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Il Tempietto
L’Opera italiana
Paola Ruminelli
S
e le nostre aspirazioni unitarie
cercano un supporto nella
tradizione culturale italiana,
l’Opera musicale ottocentesca
rappresenta un momento fondamentale
per l’affermazione di una comunanza
spirituale tra le genti diverse che
popolano la nostra nazione. Gli autori
di questo genere musicale provengono
infatti da tutte le regioni italiane e, pur
appartenendo a scuole musicali
diverse, confluiscono in un
orientamento di gusto, che caratterizza
inequivocabilmente la nostra storia
artistica. L’Opera italiana, almeno fino
alla prima guerra mondiale, ha
detenuto un primato internazionale e
ancora oggi sui palcoscenici di tutto il
mondo si succedono testi tratti dal
nostro repertorio con rinnovato
successo.
L’Opera in musica
L’Opera in musica è un’invenzione
italiana che l’Europa moderna ha fatto
propria.
Gli intermezzi per commedie e gli
stessi madrigali già avevano il
carattere di rappresentazioni teatrali,
preannunciando il teatro musicale, ma
la vera e propria storia dell’opera
italiana inizia nel Cinquecento presso
il palazzo de’ Corsi nel centro di
Firenze con la Camerata dei Bardi, di
cui facevano parte Vincenzo Galilei, i
cantori e musicisti Jacopo Peri e
Giulio Caccini, il poeta Ottavio
Rinuccini, Emilio de’ Cavalieri e
Girolamo Mei.
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Nella diffusa abitudine di costruire
all’esterno del teatro un pronao di
fattura greca, i teatri lirici portano
ancora il segno ideale della volontà,
che aveva mosso i Bardi, di ricondursi
al classicismo, alla ricerca di un
rapporto semplice e diretto della
parola con la musica, come ritenevano
fosse avvenuto nell’antica Grecia. Di
questi gentiluomini, che coniarono
l’espressione del “recitar cantando”, si
può dire con il musicologo Lorenzo
Arruga che:
«Credevano, essi, a fondo nella
musica e tramandavano l’antica
convinzione che assolvesse alle tre
grandi e decisive funzioni dell’arte:
che potesse esprimere sentimenti e
moti dell’anima, che potesse
comunicarli, che sapesse
purificare»(1).
La storia continua con Monteverdi
attraverso il Seicento, che realizzò un
equilibrio tra l’antico e il nuovo:
«il Monteverdi muove dalla
polifonia - scrive Il critico
Massimo Mila - e v’inserisce lo
stile recitativo, senza rinunciare
alla ricchezza e alle possibilità di
quella»(2).
Nel Settecento l’opera ebbe larga
diffusione in Italia e in Europa. Nella
prima metà del secolo all’opera seria,
di cui Apostolo Zeno aveva teorizzato
la coerenza, si sostituisce sempre più
l’opera buffa, originariamente nata
dagli intermezzi posti tra gli atti
dell’opera seria, che spesso
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Il Tempietto
diventavano dei veri capolavori come
nel caso della Serva padrona di Giovan
Battista Pergolesi. L’opera buffa si
affermò principalmente a Napoli, ma
fiorì anche a Venezia per la presenza
del Goldoni, che si avvalse di
collaboratori musicali. Tra i principali
esponenti Pergolesi di Jesi, Niccolò
Piccinni di Bari, che fu chiamato in
Francia dagli enciclopedisti francesi
ad un confronto con il tedesco Gluck,
Giovanni Paisiello di Taranto e
Domenico Cimarosa di Aversa. Già in
questa produzione i caratteri dei
personaggi emergono con naturalezza e
vivacità, anticipando quello che sarà
l’interesse principale della lirica
italiana per la vita umana e le sue
vicende.
Nella seconda metà del ‘700, dopo la
diaspora dei principali rappresentanti
della musica strumentale (da Vivaldi a
Scarlatti a Boccherini a Viotti a Muzio
Clementi), si afferma il melodramma,
che nell’Ottocento, dopo la tempesta
rivoluzionaria e lo sforzo di
restaurazione dell’ancien régime da
parte della Santa Alleanza, si
ripropone trasformato anche per
l’influenza di Gluck, di cui risentirono
profondamente sia il fiorentino Luigi
Cherubini sia Gaspare Spontini di
scuola napoletana, attivi a Parigi nel
periodo napoleonico e musicisti
apprezzati anche dai romantici
tedeschi.
Mentre in Francia la produzione
operistica si accentrava intorno
all’Acadèmie Royale, in Italia esisteva
un policentrismo dovuto al gran
numero di teatri sparsi in tutta la
penisola e alle molteplici scuole nate
nelle diverse località italiane. Nel
Cinquecento dominarono le scuole
polifoniche di Roma e di Venezia, nel
Settecento si affermò il campo teatrale
con Napoli quale nuova capitale
musicale, mentre a Venezia fiorì la
produzione strumentale con Vivaldi,
Albinoni e Tartini unitamente al
melodramma su librettistica del
Goldoni. Alla fine del Settecento, dopo
il declino della Repubblica veneta e
con Milano capitale del regno
lombardo-veneto, la situazione venne
organizzandosi intorno a due centri
principali nel Mezzogiorno e nel
Settentrione, tanto che come nota Mila:
«Fin da quando S. Ambrogio
stabilì a Milano un rito
particolare, che venne rispettato
nella sua autonomia dalla
costituzione gregoriana, la musica
italiana è il risultato dialettico di
questa concordia discors».(3)
In realtà nella tradizione italiana c’è
sempre stato uno scambio e una
collaborazione tra i vari teatri, che ha
favorito lo sviluppo della cultura in
nome dell’universalità del linguaggio
musicale. Nell’Ottocento Bellini fin
dall’inizio della sua produzione fu
apprezzato dal bergamasco Donizetti,
lui che era del sud. A Milano fu
chiamato alla Scala dal Barbaja e fu
presentato dall’operista napoletano
Mercadante al poeta Felice Romani
genovese, con il quale incominciò la
sua collaborazione, mentre Donizetti
presentava molte sue opere al sud.
L’effetto è che nord e sud finiscono
con il riunirsi come principi
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Il Tempietto
complementari, delineando le
peculiarità della musica italiana nei
confronti di quella d’oltralpe, orientata
in senso armonico e sinfonico più che
in senso melodico come nella nostra
tradizione.
Il successo del melodramma
Nel Settecento, come scrive Mila
«l’opera era un passatempo
musicale, fondato principalmente
sulla bravura dei cantanti: lo
spettatore non nutriva alcun vero
interesse per le sorti delle
Sofonisbe, degli Artasersi, degli
Alessandri Magni che erano gli
eroi di quegli spettacoli».(4)
La partecipazione appassionata alle
vicende dei personaggi è invece
propria del pubblico dell’Ottocento,
che condivideva le sventure degli eroi
delle azioni sceniche, confrontando le
loro vicende con le proprie esperienze
personali.
Nell’Ottocento, sotto l’influsso del
grande movimento romantico, l’Opera
si trasforma:« Il Dramma è penetrato
nel melodramma, ed il fatto è tanto più
importante in Italia, dove non esisteva
un vitale testo letterario per svolgere
quel compito di educazione
sentimentale e di scuola del costume,
che esercitavano in Francia Corneille
e Racine, Rotrou, Molière, Marivaux,
Beaumarchais e Voltaire»(5). L’opera
musicale viene a sopperire alla
carenza di una mancata tradizione di
carattere tragico e il genere del teatro
d’opera si diffonde largamente in
diversi strati sociali, secondo quel
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dettato romantico, che auspicava
l’avvento di un’arte popolare
largamente fruibile.
