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GAETANO BARBELLA
QUOD NON FECERUNT
BARBERINI, FECERUNT
BARBELLA
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Immagine in copertina:
E' una statua in marmo di Botticino che resta famosa a Brescia come «Lodoìga», la «Pasquino» bresciana. Essa fu
commissionata nel 1572 per adornare il palazzo comunale di Brescia, ma non piacque e così fu posta all'angolo di una
pilastrata del palazzo suddetto. E qui ebbe inizio la sua funzione di albo anonimo della pubblica opinione, tanto più che
allora non esistevano giornali per supplire a questo scopo. Da qui l'accostamento, all'analoga statua romana di piazza
Pasquino, dove venivano affissi versi satirici e critiche feroci al governo fra cui la famosa «pasquinata», appunto,
contro il papa Urbano II Barberini (1623-1644), «Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini», cui fa riferimento,
contrapponendosi, il titolo del presente saggio. La satira contro il papa anzidetto fu a causa della sua decisione di
permettere di usare le decorazioni in bronzo del Pantheon per fare il baldacchino di San Pietro in Vaticano. E la
Lodoìga bresciana? Sembra che il nome attribuitole dal popolino bresciano del suo tempo sia quello di una nobile
bresciana che verseggiava con eleganti rime, fra sapide strofe satireggianti e strali dei suoi epigrammi. Ella, con tal
fama, costituì «Lodoìga» quale voce della libertà, voce incoercibile di un popolino che poco o niente sopportava la
demagogia giacobina dei nobili che governavano la città. La «Lodoìga» fu rimossa dal posto, ove era collocata, dagli
occupanti austriaci del terribile generale Haynau. In seguito, all'alba del '900, fu posta in Santa Giulia e di recente,
infine, trasferita nel complesso di Contrada Santa Chiara. Oggi si fa pressione presso il Comune perché la statua torni al
suo posto.
INTRODUZIONE
Una disfida? Viene subito da dire, leggendo il titolo del presente saggio. Come quella di
Barletta? venendo a sapere che i Barbella sono di Caserta, una città poco distante dalla
Capua di Ettore Fieramosca della disfida suddetta con gli arroganti francesi. Per non
andare più indietro nel tempo e far emergere il famoso gladiatore romano, Spartaco, che
si ribellò allo strapotere di Roma e che ebbe inizio proprio sulla strada che da Caserta
porta a Capua, ove ora si trovano i resti di un anfiteatro romano. Ma a disperdere
quest'aura malsana, pur sussistendone una ragionevole parte, resta anche la nobile
definizione per antonomasia legata alla provincia di Caserta, «Terra di lavoro». Ecco che
questa cosa prende consistenza alla luce di concezioni di una insospettata profondità
esoterica che il sottoscritto autore fa emergere dai suoi recenti avi paterni, il nonno
Gaetano e la nonna Luisa, tali da presentarli come una certa insospettata araba fenice
risorgente dalle sue ceneri e far nascere sul piano nobile un promettente limpido amore
patrio. E se non attraverso il lavoro, giacché i Barbella, per la loro modesta posizione
sociale, solo in tal modo, ancora oggi, possono esprimersi degnamente! Con i Barbella
possono ritenersi aggregati tanti altri militi ignoti defunti e viventi, veri echetli a far
battaglie con i loro “vomeri”, e non con moschetti e baionette omicide, per un'Italia, però,
«fondata sul lavoro», come recita il primo articolo della Costituzione della Repubblica
italiana.
E i Barberini ? Il potere comporta decisioni che non sempre sono amabili e condivisibili
dal popolo. Dunque è sempre stato giustificata la necessità di ricorrere a camuffamenti di
notte tempo, per varare quelle inevitabili invise decisioni allo stesso analogo modo come
fu per la culla di Mosè biblico, deposto sul Nilo della “casualità”. Da qui la scontata
crescita a spese altrui per poi “risorgere”. Ecco che si fa anche luce su quelle decorazioni
di bronzo trafugate dal Pantheon della Roma pagana, per edificare il baldacchino
dell'altare di Pietro vaticanense. Ma arriva anche il momento che il gioco delle architettate
“casualità” non regge più e si scoprono – dice il tanto discusso veggente Michel
Nostradamus – i «giochi d'Ecatombe» (X,74), che esigono impossibili rimedi. Se si
considera la questione sul piano pratico degli Enti - mettiamo l'Italia - per la rinuncia
dell'Istria alla fine della seconda guerra mondiale, il preteso rimedio ha trovato soluzione
in quest'epoca alla meno peggio con la costituzione dell'Europa Unita. Ma se la stessa
questione si pone su di un singolo umano e con lui una schiera di tanti suoi simili, allora
la cosa non è assolutamente risolvibile da vivi. Perciò si immagini un mondo che, ad un
tratto si trova a guardarsi in un certo specchio interiore, pur gioiosi nel «contemplare» i
propri «rami attivi» ma, però, anche «dispiacenti al vedere il mento, la fronte, il naso, i
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marcati», tirando in ballo ancora la profezia di Nostradamus (II,20). Per significare che
poco contano tutte le cose buone del “corpo” se si ha il “viso” deturpato, traslando il
concetto all'interiorità, il mondo delle cosiddette astralità che io definisco delle surrealtà.
E visto che siamo ad immagine e somiglianza di Dio, non verrà più ai «marcati» di
adorarlo e venerarlo. Comunque, ritornando per un attimo al potere dei Barberini che
appare leso col la frase celebre, titolo di questo saggio, ognuno se ne accolli
l'interpretazione conforme alla sua indole, come dire ad ognuno il suo, giusta la
puntualizzazione profetica di Nostradamus della quartina VI,61 delle sue Centurie.
«La grande pista incisa avvolta ne mostrerà
Forse la metà la maggior parte della storia:
Cacciato dal Regno Longo aspro apparirà,
Che al fatto bellico ciascun lo verrà credere.»
Dunque se il «fatto bellico» è visto in buona fede può essere che i Barbella, magari non
tanto più bellicosi come quel tal Spartaco e Fieramosca, abbiano «inciso» in qualche
modo sull'altra «metà della storia» . Ma, a sentirmi parlare, i Barbella sembrano che
abbiano tutta l'aria di «remore» e «salamandre» cui diffidare, per dirla col linguaggio
ermetico, messi su anche loro similmente a tantissimi altri (sempre in modo “casuale”)
per allestire ancora combattimenti in una inconcepibile «arena astrale» ripiena di
spettatori. Più o meno le stesse arene dell'antica Roma dove combattevano fra loro i
gladiatori. E così l'inviso dragone, nonostante la sua vecchiaia, è ancora continuamente
chiamato a far piovere dal cielo, con la sua coda, un «terzo di stelle», come a fine d'anno
con i fuochi d'artificio. Veramente a fine d'anno è da terra che le stelle vanno verso il cielo.
Tutta una finzione per far credere allo stupido dragone che è sempre giovane e gagliardo a
smanettare con la sua coda. Ma la finzione sembra che vale anche per chi è solito
«risorgere al terzo giorno» con gli argomentati fuochi d'artificio. La metafora ci dice sempre a «mezzanotte» - come per un'altra stupida, Cenerentola, che è l'uomo il babbeo
che si lascia prendere dalle illusioni con lo scintillio della luce che si sprigiona dal fuoco. I
media, poi, oggi si danno da fare ad alimentare questo fuoco ammantandolo di un
meraviglioso potere graalico. Insomma il graal deve andare di moda oggi, che si voglia o
no. Chissà che non diventi, se non lo è di già, la coppa degli abomini dell'Apocalisse
giovannea! Ma si tratta del moderno «astrale», il mondo telematico Internet, l'«arena» in
cui farò vedere il cimento a tutto campo dei Barbella.
Mi disse qualcuno tempo fa che avere a che fare con Dio è pericoloso!
A proposito di "code", sentite queste riflessioni in relazione al mio articolo che è stato
pubblicato sul Portale di Dal Tramonto all'alba, «Il terzo giorno», prima parte e seconda
parte. Da molto tempo ho messo su un saggio, bisognoso però di perfezionamenti, su
un'opera di un famoso pittore, Alessandro Bonvicini, noto come il Moretto. Si tratta di un
quadro, inserito in un polittico ed esposto in una chiesa di Brescia, guarda “caso”, a pochi
passi dalla mia vecchia abitazione fino a due anni fa. Si tratta dell'Incoronazione della
Vergine. Ma il personaggio chiave dell'opera pittorica è l'arcangelo Michele che secondo le
regole dovrebbe trafiggere la Bestia. Invece non è proprio così, tutt'altro (con la mia vista
piuttosto lunga). Adesso non sto qui a dilungarmi, pensando di proporvi di leggere in
un'altra occasione il relativo saggio, ma il centro su cui l'autore Bonvicino fa ruotare tutto,
sapete qual'è? La coda della bestia, che non si sa se è qualcos'altro.... In particolare si vede
il celeberrimo dragone, Satana o come volete chiamarlo, che è gradevolmente supino col
busto appena sollevato da terra e la sua coda in discussione (per modo di dire), a forma
attorcigliata, si erge con arroganza fra le zampe all'insù per "incontrarsi" con il puntale
d'oro di una sottile lancia color rosso nelle delicate mani amorevoli di Michele, molto
effemminato nell'aspetto. Tutto questo per far collimare il chiaro messaggio esoterico del
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cattolicesimo, Clero compiacente, riposto in un Michele da venire tutt'altro che
battagliero, con le mie concezioni che vedono in altro modo un'altra Bestia "disegnata"
più di tremila anni fa dal famoso scriba egizio, Ani, così come ne parlo nel suddetto
saggio, «Il terzo giorno».
IL CANTO DI ECHETLA (1a)
Questa è Echetla che vive e che invece sogna, come in un mondo capovolto poco e mal
collegato ad una corrispondente altra Echetla delle tenebre.
Gli abitanti di questa notturna e misteriosa Echetla, a differenza della prima, non hanno il
sole che brilla nelle loro menti e riscalda i loro cuori, perché è solo un estraneo corpo
celeste che arroventa le loro membra sempre madide di sudore a causa dell’incessante
lavoro dei campi. Né tanto meno nelle loro notti risplende un’argentea luna che li
predispone almeno per una domenica da festeggiare. È tenebra e solo la necessità del
riposo dei loro corpi affranti dalla fatica massacrante dell’assolata campagna, talvolta
sferzata dal vento o da piovaschi improvvisi, li salva da percezioni mortificanti.
Chi nasce a tutto ciò, unica dote di una coscienza in embrione, è un umano e agnello,
legati in modo indissolubile, e non c’è via di scampo per evitare gli eventi incontrastabili
del tempo che procede senza compassione.
Ma l’inaccettabile forzata convivenza con Echetla fa nascere nel tempo un amore profano,
ma santo e privo di sensi di colpa: un amore di un genere nuovo e misconoscibile.
Durante le interminabili giornate del lavoro dei campi, con il vomere, sempre ben affilato,
quale ariete invincibile e incessante contro l’ostile inerzia terrosa, scopre ad un tratto di
udire, vedere, amare. Qualcosa di simile a quel che gli sembra di intravedere, sbirciando
vergognoso fuori del suo contado, allorché è obbligato a recarsi presso il suo padrone di
turno per rendere il frutto della terra.
Col tempo, impietosito dagli gnomi, improvvisamente ridotti a terremotati, che sembra di
vedere con sua meraviglia fra zolla e zolla, si appressa a disporli con premura in modo che
abbiano comunque un altro sicuro ricovero. Questa nuova realtà sorprendente fa nascere
nell’abitante d’Echetla un dialogo profondo denso di cose imprevedibili, tali da colmare il
giorno e la notte e costituire così un provvidenziale manto capace di lenire le sofferenze
corporee dovute alla separazione dai cari, lasciati da tempo perché emigrante, che pur
risultano presenti intorno inconcepibilmente.
