Banari-Sardegna: il mio “luogo dell’anima” Spalanco la finestra della mia camera de “S’Asilo”, l’asilo della mia infanzia banarese ora trasformato in uno dei Bed & Breakfast più affascinanti della Sardegna: gli aromi della macchia mediterranea invadono tutto rendendo ancora più vivi i ricordi che hanno affollato le emozioni della mia notte insonne. Lo sguardo spazia sulla campagna del Logudoro, la regione storica dell’antico giudicato di Torres/Logudoro del centro-nord della Sardegna intorno a Banari, mentre i rintocchi un po’ fiochi e quasi svogliati di una campana mi rimandano invece agli eleganti ritmati concerti delle quattro campane che solo il mio caro amico Battista Carboni, il sacrestano-campanaro di allora sapeva (e penso sappia ancora!) eseguire (“repiccare”, come si diceva una volta), specie nei giorni festivi e in particolare per la festa di San Lorenzo. Questa è sempre stata "sa festa" per eccellenza, dura ancora tre giorni e richiama visitatori da mezza Sardegna, attratti dai grandiosi fuochi d'artificio della sera del 9 agosto, ma soprattutto dalle gare dei poeti improvvisatori “in limba”, che si sfidano in versi a rime baciate e dalle esibizioni dei “cantadores” accompagnati alla chitarra. Quando il poeta banarese Barore Sassu, il “decano dei poeti sardi” come si legge nell’epitaffio sulla sua tomba, attaccava a poetare con una verve tra l’ironico e il sarcastico, non ce n’era più per nessuno! Per la festa di San Lorenzo rientrano anche gli emigranti da ogni parte del mondo, spinti dalla nostalgia per le loro radici e dal desiderio di rivedere i vecchi compagni di giochi della loro infanzia. Vado a rivedere la chiesa parrocchiale dalla facciata ottocentesca, con la parte inferiore in trachite rossa (nei dintorni ci sono molte cave) come l’elegante campanile, mentre la parte superiore e il frontone sono in arenaria bianca. La vista dell’interno mi stringe il cuore: un intonaco bianco ricopre gli antichi affreschi fioriti ornamentali, gli eleganti lampadari in cristalli colorati di Murano sono stati sostituiti da anonimi e seriali lampadari in vetro, mentre al posto del bellissimo altare in legno intarsiato del 1700 ora c’è un piattissimo altare di marmo che tenta di scimmiottare la facciata di un tempio greco, con al centro una nicchia da cui San Lorenzo sembra quasi voler fuggire perché troppo stretta rispetto all’imponenza della antica e veneratissima statua. Banari: due scorci di Rosella Sale, fotografa banarese Amarcord di un chierichetto Tutto questo disastro è stato generato negli anni ’60 del secolo scorso dai lavori di restauro dell’antica abside ormai pericolante avviati dall’allora parroco don Camboni, una sorta di don Camillo d’antan ma meno bonario e con una pronunciata vena di misoginia, che dal pulpito ligneo lanciava i suoi strali contro i primi “due-voti-due” dati ai comunisti alle elezioni politiche dei primi anni cinquanta. Uno dei due era del sarto Farore Sini, “Dore Longu” come lo chiamavamo affettuosamente, la cui sartoria era una sorta di cenacolo di letture di Marx e di Gramsci per iniziati: ora riposa in una semplice tomba di granito rosso nel piccolo cimitero alle porte del paese, dove sono passato per ricomporre dalle foto e dagli epitaffi una mia personale “Antologia di Spoon River” banarese! Conservo, tra le cose più care, il libretto di poesie: “Composizioni e Appunti di Ideali e Sentimenti”, una sorta di testamento spirituale “un po’ polemico, un po’ politico, un po’ poetico” come si legge nella premessa, che mi autografò con dedica nel 2008 poco prima di morire, che si chiude con uno straziante “Inventarmi la vita”: “Non ho più sogni/ Non più utopie/ Resta solo la terribile/ Fatica di vivere/ I pensieri volano inermi/ E cadono infranti/ Logorando lo spirito/ Le angosce mi assalgono/ E mi opprimono/ Rubandomi la vita”. Il “seme politico” gettato da “Dore Longu” sembra invece aver dato buoni frutti: in questi ultimi trent’anni a Banari si sono succedute diverse amministrazioni di sinistra, mentre sei banaresi sono diventati dirigenti o onorevoli