In tutte le città italiane i teatri grandi
e piccoli erano frequentati non solo dai
benestanti della borghesia e
dell’aristocrazia, che occupavano i
palchi e la platea, ma anche dal
popolo, che si affollava nel loggione e
che con l’andare del tempo diventava
sempre più numeroso. Anche uomini
di cultura come Foscolo e Stendhal
non disdegnavano di recarsi a teatro,
ove un pubblico sempre irrequieto e
vario sanciva o meno i successi
musicali.
Grandi protagonisti della scena erano i
cantanti: dal soprano che è l’eroina
della situazione di solito vittima
innocente di intrighi che la conducono
al sacrificio di sé, al tenore dalla voce
squillante, che rappresenta
l’innamorato intrepido della soprano.
Ad essi si contrappongono la mezzosoprano o contralto e il baritono rivali
dei due protagonisti o il basso, che
spesso sono anche nella parte del
padre inflessibile o, nell’opera buffa, i
protagonisti della maggior comicità. A
regolare la regia era il “poeta del
teatro” a volta affiancato nelle prime
dallo stesso autore, che sorvegliava lo
svolgimento dell’opera. Le scene erano
allestite con particolare cura
all’ambientazione storica della
vicenda.
Quanto agli argomenti in genere il
melodramma dell’Ottocento
corrispondeva al gusto del romanzesco,
ispirato al genere del romanzo,
introdotto da W. Scott. Presentava
figure di vittime innocenti, di eroi
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Il Tempietto
coraggiosi, storie di morte e di libertà
attraverso la forma espressiva
musicale, che fa diretto appello al
sentimento senza la mediazione
concettuale e la scrittura, che
richiedono cultura e preparazione. La
musica con le sue melodie e le scene
appassionate comunicava in maniera
immediata il valore del sentimento,
esaltato nell’età romantica come
portatore di ideali che danno senso
alla vita. Non a caso l’ammirazione
reciproca di Manzoni e di Verdi
nasceva dal loro riconoscersi affini
perché accomunati dall’arte, intesa
romanticamente come espressione
suprema di sentimento e di verità.
Nell’Ottocento la relazione tra poesia e
melodramma è molto stretta. Nel
melodramma i musicisti riflettono la
sensibilità dei poeti nel delineare i
loro personaggi, anche se il rapporto
tra musica e poesia con Verdi si fa
sempre più spostato a favore della
musica e sono note le sue baruffe con i
librettisti che non riuscivano ad
accontentare il maestro, sempre alla
ricerca della parola scenica. A
differenza dei poeti però i grandi
compositori( come Rossini, Bellini,
Donizetti, Verdi e in seguito Puccini),
contrariamente a quanto accadeva
negli autori russi o tedeschi,
ambientavano i loro drammi in luoghi
diversi da quelli originari,
dimostrando, come ben vede lo
studioso Donald Sassoon(6), un notevole
cosmopolitismo, con esiti globali e tali
da allargare la diffusione nel mondo
della musica italiana.
Il critico Carl Dalhaus evidenzia
alcuni elementi atti a distinguere la
tradizione italiana nei confronti di
altre tradizioni. Se infatti non si
possono stabilire rapporti stabili tra i
vari elementi che costituiscono il
genere musicale dell’Opera, è però
possibile sottolineare come talune
combinazioni musicali predominino su
altre a seconda delle diverse tradizioni
nazionali e regionali:
«nell’opera italiana l’importanza
centrale assunta dagli affetti e dai
conflitti d’affetti sospinge in primo
piano talune risorse drammaticomusicali e relega talune altre ai
margini»(7).
Così piuttosto raro nell’Opera italiana
è il ricorso alla tecnica del Leitmotif in
quanto
«il procedimento di ricordare
eventi preteriti o di presagirne di
venturi è poco conciliabile con
l’espressione spontanea dell’affetto,
ancorata all’immediata presenza
scenica e mirante semmai “alla
pienezza dell’attimo”»(8).
Dahlhaus sottolinea anche come il
fattore gestuale e la simultaneità delle
voci nel concertato siano
caratteristiche essenziali del genere
musicale di contro al dramma di
parola. Mentre infatti nel dramma di
parola non è possibile che più
personaggi parlino senza dialogare, ma
ciascuno per sé, come avviene
nell’opera musicale, nel concertato si
condensa il dramma degli
affetti,«scatenati dagli scontri
interpersonali».(9)
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Il Tempietto
Una differenza rilevante tra l’Opera e
il dramma in prosa è inoltre la
maggiore spettacolarità, quale
elemento inscindibile dal genere
musicale, strettamente caratterizzante
dello stesso. Ma mentre tale elemento
trova nel teatro d’opera francese la sua
piena espressione con il grand opéra,
al centro dell’Opera italiana permane
l’attenzione alla intimità della vicenda
umana.
C’è infine da osservare che più che la
considerazione dei moti oscuri
dell’anima o degli aspetti segreti della
realtà, nel melodramma italiano furono
privilegiate le concrete vicende della
vita senza particolare attenzione a quel
desiderio di evasione e a quegli slanci
all’infinito, che sono piuttosto propri
della tradizione tedesca. Il senso
dell’equilibrio e della misura, che
caratterizza la vocazione umanistica
latina, sono dominanti nel teatro
musicale italiano, volto alla ricerca di
una espressività naturale e spontanea.
Nelle pagine che seguono si delineano
alcuni aspetti della personalità artistica
dei quattro principali compositori del
teatro lirico dell’Ottocento, Gioacchino
Rossini, Vincenzo Bellini, Gaetano
Donizetti, Giuseppe Verdi, attraverso i
quali la tradizione operistica italiana si
definisce nella varietà delle sue
provenienze culturali ed insieme nella
sostanziale identità di interessi per la
vitalità e la ricchezza dei sentimenti
umani.
Gioacchino Rossini
Come ricorda Franco Abbiati nella sua
Storia della musica, Stendhal
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affiancava le due glorie di Napoleone e
di Rossini e parlava della “campagna”
di Rossini veneziana-lombarda,
iniziata con la Cambiale di matrimonio
e finita con Sigismondo, della
campagna napoletana, iniziata con
Elisabetta in Inghilterra e finita con
Zelmira, e della campagna di Francia
(trasferimento di Rossini a Paragi) e la
prima rappresentazione del Guglielmo
Tell. In realtà Rossini fu genio italiano
per eccellenza, in lui c’è il musicista
colto e preparato, ma c’è soprattutto
l’artista, che procede naturalmente per
forza di spirito e per creatività.
Nato a Pesaro nel 1792 Rossini
perfezionò la sua rudimentale
educazione musicale a Bologna ove,
sotto la guida del padre Stanislao
Mattei, compose le prime canzonette e
molta musica ecclesiastica. A
vent’anni diventò già popolare per le
sue prime opere buffe, che conobbero
successi ed insuccessi come Il Signor
Bruschino, rappresentato senza
successo a Venezia nel 1813. Tra le
opere serie una sorte particolare toccò
al Tancredi, caduta in Italia, ma
rappresentata con gran plauso a
Vienna tanto da suscitare le reazioni
dei compositori tedeschi, come
Schubert e Weber, che si videro
superati dal maestro italiano nel favore
del pubblico.