Intanto Echetla si denuda sempre di più davanti agli occhi timorosi dell’inguaribile
plebeo “fuor di via”, quasi a ricalcare dimenticate orme di un omerico mitico passato. Un
novello Odisseo a rivangare sacre memorie, dal potere rimodellante. Egli prende
dimestichezza col mondo d’Echetla e impara a tendere un vecchio arco per vincere la
tempesta che infuria fuori di lui. Più sono avversi gli elementi che lo contrastano, tanto
maggiore è il vigore che sorge da Echetla in suo favore. Grazie a questi impulsi vitali,
sembra che qualcosa cambi in bene in Echetla. Ad un tratto si riesce ad intravedere il
chiarore di una dimenticata alba. Con grande meraviglia Echetla appare come rinata ad
una beltà mai supposta. Ella è degna di essere onorata e rispettata come, a mala pena, si
ricorda di lei del passato mitico. Ma per l’oscuro rusticano tutto ciò risulta solo un puro
intento, quasi un sogno, racchiuso nel suo grande cuore. Egli si rende conto che solo con
l’azione bellica questo legittimo desiderio può tradursi in realtà. Dunque si appressa a far
da Echetlo emulando chi si pose a fianco dei Greci a Maratona mitica per incitarli alla
riscossa contro un nemico preponderante prossimo ad avere la meglio.
All’Echetlo combattente ed eroe, quel vomere, che prima gli serviva da mezzo di lavoro,
ora diventa arma miracolosa. È tale da essere trainante per altri simili a lui disposti alla
lotta per la libertà dalla schiavitù. La vittoria premia la legittima azione di rivolta e così
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viene issata con entusiasmo la bandiera su una terra che appare al momento come l’antica
Echetla. Finalmente tutti hanno la parola per dire cose d’amore, per raccontare, per
trasmettere la voce persino a grandi distanze. Come a poter solcare i mari di una nuova
era, fino a quel momento inconcepibile. Non più da infelici mozzi di insicuri navigli a
vela, ma come astronauti per approdare nei pressi di stelle che mai brillarono sul loro
capo sempre costretto a stare chino.
È una felice conclusione dalle chiare connotazioni di un bellissimo sogno, in apparenza,
ma nella realtà sembra risultare povero di un serio costrutto capace di dare impulso alla
vita pratica ad abitanti terreni analoghi a quelli intravisti ad Echetla.
Tuttavia Echetla, fra morti e rinascite, è tutt’ora presente, se non altro, nel profondo della
terra mentale di tanti singoli uomini che in qualche modo sono stati sfiorati da essa. E
qualche volta, col favore della luna, eccezionalmente compiacente, si profila a loro
generando amori improvvisi e risolutori, e così il relativo domani può avere
un’accettabile, e anche felice, finalità e sostegno per meglio configurarla nella vita di
veglia.
Ma Echetla di Grammichele di Sicilia, la prima vera Italia, di cui si sta parlando, sembra
diversa da tante altre della Terra.
Alcuni suoi figli, quali eccezionali Cristofori, sono stati capaci di mantenere in vita tanti
moribondi, frammenti di un passato sepolto, pur molto valido.
Fra questi risaltano eccezionali scaglie, simili a quarzo lucente di una roccia sedimentaria,
di un Ellenismo carico di valori supremi, ora disperse nella Roma dei Cesari e Pontefici,
come nude “pietre d’angolo scartate” di cui oggi non se ne ha rispettosa memoria nei fatti.
A nulla valsero, al suo tempo, ma anche a tutt’oggi, certe “pasquinate romane” per
mortificare azioni dissacranti da parte di interessati Pontefici “Massimi” al riparo di una
croce anch’essa coinvolta non volendo.
L’azione di Echetla valica la forza corrosiva della clessidra dal monotono pendolo, l’arido
tempo che ha sempre costituito il meccanismo di un carro macina-sassi privo di
compassione, e oggi si affaccia incontaminata, almeno nel cuore, in concomitanza di
straordinari e sorprendenti eventi cosmologici imprevedibili.
Il sommesso canto di Echetla, quasi come quello corale del “Va, pensiero” di verdiana
memoria, sembra costituire una magnifica “quinta”, appena visibile, del teatro scenico
terrestre in cui si esibiscono i suoi abitanti, ignari dei grandi cambiamenti in atto
nell’universo, forse a loro danno.
Si è capito che Echetla, in modo traslato, è il mondo dei Barbella, ed ora facendo capo ad
uno scritto, a firma Ekatlos, tratto dal libro «INTRODUZIONE alla MAGIA» (a cura del
Gruppo di Ur - volume II, pag. 380 - Edizioni Mediterranee), lascio intravedere dei
possibili «Barberini» all'opera. Raccomando di riflettere sul conto dei «Barberini»
tenendo da conto l'interpretazione della quartina nostradamica suddetta sul «fatto
bellico».
Può essere che io trascuri una concepibile «ragion superiore» che “imporrebbe” ad essi (i
«Barberini»), di trincerarsi a ragion veduta nell'ombra per il perfezionamento
dell'edificazione di un'ideale Italia, nel caso in questione. Tuttavia, trattandosi di
un'Opera Regale, giammai senza rispetto nei confronti di esseri umani, e non schiavi,
chiamati a interpretare l'oscuro ruolo del «caso», fra «fatti insignificanti» e «occasioni
ancor più insignificanti». Manca solo di dire apertamente che la guerra che divampò nel
1914, seminando morte e distruzione, fu il più grave dei «fatti insignificanti»! E' mia
opinione che la vera nobiltà e bontà richiesta per l'uomo perché si deifichi esige,
nell'intimità, essere sottomessi al più piccolo, fosse anche un insetto al limite. Io credo
con fermezza che solo su questa base si possa configurare il potere riposto nei simboliemblemi di cui si parla nello scritto sopra menzionato di Ekatlos, «una benda e uno
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scettro». Perciò trapelando l'"apparente" mortificazione del valore riposto in questi
oggetti, a causa del modo di dire poco riguardoso sui fatti giudicati «insignificanti»,
potrà servire mai ai convenuti al rito notturno di cui parla Ekatlos quel sentir «balenar
nella sua luce le figure vetuste ed auguste degli “Eroi” della razza romana», oppure la
visione di «due figure corruscanti di guerrieri: i Dioscuri»? Inquadrando le cose sotto
questa angolatura, potevano essi degnamente portare a compimento, secondo la nobile
«Arte muratoria», l'edificazione della nuova Italia che si prefiggevano, quando dicono:
«Oggi si lavora ad un grande monumento, nella cui nicchia centrale sarà collocata la
statua di Roma arcaica»? Ma forse, trascuro cose che non so e per inconcepibili percorsi
del destino così doveva essere, svilendo l'opera affidata al «caso», per aver sottovalutato i
relativi «operai», una sorta di «scarabei sacri» o «Rotolatori del Sole». Altrimenti come
si spiega il Mistero del Golgota un possibile, ma paradossale, parallelo al presunto mistero
legato alla Roma arcaica di Ekatlos? Ma poi si vedrà a chi sembra toccare invece dover
fissare nella propria memoria il concreto scenario predisposto per «Roma arcaica» e
trasmetterlo, perché non si dissolva più in lui e nei suoi simili. Tanto più che si è profilata
un'era in prospettiva che non ritiene più indispensabile che “Cristo muoia sulla croce”,
voce dell'attuale Clero Romano. Parlerò poi di questo nuovo Cristo per un Graal di nuova
generazione.
LA « GRANDE ORMA »:
LA SCENA E LE QUINTE (1b)
Sulla fine del 1913 cominciarono a manifestarsi segni, che qualcosa di nuovo richiamava
le forze della tradizione italica. Questi segni, ci furono direttamente palesi.
Nel nostro «studio», senza che mai si potesse spiegare per quali vie fosse giunto,
rinvenimmo, in quel periodo, un foglietto. Vi era tracciata, schematicamente, una via, una
direzione, un luogo. Una via oltre la Roma moderna; un luogo, là dove nel nome e nelle
silenti auguste vestigia sussiste la presenza dell’Urbe antica.
Indicazioni successive, avute a mezzo di chi allora ci faceva da tramite fra ciò che ha corpo
e ciò che non ha corpo, confermarono il luogo, precisarono un compito e una data,
confermarono una persona.
Fu nel periodo sacro alla forza che rialza il sole nel corso annuale, dopo che ha toccato la
magica casa di Ariete: nel periodo del Natalis Solis invicti, e in una notte di tempo
minaccioso e di pioggia. L’itinerario fu percorso. Il luogo fu trovato.
Che l'inusitata uscita notturna di chi agì non fosse in alcun modo rilevata; che chi
condusse, di nulla poi si ricordasse; che nessun incontro avvenisse e, poi, che il cancello
dell'arcaico sepolcro fosse aperto, e il custode assente – tutto ciò fu, naturalmente, il
«caso» a volerlo. Un breve scalpellamento rivelò una cavità nella parete: In essa, stava un
oggetto oblungo.
Lunghe ore occorsero per disfare un esterno avvolgimento, simile a bitume, indurito dai
secoli, che infine lasciò apparire ciò che esso proteggeva: una benda e uno scettro. Sulla
benda, erano tracciati i segni di un rito.
Ed il rito fu celebrato per mesi e mesi, ogni notte, senza sosta. E noi sentimmo,
meravigliati, accorrervi forze di guerra e forze di vittoria; e vedemmo balenar nella sua
luce le figure vetuste ed auguste degli «Eroi » della razza romana; e un «segno che non
può fallire» fu sigillo per il ponte di salda pietra che uomini sconosciuti costruivano per
essi nel silenzio profondo della notte, giorno per giorno.
La guerra immane, che divampò nel 1914, inaspettata per ogni altro, noi la presentimmo.
L'esito, lo conoscevamo. L'una e l'altra furono visti là dove le cose sono, prima di essere
reali. E vedemmo l'azione di potenza che una occulta forza volle dal mistero di un
sepolcro romano; e possedemmo e possediamo il breve simbolo regale che le aprì
ermeticamente le vie del mondo degli uomini.
+
1917. Vicende varie. E poi il crollo: Caporetto.
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Un'alba. Sul cielo tersissimo di Roma, sopra il sacro capitolino, la visione di un'Aquila; e
poi, portati dal suo volo trionfale, due figure corruscanti di guerrieri: i Dioscuri.
Un senso di grandezza, di resurrezione, di luce.
In pieno sgomento per le luttuose notizie della grande guerra, questa apparizione ci parlò
la parola attesa: un trionfale annuncio era già segnato negli italici fasti.
+
Più tardi. 1919. Fu «caso» che, da parte delle stesse forze, attraverso le stesse persone,
venisse comunicato a chi doveva assumere il Governo - allora direttore del giornale
milanese - l’annuncio: «Voi sarete Console d’Italia. Fu «caso» parimenti, che a lui fosse
trasmessa la formula rituale di augurio quella stessa, portata dalla chiave pontificale: «
Quod bonum /austumque sit ».. Più tardi. Dopo la Marcia su Roma. Fatto insignificante,
occasione ancor più insignificante: fra le persone che rendono omaggio al Capo del
Governo, una, vestita di rosso, si avanza, e gli consegna un Fascio. Le stesse forze vollero
questo: e vollero il numero esatto delle verghe e il modo del loro taglio e l’intreccio rituale
del nastro rosso; e ancor vollero di nuovo il «caso» che l’ascia per quel Fascio fosse
un'arcaica ascia etrusca, a cui vie parimenti misteriose ci condussero (1c).
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Oggi si lavora ad un grande monumento, nella cui nicchia centrale sarà collocata la statua
di Roma arcaica.
Possa questo simbolo rivivere, in tutta la sua potenza! La sua luce, splender di nuovo!
In una propinqua via, centralissima, della vecchia urbe, cui al tempo della Roma dei
Cesari corrispondeva il luogo del culto isiaco (e resti di obelischi egizi furono là trovati),
sorge uno strano piccolo edifizio. Di esso, non interessa che questo: come incrollabile
certezza di risorgente fortuna romana, nella più recondita parte di questa costruzione
veniva inserito, e ancor oggi resta, un segno, che in pari tempo è un simbolo ermetico: la
Fenice coronata risorgente dalle fiamme. Intorno al segno, queste lettere:
R. R. R.
I. A. T. C. P.
SULLA «GRANDE ORMA»
Ma la misteriosa forza del «caso», per quanto le «Scene» e «Quinte», cui si riferisce
Ekatlos, vennero disposte in modo occulto, «vollero» che alcuni «casi», con i rispettivi
«tesori», venissero posti in salvo «fuor di via», similmente all'omerico Odisseo
dormiente adagiato dai provvidi Feaci sulla rena della greca Itaca.