presso il Consiglio regionale della Sardegna e qualcuno anche al Parlamento nazionale: tutti rigorosamente nelle fila dei DS o della sinistra in genere. Per questo ora don Camboni forse si rivolta nella tomba, anche se gli strali più violenti li lanciava contro i primi abbozzi di minigonna delle ragazze tentatrici “dei nostri bravi uomini” come diceva lui: “tizzoni d’inferno” urlò, per esempio, una domenica sera alla predica, sbattendo i pugni sul parapetto del pulpito e quasi terrorizzando noi poveri chierichetti al pensiero di rischiare di andare anche noi a bruciare tra le fiamme del fuoco eterno! Gli strali del parroco erano spesso “commentati” a mezza voce da fulminanti battute salaci in forbito dialetto sardo delle donne anziane, e in particolare della mitica “tia Angela”, la più pronta di tutte. Era lo stesso parroco che, per evitare le tentazioni a noi ragazzini, copriva lo schermo della TV del circolo parrocchiale alla prima avvisaglia di un abbozzo di bacio tra i protagonisti del film! Maschi e femmine si giocava invece insieme (in chiesa però bambini da una parte e bambine dall’altra!) per le strade a nascondino dietro le fascine di legna accatastate accanto agli usci delle case, o a tirare calci a un pallone di gomma nell’acciottolato tra contadini e asinelli al rientro dalla campagna e annunci delle merci in arrivo nei negozi, declamati in sardo con voce stentorea dal vecchio e quasi cieco banditore “tiu Billia Zoncu”. Il problema più grosso per noi giocatori era però “salvare” le caviglie e soprattutto dribblare, oltre agli avversari, le numerose galline starnazzanti e in particolare quelle “ciondolanti” di “tia Margarida”, che nel periodo della vendemmia erano regolarmente “ubriache” dalle esalazioni del mosto della cantina dove il marito pigiava l’uva e dove venivano ricoverate la sera per fare le uova, che non sempre però arrivavano con regolarità, con conseguente ira della padrona, anche per demerito del gallo del pollaio, “ubriaco fradicio” anche lui dalle esalazioni e soggetto quindi a una ingloriosa “impotentia coeundi” con somma delusione delle sue galline! I riti religiosi, messa al mattino e rosario alla sera, scandivano le nostre giornate di chierichetti oltre a quelle delle nostre mamme e soprattutto delle nostre nonne. La platea dei fedeli in chiesa era sempre la solita: le tre suore vestite di nero (le mie “maestre d’asilo”) nel banco in prima fila, con accanto quella che tutti chiamavamo “zietta Vittoria”, a seguire tutte le altre nonne vestite con il loro scialle nero dalle frange di seta. Zietta Vittoria non mancava mai a nessuna funzione: si era attribuita il ruolo di “conduttrice” nell’intonare i canti e nel rispondere al parroco officiante, sempre però in anticipo di una frazione di secondo rispetto a tutti gli altri fedeli. La cosa irritava talmente la mitica “tia Angela”, che una sera al Rosario, all’ennesimo “ora pro nobis” anticipato con voce piena dalla “zietta”, commentò a mezza voce (inginocchiata al banco in terza fila…), senza reticenza in sardo verace: “un giorno o l’altro metterà anche il c… a dire orapronobis”, tra l’ilarità di mia nonna e di tutte le altre amiche e “consorelle”. La “nostra” festa era il Natale: quindici giorni prima noi chierichetti, aiutati dagli adulti, si andava sui prati con vecchie carriole che riempivamo di muschio e di zolle di erba smeraldina per il prato del grande scenografico presepe allestito su un apposito palco che occupava tutto il presbiterio della chiesa. Un mese prima intanto il viceparroco, buon musicista canterino, alla sera dopo cena insegnava al coro misto (noi voci bianche, tenori, baritoni e bassi) i salmi d’avvento in latino, armonizzati in “falso bordone”, che si eseguivano alla novena serale che precedeva il Natale. La messa di mezzanotte (“sa missa ‘e puddu”) era il clou della festa con l’apertura del sipario del grande presepe al Gloria e la predica solenne del Parroco che, all’esclamazione ripetuta “È nato! È nato” si senti una notte domandare a gran voce da un uomo in preda ai fumi dell’alcool (la sbronza natalizia era quasi di rito!): “È maschio o femmina”? Era però la Pasqua la festa religiosa per eccellenza, tanto che Natale in sardo si chiamava “Pasqua di Natale”: durava l’intera Settimana Santa e noi ragazzini si andava in giro per il paese con battacchi (matraccas, matraccones) e raganelle (“sa chigula”) Banari: Chiesa di San Lorenzo (XIX secolo) in legno ad annunciare al posto delle campane silenziate, le cerimonie in chiesa officiate dal parroco, coadiuvato oltre che da noi chierichetti, dai membri della Confraternita di Santa Croce. Questi, alternandosi al parroco, declamavano in gregoriano lamentoso e in un latino un po’ maccheronico, le varie strofe del “De lamentatione Ieremiae Prophetae”, del “Miserere” e dello “Stabat Mater”, guidati dalla potente voce di “tiu Luca” uno dei confratelli maggiori. Questi interpretavano anche i personaggi di Nicodemo e di Giuseppe d’Arimatea, che toglievano i chiodi alla statua del Crocifisso dalle braccia mobili, della gran croce piantata al centro del presbiterio durante “s’iscravamentu”, la sacra rappresentazione, di chiara origine spagnola. Ora il latino è stato sostituito dall’italiano, evitando così il rischio che si recitino preghiere incomprensibili per lo stesso Padre Eterno se non addirittura veri e propri insulti, come quella volta che un gruppetto di bambini dei primi banchi, invece di “te rogamus, audi nos!” rispondevano alle invocazioni delle cosiddette “litanie maggiori” con un assonante “interrogamus s’ainu!” (la tradizione è superflua!) suscitando il divertimento dei fedeli più anziani e la reazione indignata a suon di scappellotti del viceparroco! Uno di questi stessi ragazzini, Pinuccio, fu però ancora più esplicito una domenica mattina: al momento di ricevere l’ostia dalle mani del parroco: invece di rispondere con un piissimo “amen” alla classica formula “Corpus Christi” sparò in sardo un più salace “appena esco ti spacco il c…!”, indirizzato voltandosi di scatto a un suo amico che da dietro lo pizzicava nel momento della comunione, mentre il parroco si tratteneva a stento dal mollargli una sberla invece dell’ostia! Ma una delle scene più felliniane si verificò una sera durante la recita del Rosario: al “collega chierichetto” Tore, inginocchiato accanto a don Camboni, volò via da sotto le veste un passerotto cinguettante che aveva catturato prima di entrare in chiesa e che tentava invano di zittire perché disturbava la preghiera: l’uccellino andò a posarsi sulla statua di San Lorenzo, inseguito da Tore che con un balzo improvviso salì sui gradoni dell’altare tentandone la cattura tra l’ilarità dei fedeli e la reazione indignata del parroco! Battesimi e matrimoni erano le cerimonie cui assistevamo con maggior partecipazione perché dopo si andava ai rinfreschi che ne seguivano, mentre i funerali erano i meno ambiti per ovvie ragioni Tra le mie memorie di chierichetto c’è ancora il freddo pungente delle mattine di fine marzo, quando con il parroco e i membri della Confraternita con le loro vesti bianche (càmice per i confratelli e “manto” per le consorelle), si andava in processione a benedire con l’aspersorio i campi ai quattro punti cardinali per il rito delle “Rogazioni”: si invocavano i Santi affinché li rendessero fertili e li difendessero “a fulgure et tempestate, a peste, fame et bello”! Chiedo venia per le continue citazioni latine, ma il latino era uno dei “pezzi forti” di noi chierichetti più “anziani” perché don Camboni ce lo insegnava, non solo per rispondere bene alle messe e ai vari riti, ma anche in preparazione dell’annuale “Convegno del Piccolo Clero” (ci chiamavano così in linguaggio curiale) di tutte le Parrocchie dell’Arcidiocesi di Sassari. Un anno ci classificammo primi nella “gara” per le risposte in latino e secondi assoluti nella classifica generale finale! Per merito del mio vecchio parroco ero già quasi un latinista quando entrai in seminario in prima media, mentre i miei amici declinavano a stento “rosa, rosae”! Quell’annata di chierichetti infatti fu anche feconda di “vocazioni”: oltre a me, altri quattro “colleghi” entrarono in seminario, tutti però abbandonammo l’idea di dedicarci alla vita religiosa durante il ginnasio, con grande delusione di Don Camboni che aveva coltivato in noi la “vocazione”. Evidentemente eravamo poco “vocati”, pur essendo stati ottimi chierichetti. Banari: sfilata di ragazze con il bellissimo costume tradizionale banarese Feste, sapori e cori antichi La vita della comunità banarese è sempre stata animata da feste e ricorrenze, oltre a quelle tradizionali di Pasqua, Natale e San Lorenzo, che scandivano il ciclo dell’anno e dell’uomo. Si faceva festa quando si battezzavano i bambini con relativo mini corteo di parenti e amici, per i matrimoni che duravano due giorni per i parenti e gli amici più stretti, con colossali mangiate e omeriche bevute: al corteo nuziale molte donne indossavano gli antichi splendidi costumi. Per l’occasione si usava cucinare il pane degli sposi (”pane iskeddadu”): un autentico capolavoro “lucidato”, traforato e intagliato a forma di uccelli, o di frutta o di fiori, di cui si faceva anche una versione a Pasqua, con al centro un uovo sodo. La morte era invece occasione per manifestare la propria solidarietà e portare conforto (s’accunostu) ai famigliari del defunto: per almeno una settimana i perenti e gli amici più stretti portavano loro i pasti in dono! Si faceva festa per ricordare i morti: si andava al cimitero per benedire ogni tomba (che tristezza quando mi toccava pregare da chierichetto e benedire quella di mio papà, che purtroppo ora non c’è più essendo passati quasi settant’anni dalla sua morte!), mentre la sera noi ragazzini si andava a bussare a tutte le porte per “chiedere per i morti”: eravamo gli inconsci precursori di Halloween e ci davano in dono noci, frutta, fichi secchi e dolci. Questi si preparavano in casa negli antichi forni a legna: per ogni festa c’erano specifici dolci soprattutto a base di pasta di mandorle (dolci e amare) come gli amaretti e i “sospiri”, o riempiti con la “saba” (il vincotto) come le tiriccas e le guppulettas, o con il formaggio fresco filante (casadinas: i miei preferiti), oppure i classici leggerissimi “biscottos” o le gallette e soprattutto i “pubassinos” farciti con noci e fichi secchi e ricoperti di glassa. A carnevale il dolce classico erano le frittelle lunghe arrotolate, “sas frisciolas”: quelle di mia mamma, a detta di chi le mangiava, erano assolutamente straordinarie, come “sa tumbara”: un budino “cotto” a bagnomaria di cui ero golosissimo e che non potrò più purtroppo riassaggiare, perché il segreto della sua ricetta mia mamma se l’è portato nella tomba! Si faceva festa quando le famiglie ammazzavano i maiali per le vie del paese: anche noi ragazzini assistevamo al macabro rituale con una certa indifferenza, al pensiero poi del prosciutto, delle salsicce, del lardo e della carne “salata” che si usavano per un po’ di tempo in cucina. L’uccisione del maiale era una festa anche per i vicini e i parenti cui si usava regalare in segno di amicizia un piatto di carne (s’ispinu) appena macellata. La trebbiatura sull’aia e la vendemmia nelle vigne costituivano altrettante occasioni per festeggiare in compagnia di amici e parenti. Ora purtroppo queste feste e queste tradizioni si stanno perdendo, anche se alcuni giovani più per animare la comunità che per vera fede, stanno recuperando altre feste tradizionali religiose, come quella di San Michele a fine settembre, la cui rustica chiesetta del XIII secolo in granito rosso sorge nella parte alta del paese, e soprattutto quella della Madonna di Cea. La Cipolla di Banari Questa si celebra l’8 settembre presso il santuario del XII secolo che sorge in aperta campagna a tre chilometri sulla strada per Ittiri, un tempo officiato dai monaci vallombrosani del cui convento rimangono i cortile recintato, una cisterna e il romitorio. Il silenzio rende il luogo particolarmente affascinante e misterioso, rotto solo dal gorgoglio del rio Mannu che scorre accanto e dallo scampanellio di un gregge al pascolo. Ad alcune centinaia di