Rossini «entra decisamente,
impetuosamente nell’età moderna»
come scrive l’Abbiati(10), rispondendo
ai requisiti richiesti dal gusto del
tempo della borghesia ben pensante
dell’età della Restaurazione.
Il Maestro pesarese non aveva
preoccupazioni dottrinarie e la sua
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produzione sembrava frutto di un
prodigioso dono naturale. Piacevano la
sua cordialità, il suo riso aperto, i ritmi
estrosi e le sue dolci melodie:
«Rossini parve rispondere
mirabilmente ai requisiti di
fiduciosa naturalezza espansiva
richiesti dall’arte musicale del
tempo».(11)
Data la scarsità dei documenti è
piuttosto difficile ricostruire una
poetica rossiniana, ma si può dire che
il Maestro ritenesse che gli
sconvolgimenti sociali influissero
anche sui compositori di musica. Egli
non amava le barricate, le rivoluzioni e
il progresso tecnico. A commento di
una lettera di Rossini - che dichiarava
di ritenere «l’arte musicale italiana
(specialmente per la parte vocale) tutta
ideale e espressiva, mai imitativa come
il vorrebbero certi filosofoni
materialisti. Mi sia permesso dire che i
sentimenti del cuore si esprimono e
non si imitano»(12) - Mila così scrive:
Dove sembra di capire come con i
termini di ideale ed espressivo
contrapposto ad imitativo, Rossini
volesse indicare, senza riuscire a
chiarire perfettamente le ragioni
profonde della sua intuizione,una
qualità eterna dell’arte,cioè
l’esigenza aristotelica della
catarsi, che gli pareva non a torto
compromessa da certi aspetti della
musica romantica, in particolare
dalle intenzioni descrittive della
musica a programma e dai nuovi
indirizzi del dramma
musicale,dove l’espressione degli
affetti sempre più tende ad evitare
l’oggettivazione della forma
artistica, per attuarsi invece
direttamente, senza diaframmi
formalistici, nella vita del
suono.(13)
Rossini riesce a tradurre in musica il
ritmo della vita dei personaggi. Il suo
ritmo non risponde ai criteri di sereno
equilibrio mozartiano, ma si manifesta
in maniera travolgente,risolvendosi nei
suoi famosi crescendo. Come lui stesso
scrisse:
«La forza d’espressione si deve
sentire da chi compone, non si
impara nelle scuole, non vi sono
regole per insegnarla, e tutta
consiste nel ritmo. Nel ritmo sta
l’espressione musicale, nel ritmo
tutta la potenza della musica».(14)
Sulla definizione del linguaggio
musicale di Rossini, spontaneamente
gioioso si sofferma Alessandro Baricco,
che in Il genio in fuga parla della
lingua della felicità da lui coniata,
secondo un concetto che Rossini si
trovò in seguito a mettere in gioco
nella pratica del dramma:
«un concetto bellissimo: esso
comprende la memoria di quando
essere felici poteva ancora essere
un gesto naturale, dolcissimo, e
semplice. E accanto ad essa la
triste incapacità non tanto di
tradurre quel ricordo in realtà, ma
di riposarsi in esso. C’è
un’inquietudine che strappa via
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Il Tempietto
dalla quiete della semplice
felicità,in nessun posto è
tramandata come nella musica di
Rossini che custodiva l’Eden
mozartiano,ma insieme il nervoso
disagio che impedisce di dimorarvi
e l’ansia che induce a rigirarvisi,
mille volte fino a che lo scenario
cambia ed è ancora felicità, ma in
modo diverso,bruciante, nervoso
stridente, quasi artificiale questa
che è forse la felicità del moderno,
si cristallizza in linguaggio
nell’opera buffa rossiniana.(15)
La felicità che nell’opera buffa si
esprime gioiosamente risente della
esperienza di un tempo che ormai è
consapevole dell’impossibilitò di
recuperare un Eden perduto e si
manifesta nell’opera buffa come
consapevolezza di una realtà
irrecuperabile, ma non per questo meno
desiderabile e affascinante.
Sempre a proposito del carattere di
Rossini spesso ne è stata messa in
evidenza la sensività. Si dice addirittura
che «aveva eccesso di suscettibilità
nervosa, una critica spiacevole lo faceva
cadere in deliquio»(16). Certo che
l’immagine di un Rossini ben pasciuto e
paffuto, con spessi bassettoni e sottogola
di ricciolini va alquanto ridimensionata.
Tale immagine non risponde alla
personalità complessa quale appare
dall’arte del musicista pesarese.
Rossini doveva essere molto sensibile e
ben consapevole delle disillusioni della
vita e delle contraddizioni dell’esistenza,
come appare dalla sua produzione
riccamente umana. In ogni caso egli fu
un innovatore, nuovo per stile e per
243
spirito. La sua novità non si limita
all’introduzione delle famose cavatine,
che iniziano in tempo lento per poi
trasformarsi in vivaci cabalette, ai
duetti, ai concertati, al recitativo
obbligato più del recitativo secco allora
in uso, ma si impone per lo spirito
nuovo che non solo rappresenta il gusto
del tempo, ma esprime un’inquietudine
che innova il teatro.
Seguendo la partizione di Sthendal si
può dire che nel primo periodo della
produzione rossiniana spicca L’italiana
in Algeri, rappresentata a Venezia nel
1873, che esprime il genio comicogrottesco dell’artista pesarese. Qui la
contenuta classicità di Mozart è
sorpassata da una sensualità più
musicalmente caustica e vivificante e
nel finale rossiniano, come nota
l’Abbiati, sembra risorgere «lo spirito
mimetico dei madrigalisti nostri
dell’ultimo Cinquecento, veri padri
dell’espressione comica musicata nel
senso latino della parola»(17). È la storia
della schiava favorita di Solimano, che
essa gioca con uno sciocco stratagemma.
Anche se Rossini non amava le
rivoluzioni, in quest’opera, molto prima
del Risorgimento, la protagonista
Isabella si vanta continuamente della
sua italianità e sollecita i suoi compagni
italiani a mostrare al turco quanto essi
valgano, forse in onore di Venezia che
aveva dovuto rinunciare alla sua libertà
con il trattato di Campoformio.
L’Opera più nota di Rossini e comunque
il suo capolavoro è il Barbiere di
Siviglia, commissionato a Rossini dal
teatro Argentina di Roma nel 1816, e
già musicato da molti autori tra i quali
Paisiello, il che valse al pesarese la
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stroncatura dei paisiellisti alla prima
rappresentazione. Nell’opera, scritta
originariamente per contralto e non per
soprano nella figura di Rosina, furono
da Rossini sapientemente introdotte
innumerevoli pagine della precedente
produzione, che qui trovano il loro
posto con perfetta rispondenza alla
gagliardia del testo musicale,
caratterizzato da una intensa vita
ritmica e da uno slancio vitale
irresistibile.