E il «caso» fu posto nelle mani di una terra italica, ora non più, che ha pagato il maggior
prezzo della edificazione della sorgente Italia, con la «dea Roma» in trono sul
Campidoglio. Gli italiani del dopo, ignari della «Grande Orma», «Scene» e «Quinte»,
quali pure «casualità» vaganti, poi ebbero la gioia di apprezzarne il frutto godendo i pregi
e la bellezza di una terra novella che pian piano germogliava magnificamente.
Il «caso» volle non poche «scene» dell'ombrata Italia del sacrificio, l'Italia istriana, della
quale, oggi, i suoi superstiti delle barbare «foibe», sono «profughi» in più parti del nostro
paese. E qui, come poi si vedrà attraverso un «caso», si rivela la presenza, se pur labile, di
un «Barbella», primo fra quei «profughi», attraverso una via che tanto somiglia alla «via
Naiade», della Commedia dantesca. E' di reale stampo aretusino, come poi dimostrerò a
modo mio la Divina Commedia, giusto la relazione con Grammichele di Sicilia, luogo
nodale di questo saggio. Si vedrà che questo genere di «via» trova modo di emergere
realisticamente, e non con il solito fatuo aiuto della «fata Morgana», senza contare il
sommesso sostegno profetico a preannunciare un simile emergere «Dal magma
infuocato del centro della Terra» (Nostradamus I,87). E' una nuova strada maestra che si
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profila prepotentemente, ma con amore, ed illumina tutte le altre che la riguardano. Se
pur «Dispiacenti al vedere il mento, la fronte, il naso, i marcati» (Nostradamus II,20). E
lo scenario dei Barbella qui si rivela con l'adeguata «conduttrice», pregna di una mirabile
forza persuasiva e generatrice, facendo capo ad una donna siciliana piena di energie,
Luisa Sapio, come un vago fiorire di una rosa blu inconcepibile, guarda «caso»,
anch'essa, graalicamente preannunciata dal solito «delatore», Nostradamus (1d).
«Romano pontefice guardati d'avvicinarti
Alla città che due fiumi arrossa
Tuo sangue verrà poi di là colpire
Te e i tuoi, quando fiorirà la Rosa.»
E' «Gina» di una poetica lettera d'amore scritta dal suo prossimo sposo, mio nonno col
mio stesso nome, Gaetano Barbella, che la idealizzò nelle vesti di una fulgorea Italia fuori
dal tempo. Di seguito riporto il testo di questa bella lettera, un'incisiva «overture», con
delle riflessioni esoteriche che mi sono parse strettamente legate alle vicende italiane
immediate e successive. A perfezione, dopo la lettera, mostro la citazione di altri due
«casi» strettamente legati al nonno Gaetano Barbella ed alla italica terra istriana del
sacrificio, come si vedrà. In seguito emergeranno «casi» ben più significativi che
riguarderanno, però, me personalmente visto che mi è stato dato il modo di dire tutte
queste cose, costituendone la fonte, come di un nuovo genere di profeta. Ma di queste
ultime cose ne parlerò nella seconda parte di questo saggio giusto in stretta relazione di
particolari cardini dello scritto iniziale di Ekatlos.
Note:
(1d) - In realtà l'interpretazione di «delatore», cui si fa cenno nelle Centurie di questo veggente, è incerta. Può sembrare
che sia il noto Renucio Boscolo autore della trattazione del tema profetico in discussione. Egli, infatti afferma
apertamente di esserlo, ma per disposizione di Nostradamus attraverso alcune Centurie stesse. Potrei essere io che
utilizzo, senza il benestare, le sue traduzioni nostradamiche dal francese d'origine. Ma potrebbero essere anche tanti
altri che, forse, in modo improprio hanno mostrato, e continuano a mostrare, le cose di Nostradamus. Chi di questi è da
ritenersi «Il romano Pontefice Barberino»? Si potrebbe rispondere, un po' tutti, ma, fra questi, c'è chi, come il
sottoscritto, non ha mai ricevuto, per esempio, rivelazioni comodamente insediato in misteriosi «studi», come quello
sopra citato nel suo scritto da Ekatlos, e l'altro cui fa cenno lo stesso Nostradamus nella prima Centuria, prima
quartina. Donde allora la delazione nel mio caso?
IL FIORIR DI UNA ROSA BLU
COME UN FIOCCO DI NEVE
UNA OMBRATA ITALIA IN UNA LETTERA D'AMORE
DEL 1909
«La vocazione del blu alla profondità è così forte che
proprio nelle gradazioni più profonde diviene più
intensa e intima. Più il blu è profondo e più richiama
l'idea dell'infinito, suscitando la nostalgia della purezza
e del soprannaturale. E' il colore del cielo, come appunto
ce lo immaginiamo quando sentiamo la parola cielo».
Dal saggio «Lo spirito dell'arte» di Wassilj Kandinskij, pittore russo (1866-1944).
Illustrazione : Luisa Sapio, nonna dell'autore e Gina della lettera d'amore sotto riportata.
Nacque e visse fino all'età giovanile a Grammichele di Sicilia. Una volta sposata con mio
nonno Gaetano Barbella dimorò a Caserta. Alla morte prematura di nonno Gaetano,
dopo alterne vicende, si risposò e dimorò fino alla morte a Sala di Caserta.
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26.2.1909
A te Gina
È solo degli angioli il sognare???… Nello sfondo ardente d’un “incantevole
tramonto, discerno ergersi, qual candida nube nell’orizzonte, una forma
vaga che ha del soprannaturale, del paradisiaco. Le scultoree forme poste a
traverso i raggi del rosso sole morente, spiccano maestosamente e
circonfuse d’un’aureola divina sembrava emanare terribili e deliziosissimi
fluidi magnetici che costringono tutte le creature poste al raggio d’esse a
rimanere fisse, incantate estasiate. Veste un lungo camice bianco con goffe
di trina, del medesimo colore, che dal gomito pende maestosamente fin giù
le mani inguantate a bianco. Le cinge la vita una ghirlanda di verdi foglie di
quercia che artisticamente legate al fianco sinistro sembrano pendere da
quel lato in dolce abbandono. Sulle belle, chiome castagne ammantate con
finita arte, posa larga corona d’Alloro e sul davanti di essa, quasi ad
emblema di insuperabilità, erge sublime fulgida una stella. A tracolla, porta
un largo e lungo nastro tricolore che posato sulla spalla destra scende
blandamente obliquo fin all’anca sinistra, ove termina formando una
grande e magnifica nocca. Il viso, coperto da piccola maschera non può
discernersi, ma dalla dimensione di esso e dal fulgido sguardo emesso
attraverso i fori della pendente copertura, si intuisce con matematica
certezza esser degno del corpo che lo porta. Essa dirige i passi alla mia
volta con andatura celere e maestosa. Io assiso in un cantuccio d’una
caverna esistente nella scoscesa parete di una rude roccia isolata, sto
guardingo a scrutare le minime mosse di quella nuova Silfide vivente,
deciso soffocare qualunque sentimento che essa sarebbe stata capace farmi
nascere in cuore. Intanto essa avanzava, avanzava sempre……… La potenza
magnetica del suo sguardo, che in sulle prime avea trovato in me un corpo
neutrale cominciò a far presa. Tentai allora evitare quei raggi visivi e mi
rannicchiai il più che possibile onde sfuggire a quella potenza ignota ed
arcana; ma mio malgrado guardavo fisso anch’io. Un dolce torpore e un
tremito indefinibile avea assalito il mio corpo, facendolo sudare a freddo.
Volli alzarmi, provare fuggire, ma rimasi lì fermo, spossato, annientato,
con lo sguardo stupito, ma fisso su quella sirena che quale irruente onda
marina riversava su di me tutto il di lei fluido. E così stetti finch’ella mi fu
vicina. Con mosse da Dea mi si fermò a due passi e tendendomi
un’incantevole mano, con voce che fece scuotere tutte le fibre del mio essere
disse piano piano:
«Fin dal mio sorgere ti vidi ed a te vengo………Mi chiamo Italia e sola,
vengo a cercare in te quel che sia capace di sicuro appoggio, amore e difesa;
tu quale cavaliere, lo sai, lo
senti, lo puoi fare. Nasco proprio oggi, e nel germoglio della mia nuova vita
affido a te il mio essere che fin’oggi ha posseduto un animo sempre deluso e
deriso». Stette per un po’ silenziosa indi toltasi con infinita grazia la
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mascherina e ritornando a porgermi la manina, aggiunse:
«Accetti??». Quale ebete io stavo a guardare, guardare ancora, quando
quell’ultima parola e la vista del volto mi colpì al cervello…………saltai di
scatto, afferrai la mano che mi venia posta e con stretta atroce la portai al
cuore, che dalla massima freddezza era passato alla massima caloricità,
indi alle labbra e dopo avea deposto il più santo dei baci mi spinsi d’un
passo avanti……due braccia mi accolsero. Quanto tempo si rimase così?……
Io piangevo e le lacrime calde che sgorgavano copiose dai miei occhi, da
lungo tempo aridi, venivano assorbite dall’Italia che confortavami a
carezze. «Accetti??!!……». Sentii ancora ripetermi come un sussurro…
Allora senza aprire bocca guardandola a lungo, mi sciolsi dall’abbraccio e
presola per mano la condussi fuori dalla caverna. Nel prato verde che come
tappeto infinito stendesi innanzi, raccolsi con la mano libera i migliori fiori
ivi esistenti, indi sceltone uno rosso lo porsi ad essa, gli altri li disposi a
casaccio, con mano tremante attorno alle di lei chiome e veste, ed
inginocchiatomi a lei dinnanzi, tenendo sempre la di lei mano stretta nella
mia risposi fra l’emozione: «Abbi infinita fiducia, amore e pazienza;…oggi
ricorre la tua nascita, la tua rinascita alla vita e con essa ricorre anche la
mia; vivi sicura, se oggi siamo rinati in due morremo, ed assieme…».
Nell’orizzonte intanto splendeva la luna, che con i suoi materni raggi
illuminando la coppia, rendevala un gruppo divino, quasi a formarne
l’apoteosi della giornata trascorsa incantevole a glorificare la natura che
sempre tacita godeva. Gli usignuoli melodicamente lanciavano le loro flebili
note al cielo in segno di gaudio celeste.
G. Barbella
Gaetano Barbella, l'autore di questa lettera e nonno dell'autore di questo saggio, come già
detto, sposò due anni dopo la Gina della lettera, Luisa Sapio nata e vissuta a Grammichele
di Sicilia, stabilendosi a Caserta. Nonno Gaetano, chiamato familiarmente Tanino, in
seguito ad una polmonite, morì prematuramente lasciando l'infelice sposa con due figli
infanti da accudire, Francesco e mio padre Ettore. Nonna Luisa riuscì, con grande
coraggio, a superare la sventura della grave perdita subita dimostrandosi piena di vigore
ed iniziativa. Si diplomò come ostetrica ed esercitò, così, la professione di levatrice
condotta. Si risposò ed ebbe altri due figli, Domenico e Filomena che è l'unica, fra nonni e
loro figli, in vita. Nonna Luisa mostrò particolare predilezione per lo scrivente, suo primo
nipote, verso il quale non mancava di dimostrargli un amore filiale straordinario.
Intravedeva in lui, pupilllo dei suoi occhi, una personale cristianità ideale che, forse,
neanche lei riusciva a discernere, ma vi prestava fede e speranza. Mi diceva spesso,
vantandosene alla presenza di altri e facendomi intimidire più di quanto non fossi già, che
somigliavo tanto per la mia mestizia e tranquillità al Beato Domenico Savio, l'allievo
prediletto del Santo Giovanni Bosco. La sorte volle che, in modo a lei congeniale, ella si
occupasse degli infanti come levatrice aiutandoli ad sorgere dal grembo materno. Ecco
che si delinea il parallelo con San Giovanni Bosco attraverso le trame incomprensibili del
destino. Nulla che faccia meraviglia, allora, se si determinarono in Luisa Sapio,
inconsapevolmente, le stesse sacre cose che premevano al Santo.