metri dal santuario infatti si possono visitare “sos sette coroneddos”: le grotte sepolcrali delle “domus de janas” risalenti al 1.800/1.500 a.C. a testimonianza che Banari era abitata già nel Neolitico. A queste feste religiose si aggiungono quelle di carattere più ludico, come il Carnevale (ma senza quella partecipazione collettiva di un tempo), ma soprattutto “Carrelas in festa” (vie in festa) ai primi di dicembre e la “Sagra della cipolla”, che quest’anno sarà il 18 luglio, dedicata alla cipolla di Banari”, un autentico must per buongustai, dolce di sapore, dal caratteristico colore dorato che può arrivare a pesare anche 1,8 kg come quella che qualche anno fa mi regalò il mio amico e unico produttore Pasquale Falchi! Per la sua unicità è stata avanzata la richiesta per il riconoscimento della DOP: la valorizzazione della “cipolla di Banari” potrebbe costituire uno degli elementi fondamentali su cui costruire un’economia agricola sempre più in crisi, a patto che se ne avvii una coltivazione intensiva e che attorno le si allestiscano eventi enogastronomici e scientifico-culturali sulle sue qualità organolettiche, nutrizionali e anche curative. Tutte queste celebrazioni e feste, oltre che occasioni di socializzazione e di animazione (vi si svolgono mostre d’arte e d’artigianato, balli tradizionali, proiezioni, concerti, escursioni) sono soprattutto riti collettivi della memoria identitaria di una comunità che tenta di sopravvivere aggrappandosi al suo patrimonio immateriale e anche alle sue “produzioni” locali tra cui i dolci straordinari che qualche ragazza ha ripreso a confezionare. Vi si ripropone anche la gastronomia tradizionale, semplice, povera ma dai gusti decisi come la “favata” (una robusta zuppa di fave secche ammollate, arricchita di pezzi di salsiccia, cotenna, costine di maiale, finocchietto selvatico, cavolo cappuccio, borraggine e l’immancabile cipolla di Banari), “sos ciccioneddos” (gnocchetti tipici logudoresi conditi con saporita salsa di pomodoro, salsiccia e abbondante pecorino), “sa ‘eladina” (una gelatina di zampette di maiale che si faceva nel periodo di carnevale), o l’antica “prima colazione” (s’immulzu). Quest’ultimo era una sorta di rito gastronomico (“su pane untinadu”) consistente nell’arrostire sulla brace pezzi di salsiccia e di lardo allo spiedo, facendo colare il grasso fuso sul pane fragrante (su fresinu), il tutto annaffiato con il corposo vino locale, per fornire proteine e calorie sufficienti ai contadini e soprattutto ai pastori, che dovevano trascorre lunghe e dure giornate di lavoro nelle campagne e sui pascoli. “S’ammentu de s’emigradu” E con una grande “abbuffata collettiva”, allestita nella via di fronte all’antico Oratorio di Santa Croce, si chiude la tradizionale festa de “S’ammentu de s’emigradu” (il ricordo dell’emigrante), che si svolge da qualche anno il 1° agosto, organizzata da “Su Cuncordu Banaresu” in onore degli emigranti che hanno lasciato il paese alla ricerca di fortuna in giro per il mondo. “Eravamo” in 1.500 negli anni ’50 del secolo scorso, ora purtroppo la comunità banarese supera e stento i 600 abitanti! “Torra a logu tou” (ritorna al tuo paese) “invoca” la poesia della mia cara amica d’infanzia e poetessa Maria Fiori (che pubblico nella rubrica “L’angolo della poesia”), pervasa da una struggente nostalgia per la propria terra, che in genere connota quasi tutta la tradizione poetica in sardo e soprattutto i canti tradizionali più belli e celebri come “In su monte ‘e Gonare” e soprattutto “Non potho reposare”. Questo canto in particolare è un autentico capolavoro poetico e musicale che ha affascinato grandi artisti che l’hanno voluto interpretare come Placido Domingo, Banari (dintorni): Santuario di Santa Maria di Cea (XII secolo) Noha, Gianna Nannini, Fabrizio de Andrè, Maria Carta, i Tazenda, Andrea Parodi ecc. Nella serata del 2010 l’onore di cantarlo davanti ai miei concittadini è toccato a me, accompagnato dal coro de “Su Cuncordu Banaresu” (la “colonna sonora” di tutti gli eventi), il cui potente impasto timbrico, caratteristico