Ammiratori dell’opera furono musicisti
anti italiani e anti rossiniani quali
Berlioz e Wagner. Piacque a Schumann,
Beethoven, Schopehnauer, che vi
trovava le premesse della sua filosofia e
anche a Hegel che in una lettera
familiare così confessava:« Ho inteso il
Barbiere di Rossini per la seconda volta
(a Vienna nel 1834) e convien dire che
il mio gusto si sia depravato assai,
perché questo Figaro mi riesce di gran
lunga più attraente di quello delle Nozze
mozartiane»(18)
La Cenerentola è un altro grande
capolavoro. Di abbagliante purezza
melodica e di audacissimi gorgheggi, è
di una ebbrezza naturale e di uno
spiccato edonismo veramente
insuperabili. Anche nella Semiramide
rappresentata nel 1823 alla Fenice vi è
un grande virtuosismo canoro, mentre
con Otello da Sakespeare inizia la
produzione delle opere serie,
caratterizzate da solennità espressiva e
da forza di suggestione romantica.
Le opere di questo periodo furono
rappresentate nei teatri di tutta Italia
(Scala, San Carlo, Argentina)
accomunando gli spettatori
nell’ammirazione per questo grande
innovatore del teatro italiano. A
proposito de La donna del lago,
dall’omonimo romanzo di W. Scott,
Leopardi nel ‘23 scriveva:
«Abbiamo in Argentina La donna
del lago, la qual musica è una
cosa stupenda,e potrei piangere
ancor io se il dono delle lacrime
non mi fosse stato sospeso».(19)
Dopo un soggiorno a Londra di otto mesi
durante il quale non scrisse nulla,
Rossini nel 1823 si recò a Parigi ove
per un biennio ebbe anche la direzione
del teatro Italiano. Qui fu messo inscena
Il viaggio a Reims ossia l’Albergo del
giglio d’oro per i festeggiamenti
dell’incoronazione di Carlo X. Seguirono
L’Assedio di Corinto, che riprendeva il
Maometto II, Il Mosè, che riprendeva il
Mosè in Egitto rappresentato al S. Carlo
di Napoli nel 1818 in quaresima con la
stupenda preghiera Dal tuo stellato
soglio e il Conte Ory, rimaneggiamento
del Viaggio a Rems, che ebbe molto
successo.
Nel 1829 venne rappresentato a Parigi
il Il Guglielmo Tell, già musicato da
molti autori. L’opera rappresenta lo
sforzo di Rossini nel genere romantico
ed insieme uno dei maggiori
capolavori della sua produzione.
Compromesso tra la grand’operà
francese e il recitativo italiano,
precede ed avvia i concertati della
Norma e le preghiere corali del
Nabucco. Si caratterizza per forza
espressiva e per evocazione pittoresca
della Svizzera, immergendo lo
spettatore nel mondo della natura, nel
trionfo della pace e della libertà.
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Il Tempietto
Dopo questo ultimo capolavoro Rossini
si ritirò dal teatro, anche se continuò a
comporre Lo Stabat mater e la Petite
Messe solennelle, e altri numerosi pezzi
brevi. Dopo un viaggio in Italia con la
seconda moglie, morì a Parigi nel 1868
nella villa di Parsy.
Le partiture delle sue opere sono
studiate da musicisti e da filologi
specializzati nella fondazione del
Festival Rossini Opera di Pesaro e
pubblicate in edizione critica, sulla
quale si basano le esecuzioni del
Festival.
Vincenzo Bellini
«Il re del bel canto, Bellini ha
segnato la storia della musica
esercitando il proprio influsso sia
sui colleghi operisti (Verdi, ma
anche Wagner) sia sui compositori
quali Chopin e List»(20).
Così esordisce Roberto Iovino nella
sua presentazione di Vincenzo Bellini,
sottolineando il fatto che Bellini aprì il
varco ad una nuova sensibilità,
staccandosi nettamente dall’operismo
rossiniano. Nelle opere di Bellini
dominano la melodia, che in lui è un
vero dono, e la ricerca di
immedesimarsi nei personaggi dei suoi
drammi.
Nacque a Catania il 3 novembre 1801.
Il padre era modesto organista ed
anche il nonno era musicista. Si sa che
il Decurionato di Catania deliberò di
concedergli un assegno per recarsi a
Napoli a perfezionare gli studi
musicali, in cui aveva precocemente
dato prova di singolari capacità.
La leggenda si occupò di lui come di
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una creatura ideale, quasi incorporea,
tutta soltanto sentimento. Bellissimo di
aspetto, raccolse ben presto molti
successi amorosi, che lo
accompagneranno in tutta la sua breve
vita con passioni travolgenti e febbrili.
Nel teatrino dell’Istituto di Napoli fu
rappresentata la sua prima opera
Adelson e Salvini, i cui brani furono
poi trasferiti in composizioni
successive. Nel 1826 fu data la
seconda opera Bianca e Fernando,
reiterata due anni dopo da Felice
Romani per l’inaugurazione del Teatro
Carlo Felice di Genova. Nel Pirata,
rappresentato alla Scala nel 1827, c’ è
già l’intima semplicità delle immagini
melodiche che caratterizza la
produzione belliniana.
A Milano Bellini riscosse grandi
successi presso le più illustri famiglie
del tempo, la Straniera e i Capuleti e i
Montechi, scritti in questo periodo,
rivelano le doti musicali del
compositore per la grandiosità degli
squarci lirici. Un forte attacco del male,
che lo affliggeva, lo costrinse al riposo a
Moltrasio, assistito dall’amica Cantù.
Ristabilitosi e tornato a Milano, riprese
con vigore la sua arte.
La Sonnabula del 1831 segna la
trasformazione della produzione
belliniana rispetto alle opere
precedenti. Sereno equilibrio, serietà e
sobrietà caratterizzano quest’opera cara
a tutte le platee, qui si esprime il canto
puro, come lo definiva Ildebrando
Pizzetti. Così scrive l’Abbiati:
«Sono quei palpiti, quegli accenti
e quei sospiri non mai diluiti negli
sviluppi eccessivi delle frasi, né
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Il Tempietto
stemperati nelle superflue
ripetizioni di ritornelli e di arie da
capo: sono quelle melodie nude e
fragranti e incomparabilmente
appassionate e profonde che
renderanno attonito lo stesso
Wagner, per il quale la musica
belliniana è tutto cuore e
strettamente legata alla
poesia».(21)
Norma, su libretto di Felice Romani,
malgrado la protagonista fosse la celebre
Giuditta Pasta che aveva cantato con
successo nell’Anna Bolena di Donizetti
e nella Sonnambula, fu un fiasco alla
Scala nel1831. Bellini riteneva che
contro di lui vi fosse un partito di
nemici personali, Donizetti pensava che
Norma non fosse stata capita. Nel corso
delle repliche comunque il giudizio del
pubblico cambiò radicalmente anche
grazie all’impegno degli artisti quali la
stessa Giuditta Pasta e Giulia Grisi. Veri
e propri trionfi seguirono poi i successi
di Milano a Bergamo e a Como e Norma
fu rappresentata in tutti i teatri europei,
quale espressione del clima romantico
musicale . Bellini diventò famoso, in
occasione di un viaggio in Sicilia fu
accolto grandiosamente dall’Intendente
di Catania con una berlina tirata da
quattro cavalli bianchi.