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L'ITALIA ISTRIANA DELLA VITTORIA BEFFA
E... «VA, PENSIERO, SULL'ALI DORATE»!
Illustrazione 1: Abbazia lì 4
novembre 1914. Presa di possesso
del Comando della Base Navale
austro-ungarica.
L'alzabandiera
della vittoria.
Illustrazione 2: Augusta lì 13 marzo 1914. Regia Nave Napoli. La firma è
di Guglielmo Marconi.
Oggi, ritornando indietro con la memoria, al tempo della presa di possesso della Base del
Comando Navale dell'esercito austro-ungarico dislocato ad Abbazia d'Istria, mai si
potevano supporre gli estremi sacrifici cui furono soggetti i residenti italiani ivi dislocati.
Eppure fu un gran giorno quel 4 novembre 1918 quando il R.C.T. Acerbi della Real Marina
Italiana sbarcò ad Abbazia ed un plotone si recò marciando alla base dell'ex Comando
Austriaco per issarvi il nostro tricolore. Il «caso» volle, anche se ancor meno
«insignificante» della suddetta lettera «A te Gina» di mio nonno, a detta di Ekatlos del
capitolo introduttivo di questo saggio, che fra i componenti dell'equipaggio dell'Acerbi vi
fosse il sottufficiale Umberto Barbella, fratello del nonno Gaetano. Ma non basta per far
evolvere chissà quale disegno progettuale di un'Italia da realizzare poi, perché Umberto
Barbella, quattro anni prima fu imbarcato sulla Regia Nave Napoli, in concomitanza del
perfezionamento degli esperimenti sulle radiocomunicazioni ad opera dello scienziato
Guglielmo Marconi, Nobel per la fisica nel 1909. Era il 13 marzo 1914. In alto sono esposte
le foto dei due eventi citati.
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UN ROSSO FIORE DI CAMPO
Illustrazione 3: Emblema della
Costituzione italiana.
«...raccolsi con la mano libera i migliori
fiori ivi esistenti, indi sceltone uno rosso lo
porsi ad essa...»
LA LETTERA «A TE GINA»,
COME PIETRA DI PARAGONE DELL'EMBLEMA
DELLA COSTITUZIONE ITALIANA
Dopo il Referendum del 2 giugno 1946, che segnò la nascita della Repubblica Italiana, nel
1948 fu promulgata la Costituzione Repubblicana e con essa il simbolo. Si sanciva prima
d’altro il fondamento attraverso il primo articolo:
«L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro, la sovranità
appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della
Costituzione.»
«L'autore dell'emblema della Repubblica Italiana è stato Paolo Paschetto, professore di
ornato all'Istituto di Belle Arti di Roma. L'emblema della Repubblica Italiana è
caratterizzato da tre elementi: la stella, la ruota dentata, ed i rami di ulivo e di quercia.
La stella è uno degli oggetti più antichi del nostro patrimonio iconografico ed è sempre
stata associata alla personificazione dell'Italia, sul cui campo essa splende raggiante.
La ruota dentata d'acciaio, simbolo dell'attività lavorativa, traduce il primo articolo
della carta costituzionale: "L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro".
Il ramo di ulivo simboleggia la volontà di pace della Nazione, sia nel senso della
concordia interna, sia della fratellanza internazionale; la quercia invece, incorona la
forza e la dignità del popolo italiano; entrambi, poi, sono espressione delle specie più
tipiche del nostro patrimonio arboreo» (8).
Questa è la definizione ufficiale del simbolo della repubblica italiana che merita, però, di
essere visto più da vicino e con occhi di riguardo. Secondo la mia visione, fermo restando
quando sopra descritto, il simbolo si presta ad un'amplificazione interpretativa. Il lavoro,
attraverso la ferrea ruota dentata, deve costituire appunto la chiave di volta come
appropriata moderna e progredita concezione di tutto ciò che deve poter ingranare ed
evolvere similmente ad un preciso orologio, e perciò in perfetta sintonia col tempo
13
epocale. Da qui funzioni d'ogni tipo e genere in amabile sintonia e progresso che
trascendono lo specifico lavoro cui allude il primo articolo della Costituzione, nel senso
che devono poter essere di un tutto come un treno in movimento. La ruota dentata poi,
per la sua circolarità doveva indicare un sicuro paese, con frontiere invalicabili da
aggressori, per il popolo italiano, rappresentato dalla stella a cinque punte. Nella periferia
del simbolo furono rappresentati due rami, d’ulivo e quercia, come vitali e solide
concezioni terrene tangibili in continua coniugazione con i denti della ruota del lavoro.
L’ulivo e la quercia vogliono indicare soprattutto organizzati e vitali condizionamenti
attraverso le istituzioni democratiche del paese, perché tutto proceda in modo vitale. A
dare vigore alla vita integrata del paese per animarlo secondo un’umana dignità, fu posto
alla base del simbolo un filatterio rosso con la bianca dicitura di Repubblica Italiana.
Quasi a voler costituire un comune veicolo sanguigno con i rispettivi globuli rossi e
bianchi a guisa d’armoniosa e felice articolazione di risorse e forze operative. Dulcis in
fundo, il simbolo delle pentastella che rappresenta l'uomo che trae da sé ogni genere e
specie di forze operative irradiandole e trasmettendole attraverso la ruota dentata. E qui
un breve riferimento alle concezioni sul potere e funzione di questa pentastella che ho
avuto modo di sviluppare con i saggi «Alle radici dell'intelligenza matematica» (1e) e
«Sul terzo giorno» (2). E' il luogo delle concezioni delle energie cosmiche.
Ecco, questo in sintesi il valore che mi è parso di vedere nel simbolo della nostra
Repubblica e che ho improvvisato. Può essere che tutto ciò giunga nuovo a tanti italiani
perché disattenti su simili argomenti ritenuti di poco conto, ma anche perché ad essi non
fu mai presentata intimamente l'Italia del suo simbolo, almeno nel modo da me descritto.
Il destino ha voluto che dedicassi la mia vita, non più giovanile, a pensare e scrivere alla
meno peggio su tante cose cui normalmente non si riflette tanto, come questa sul simbolo
della nostra Costituzione in esame. Da qui uno scorrere del tempo, quasi a ruota libera
con l'affacciarsi di concezioni da dover sostenere che quasi sempre non se ne trova il
bandolo per via ordinaria. Allora si arriva a tentare di procedere comunque, quasi su
niente di veramente concreto, e si va avanti lo stesso come sospinti da forze invincibili.
Però dicono i saggi, se è sterile la ricerca in questo modo, occorre smettere di procedere
inutilmente, ma accade che talvolta questo procedere caparbio, sostenuto da una tenacia
fuori dal comune, lascia intravedere squarci di inimmaginata luce ed è tutt'uno forzare il
vano appena aperto per ottenere quel che mai si poteva sapere senza il coraggio della
stupidità o della pazzia.
Tutto questo per argomentare a modo mio - rientrando sul tema di questo saggio - un
ragionamento fuori dai canoni sul simbolo della Repubblica Italiana. Si tratta di una mia
strada personale di come sia possibile entrarvi e familiarizzare con esso e trarne dei lumi.
Potrei dire, per farmi capire con chiarezza, per esempio, a coloro che sono sensibili alle
cose insolite, per non dire “paranormali”, o che ne posseggono una certa cultura, che si
tratta di un mio peculiare modo di predire fatti «divinizzando», ma da ritenersi, al limite,
“insolito” e non paranormale. Di questo genere di «profezia» possibile a tutti gli uomini,
ne parlo con compiutezza attraverso il saggio «Nostradamus e le surrealtà» (3).
Userò la lettera di mio nonno Gaetano, «A te Gina», come «pietra di paragone» che
porrò di fronte al simbolo in questione. La caverna di Gaetano della lettera corrisponde,
secondo la mia visione, alla ruota dentata del lavoro che lo tiene prigioniero. Egli
rappresenta emblematicamente l'uomo attraverso il suo io operante. E’ una realtà epocale,
ma io ritengo che sia una situazione italiana che permane ancora oggi, se pur con falsi
manti mimetici. Più da vicino lo scenario della ruota è simile a quella di una ruota da
macina antica, azionata da animali e ancora prima da schiavi. E procedendo a ritroso nel
tempo al mitico scarabeo sacro degli antichi egizi, noto come «Rotolatore del Sole» (4).
Nella presente realtà epocale, i fatti umani a riguardo non sono tanto diversi dal suddetto
passato: c’è un cambiamento all’orizzonte che sembra trapelare. Nel frattempo potrebbero
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anche passare i giochi della ruota della fortuna per millantate promesse miliardarie.
L’ulivo e la quercia, per la loro natura vegetale non possono che fare la parte di due rigidi
guardiani, incapaci nella sostanza di sentimenti d’amore specificatamente umani. Il
popolo italiano, per sua natura, mal si dispone a penetrare l’Olimpo di simili concezioni
assai complesse al suo interno, tali da far diventare all’occorrenza la ruota del lavoro come
un mortale tritatutto più che una lubrificata potente trasmissione silenziosa bendisposta
a favore del progresso. Nel passato, allorché la vita del popolo diventava insostenibile, si
ergeva ad un tratto un «echetlo» prodigioso che rompeva la ruota della vergogna, come
quello che apparve ai greci della battaglia di Maratona. Ma se da un lato questa ribellione
mortificava la tirannia, facendo gioire momentaneamente finalmente l’uomo ridotto in
schiavitù, dall’altro si distruggeva, o come minimo si corrompeva considerevolmente, la
ruota della vita e perciò occorrevano nuovi grandi sacrifici del popolo per rigenerarla. E
poi, nel passato le ruote erano di “legno”, mentre oggi sono di “ferro” di gran lunga più
resistenti, tali da scoraggiare chiunque.
Io riesco a percepire, se pur vagamente, quell’invito irrinunciabile d'Italia di «A te Gina»,
«Accetti?», come un’offerta di un primo abbozzo rudimentale dell’Italia, ma sostanziale. È
una situazione transitoria di infelici lacerazioni in seno ad un’Italia fra alterne
vicissitudini, da intravedersi nell’incerta diffidenza dell’impetrato Gaetano di Gina, ma il
suo cuore fremeva ardentemente quale segno di un’immediata esplosione. Però era
ancora prematura la buona e giusta concezione dell’Italia che egli agognava: da qui la
lacerazione della sua specifica ruota, i polmoni, e così la sua vita si spezzò.
Allo stesso modo l’Italia seguì la sua corrispondente e specifica sorte: con la Gina che
dovette risposarsi per rigenerare la famiglia disastrata, e col suo popolo che dovette subire
l’umiliazione del Fascismo con tutte le conseguenze nefaste. Allora la forza a dismisura e
sconsiderata riuscì ad aver ragione dei due severi guardiani, l’Ulivo e la Quercia, fino a
quel momento non ancora nati. In quest’infida espansione ci fu di buono la veggenza di
un meraviglioso prato con tante delizie disegnate dal pennello poetico di nonno Gaetano,
simile a quel che ispira la bandiera italiana.
La lettera «A te Gina» è così chiara e disposta alla verità che è meritevole d’elogio la
trasgressione poetica di nonno Gaetano nel descrivere la disposizione dei fiori «a
casaccio» intorno alle chiome e veste della sua Italia. Non è possibile usare questo
termine intendendo dimostrare degnamente il suo sentimento d’amore avulso da segni di
disordine di qualsiasi genere, visto che si dimostrava zelante e forbito con la parola.
Debbo dedurre che “altri”, scalzandolo senza riguardo, hanno parlato per bocca sua,
ingenerando la confusione nel ”disporre” quei fiori emblematici, quale presagio
d’olocausto personale, e di una futura vicenda analoga connessa alla sua cara Patria. Ad
ogni modo tutto ciò, dal sapore profetico, dimostra che la visione di nonno Gaetano,
svincolata dalla consapevolezza della portata delle parole, era veramente “pulita” e perciò
affidabile.