della grande tradizione corale polifonica sarda, sembra riecheggiare le misteriose sonorità dei silenzi notturni delle vallate, delle gole e delle forre intorno al paese: sento ancora i brividi per l’emozione! Dal palco ho rivisto alcuni volti di “giovani adulti” della mia infanzia: gli stessi che si riunivano nella piazza del paese nei momenti di sosta dal lavoro nei campi, per discutere dei “massimi sistemi” (l’altro passatempo erano le bevute al bar o i “giri” delle cantine ad assaggiare i vari vini con conseguenti sbronze omeriche!), come quella volta che un mio zio, non credendo alla storia che la terra fosse rotonda e “girasse”, brandendo la chiave di casa, sfidò i suoi amici a dimostrarlo con la lapidaria frase: “se è vero che la terra gira, tra poco la porta della mia casa dovrebbe passarmi proprio qui davanti!…”. “Scorro” con lo sguardo volti scavati e rinsecchiti dalle fatiche della vita non sempre agevole, che hanno però ancora una luce (o una lacrima?) negli occhi, nonostante gli anni e le fatiche. Vedo sguardi curiosi di donne anziane avvolte negli scialli neri con le frange di seta, come quelle che indossavano mia mamma e mia nonna: “Frange/ Bagnate di rugiada/ Sono lacrime di vecchio/ Per ricordare”, come recita la bellissima poesia (in sardo!) della mia amica Maria Fiori. La Fondazione Logudoro-Mejlogu per arricchire il patrimonio identitario Oggi però non è più sufficiente, per una comunità che vuole vivere nel presente e costruire nello stesso tempo un futuro per le nuove generazioni, riproporre soltanto l’originalità e l’autenticità del proprio patrimonio identitario! Non è sufficiente far parte dell’Associazione “Borghi Autentici d’Italia” per venire inseriti nei circuiti turistici. Il “come eravamo” inoltre “funziona” a patto che venga integrato, arricchito e innervato dai nuovi saperi e dalle “culture” della contemporaneità, per evitare il rischio della musealizzazione delle forme della propria memoria storica. Per promuovere e sostenere alcuni di questi eventi, spesso frutto di totale spontaneo e lodevole volontariato da parte dei banaresi più responsabili e impegnati, e soprattutto per rinvigorire le tradizioni con la cultura della modernità, è stata costituita alla fine degli anni ’90 del secolo scorso la “Fondazione Logudoro-Mejlogu” su iniziativa del grande artista Giuseppe Carta che la presiede e la anima (del quale parlo più avanti), partecipata anche dal Comune di Banari. Il risultato più vistoso e prestigioso conseguito dalla Fondazione è la nascita del “Museo di Arte Contemporanea”, costituito da centinaia di opere di grandi artisti tra cui (cito a memoria) Aligi Sassu, Fiume, Greco, Ligabue, Luzzati, Messina, Minguzzi, Sciola, Sironi, Pomodoro e numerosi altri, ospitate in un edificio costruito accanto all’antico Palazzo Tonca, dove si svolgono importantissimi eventi culturali e artistici come corsi di grafica, di pittura, di scultura e di decorazione. Tra le mostre più importanti realizzate in questi anni sono da ricordare in particolare quelle dedicate a Francis Bacon, ai Macchiaioli, a Emanuele Luzzati, a Salvatore Fiume e anche quella originalissima sull’erotismo nell’arte. Ogni due anni inoltre (in genere da fine agosto a metà settembre) si svolge la “Fiera d’arte del piccolo formato”: un unicum in Italia che vede la partecipazione di centinaia di artisti che espongono e vendono le loro opere caratterizzate da ridotte dimensioni in base a predefiniti parametri da parte degli organizzatori. Il Museo e tutti gli eventi organizzati dalla Fondazione richiamano annualmente a Banari alcune migliaia di visitatori tra residenti e turisti. Giuseppe Carta: Il bicchiere rotto, 2003 Olio su tela cm. 55x80 Giuseppe Carta: Tovaglia metafisica, 2007 Olio su tela cm. 55x80 Giuseppe Carta: la magia della luce nell’antico palazzo dei fantasmi Ma Banari è anche la patria di un grande artista “di ritorno”: Giuseppe Carta, rientrato nel suo paese natale dopo un lungo periodo di emigrazione “in continente”, preso dalla nostalgia dei silenzi, degli aromi e della “luce” della natura. L’opera pittorica di Giuseppe Carta è sostenuta da una tecnica stupefacente: le sue nature morte colpiscono per la loro naturalezza e per lo straordinario “racconto” e le suggestioni che gli oggetti suscitano in chi li osserva. Schiere di bicchieri di Murano o da osteria, poggiati secondo un simulato disordine su preziosi merletti o su rozze tavole, o raccolti in caravaggeschi cesti animano le sue tele. Tavole imbandite, “nature morte” affollate di limoni, di cipolle, di zucche, di frutta e di ortaggi diversi acquistano una fisicità e una “consistenza” quasi palpabili come se li si vedesse per la prima volta nonostante facciano parte della nostra quotidianità. Una luce misteriosa si rifrange infinite volte e “gioca” tra le trasparenze dei suoi cristalli facendoli quasi “danzare” su sfondi inquietanti di tenebra e conferendo loro una particolare “musicalità” che guida inconsciamente l’occhio dello spettatore “all’ascolto dei suoni”. Questa sorta di magia nasce forse dalle pregresse esperienze di musicista di Giuseppe Carta, maestro di pianoforte che dipinge ascoltando in cuffia le sinfonie di Mozart, creando così quella misteriosa “luce musicale” che pervade le sue tele e che crea immediati echi sonori nell’orecchio del visitatore con un affascinante effetto sinestesico tra suono e luce, tra musica e colore. I suoi ritratti di alcuni famosi personaggi sono di un realismo impressionante: più che immagini sono veri e propri “ritratti dell’anima”, come quello di Andrea Bocelli, con il quale collabora da tre anni per le scenografie del suo “Teatro del Silenzio” di Lajatico in provincia di Pisa, e soprattutto di Mario Draghi attuale presidente della BCE, che oggi fa parte della quadreria della Banca d’Italia di cui è stato Governatore per parecchi anni. Oltre che pittore Carta è anche un eccellente scultore in marmo e in bronzo: le sue grandiose “germinazioni” (ciliege, mele, pere, melograni) in bronzo colorato hanno un metafisico significato erotico che impressionò, e quasi “eccitò” lo stesso Vittorio Sgarbi che quando le vide per la prima volta le abbracciò letteralmente. Carta ha esposto in importantissime gallerie e rassegne d’arte in diversi Stati europei, negli USA, in Australia, alla Biennale di Venezia ed è reduce da due grandiose mostre in Cina, una a Chengdu e una a Chongqing, di cui ha dipinto il nuovo logo che verrà ufficialmente presentato il 21 luglio prossimo presso il padiglione della Cina all’EXPO di Milano. In seguito al grandioso successo delle sue mostre in Cina, il Governo cinese ha chiesto al Maestro Carta l’istituzione di una “Scuola di Pittura” per insegnare il “metodo Carta” ad alcuni allievi cinesi aspiranti pittori, che verranno a Banari a partire da metà luglio prossimo per turni di 15 allievi per volta per due Giuseppe Carta: Equilibri precari su tavolo tondo, Olio su tela, cm. 100x70 Giuseppe Carta: Cipolla danzante, 1998, Olio su tela, cm. 75,5x 55,5 settimane! Ora alcune delle opere più significative di Carta fanno parte integrante della sua “Casa d’Artista” presso il trecentesco, rude e granitico “Palazzo Tonca”, dove giocavamo da bambini di giorno, ma che evitavamo alla sera perché, si diceva, fosse abitato da fantasmi che sembravano cantare una lugubre e sinistra nenia per via della “tonca”, la civetta che nidifica qui intorno. Ora “Palazzo Tonca” può considerarsi a buon diritto uno dei più bei palazzi d’arte della Sardegna, abitato non più da sinistri uccelli notturni, considerati però nell’antica Grecia sacri ad Atena dea della sapienza, ma dalle “magie dell’anima” di Giuseppe Carta, che con la sua arte collega e reinterpreta le forme della memoria rendendole patrimonio collettivo della comunità su cui egli stesso affonda le sue radici. Una notte nel Logudoro Un silenzio profondo e quasi irreale avvolge la mia ultima notte banarese: non resisto alla nostalgia di rivedere l’incredibile tetto di stelle che qui in Logudoro sembrano più numerose e splendenti che altrove e che da bambino contemplavo nelle notti d’estate, seduto accanto a mia