La partitura di Norma originale
autografa rivela il tormento creativo
dell’autore per le molteplici cancellature
che presenta, tanto che nessuna pagina
è priva di correzioni. Anche la Casta
diva, canto di sublime bellezza
paragonabile, insieme a gran parte della
produzione belliniana, alle pagine più
alte della nostra letteratura romantica da
Foscolo a Manzoni a Leopardi, reca
visibili tracce della insoddisfazione del
Maestro, così come il dialogo tra Norma
e la tenera Adalgisa, che evidentemente
arriva alla sublime semplicità del canto
attraverso il travaglio creativo.
Beatrice di Tenda del 1833 ebbe scarsa
accoglienza. Sempre nel 1833 il Maestro
catanese si recò a Londra e quindi a
Parigi ove gli fu dato l’incarico di
un’opera nuova per il Teatro Italiano.
Nacque così la sua ultima opera I
Puritani su libretto di Pepoli, che fu
rappresentata con successo nel gennaio
del 1835. Anche in quest’opera, che era
stata elaborata con particolare scrupolo
perché Bellini non voleva deludere le
aspettative dei colleghi, il lirismo puro e
le invenzioni melodiche affondano le
radici nella tradizione più limpida del
belcanto italiano, trasfigurate in una
atmosfera romantica semplice e
gigantesca insieme.
Nello stesso 1835 nel mese di settembre
Bellini muore in una villa di un inglese
sulla riva della Senna, lontano dagli
amici e assistito solamente da un
bracciante e da un giardiniere. La
notizia della sua morte colpì
profondamente l’amico Donizetti che,
proprio mentre stava gustando la gioia
per il successo della sua Lucia di
Lammermoor, scrisse subito una Messa
da Requiem e un Lamento per la morte
di Bellini. Nel 1876 Catania richiese le
spoglie del suo grande figlio.
Gaetano Donizetti
Rievocando alcuni aspetti del Marin
Faliero di Donizetti, Mazzini nella sua
Filosofia della musica conclude
dicendo:
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Il Tempietto
sono tutti più o meno,o travedo,
indizii potenti di un genio che non
si è svolto tutto finora, che
intravede, voglioso un nuovo
mondo musicale, che vorrebbe bene
percorrerlo, che forse inceppato,
strozzato da mille cagioni che
ostano oggi al genio valente, nol
correrà; ma che in ogni modo, si è
rivelato in preludii dai quali la
generazione ventura, trarrà
argomento a dire “Quegli era
potente a conquistarlo, se avesse
voluto davvero!”(22)
Di Donizetti è stata spesso messa in
evidenza una certa qual incompiutezza
dovuta anche al fatto che il musicista
si era sobbarcato una gran quantità di
impegni, che ne fecero peraltro il più
copioso operista del tempo.
Compositore prolifico di musica sacra
e da camera, che non è ancora tutta
conosciuta, scritta guardando non solo
a Rossini ma anche a Haydin, Mozart
e Beethoven, è autore di molte opere
teatrali per le quali è diventato famoso.
In realtà fu il primo grande romantico,
capace di rappresentare i sentimenti
umani nel canto semplice, accessibile
popolarmente e nello stesso tempo
caratterizzato dallo stile raffinato della
strumentazione. La sua ispirazione è
spesso segnata da un malinconico
lirismo e da accenti di umana
disperazione, che riflettono i contrasti
romantici del tempo.
Nacque il 29 novembre 1797 a
Bergamo (in Borgo Canale), i genitori
lavoravano da sarti. Sei erano i figli, di
cui due, Giuseppe e Gaetano, furono
avviati alla musica. Giuseppe cantore in
247
S. Maria Maggiore diventerà musicante
di Napoleone e poi in Costantinopoli
alle dipendenze del sultano, Gaetano fu
ammesso alla Scuola di musica fondata
a Bergamo da Simone Mayr, autore di
successo. Per i suoi eccezionali
progressi fu inviato dallo stesso Mayer
alla Scuola di Bologna. All’età di venti
anni aveva già composto pezzi
chiesastici, sinfonie e tre opere Il
Pigmalione, Olimpiade, L’ira di Achille
e il primo dei 19 quartetti che
documentano la sua preparazione
contrappuntistica.
L’Opera Enrico di Borgogna, accolta
freddamente a Venezia, inizia la serie
delle rappresentazioni liriche. Donizetti
nelle sue prime prove aveva a che fare
con i successi di Rossini, che allora
imperava per fama e di cui peraltro
Donizetti era amico devoto. Le sue
prime opere minori furono
rappresentate a Venezia, a Mantova, al
teatro Argentina di Roma e a Napoli.
Scritturato alla Scala con l’opera Chiara
e Serafino o i Pirati tiepidamente
accolta, continuò ogni anno a partire
dal 1824 a comporre opere numerose,
tutte dimenticate. Tra tutte si ricorda
l’Anna Bolena, tratta dall’Enrico VIII di
Shakespeare su libretto di Felice
Romani e rappresentata al Teatro
Carcano di Milano, ove il romantico
sentimentalismo di Donizetti si
inserisce in una struttura drammatica
con effetti teatrali. È stato notato come
nella figura di Anna Bolena si possa
cogliere una relazione con il
personaggio di Ermengarda
dell’Adelchi manzoniano, entrambe
eroine offese, ma capaci di perdonare
nella morte serena. L’opera riscosse
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248
Il Tempietto
grandi successi anche a Londra, Vienna
e Parigi dove fu messa in scena.
Dopo la Fausta, rappresentata a Napoli
nel 1832, il suo primo vero capolavoro
L’elisir d’amore, composto in poco più
di una settimana su libretto di Felice
Romani, rappresentato sempre nel 1832
alla Cannobiana, il maggior teatro di
Milano dopo la Scala. Successo
travolgente che Donizetti volle dedicare
in una risposta all’editore Ricordi alle
belle donne di Milano. L’opera attesta
la grande fantasia musicale di Donizetti
ed insieme la sua vena romantica, che
ben si esprime nelle celebri arie Una
furtiva lacrima, Quant’è bella quanto è
cara, Adina credimi, espressioni del
gentile e sincero amore del buon
Nemorino per la bella Adina.
Donizetti, che conduceva peraltro una
vita ordinata accanto alla amata sposa,
cominciò a girare per tutti i teatri
italiani da Napoli a Firenze, a Milano a
Venezia dove venivano rappresentate le
opere, che egli continuava a scrivere
quali la Parisina, Lucrezia Borgia,
Torquato Tasso.