QUEI FIORI DISPOSTI A CASACCIO
Però c’è dell’altro percepibile nello scenario della lettera in questione a riguardo dei fiori,
colti dal prato. Nonno Gaetano ebbe modo, anzitutto, di porre con amore e devozione un
fiore rosso alla sua amata Italia, certamente nelle di lei mani. E’ questo il segno che non si
deve trascurare, che indica la prova dell’attività spirituale-animica dell’uomo attraverso il
cuore in un peculiare nevralgico punto cruciale, una croce e anche una X incognita in
relazione al suo specifico valore. Ma è anche la X dell'incrocio del due rami d'ulivo e
quercia dell'emblema della repubblica italiana come se fosse cinto dal corrispondente
suddetto fiore rosso simboleggiato dal filatterio dello stesso colore. Sembrerebbero due X
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distinte, essendo la prima animata e l'altra no per il fatto di riferirsi ad un segno impresso
sulla materia inanimata, ma che però resta come immagine mentale. Senza dubbio è così
il modo di legare le due cose perché diventino una sola. Valgono perciò altri modi
analoghi per portare allo stesso compimento che nel caso in discussione conducono alla
consapevolezza di significativi legami di straordinaria efficacia mnemonica. Nonna Luisa,
la Gina della lettera riportata su questo saggio, nacque a Grammichele di Sicilia, una
cittadella che sorse per ospitare i profughi di un paese limitrofo, Occhiolà (5), distrutta da
un terremoto il 1693. Grammichele deriva dal nome dell'allora feudo «Gran Miceli»
(riferito a San Michele Arcangelo) e fu edificata seguendo un progetto ideato sull'ideale
rinascimentale di città "ordinata" in base a princìpi scientifico-geometrici che ne
garantissero la possibilità di esercizio di un controllo sociale capillare. E così tutto
l'agglomerato urbano fu costruito a raggiera intorno ad un perfetto esagono. Una figura
geometrica, l'esagono, che al tempo della sorgente Grammichele
“contava”
scientificamente, ma che oggi no, al pari della «sezione aurea», cara agli artisti
rinascimentali, oggi un reperto da soffitta. Si può mai credere che quest'esagono, così
come concepito all'epoca, magari con «quinte» occulte sulla scorta delle concezioni del
genere di Ekatlos del gruppo di Ur, sia cosa veramente inutile di questi tempi? In tanti
italiani e persino quelli di Grammichele, forse sì, ma non in me nipote prediletto della
magnifica Gina della lettera. Osservando Grammichele, chi, come me, è innamorato della
geometria, queste idee d'altri tempi fluttuano nel mio spazio mentale e sono tanti gli
approdi di questo piacevole vagare. Ecco che si presenta, della materia inanimata, un bel
fiocco di neve, una stella a sei punte piena di infiorescenze, aculei o piume. E si delinea,
come da un certo sommesso parlare “interiore”, il messaggio cifrato del cristallo fatto di
semplice acqua, «Son la stella d'oriente, son la stella d'ori...». Gli scienziati sanno che la
materia inanimata ha un senso di orientamento e col fiocco di neve non sbaglia con le
opposizioni dei sei punti cardinali. Così analogamente per la materia animata, sempre in
movimento: per esempio, i piccioni seguono le linee del campo magnetico terrestre, i
delfini e i pipistrelli il rimbalzare delle onde acustiche. Sembrerebbe che il creato parli con
lingua matematica e si serva di una fedele geometria come esemplare dialettica di un
“pensare” cosmico che certamente si rivela in tanti peculiari modi negli uomini
disponendoli ad evolversi. E' questo - secondo me - il sommesso «senso inquieto dello
spazio» di un imprecisato “Oriente”. E l'Occidente? C'è chi (6), facendo la stessa mia
analisi suddetta, definisce «Occidente aspetto di leggere gli altri per saperlo» che è un
concetto relativo (come tutti) a un quadro di riferimento, da precisare a priori.». Ed
essendo un fatto pure questo in contrapposizione a quel che riguarda l'Oriente, non si
può evitare di collocarlo. «Perciò ci servono occidente e oriente, nord e sud, quattro
punti cardinali o sei o dodici o dodicimila sulla scala dei gradienti chimici o
dell'intensità delle onde di suoni e forze. Senza coordinate spaziali opposte e
complementari, non potremmo percepire simmetrie e asimmetrie, similitudini e
differenze, cambiamenti lungo la coordinata del tempo, fra i poli del prima e del dopo.
Non avremmo storia.».
La storia è stata fatta, almeno fino ad oggi, grazie a questi “due”, l'Oriente e l'Occidente,
ma quella del domani? Quella del domani, a scanso di fosche prospettive date molto
scontate dagli esperti, credo che abbia bisogno di qualcosa di nuovo se pur incerto e poco
raccomandabile, non importa. Forse, per ciò che esso rappresenta, proprio da quel fiore,
di seguito riportato accanto alla vista planimetrica di Grammichele di Sicilia. Ecco, con
felice sorpresa e contrariamente a quanto prima pensato, ora si ha il modo di capire che
potrebbero stimarsi anche buoni i fiori «disposti a casaccio» della lettera di «A te Gina».
Tuttavia il fiore, che più contava per il patriota poeta e sposo Gaetano, non fu affidato al
«caso».
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Illustrazione 4: Fiocco di
neve da «Il senso inquieto
dello spazio» di Sylvie
Coyaud (5).
UNA ROSA BLU COME
UN
FIOCCO DI NEVE
L'ORIENTE
Illustrazione 5: Grammichele di
Sicilia (CT) dove nacque e visse da
giovane nonna Luisa, la Gina della
lettera di nonno Gaetano (7).
Illustrazione 6: Emblema
della Costituzione
italiana.
IL CALICE DI RE ARTU'
AI PIEDI DELL'ETNA?
UN ROSSO FIORE
DI CAMPO
IL NUOVO SANTO
GRAAL?
L'OCCIDENTE
GRAMMICHELE E LA COPPA DEL GRAAL
Mi si dirà, a questo punto, che ora sto lavorando di fantasia nell'esibire delle cose prive di
sostegno in una lettera d'amore di un italiano che, come tanti similmente a lui,
appartengono ad un periodo in cui ferveva l'irredentismo. Nulla, quindi di speciale, nel
constatare che mio nonno Gaetano potesse intravedere nella sua amata Gina la sua patria,
ma lungi dal pensare, però, a qualcosa di più profondo, la di lei incarnazione nell'Italia
come entità spirituale. Così anche il resto, fatto di amabile pittura, non si può considerare
una cosa eccezionale poiché era abbastanza diffuso nell'animo di chi era in grado, allora,
di scrivere e parlare discretamente. Insomma, nell'intento di rispettare l'indubbio
contributo patriottico di Gaetano Barbella della lettera, lo si potrebbe stimare come una
piccola preziosa fiamma, fra tante, da considerarla nel novero dei «casi» menzionati da
Ekatlos col suo scritto iniziale. Salvo a nutrire delle remore - ma questo non c'entra - sul
relativo apparente misconoscimento, imposto dall'imperante «occultismo» confermato
dal significato riposto nella «benda» trovata misteriosamente insieme allo «scettro», che
può trovare riparo con il riscatto attraverso un comune sacrario di tutti i militi ignoti della
patria. E' già qualcosa, ma per Gaetano Barbella e la sua Gina, per i quali come loro erede
spirituale mi sto battendo, non basta perché sono in grado di dimostrare che essi
veramente erano portatori alla radice della fiamma e luce di un'Italia di preziose risorse
vitali riposta nel calice della surrealtà mappale di Grammichele, attivate da ciò che deriva
occultamente e concretamente dall'emblema della ruota-pentastella della Costituzione
italiana. Questi sono i presupposti alla radice del suo primo articolo: «L’Italia è una
Repubblica democratica, fondata sul lavoro, la sovranità appartiene al popolo che la
esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.». Da qui il legame per arrivare alla
presenza del Santo Graal cui può far luce l'esoterismo dell'Antroposofia di Rudolf Steiner,
giusto in stretta relazione all'arcangelo Michele presente nella scienza antroposofica
steineriana e in Grammichele di Sicilia della cara nonna Luisa Sapio. Nel libretto di
Bernard C.J. Lievegoed, «Le correnti di Misteri in Europa e i nuovi Misteri», edito da
Antroposofia Milano, il Graal viene presentato come una «cosa», appunto, poi una
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«pietra» e infine un «calice». Perciò la «cosa» risulta collegata al «calice» che,
chiaramente, porta al mistero del sangue di Cristo, lo stesso calice dell'ultima cena. Ecco il
punto di partenza della leggenda intorno a questo calice che viene portato da Giuseppe
d'Arimatea, dopo avervi raccolto il sangue che fluiva dalle ferite mortali del Cristo
crocifisso, in Europa fino a comparire in Inghilterra. Il resto ci è pervenuto attraverso la
saga leggendaria di re Artù e dei cavalieri della Tavola rotonda. Non escluso di
conseguenza un tutto frammischiato dalle concezione locali legate a magici fatti in cui
troneggia il noto mago Merlino e la fata Morgana. Ma senza farci deviare da tutto ciò, quel
che vale è risalire all'argomentata «cosa-pietra-calice-graal» sede di uno fuoco vitale alla
base, appunto, della vita sulla terra: la «Fenice risorgente dalle fiamme» in continua
evoluzione. Ecco che si illumina la mente nel capire che con Artù, che in irlandese si dice
Earth, significa roccia o terra e che i greci intravedevano nella dea Gea e i romani in Tellus
la dea analoga della fertilità. Naturalmente l'uomo del tempo antico aveva bisogno di
antroporfizzare simili divinità ed ecco un vero Artù, personaggio storico capace di
assomigliare al “domatore” della forza attiva riposta nella terra, un certo drago da
uccidere ed incarnarne i poteri. Perciò l'estrazione della leggendaria «spada» dalla roccia
a questa concezione porta. Ma è vero anche che si tratta di un potere, come di un fiore
(l'emblema della rosa dei Rosacruciani per esempio), che è potuto spuntare in diverse
altre parti della terra. Ed ecco che si fanno strada storie e leggende come quelle che
coinvolgono la Sicilia quale fantastico luogo d'arrivo del migrare delle cose graaliche
legate al «calice» del sangue di Cristo che in prima istanza lo vedono posto presso il
pozzo, cosiddetto sul posto "Chalice Well", adiacente all'Abbazia di Glastonbury non tanto
distante dalla capitale d'Inghilterra, Londra. Si suppone persino che sia opera dei
Normanni questo misterioso trasbordo, confermato anche da una nobile leggenda sul
conto di Ruggero il Normanno che liberò la Sicilia dalla dominazione araba. Di
conseguenza non poteva mancare in Sicilia lo scenario legato al re Artù “visto” ai “piedi
dell'Etna”, non senza quello della fata Morgana sempre premurosa per il fratello e amante
Artù ferito mortalmente in uno scontro con il figlio Moldred nato dall'unione incestuosa
con lei. Non fanno meraviglia queste fantastiche concezioni perché ricorrono nei fatti
saturni ossia tellurici, come quella del mito greco latino relativo a Era, Saturno e Giove. E
così la famosa collina di Glastonbury, ove sembra fosse stato posta la tomba di re Artù,
diventa il focoso Etna come a far delineare una corrente d'un fiume che riceve un
affluente ingrossandosi.
La leggenda, poi, perfeziona ogni cosa con
Morgana che si insedia nei paraggi, tra l'Etna
e lo stretto di Messina, nel mare, il suo
elemento congeniale, e naturalmente non
manca di costruirsi un bel palazzo di
cristallo. Morgana troneggia così in questo
tratto di mare che diventa infido a causa sua.
In modo leggendario viene dipinta così la
sua arte ammaliatrice. Ella esce dall'acqua
Illustrazione 7: Fenomeno ottico detto di fata morgana con un cocchio tirato da sette cavalli e
dovuto alla rifrazione dei vari strati di aria del posto. gettando nell'acqua tre sassi, fa diventare il
mare come un cristallo capace di riflettere immagini di città distorgendo la realtà. E così,
grazie alle sue abilità, la fata Morgana riesce a fuorviare il navigante che, ingannato
dall'illusione prodotta dal movimento di immagini inesistenti in quel punto visivo, crede
di approdare a Messina o a Reggio, ma in realtà naufraga nelle di lei braccia. Sappiamo
oggi che si tratta di un fenomeno ottico che si ammira spesso nello stretto di Messina e
nell'isola di Favignana a causa di particolari condizioni atmosferiche. Infatti desta la
curiosità turistica il fatto di guardare da Messina verso la Calabria e vedere come sospesa
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nell'aria l'immagine di Messina e, viceversa, guardando da Reggio Calabria verso Capo
Peloro, si vede nello stretto Reggio.
