativi posti a Giona non toccano la questione più importante, riguardante
la sua colpa: che cosa ha fatto Giona perché si scatenasse una simile tempesta
sulla nave? Tale domanda sarà posta (cfr. v. 10), ma solo in seconda battuta.
Prima di ciò a Giona è permesso confessare la propria fede e ai marinai è offerta
la conversione.
A questo punto Giona non può più scappare. Egli finalmente (è la prima
volta nel libro) parla e allorché apre la bocca fa riferimento al proprio popolo
d’appartenenza («Sono ebreo», v. 9) e al proprio Dio («temo JHWH»). In realtà la
sua dichiarazione mette in rilievo che tutte le cose hanno origine in Dio: il cielo,
il mare e la terraferma. Per mezzo di questa risposta Giona si distanzia dai suoi
interlocutori sia dal punto di vista etnico, come dal punto di vista religioso. In
realtà egli non risponde alle domande dell’equipaggio, ma offre altre indicazioni.
Il profeta non si nasconde, proclama la propria fede e presenta Dio come il
creatore e il dominatore della terra e del mare. Ecco il contrasto più profondo:
Giona dice cose giuste di Dio, ma fugge da lui.
Che cosa provoca la professione di fede di Giona? I marinai sono «presi da
grande timore» (v. 10), cioè si convertono. Una semplice ammissione di colpa non
avrebbe sortito alcun effetto. Solo a questo punto il narratore rivela che Giona
aveva già informato i marinai a proposito della sua fuga da Dio (v. 10). Il cerchio
dunque si chiude: se Giona sta fuggendo dal suo Dio e quel Dio è colui che ha
fatto il cielo e il mare, allora proprio a quel Dio si deve imputare la tempesta a
motivo di Giona e delle sue fughe.
La conseguenza è ovvia: se Giona è l’unica causa della tempesta, egli solo
sa come uscirne. Il narratore fa crescere la tensione narrativa, informando (v. 11)
che il mare infuriava sempre più. Per Giona non c’è alternativa: non può tornare
alla riva, né smettere di fuggire. Giona si offre per essere gettato in mare. Tale
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sacrificio pare essere il gesto supremo di un uomo che intende salvare gli altri; in
realtà può essere anche letto in senso molto differente: meglio morire piuttosto
che cedere di fronte al Dio che dice di temere.
Il lettore attende che il sacrificio sia compiuto. Ma così non è. I marinai non
solo hanno rifiutato di seguire le indicazioni della sorte (cfr. v. 7), ma si rifiutano
pure di uccidere Giona, per quanto egli stesso si dichiari colpevole. Mettono in
atto una terza possibilità, nemmeno presa in considerazione da Giona, ovverosia
raggiungere la terraferma. Arrivare alla spiaggia neutralizzerebbe la fuga di
Giona e impedirebbe il sacrificio di una vita umana. Qui (v. 13) v’è un’altra
indicazione ironica. Letteralmente si può tradurre così: «E fendevano i flutti gli
uomini per far tornare verso il secco»; ci si chiede: far tornare chi: la nave o Giona?
Nel secondo caso si tratterebbe di far tornare Giona nel senso di farlo convertire.
Ancora una volta una nota ironica: i marinai pagani mettono in atto una serie di
strategie per convertire Giona, l’ebreo, il profeta di Dio!
Prima di gettare Giona in mare, i marinai invocano il Signore (v. 14).
Nonostante la soluzione sia invocata dallo stesso profeta, è sempre possibile che
quell’uomo sia innocente. Di fronte a tale preghiera rivolta al suo Dio da parte di
uomini pagani Giona non fa una piega, non partecipa.
Il finale è davvero paradossale e da porre in relazione con l’inizio. Se infatti
all’inizio della narrazione Dio affermava che «il loro male» era salito fino a lui
(cfr. v. 2), ora i marinai hanno trovato l’origine di un altro male (la tempesta)
proprio in quello stesso Dio e la sua causa in Giona. Paradossalmente la loro
azione (gettare Giona in mare), così difficilmente accettata e in ogni modo
rimandata, provoca non solo la fine della tempesta, ma pure il timore di JHWH e
i voti verso di lui, cioè la fede.
Se ora fermiamo la nostra attenzione sui marinai, che cosa ha messo in luce
il narratore? Anzitutto è sottolineata la loro religiosità. Essi invocano ciascuno il
loro dio, chiedono a Giona di pregare, consultano i loro dei per mezzo delle sorti,
implorano Dio, lo temono e fanno sacrifici e voti; Giona al contrario non fa
nemmeno il minimo atto di culto, semplicemente esprime la sua appartenenza al
popolo ebraico e proclama la sua fede per mezzo di una formula tradizionale.
Inoltre, se Giona confessa la propria fede, tuttavia egli fugge il Signore,
preferendo essere gettato in mare che compiere la propria missione; i marinai,
invece non vogliono né perire né far perire sangue innocente. Infine, mentre i
marinai lottano per sopravvivere, Giona sembra invocare la morte. I marinai non
sono però unicamente uomini religiosi, ma pure persone colme di rispetto e di
attenzione per Giona. C’è un particolare molto significativo: all’inizio sono
chiamati «marinai» (v. 5), poi «uomini» (vv. 10.13.16). Quello che pare essere un
semplice dettaglio, in realtà s’accompagna con la crescita del timore di Dio:
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all’inizio sono «intimoriti» (v. 5), ma dopo la proclamazione di Giona (v. 9) si
trasformano e al termine essi stessi hanno «un gran timore» del Signore (v. 16).