Nel 1835 su invito del Teatro italiano,
comunicatogli da Rossini, si recò a
Parigi ove presentò il Marin Faliero. Fu
però a Napoli che apparve l’altro
grande capolavoro di Donizetti Lucia di
Lammermoor, su libretto del
Cammarano, tratto dalla Sposa di
Lammermoor di Walter Scott, opera
meravigliosa ove si alternano pagine di
alto lirismo a scene drammatiche. Così
scrive Iovino a proposito di questa
bellissima opera:
«L’eleganza intoccabile delle
melodie, il loro slancio e la loro
semplicità, lo stile conciso con cui
viene svolto il dramma, la qualità
malinconica della strumentazione
(con preferenza per i corni)
rendono Lucia uno dei titoli
ancora oggi più frequentati ed
amati».(23) Lucia è il poema
musicale dell’amore ed il suo
successo sta «fors’anche nella
densità dei miti romantici
innestati all’interno di una
tragicità che conduce alla follia e
al suicidio. E che racconta come
l’amore è destinato a trionfare,
anche dopo la morte».(24)
Alla gioia per il trionfo di Lucia
seguirono molti lutti familiari, le morti
del padre e della madre, un bimbo
nato senza vita e la morte della sposa
Virginia. Il Maestro si dedicò tutto al
lavoro. Il fatto che il Poliuto fosse stato
respinto dalla censura borbonica lo
indusse a trasferirsi nel 1838 a Parigi
ove fu rappresentata la Favorita, canto
che commuove e travolge per la
potenza drammatica. Seguirono La fille
du règiment, che piacque al pubblico
parigino per le bellezze melodiche, e i
Martyrs, rimaneggiamento del Poliuto
chiamati il Mosè di Donizetti, poema
religioso ed eroico dalla omonima
tragedia di Corneille, con scene
edificanti e con pagine di alto
interesse musicale.
Nel 1848 è ancora a Roma ove mette
in scena Adelia o la figlia dell’arciere.
Nel 1842 compone per il teatro di
corte viennese Linda di Chamonix
opera semiseria, che ebbe grande
successo tanto che fu nominato
Maestro di Cappella e Compositore di
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Il Tempietto
Corte, incarichi che già erano stati di
Mozart.
Su preghiera di Rossini diresse a
Bologna lo Stabat Mater del pesarese,
che lo avrebbe voluto anche come
direttore del Liceo musicale di Bologna.
Del 1848 è ancora il Don Pasquale
ufficialmente su libretto di Accursi
Michele, ma in realtà di Giovanni
Ruffini, opera perfetta e di grande
equilibrio, composta a Parigi in undici
giorni, ma tutta in stile italiano senza
influssi dell’operà - comique francese.
Lo minava però la malattia, forse
anche aggravata dal ritmo di lavoro del
Maestro. Fu ricoverato nel manicomio
di Irvy a Parigi e quindi ospitato in
Bergamo in casa Basoni ove morì nel
1848.
Giuseppe Verdi
È con il Nabucco che Verdi prende
coscienza del suo genio: «Con
quest’opera - ebbe ad affermare lo
stesso Verdi a proposito del Nabucco si può dire veramente che ebbe
principio la mia carriera artistica»(25) Il
Nabucco fu preceduto da molte
esperienze musicali: dalle esercitazioni
sulla spinetta e sull’organo delle
Roncole, alle composizioni per la
filarmonica di Busseto, ove ottenne il
posto di maestro di musica, dopo che
fu bocciata la sua ammissione al
Conservatorio di Milano ove aveva
chiesto di poter continuare gli studi
musicali, e soprattutto alla sua prima
opera Oberto conte di san Bonifacio.
La partitura dell’Oberto, rifiutata dal
Teatro di Parma, fu accettata
dall’impresario Bartolomeo Merelli su
richiesta della cantante Giuseppina
249
Strepponi e del primo violino della
Scala, presso la quale venne
rappresentata con successo nel 1839.
E fu lo stesso Merelli, che malgrado
l’insuccesso di Un giorno di Regno
sempre alla Scala, offrì a Verdi, allora
in preda al più cocente dolore per la
morte della sposa Margherita Barezzi e
dei suoi due figlioletti, i libretti del
Nabucco e dei Lombardi alla prima
crociata, che Verdi musicò riscuotendo
grande successo.(26)
Già nell’Oberto appaiono alcune delle
caratteristiche dello stile verdiano:
accento umano, forza emotiva e
drammatica, mutazioni improvvise e
violente. Sia nel Nabucco che nei
Lombardi ci sono pagine di sentimento
umano e patetico, di espressione
religiosa elevata nella preghiera, di
violenza, di conflitti drammatici e
pathos. Meravigliosi i cori dal Va
pensiero del Nabucco al Signor dal
tetto natio dei Lombardi.
A Venezia nel 1844 va in scena Ernani
su libretto del Piave: è l’opera che
delinea la natura romantica di Verdi,
spirito umanamente vivo e
“elementare”. È lavoro già staccato dai
vecchi schemi napoletano e rossiniano
e appena legato alla concezione
donizettiana. Impronta leonina, schietta
italianità si rivelano già qui come
caratteristiche della musa verdiana.
Del 1843 sono I due Foscari su libretto
del Piave dalla tragedia omonima di
Byron e del 1847 è il Macbeth con il
quale Verdi inizia a rapportarsi a
Shakespeare, confermando la sua
scelta di trarre i suoi soggetti da alte
fonti letterarie (in primo luogo Victor
Hugo, poi Byron Schiller e quindi
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250
Il Tempietto
Shakespeare, il cui teatro fu tradotto in
prosa italiana nel 1838 da Carlo
Rusconi). Alla prima edizione del
Macbeth seguono i Masnadieri.
Per quanto riguardava il libretto, che
nell’opera italiana era sempre stato
composto in versi endecasillabi o
anche in quinari settenari ecc., Verdi
cercava di staccarsi dalla forma rimata
per arrivare ad una sempre maggiore
aderenza tra testo e musica:
«A dir il vero, pur senza intenzioni
programmatiche o così
intenzionalmente dirompenti, –
scrive lo studioso di semiologia
Paolo Fabbri - fin dagli anni ‘50
già Verdi aveva dato mostra di
una scrittura che intendeva
movimentare i profili soliti,
saggiando ad esempio le
possibilità offerte in situazioni
colloquiali dall’innesto di segmenti
vocali flessibili in versi sciolti- con
il loro profilo irregolarmente
ondulato- su di una base
strumentale periodica».(27)
Su Verdi è stato detto e scritto molto,
difficile aggiungere qualcosa alla sua
celebrità. Certo che con Verdi la
musica italiana perviene a una potente
definizione: egli parte dalla vita vera e
dall’uomo esaltandone attraverso la
musica l’anelito profondo al bene,
nelle contraddizioni che pur emergono
nel suo animo. Una musica, quella di
Verdi, che si riallaccia nella sensibilità
romantica all’ umanesimo congenito
alla nostra tradizione, classico e
realista insieme, volto a cogliere
l’essenza stessa dell’uomo.
Nel 1849 Verdi abita con la Strepponi
a Parigi e, tornato in Italia, inizia le
pratiche per l’acquisto della villa
Sant’Agata presso Busseto. È quindi a
Roma per La battaglia di Legnano, che
dà luogo a manifestazioni patriottiche.
Nel ‘48 il San Carlo aveva peraltro già
rappresentato Luisa Miller (da
Schiller), che prelude a Rigoletto
anche per argomento, ma non è ancora
opera vigorosa e controllata in senso
autocritico, mentre Stiffelio, degli
stessi anni, non ebbe buon esito.
Segue poi la serie dei capolavori, che
hanno fatto di Verdi la personalità di
spicco del teatro lirico ottocentesco.
Rigoletto su libretto del Piave tratto da
Le roi s’amuse di Victor Hugo, fu
rappresentato con grande successo alla
Fenice nel 1851 e fa parte della
trilogia romantica, composta dal 1951
al 1953, di Rigoletto, Il Trovatore, La
Traviata.
Rigoletto è una fiumana travolgente di
melodie, grande l’approfondimento
psicologico, strumentazione nutrita e
pittorica, audace l’intreccio delle parti.