E' un fenomeno della fisica ottica che a scuola si impara a capirlo ed è chiamato appunto
«fata morgana» (illustr.7). Ora mi preme riallacciarmi al pensiero steineriano, lasciato in
sospeso, che non ho espresso bene per spiegare il suddetto supposto trasmigrare del
Graal in Sicilia che io localizzo a Grammichele e vedremo come nella seconda parte di
questo scritto. Sempre attraverso quel libretto, dell'Antroposofia di Milano sopra
menzionato, nell'introduzione si parla delle correnti dei misteri e per quel riguarda il
nostro caso, limitando la cosa, sono messe in risalto le correnti, cosiddette orientali
precristiane portatrici della saggezza, che dopo il mistero del Golgota con l'elevazione del
Santo Graal, poterono collegarsi con le correnti occidentali della chiesa iro-scozzese.
Questo avvenne nell'anno 869 grazie all'azione di Parsifal divenuto re del Graal quale
cavaliere di Artù. «Da allora - si legge testualmente - questa fusione di Parsifal col Graal
attende di collegarsi con gli altri misteri. Gli uomini che erano inseriti in queste correnti
si sono preparati insieme anche ad altri nella sfera solare durante il periodo fra morte e
nuova nascita sotto la guida di Michele, l'arcangelo solare.».
Detto questo, mancherebbe ora il filo conduttore per cominciare a prendere sul serio la
concezione suddetta dell'incontro della corrente orientale e occidentale con quella italica
di marca romana se ci si riferisce allo scritto di Ekatlos iniziale più volte esaminato.
Prendo sul serio questo riferimento perché, nella seconda parte di questo saggio,
emergerà un fatto fondamentale che mi vede coinvolto quale supposto «caso», palese
però, nella fase pratica che trova riscontro evidente quando viene detto, sempre nello
scritto di Ekatlos, questa frase: «Oggi si lavora ad un grande monumento, nella cui
nicchia centrale sarà collocata la statua di Roma arcaica.». Mi giova esaminare un lato
interessante del Movimento dei Druidi in Inghilterra che tiene in gran conto la storia
graalica legata particolarmente a Glastonbury di cui si è parlato in precedenza. Si tratta
del fatto di averle concepite attraverso la madre terra con configurazioni intravisibili
attraverso la topografia locale. Questo, come si vedrà, giustificherebbe la mia stessa e più
approfondita visione del mondo astrale secondo la concezione esoterica che io ho
preferito definire della «surrealtà». Ma non manca, del passato della nostra Italia, una
concezione analoga che farò precedere a quella dei Druidi suddetta. Ma prima vorrei
porre in risalto una peculiarità singolare della configurazione esagonale di Grammichele
nel contesto del territorio dell'intera Italia. Così, tanto per cominciare a porre sul moggio
Grammichele, si può intravedere un incerto asse magnetico declinato, similmente a
quello deviato rispetto alla direzione nord geografica, ponendo in relazione la sua mappa
esagonale con la geometria di una città del nord, Palmanova della Venezia Giulia, che fu
fatta di forma enneagonale, ma con al centro una piazza esagonale. Ed ora ecco le due
storie della surrealtà terrestre quasi a veder spuntare, come si suol dire, trattandosi di
concezioni da draghi ossia da forze infere, certe “corna” e “coda” dei menzionati italici
poli geometrici secondo la declinazione magnetica, ma senza tanto scalpore. Mi vien
voglia, timidamente, di far riferimento al versetto dell'Apocalisse di Giovanni 20,3 che
dice così: «dopo questi (la Bestia, ossia Satana) dovrà essere sciolto per un po' di
tempo.». E non mancherebbero le giustapposizioni di una simile concezione così
azzardata. Infatti non si può negare che la cosa può aver sostegno se si stima concepibile il
fatto che si voglia accettare in quest'epoca il fatto che il Cristo della «Crocifissione» non
debba più ritenersi un «morente».
19
UN PO' DI STORIA SULLE SURREALTA' MAPPALI
LE CARTOGRAFIE DI OPICINO DE CANISTRIS
Illustrazione 8: Il Mediterraneo in
un disegno di Opicino de Canistris.
Illustrazione 9: Un altro disegno di Opicino
de Canistris del Mediterraneo.
Scavando nel passato emerge la storia di Opicino de Canistris, un prelato di Pavia nato il
24 dicembre 1296 a Lomellina (PV). Fu attivo presso la corte papale di Avignone. Di lui si
sa che si distinse come cartografo, ma soprattutto come cultore di astrologia e studioso
delle tradizioni popolari delle sua natia Lomellina. Disegnò un gran numero di carte
antropomorfizzate e generalmente intese in senso “morale”. Attratto dalle credenze della
mitologia celtica si divertì a tradurle in latino insieme alle storie longobarde. E'
significativo uno squarcio interessante della sua vita: Opicino aveva ossessione da morire,
da quel psicopatico che altri ritenevano che fosse, del caprone, il simbolo per il mondo
cristiano del male e dell'anticristo. E' una cosa comprensibile considerato che lui, ironia
della sorte, era nato sotto il segno del capricorno. La cosa lo conturbò non poco da
indurlo, a disegnare con dovizia, essendo un cartografo di talento, la carta del
Mediterraneo come un enorme osceno caprone, attraverso cui l'Europa e l'Africa si
univano in atto carnale in sembianze femminili. Oltre a ciò, come già suddetto, disegnò
tante altre configurazioni basate sullo stesso criterio, come si vede nelle illustraz. 8 e 9.
Opicino così lasciò detto, riferendosi all'inviso caprone: «La misera Lombardia si è presa
su di sé tutta la corruzione dell'intera Europa e dell'Africa, e a Pavia è toccata la parte
dei genitali... il territorio di quel sito fa schifo come un inguine mestruato, valle del
giudizio e inguine della turpitudine d'Europa».
Opicino rappresentava spesso i luoghi geografici con l'immagine di persone umane. Per
lui l'Europa è una donna, spesso nuda, della quale l'Italia e la Grecia rappresentano le
gambe, mentre la testa è nella penisola iberica. Ovvie le trasposizioni, per cui in certi
disegni la laguna veneta diventa un «sesso castrato» e la Corsica un escremento che esce
da Genova, definita Genua = Ianua, cioè «porta» d'uscita dei rifiuti organici.
«Ed ecco - aggiunge Opicino - in queste iniquità io sono stato concepito... A volte mi
glorio d'essere uomo e mi dimentico d'essere un capricorno dalla lunga barba
(longobardo), adoratore della testa del capro. Infatti sono nato in pieno peccato, come
un ladro che arriva prima di Cristo, scivolando furtivamente nel giorno maledetto
20
dell'Anticristo. Sono nato in pieno peccato, come un capro espiatorio, ma il battesimo
mi ha trasformato e risuscitato dai vizi del capro all'innocenza dell'agnello. E se il
signore Gesù Cristo non mi avesse subito seguito e riscattato dal peccato, avrei già
toccato il vertice dell'Anticristo...ma io, miserabile capro, nato sotto il segno terrestre
del capro e designato all'unione col più piccolo povero della capra, mi accorgo di non
aver generato altro che capri e becchi che ritornano sempre alla loro natura sinistra».
Opicino de Canistris mori nel 1352 nella sua Pavia cui aveva dato sé stesso in eredità, se
non altro attraverso le sue incomprese cartografie, rimaste ironicamente alla storia dei
suoi eredi come «un Noè malato che cerca di mettere nella sua Arca di carta, ciò che
può salvare della terra e di sé stesso».
LO ZODIACO DI GLASTONBURY
Siamo nel 1929 e la scultrice Katharine
Maltwood,
incontrando
non
pochi
ostacoli, pubblica il suo libro «Il tempio
delle stelle di Glastonbury». La Maltwood
espone una sua teoria in base alla quale
l'«Antica storia del santo Graal», che fu
scritta nel 1200 a Glastonbury, trova secondo le sue osservazioni locali - delle
meravigliose
relazioni
attraverso
configurazioni dedotte dalla morfologia
terrestre del luogo in questione (illustr.10).
Ella
espone
così
una
minuziosa
descrizione di tante figure estrapolate dai
Illustrazione 10: Lo zodiaco di Glastonbury in Inghilterra. dettagli topografici, per esempio, lungo la
campagna del Sommerset a sud di Glastonbury. Entrando nel vivo di questa concezione,
attraverso i contorni naturali di fiumi, sentieri, strade, colline, fossati e terrapieni, per un
raggio di 16 km, ecco che si delineano le 12 figure dello Zodiaco associate simbolicamente
alla leggenda graalica e di re Artù. Naturalmente lo Zodiaco di Glastonbury con tutto ciò
che lo anima, così illustrato dalla Maltwood, non è la storia locale apparente, come vuol
far capire nel libro in discussione l'autrice inglese, bensì il surreale che vi sta dietro
attraverso la leggenda, appunto. Così guardando l'illustrazione in basso, si osserva che
Artù è il Saggittario, sua moglie Ginevra è la Vergine, il mago Merlino è il Capricorno e
Lancillotto è il Leone. Glastonbury trova relazione con la costellazione dell'Acquario, nella
veste di una Fenice dalle cui ceneri sorge la Nuova Era. Infine Il Pozzo del Calice, un
significativo punto focale, vale come indicazione del becco della fenice. I suoi
delineamenti sono la collina di Tor quale effige della testa e l'abbazia di Glastonbury non è
altro che il Castello del Santo Graal. La storia dello Zodiaco di Glastonbury è stata portata
avanti recentemente da un'altra studiosa inglese, Mary Caine, Membro dell'Ordine dei
Druidi di Londra. Di notevole la Caine ha contribuito con l'importante scoperta di un
volto messianico nella figura dei Gemelli a Dundon Hill Camp, a metà strada fra le città di
Glasonbury e Somerton. Oltre a ciò la ricercatrice ha collaborato all'individuazione di altre
configurazioni terrestri con uno zodiaco nei pressi di Kingston-on-Thames nel Surrey,
naturalmente in Inghilterra (10).
Riallacciandomi ora all'ipotesi della concezione della trasmigrazione del santo Graal in
Sicilia che - secondo la mia visione sulla base della surrealtà mappale di Grammichele,
nonché i fatti personali legati alla nonna Gina della lettera d'amore, precedentemente
argomentata - farò tappa a Caserta in cui si conobbero e poi si sposarono i miei nonni in
questione, Gaetano e Luisa Barbella. Lascio ora al capitolo segente certi fatti salienti di
21
Caserta, ove ho trascorso un buon tratto della mia vita di bambino e di adolescente.
'A TIANA DEI RACCONTI DI ZI' MARIA
«Ce steve 'na vota 'nu viecchie,
e 'na vecchia areto a 'nu specchio,
areto a 'nu monte...»
Al lato: Cartografia della surrealtà mappale di
Caserta eseguita dall'autore.
LA FILASTROCCA
Era il tempo di fine guerra ed abitavo con la
famiglia a Puccianiello, un paese della periferia
a nord di Caserta, proprio in prossimità del
limite del parco della nota Reggia di questa
città. Qui il parco è particolarmente avvincente,
quasi fuori dal tempo, perché vi è dislocato il
famoso «Giardino Inglese» pieno di piante
esotiche e più a monte, dal punto dove poi viene
giù una caratteristica cascata, si estende sul
retro il cosiddetto bosco di San Silvestro. Chi si
addentra in questi luoghi è come se fosse
trasportato in un mondo surreale legato al mito,
a meravigliose favole. Un fantastico mondo in
cui strani esseri pare che si sentano girare qua e là. Ecco una certa surrealtà che
attraverso questo scritto mi preme far profilare per presentare dei risvolti personali, forse
attinenti, che credo abbiano influito considerevolmente sul decorso della mia vita.