Questo passaggio dal timore per la loro vita al timore di Dio è reso possibile
dall’ambigua confessione di Giona. Ecco il paradosso: alla fine i pagani temono
Dio più di un israelita, più di un profeta.
3. I paradossi
Come si diceva, Giona va letto alla luce dell’intera Bibbia. Se noi ripensiamo un
attimo al racconto e istituiamo alcuni confronti, non è difficile scoprire i paradossi
di questa prima narrazione. Mettiamoli in evidenza.
Anzitutto Giona è un profeta. Il racconto non lo definisce mai così, ma il
modo in cui Dio lo chiama e lo coinvolge è tipicamente profetico. Ora il profeta è
colui che trasmette una parola che ha ricevuto da Dio. Basti pensare
all’esperienza di Amos che risponde ad Amasia e dice: «Non ero profeta né figlio
di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomoro. Il Signore mi prese,
mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse: “Va’, profetizza al mio
popolo Israele”» (Am 7,14-15). Il profeta, cioè, è l’uomo di Dio, è colui che ascolta
la parola di Dio e parla in nome di Dio. Qui invece Giona è colui che ascolta e
scappa, è colui che intende la chiamata dell’Altissimo e vuole andarsene. Il
paradosso è notevole!
Molti grandi personaggi dell’Antico Testamento sono stati chiamati da
Dio. Di fronte alla convocazione divina la reazione quasi naturale è sempre stata
l’obiezione, perché grande e gravoso è il compito che Dio affida all’uomo. Mosè
obietta al Signore affermando di non essere un buon parlatore (cfr. Es 4,10-17),
Gedeone ricorda la condizione miserrima della propria famiglia (cfr. Gdc 6,15),
Geremia dichiara di essere troppo giovane (cfr. Ger 1,6), Isaia di essere un uomo
dalle labbra impure (cfr. Is 6,5). L’obiezione è il segno che il chiamato comprende
l’altezza del compito che Dio gli affida e si sente inadeguato. Ma Giona non
obietta nulla: non dice nemmeno una parola, semplicemente fugge.
I marinai, come abbiamo già notato, sono tutti pagani. Indubbiamente una
delle più aspre polemiche della Bibbia è proprio quella contro i popoli pagani.
Isaia arriva addirittura al sarcasmo quando afferma: «L’uomo ha tutto ciò [il
legno] per bruciare; ne prende una parte e si riscalda o anche accende il forno per
cuocervi il pane o ne fa persino un dio e lo adora, ne forma una statua e la venera.
Una parte la brucia al fuoco, sull’altra arrostisce la carne, poi mangia l’arrosto e
si sazia. Ugualmente si scalda e dice: “Mi riscaldo; mi godo il fuoco”. Con il resto
fa un dio, il suo idolo; lo venera, lo adora e lo prega: “Salvami, perché sei il mio
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dio!”» (Is 44,15-17). Qui invece i pagani si convertono a Dio, temono il Signore
Dio d’Israele, credono in lui.
Un ultimo paradosso: Giona fuggiva per non andare a Ninive in mezzo ai
pagani e si trova sulla nave in mezzo a pagani, che però credono di più e meglio
di lui.
4. La fuga di Giona e la prima terapia umida
Un’ultima nota. Che cosa emerge di questo profeta silente? La sua fuga. Giona
non accetta la chiamata di Dio e fugge dal Signore, dal mondo, da sé. Giona è
risentito con Dio perché lo ha chiamato ad essere profeta. Il suo rifiuto di Dio lo
conduce all’eccesso dolente e prepotente della fuga, all’eccesso ossessivo di
ripetere all’infinito la nota del proprio allontanarsi, all’eccesso tautologico e
quindi autoreferenziale del ripiegamento su di sé. Giona è l’uomo che scappa e
incolpa Dio. Pare che dica: «Ecco, io scappo, ma solo perché vi sono costretto!
Tutta colpa di Dio, che mi impone una missione che lui stesso sa benissimo essere
perfettamente impossibile e inaccettabile, contraria ad ogni elementare senso di
giustizia, al di sopra delle nostre disponibilità. Per arrivare a chiedermi questo, il
Signore dimostra in realtà di essere lui stesso a volermi cacciare lontano dal suo
volto».
Questo è il risentimento di chi fugge: l’atteggiamento monocorde che si
ripiega su di sé, incolpando l’intera umanità dei propri mali, senza il coraggio di
guardare in faccia una realtà molto più ricca e promettente.
Come risponde Dio? La prima terapia umida è l’incontro coi marinai
pagani che ignorano il Dio d’Israele ma dimostrano una squisita umanità e alla
fine credono in quel Dio che ha mandato la tempesta sulla loro nave a causa di
Giona. Quegli uomini, nonostante non appartengano al popolo eletto, si lasciano
mettere in discussione dagli eventi della storia e dimostrano non solo di avere a
cuore la loro esistenza, ma pure quella di Giona che intendono salvare. Per un
uomo prigioniero del proprio risentimento l’incontro con persone così è
indubbiamente uno spiraglio di luce, anche se tutto, al termine, pare
irrimediabilmente perduto.
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