Verdi stesso, dopo aver già composto
Trovatore e Traviata, scriveva:
«Rigoletto la mia migliore opera!»
Lusinghiero fu peraltro il successo
dell’opera anche in Austria, Ungheria,
Germania, Londra e Parigi ove fu
ripetutamente messa in scena.
Il Trovatore, librettista il Camarrano da
un dramma spagnolo El Trobador, fu
rappresentato al Teatro Apollo di
Roma nel 1853. Anche il Trovatore
dall’eccitazione dei sensi raggiunge
l’emozione dello spirito sulla base di
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Il Tempietto
una grande inventiva musicale.
Nel 1853 invece caduta alla Fenice
della Traviata, dalla Dame aux
camelias di Dumas figlio su libretto
del Piave, insuccesso che si ripeté a
Napoli anche se Verdi era convinto
della buona riuscita del lavoro.
Dramma di grande intensità
psicologica pone al centro della
vicenda l’eroica rinunzia di Violetta
che la redime. Musica aristocratica, in
cui quanto di delicato era sotteso nelle
opere precedenti, ora si svela. Prima
dominavano la passionalità indomita e
selvaggia, l’austera solennità delle
visioni bibliche e il patriottismo, ora
prevalgono voci di soave tenerezza, di
pianto e di dolore.
Ancora un dramma storico con I Vespri
Siciliani, macchinosa costruzione
melodrammatica scritta su
commissione del Governo Imperiale
per l’inaugurazione dell’Esposizione
Universale di Parigi. Celebre la
bellissima sinfonia dell’opera.
Segue la stesura del Simon Boccanegra
su libretto di Piave per la Fenice, ove
cade nel 1858 (nel 1881 fu
rappresentato alla Scala il
rimaneggiamento del Simon
Boccanegra su libretto rivisto da Boito
con sviluppo drammatico fuori dalle
forme consuete, ove Verdi adotta la
declamazione melodica e spezza i
vincoli del concertato). Alla ripresa
dello Stifelio col titolo di Aroldo, che
non riscosse successo, fece seguito Un
ballo in maschera su libretto di
Antonio Somma, che Verdi ritirò dal
San Carlo di Napoli per rappresentarlo
a Roma nel 1859, ove fu accolto con
grande entusiasmo, diventando
251
occasione di manifestazioni
patriottiche al grido di Viva Verdi (per
Vittorio Emanuele re d’Italia).
Ancora ricca la produzione degli anni
successivi, in cui c’è il Verdi tutto
musica. Nel 1862 successo a
Pietroburgo (era presente anche il
Maestro) della Forza del destino su
libretto di Piave, nel 1865 rifacimento
del Machbet, nel 1867 Don Carlos (da
Schiller) dramma della ragion di stato,
presentato a Parigi, e rimaneggiamento
della Forza del Destino, su libretto di
Ghislanzoni, una tra le opere più
patetiche di Verdi.
Infine le ultime grandi composizioni:
Aida, Otello, Falstaf, alle quali si
aggiunge la Messa da Requiem
inizialmente scritta per Rossini e poi
dedicata a Manzoni, morto nel 1873.
Anche negli ultimi capolavori, sopra
menzionati, si riscontra la lealtà di
Verdi per i maestri italiani del passato.
Contro di lui e la nostra tradizione
c’era stato un attacco dei wagneriani,
ai quali Verdi (che aveva ascoltato la
sinfonia del Tannhauser e a Bologna
nel 1871 il Loengrin, esprimendo
giudizi non positivi su Wagner, anche
se alla morte del grande musicista
tedesco aveva vergato espressioni di
cordoglio), contrapponeva la sua
coerenza e la sua formazione, che lo
aveva portato ad attingere dalla vita la
sua ispirazione. L’interesse prevalente
per l’immediatezza del sentire non gli
aveva però impedito di continuare a
perfezionarsi nel contrappunto per
progredire nell’arte, pur rimanendo
sempre fedele a sé stesso.
Nel 1871 aveva fatto eseguire al Cairo
Aida, scritta su incarico del Khedivé
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Il Tempietto
d’Egitto, su libretto di Ghislanzoni.
Dolcezza poetica, dramma e musica
procedono in quest’opera unite con
chiarezza e coerenza; forme
tradizionali, arie,romanze e cabalette
si susseguono in maniera essenziale e
mirabilmente austera. Così scrive
Bruno Barrili su Aida:
dramma e i nuovi esaltatori del
melodramma esotico. In realtà la
concezione dell’Otello è sobria, ma
italianissima sia pur nel mutamento
canoro, per l’organicità strutturale e la
caratterizzazione dei personaggi.
Così scrive il critico Dino Roncaglia
sulla parte finale di Otello:
le mescolanze di gregoriano
secolare, di moresco e di italiano
del ceppo più focoso, sulle quali il
genio liturgico e tempolaresco del
bussetano scarica saette e fulmini
silenziosi dai bagliori abbronzati e
torridi fanno uno spettacolo unito
e portentoso di geroglifici
subitanei. Le forme piramidali dei
colori atri, approdano man mano,
nelle cupe sonorità azzurrine del
quadro rintuonando
mirabilmente.(28)
e ancora una volta ogni effetto è
ottenuto attraverso una grande
semplicità di mezzi, e facendo
aderire il linguaggio verbale al
recitativo sillabico di grande
naturalezza e di nuova potente
verità espressiva. Questo ormai non
è più un melodramma e meno
ancora una grand’opera; è il
nuovo dramma lirico italiano
(secondo quanto è scritto sullo
spartito), o meglio l’opera-poema
secondo la denominazione di
Giuseppina Verdi.(29)
In questo periodo Verdi è spesso a
Sant’Agata con la Strepponi. Intanto
Boito gli prepara il libretto dell’Otello
da Shakespeare, acclamato alla Scala
nel1887, sotto la direzione di Franco
Faccio. In Otello Verdi conferisce
particolare spazio alla declamazione
melodica per meglio individuare i
caratteri. Vi è una soppressione di arie
e romanze per un declamato intensivo
di dolce e intima melodiosità e vi è
anche la ripresa delle sublimi
concezioni monteverdiane, non più
legate agli schemi fissi del
melodramma.
Il progresso delle forme, introdotto al
fine di non temere più i tedeschi, ebbe
però l’effetto di suscitare anche grandi
diatribe tra gli idolatri del vecchio
A proposito della Messa da Requiem
verdiana può essere interessante
ricordare il dibattito, tutt’ora aperto, tra
i sostenitori di questo mirabile
capolavoro e coloro che lo ritengono
una composizione melodrammatica o
operistica, che non avrebbe nulla a che
fare con autentiche opere sacre.
Contrario a queste posizioni il critico
Giulio Confalonieri, che in un articolo
del 1950 criticava la tesi che confinava
la musica religiosa alla polifonia
quattrocentesca e cinquecentesca e alla
musica dei corali a sole voci delle
scuole franco-fiamminghe e delle
scuole romana e veneziana.
Confalonieri sosteneva che ritenere la
musica sacra conclusa con la morte di
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Il Tempietto
Palestrina fosse un errore interpretativo,
che non teneva conto dello svolgersi
della storia e dell’apparire di nuovi
generi musicali, che avevano influito
anche sullo sviluppo della musica sacra.