A quel tempo ero meno che un ragazzino ed insieme a tre fratelli, più piccoli di me, ci
piaceva ascoltare le storielle, di maghi, di fate e di orchi, che raccontava con dolcezza 'a zi'
Maria, un'anziana persona paralitica che, insieme alla sorella, donna Felicetta e suo
marito, don Rafel', anziani anche loro, erano i proprietari della casa in cui si viveva. Di
quelle favole mi è rimasto impresso nella mente una curiosa filastrocca, detta in
napoletano, che spesso le precedeva. Chissà perché, mi sono chiesto in seguito da grande,
ogni volta che mi ritornava in mente. Ma era talmente radicata in me da provare gusto nel
ripeterla mentalmente, ma a volte anche a bassa voce. Perché? Forse doveva costituire,
per mano del fato, un'amorevole azione protettiva o qualcosa del genere. Forse anche
perché potessi ora raccontare, a chi potesse recepirla, la filastrocca in questione per trarre
illuminazioni mentali. Quasi che fosse il famoso bacio del principe per disincantare la
bella principessa addormentata ed il suo reame della nota favola. Viene da sorridere?
Eppure quanti “reami” sepolti nella mente, ad un tratto, riemergono per semplici ed
inspiegabili stimoli. Dunque sentite la filastrocca napoletana:
«Ce steve 'na vota 'nu viecchie,
e 'na vecchia areto a 'nu specchio,
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areto a 'nu monte...
Statte zitte che mò tu conte.
E tu conte dint' 'a tiana,
mammeta e patete i ruffiani».
Tradotta fa così: «C'era una volta un vecchio,/ ed una vecchia dietro uno specchio,/
dietro un monte.../ Stai zitto che or te lo racconto./ E te lo dico dentro un tegame,/
mamma e papà i ruffiani».
Come sembra ravvisarvi c'è l'essenziale del minimo della vita, se non di più, che io
intravedo nel modo seguente.
Il passato, che è anche punto di termine della vita in quei due «viecchi» quando facciamo
riflessioni davanti allo specchio, vuol indicare al limite la nostra coscienza, ma è anche la
normale attività di pensiero. Il presente è il superamento del monte delle asperità della
vita riconducibile anche alla prospettiva del mistero riposto nella fine di ogni cosa, la
morte. Nel presente l'emblema dei due «ruffiani» in noi che sono sempre i due «viecchi»,
ci aiuta a svincolarci dalla superbia causa dello svanire dell'amore per dar luogo ad un
incerto e periglioso «fai da te» che si ravvisa nella raccomandazione di «statte zitte»,
ossia rifletti prima di svincolarti dai due in questione, ovvero prima di costituirti artefice
di te stesso, se non vuoi sperimentare la mortale solitudine del vuoto dell'anima. E poi si
tocca terra raccomandabile con la «tiana», col vaso delle cose che sembrano amabili, ma
anche delle cattive sorprese frammischiate sapientemente (se si sta “zitti”, però). Può
servire il “digiuno” per evitare l'amarezza che potrebbe trapelarsi in questa o quella
ciotola del nutrimento, che, gira e rigira, non è possibile evitare? O forse altre «tiane», più
in là, ci sembrano migliori come amori che riteniamo ci spettino, risolvino ogni cosa non
più gradevole dei vecchi orcioli? Ma se ciò fosse, come sembra che avvenga oggi, non
restano che lo specchio ed il monte, come voler dire attenzione a non corrompere anche
questi “due” dalle apparenze poco o nulla incisive, ma che costituiscono le sostanziali
“radici” delle nostre origini divine.
'A TIANA DEI RACCONTI
DI ZI' MARIA
Ho letto da qualche parte tempo addietro, su una rivista mi sembra, che alcuni critici
d'arte abbiano intravisto nell'opera di Michelangelo, «La creazione di Adamo», che si
ammira nella Cappella Sistina del Vaticano, l'intenzione dell'autore di prefigurare l'azione
del creatore attraverso il cervello dell'uomo, tratteggiandone i contorni. Infatti non si può
negare che la cosa sia pittoricamente sostenibile. Di qui un primo legittimo barlume su un
misterioso calice legato alla leggenda, il Santo Graal.
Partendo da questo emblematico presupposto, il pensiero corre repentinamente ad un
altro emblema, il calice dell'ultima cena di Gesù con gli apostoli, lo stesso che servì a
raccogliere, poi, il sangue del Signore morente sulla croce. Il seguito della storia di questa
coppa, è stata dipinta in modo pittoresca al punto da farla diventare il famoso Graal che
degni cavalieri si spingevano nel “Mistero” per essere irrorati dalla sua luce vivificante,
ma anche accecanti per chi non si dimostrava degno.
E poi suggella le due suddette concezioni questo passo dell'Apocalisse di Giovanni
apostolo che vi aderisce mirabilmente: «E' avvolto in un mantello di sangue e il suo
nome è Verbo di Dio» (Ap 19,13).
A questo punto si può capire che «'a tiana» dei racconti di «zi' Maria» ci potrebbe
ricondurre al Sacro Calice del sangue di Cristo e poi al mitico Graal dei cavalieri del Medio
Evo, considerando che questo termine dialettale, tiana, è relativo ad un tegame molto
23
somigliante con un altro a forma di bacile in uso nel Medio Evo.
Dai primi racconti sul Graal questo calice in principio era - ed è ancor oggi, in parecchi
dialetti tra la Catalogna e le Fiandre - un bacile largo e basso, di materiale prezioso e
pregevole fattura, destinato a piatti di pesce e al loro elaborato intingolo, detto anche
"gradalis" o "gradale", «caro e gradito a chi vi mangia». Il resto della storia a ritroso su
questa incerta coppa senza tanta apparente nobiltà, ci viene così tramandato dal passato,
ma anche tutt'ora sono in molti a cesellarla con contorni persino fantasiosi.
Che dire del Graal? Meglio: cosa conta come emblema, al di là delle fantastiche concezioni
ingigantite oggi dai media della carta stampata e dai cineasti? L'opinione che raccolgo dai
diversi scrittori a riguardo si impernia sullo slancio umano alla ricerca della verità su se
stessi e sugli altri; il simbolo del dono di sé, dell’imitazione di Cristo nell’Incarnazione e
nella Passione, della Creazione stessa intesa come dono; perché il Graal è la figura
medievale dell’eterno mito di Ulisse, archetipo dei moderni ideali di pace tra tutti i popoli,
nel progresso e nella libertà.
Ma intanto in quest'epoca preme il rovescio di tutto ciò, con cavalieri di un anti-Graal che
sembrano addirittura prevalere: sapranno i primi cavalieri ricacciare gli spiriti della
superbia e del malcostume dei secondi ed incatenarli all'abisso ove prima si trovavano? È
vero anche che c'è di mezzo il Cristo e questo ci riporta a tutto ciò che egli ha detto al suo
tempo in Palestina, poi riferito dai suoi apostoli attraverso i Vangeli. Credo sia utile
ripescare alcune cose che ho detto attraverso lo scritto «L'asino di Alì», pubblicato in
seno al portale di SpazioFatato. http: www.specchiomagico.net/spaziofatato.htm
<Gesù Cristo mentre procedeva durante la festa della Palme in questione, fu rimproverato
da alcuni farisei che ritenevano blasfemo il fatto che egli era acclamato e benedetto perché
ritenuto un Re mandato dal Signore. Da qui la secca frase del Cristo di rimando: «Vi dico
che se essi taceranno, grideranno le pietre». Era un modo di dire o una predizione legata
al “potere” specifico della “pietra”, un chiaro, adombrato parallelismo con significato,
altrettanto adombrato dei “somarelli”? Il parlare del Cristo, dopo la sua crocifissione,
sembra riferirsi chiaramente al primo dei suoi apostoli, Pietro detto, appunto, Cefa (che
vuol dire pietra), ma Gesù Cristo in seguito alla guarigione del cieco nato, specificò una
cosa importante che riguardava il suo mandato sulla Terra. Disse fra l'altro:«Bisogna che
noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato, finché è giorno; viene poi la notte,
quando nessuno può operare. Finché sono al mondo, sono la luce del mondo».
Oggi si affaccia lo sgomento per il preannunciarsi di un certo «Silenzio di Dio»
argomentato dal compianto Papa Giovanni Paolo VI, e persino del «Disgusto di Dio»
(Udienza generale dicembre 2002 del Papa), quasi ad ammettere l'esaurirsi della luce
cristica dell'accennato Santo Graal terreno ed il preannunciarsi dell'ora della «notte».
Dunque è l'ora del potere di un'altro genere di «pietra» dalle prerogative di apparire come
«legno secco»?>.
Cosa dire allarmati a questo punto? Chi crede nel potere della luce del «Santo Graal», si
ricreda perché si è affievolito del tutto e si prepara l'ora delle tenebre!
Allora è la fine dell'amore sulla terra? Ma Gesù parlò di un «legno secco» dopo di lui, lui
che era il «legno verde», perciò resta ciò che si è "seccato" nel tempo: forse tutto ciò che
può attenere la «filastrocca» dei racconti di «zi' Maria»! I due «viecchie» dietro uno
specchio e dietro un monte, con la «tiana» o la si chiami anche «gradale»...
Ma chi potrà mai fare distinzione tra le filastrocche, le favole e le profezie ci si potrebbe
chiedere?
E quel «legno secco» di cui parla Gesù con preoccupazione? Potrebbe avere legami con
l'emblematico «albero secco» delle Centurie di Michel Nostradamus? Forse sì.
Cito di seguito la quartina III,91 che vi attiene:
24
«L'albero che stava per lungo tempo morto secco
In una notte verrà a rinverdire
Crono re Malato, Principe in piedi eretto
Timore di nemici, farà volo bonificare».
DI QUEL TEMPO DI ZI' MARIA
Vaghi ricordi d'innocenza mestizia:
trasognate incerte gioie d'un giocar.
Costruir giunche con fragili legni,
e poi...sospinger mollemente.
Parea d'essere in lontano mar, felice
e pesci qua e là, ma il tempo...
il tempo, non era in me.
Or il mio occhio si dispone a un'altra tiana.
Tutti i giorni la vedevo senza saperlo.
Era lì davanti casa mia,
ma davanti palazzo reale:
un'altra casa sempre a Caserta.
Ero un giovane ed amavo la geometria,
e con ellissi e triangoli mi dilettavo.
Ma il tempo malato di lì a poco
mi avrebbe trascinato lontano.
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PRIMI RICHIAMI :LA VIA DI BOTTICINO
LA « GRANDE ORMA »: LA SCENA E LE QUINTE
<...Oggi si lavora ad un grande monumento, nella cui nicchia centrale sarà
collocata la statua di Roma arcaica. Possa questo simbolo rivivere, in tutta la sua
potenza! La sua luce, splender di nuovo!...> (Dallo scritto di Ekatlos)
IL VIAGGIO DELLA PIETRA DI BOTTICINO
Non c’è un vero buon carro nella storia del genere umano, che in qualche modo non sia
stato legato a difficili prove da superare. Mi viene in mente quello dell’Orsa Maggiore, la
costellazione in prossimità del polo galattico, che la mitologia accosta all’infelice Callisto.
Un’indicazione assai significativa, considerato che i navigatori da questa risalgono alla
stella polare, indispensabile per ben procedere.
«...Oggi si lavora ad un grande monumento, nella cui nicchia centrale sarà collocata la
statua di Roma arcaica...» recità Ekatlos come dal suo scritto sopra riportato. E per questo
fu necessario l'allestimento di un carro legato, di certo, alle stesse peripezie della mitica
Callisto per un ideale «Nord» da mantenere. Ed il carro servì per il trasporto del marmo
per la statua della dea Roma da porre al centro del monumento del Milite Ignoto sul
Campidoglio. Fu scelto il marmo di Botticino poco distante da Brescia che nella foto al
lato
si vede disposto su un carro ferroviario in
attesa della partenza per Roma. Ma la
storia di questa pietra, ancorchè era ancora
salda al monte della cava di estrazione,
inizia il 25 marzo 1903. Questo fu il giorno
in cui la Ditta Davide Lombardi di Rezzato,
non tanto distante da Botticino, otteneva la
commessa per la fornitura del marmo
Illustrazione 9: Stazione ferroviaria di Rezzato (BS). Trasporto necessario alla realizzazione della Tomba
del masso di Botticino destinato per la statua della dea Roma del
dei Milite Ignoto a Roma. Per questo
Monumento al Milite Ignoto di Roma.
grandioso
monumento,
progettato
dall’architetto Giuseppe Saccone, la ditta rezzatese si impegnò a fornire circa 11000 m3 di
marmo di Botticino e di Mazzano, altra località poco distante. Il monumento, dedicato al
Re Vittorio Emanuele II, fu felicemente completato e a tutt’oggi è ciò che conta per gli
italiani quale sacrario di superni valori patri, eretto proprio là sul colle del Campidoglio
ove iniziò la storia di Roma leggendaria.
Riguardando il carro della foto, si è pervasi da un solenne e misterioso rituale. Pare una
sorta di vascello su cui è stato delicatamente adagiata una principessa dormiente,
adombrata fra veli discreti. Ed è prossima la partenza, ma il luogo di destinazione non
sembra appartenere al presente: un presagire di un mondo nuovo, non privo di
sensazioni funeste. A questo punto mi domando perplesso: cosa potrei io, modestissimo
cantore di italiche cose bresciane suggellate nella pietra, aggiungere per fissarne la
luminosità e così dar rilievo alle patriottiche supposizioni potenziali emergenti dalla
lettera «A te Gina» di mio nonno Gaetano riportata nella prima parte di questo scritto?
Del mio presente non ravviso nulla che sia stato veramente apprezzato. Tuttavia - guarda
«caso» (di certo non uno dei tanti predisposto da Ekatlos ed altri mentre “forzavano” gli
eventi a venire per erigere la “statua” di Roma arcaica) - di significativo, dopo alterne
vicissitudini, come naufrago sono approdato alla Lombardi Marmi in dissesto, di Rezzato.
26
Per quasi quattro anni, fino al trasferimento dell'azienda ad altro imprenditore avvenuta,
come suddetto, all'inizio del 1993, sono stato il direttore tecnico, forse l’ultimo che il
destino, ha posto per il tempo necessario onde porre in salvo ciò che di prezioso vi era
riposto perché non andasse in mani sbagliate. Forse è così che doveva essere suggellata la
fiamma insita nel “carro di Botticino”.
Illustrazione 10: Roma. Effige
marmorea della dea Roma.
Illustrazione 11: Roma. Monumento al Milite Ignoto, dedicato al
Re Vittorio Emanuele II.
SUCCESSIVI RICHIAMI BRESCIANI
LA « GRANDE ORMA »: LA SCENA E LE QUINTE
<...Sulla fine del 1913 cominciarono a manifestarsi segni, che qualcosa di nuovo
richiamava le forze della tradizione italica. Questi segni, ci furono direttamente palesi.
Nel nostro «studio», senza che mai si potesse spiegare per quali vie fosse giunto,
rinvenimmo, in quel periodo, un foglietto. Vi era tracciata, schematicamente, una via,
una direzione, un luogo. Una via oltre la Roma moderna; un luogo, là dove nel nome e
nelle silenti auguste vestigia sussiste la presenza dell’Urbe antica.
Indicazioni successive, avute a mezzo di chi allora ci faceva da tramite fra ciò che ha
corpo e ciò che non ha corpo, confermarono il luogo, precisarono un compito e una data,
confermarono una persona>. (Dallo scritto di Ekatlos)
Nel 1993 fui assunto come direttore tecnico della ditta rezzatese Fratelli Lombardi Marmi
SpA, intendendo aggiungere qualcosa in più a quanto già detto in relazione al trasporto
del masso di marmo Botticino che servì alla sculturea effige della dea Roma posta alcentro
del Sacrario del Milite Ignoto sul Campidoglio. E la cosa ora diventa interessante, ai fini di
un'ipotizzabile trama occulta che sembra svilupparsi e procedere in buona sintonia con i
fatti, anch'essi occulti, posti alla luce dallo scritto di Ekatlos del Gruppo di Ur, quasi che
questo fosse una certa mappa di riferimento. Infatti dal momento in cui iniziai l'attività
alla Lombardi Marmi, cominciai di li a poco a ...
Ma da questo punto in poi a che serve la cronaca dei fatti potendo, in un sol istante
esporre un insieme di immagini di concezioni che sono stato portato a far esporre sul web
felice di accoglierle. C'è di tutto di un'Italia in particolare che mi è piaciuto "disegnare", a
cominciare con le immagini. Ecco ora ve le mostro precedute dal relativo elenco.
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ELENCO DEI SAGGI RIPORTATI QUASI TUTTI SUL WEB
1. Matematica antichi egizi (piramide di Cheope):
«Alle radici dell'intelligenza matematica».
http://scienzaespirito.etanali.it
http://www.specchiomagico.net/gaetanobarbella.htm
2. Ipotesi costruzione piramide di Cheope:
«I rotolatori del sole».
http://scienzaespirito.etanali.it
http://www.specchiomagico.net/gaetanobarbella.htm
3. Le profezie di M. Nostradamus:
«Nostradamus profeta e le surrealtà mappali». Prima parte.
http://scienzaespirito.etanali.it
4. Le profezie di M. Nostradamus:
«Nostradamus profeta e le surrealtà mappali». Seconda parte.
http://scienzaespirito.etanali.it
5. Cristianesimo:
«Essere dei. A scuola di sacerdozio».
http://scienzaespirito.etanali.it
6. Esoterismo:
«Sul terzo giorno». Prima parte.
http://scienzaespirito.etanali.it
http:www.daltramontoallalba.it/speciali/terzogiorno.htm
7. Esoterismo:
«Sul terzo giorno». Seconda parte.
http://scienzaespirito.etanali.it
http:www.daltramontoallalba.it/speciali/terzogiorno.htm
8. La matematica nella Divina Commedia di Dante:
«Il geometra».
http://www.specchiomagico.net/gaetanobarbella.htm
9. Matematica: Sezione aurea.
«L'angolo aureo».
http://www.sectioaurea.com/
Una menzione del sito Google Groups : it.scienza.astronomia
Chissà se nell'universo si trova anch'essa? (trascendenza del numero e della proporzionalità). Suggerisco di prelevare il file
(proprio dalla Home Page)
del prof. Barbella, molto, molto interessante... ( http://www.sectioaurea.com/ )
10. Matematica. L'angolo aureo.
«Polvere di stelle».
http://scienzaespirito.etanali.it
11. Esoterismo.
«L'asino di Alì»
http://www.specchiomagico.net/gaetanobarbella.htm
12. Esoterismo. (autobiografico)
«'A tiana dei racconti di zi' Maria».
http://lucideimaestri.supereva.it (Home Page: Poesie ed Emozioni dell'anima).
13. Esoterismo.
«Gli spiriti maligni»
14. Esoterismo.
«Genesi»
15. Esoterismo. (autobiografico)
«Quod non fecerunt Barberini, fecerunt Barbella».
16. Esoterismo.
«Il pensare sferico del Papiro di Ani»
http://lucideimaestri.supereva.it (Home Page: ...).
17. Esoterismo.
«Gli emblemi e l'Islam»
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2
3
4
5
6
7
8
9
29
10
11
12
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14
15
16
30
NOTE
Tutte le citazioni delle profezie di Michel Nostradamus fanno capo al libro di Renucio Boscolo, «Centurie e Presagi di
Nostradamus» - Edizione MEB.
(1a) – Echetla è una località collinare della provincia di Catania, con ruderi archeologici, nei pressi dei resti
di Occhialà distrutta dal terremoto nel 1693. Poco distante si trova la cittadella di Grammichele su cui si
impernia la tematica del presente saggio.
(1b) - Relazione trasmessaci nel 1929 e che qui si pubblica a semplice titolo di documento. Vedasi l'articolo di Renato
del Ponte «Le correnti della tradizione romana in Italia» pubblicato in
http://www.centrostudilaruna.it/delponte.htm
(1c) - Il fatto fu riportato in un comunicato che p. es. si può trovare sul «Piccolo» di Roma del 24 maggio 1923, ove si
può leggere appunto che nel fascio offerto
« l’ascia di bronzo è prove« niente da una tomba etrusca bimillenaria ed ha la forma sacra...
«Alcuni esemplari simili sono conservati nel Museo Kircheriano.
« Le dodici verghe di betulla secondo la prescrizione rituale sono
« legate con strisce di cuoio rosso, che formano al sommo un cap« pio per potervi appendere il fascio come nel bassorilievo della
« scala del Palazzo Capitolino dei Conservatori»
(1d) - In realtà l'interpretazione di «delatore», cui si fa cenno nelle Centurie di questo veggente, è incerta. Può sembrare
che sia il noto Renucio Boscolo autore della trattazione del tema profetico in discussione. Egli, infatti afferma
apertamente di esserlo, ma per disposizione di Nostradamus attraverso alcune Centurie stesse. Potrei essere io che
utilizzo, senza il benestare, le sue traduzioni nostradamiche dal francese d'origine. Ma potrebbero essere anche tanti
altri che, forse, in modo improprio hanno mostrato, e continuano a mostrare, le cose di Nostradamus. Chi di questi è da
ritenersi «Il romano Pontefice Barberino»? Si potrebbe rispondere, un po' tutti, ma, fra questi, c'è chi, come il
sottoscritto, non ha mai ricevuto, per esempio, rivelazioni comodamente insediato in misteriosi «studi», come quello
sopra citato nel suo scritto da Ekatlos, e l'altro cui fa cenno lo stesso Nostradamus nella prima Centuria, prima
quartina. Donde allora la delazione nel mio caso?
1 e - «Alle radici dell'intelligenza matematica»: http://www.etanali.it/scienzaespirito
2 - «Sul terzo giorno»: http://www.daltramontoallalba.it/speciali/terzogiorno.htm
3 - «Nostradamus profeta e le surrealtà mappali»: http://www.etanali.it/scienzaespirito/
4 - «I rotolatori del sole»: http://www.etanali.it/scienzaespirito/
5 - In prossimità di Occhiolà, nella zona collinare di Terravecchia, sorgeva un tempo un'antica città dal nome Echetla.
Era al tempo di Gerone II, occupata dai Romani durante la prima guerra punica. Scomparve presto dalla storia e di
essa restano avanzi di un santuario di Demetra (numerose terrecotte architettoniche), tombe sicule e greche. Possibile
riferimento del nome Echetla all'eroe greco Echetlo? Questi, secondo la leggenda riferita da Pausania, apparve a
combattere insieme con i Greci in aspetto di contadino, col manico di un aratro. Si tratta di un genere di «apparizioni»
detta appunto echetlica e si collega alla categoria delle figure divine e mitologiche di tipo «momentaneo», quale ad
esempio nella mitologia romana Aio Locuzio.
6 - Da «Il senso inquieto dello spazio», di Silvye Coyaud:
http: //www.golemindispensabile.it/articolo.asp?id=1201&num=27&sez=349
Sylvie Coyaud , laureata in lingue e letterature straniere, è fra le più grandi divulgatrici di scienza che abbiamo in Italia.
E' nata a Parigi (1944), vive a Milano.
7 - Grammichele di Sicilia: http://www.siciliano.it/citta.cfm?citta=Grammichele
8 - Emblema della Costituzione italiana: http: //sedi.esteri.it/sarajevo/il_simbolo.htm
9 - Bibliografia e le illustrazioni: Tratte da http: www.liutprand.it/capro.htm
10 - Tratto dal libro «Atlante dei luoghi misteriosi» di Jennifer Westwood, ediz.Euroclub
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LE COPIE DELLA LETTERA «A TE GINA»
Illustrazione 11: Busta.
Illustrazione 14: Quarta e quinta pagina.
Illustrazione 12: Prima
pagina.
Illustrazione 15: Sesta e settima pagina.
Illustrazione 13: Seconda e terza pagina.
Illustrazione 16: Ottava
pagina.
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QUOD NON FECERUNT BARBERINI, FECERUNT BARBELLA