A suo vedere l’idea religiosa
nell’Ottocento non si sarebbe sviluppata
nella sede più diretta, cioè nella musica
per Chiesa, ma si sarebbe trasferita nel
teatro quando l’Opera appariva essere la
forma più alta di creazione artistica
Verdi condivideva con il suo tempo
l’entusiasmo per la cultura francese e le
posizioni teoretiche del Lammenais, di
Comte e di Renan, ma nella sua musica,
più che nelle sue dichiarazioni
pubbliche sulla fede religiosa, l’idea
religiosa era sempre viva, come portato
di quella verità umana che egli andava
perseguendo nei suoi melodrammi:
Come diceva Gluck la musica non
sa mentire. Ora le estasi di Aida e
di Radames sul limite dell’ora
postrema non possono significare
un semplice abbandono al termine
del vivere fisico; esse sono la
prescienza di una rinascita,
l’anticipazione di una nuova
armonia, riscatto ai contrasti e
alle ingiustizie dell’esistere in
terra; le preghiere corali dei
Lombardi e la preghiera solitaria
di Desdemona non possono essere
rivolte ad una entità illusoria; il
terrore di Rigoletto e la sua oscura
aspettazione di un tremendo
castigo presuppongono la certezza
di un giudice.(30)
Verdi, figlio dei suoi tempi, provato
dalla morte della moglie e dei
253
figlioletti in giovinezza, inquieto di
fronte all’esistenza del male «ricoprì la
propria inquietudine con una dura
riserva e si tenne lontano dalle
pratiche della fede, ma nel fondo più
occulto dell’essere, durante gli incontri
solitari con la perplessità interrogativa
delle sue immagini, egli si ricongiunse
all’universo cristiano del popolo
d’onde egli nacque, all’universo di
Dante, di Michelangiolo, del suo
“santo” Manzoni»(31) Non a caso
l’ultima sua composizione del 1894 è
stata un Te deum, in cui si leva il canto
di una voce di soprano con la
preghiera In te speravi, che sale dal
suono sepolcrale delle note basse: una
religiosità drammatica perché
consapevole della differenza tra l’ansia
di pace del cuore e la drammaticità
dell’umana condizione.
Infine l’ultima grande opera di Verdi
Nel 1889 è pronto il libretto di Falstaf
di Boito da Shakespeare, che venne
rappresentato con successo alla Scala
nel1893.
«Il più rilevante tratto di
originalità del Falstaff - scrive
Iovino - sta nella scrittura vocale
che, almeno apparentemente,
rinuncia ad ogni melodismo»(32).
Scompaiono le forme chiuse su cui si
era fondata l’opera italiana e che erano
state avversate dal teatro wagneriano,
per lasciar posto a novità di scrittura
musicale:
Verdi concepì un declamato
continuo, rispettoso della parola,
estremamente duttile nel piegarsi
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Il Tempietto
ad ogni esigenza espressiva e
teatrale. Così minuscole cellule si
fanno arie di incredibile brevità
(«Quando ero paggio» o «Va’
vecchio John»), il duetto amoroso
tra Fenton e Nannetta è
continuamente accennato («Bocca
baciata non perde ventura»), quasi
a voler ritardare o addirittura
evitare quella nota patetica che un
vero momento amoroso
comporterebbe. Incisi melodici
sparsi qua e là nelle voci trovano
piena rispondenza in un’orchestra
mai prima di allora così leggera
eppure così incredibilmente ricca
di soluzioni timbriche.(33)
Riccardo Stauss definiva Falstaff uno
dei massimi capolavori di tutti i tempi,
Ildebrando Pizzetti un capolavoro di
bonaria arguzia e di maestria tecnica.
Si tratta inequivocabilmente di
un’opera mirabile, molto originale e
diversa dalla precedente tradizione
dell’opera comica.
Con Falstaff Verdi si è congedato dal
teatro con una suprema lezione di
tecnica compositiva e di vita. Dopo
aver conosciuto il mondo nella
ricchezza dei suoi eventi e dei suoi
affetti, lo può guardare con serena
ironia: «Tutto nel mondo è burla,/
l’uomo è nato burlone./ La fede in cor
gli ciurla,/ gli ciurla la ragione./ Tutti
gabbati ! Irride / l’un l’altro ogni
mortal./ Ma ride ben chi ride / la risata
final.»(34)
Salvata da lui la grande opera
nazionale vocalistica e la tradizione
melodrammatica di stampo nostrano
contro gli stranieri, Verdi ha indicato
le vie a tutto il teatro lirico italiano
dell’Ottocento, Maestro
indimenticabile di arte e di umanità
fino ai nostri giorni.
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Il Tempietto
Note
1 L. Arruga, Il teatro d’opera italiano,
Feltrinelli, Milano 2009, p.14
2 M.Mila, Breve storia della musica, Einaudi,
Torino 1977, p.115
3 Ivi, p.158
4 M. Mila, Breve storia della musica, Einaudi,
Torino 1977,p.253
5 Ibid.
6 Donald Sassoon, I moschettieri dell’Italia
globale, Il Sole 24 Ore, 25 luglio 2010
7 C.Dahlhaus, Drammaturgia dell’opera
italiana, EDT, Torino 2005, p.12
8 Ivi, p. 14
9 Ivi,p.15
10 F.Abbiati, Storia della musica, Garzanti,
Milano 1954, p.41,
11 Ivi, p.42
12 M.Mila, Le idee di Rossini, in Rassegna
musicale Curci, pp.8-16, Edizione Curci
Milano, anno L 3, p.16
13 Ibid.
14 L. Arruga, cit. p196
15 A.Baricco, Il genio in fuga, Einaudi, 2006,
p.80
16 R.Bacchelli, Sensività di Rossini, Rossini,
Torino UTET in Abbiati p.461
17 Abbiati, p.50
18 Abbiati, p.57
19 Ivi, p.65
255
20 R.Iovino G.De Martino All’Opera I Da
Rossini a Verdi, Fratelli Frilli, Genova
2008, p.9
21 F. Abbuiati, cit. p.91
22 G. Mazzini, Filosofia della musica. Scritti
lettera ridi un italiano vivente, Tomo II, 1847
23 R.Iovino G.De Martino, cit.p.42
24 ibid
25 F. Abbiati, cit.p.158
26 Su Verdi si veda anche un precedente
articolo di P. Ruminelli Verdi e il
Risorgimento sulla rivista del Tempietto n. 9
Risorgimento… oltre il mito, pp.155-166
27 P.Fabbri, Musica e canto nell’opera italiana,
EDTTorino, 2007, p.45
28 Bruno Barrili, Il sorcio nel violino, Milano,
Bottega di Poesia, 1925 in Abbiati p.465
29 G. Roncaglia, G.Verdi, Sansoni, Firenze
1940, in Abbiati pp.465-66
30 Giulio Confalonieri, Religiosità di Giuseppe
Verdi, Rassegna musicale Curci, anno LXI
n. 1, gennaio 2008, pp.6-9, p.9. l’articolo
ripropone un articolo pubblicato sulla
Rassegna musicale Curci nell’ottobredicembre 1950
31 Ivi, p.9
32 R. Iovino, Tutto nel mondo è burla, De
Ferrari, Genova 1998,p,86
33 Ivi,p.87
34 Falstaff, finale atto III
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