nonna e a mia mamma a “prendere il fresco”, come si diceva allora, e a commentare con i vicini le notizie, gli eventi e le vicende semplici della comunità. Stasera non c’è più gente sugli usci a parlare, a dialogare: ognuno è rinchiuso nella propria casa forse incollato alla TV nazionalpopolare. Non si va più a prendere nelle brocche di terracotta l’acqua freschissima che sgorgava dai mascheroni marmorei leonini dell’antica “funtana ‘e josso”, dove ci si recava per “prendere il balsamo” immergendo i piedi nell’acqua (in ricordo forse del Battesimo di Gesù) la sera della vigilia di San Giovanni il 23 giugno, prima di accendere i falò notturni per le vie del paese, che poi si “saltavano”, intrecciando le mani, insieme agli amici e alle amiche più cari: si diventava così “compari” e “comari” per tutta la vita! Non riecheggiano più le stupende melodie che un gruppetto di quattro cantori cantavano “a cuncordu” a mezza voce “Sos Tres Res” la notte della vigilia dell’Epifania agli angoli delle strade silenziose. Oggi molte delle nuove generazioni sarde, accanto alla crisi demografica, stanno perdendo forse un po’ anche il senso di comunità, il senso dello stare, vivere, gioire, operare, pensare, decidere insieme del proprio presente, progettando il proprio futuro riappropriandosi del patrimonio culturale immateriale ereditato dai propri avi! Mi incammino sulla strada che conduce a Siligo, il paese di origine del Presidente Francesco Cossiga che a Banari iniziò la sua carriera politica (me lo dichiarò nel corso di un’intervista che gli feci nel 1997, quando fu ospite d’onore all’evento “Banari Arte” organizzato dal Maestro Giuseppe Carta) tenendo il suo primo comizio all’epoca del referendum del 2 giugno del 1946 tra Monarchia e Repubblica. “Io essendo un repubblicano convinto – dichiarò – mi schierai a favore della Repubblica, ma a Banari vinse la Monarchia: fu la mia prima sconfitta elettorale”. Ora non si discute più di questi temi ma di questioni ben più attuali e gravi: della disoccupazione giovanile soprattutto, che qui ha raggiunto livelli (circa il 50%!) indegni di un paese civile, della crisi della pastorizia e dell’agricoltura, dell’industria che qui in Sardegna ha prodotto più guai che vantaggi, del turismo che non è riuscito a dare certezze di lavoro e occupazione stabili ma al massimo impieghi stagionali di terz’ordine. E qui in Logudoro il turismo è “merce” quasi sconosciuta: anche i gruppi itineranti in pullman si fermano soltanto per una sosta al Nuraghe Santu Antine e alla Basilica di Saccargia: troppo poco per implementare e gestire con successo un’impresa turistico-ricettiva! Giuseppe Carta mentre prepara i calchi per le sue grandi sculture in bronzo: le “germinazioni” E allora si parla di indipendentismo, di “Sardigna Nazione”: "una nazione mancata", come la definì un sardo doc come Emilio Lussu! Sarebbe forse più opportuna invece una sorta di sana ribellione morale non violenta, soprattutto da parte dei giovani, nei confronti di una classe politica che alle promesse elettorali non riesce a dar seguito, forse per impotenza e anche inadeguatezza, ma soprattutto per mancanza di utopiche visioni ideali di medio-lungo periodo da raggiungere: “costruire” luoghi e comunità dove la gente “viva bene”, attraverso interventi e decisioni concrete in termini di politiche agricole, infrastrutturali, logistiche, turistiche e soprattutto “culturali”. Non per una sterile cultura accademica, ma per quella che nel 1871 il grande antropologo inglese Edward Burnett Tylor definì come “quell'insieme complesso che include il sapere, le credenze, l‘arte, la morale, il diritto, il costume, e ogni altra competenza e abitudine acquisita dall'uomo in quanto membro della società”. Passo accanto al cimitero e le “voci del “fanciullino” di Pascoliana memoria si fanno quasi percepibili per la folla di ricordi che si accavallano: il concerto dei grilli sembrano sussurri dei tanti parenti e amici che qui riposano. Sono però scomparsi i fantasmi di orride figure quasi mitologiche (“Traigolzu”, “Trampullina”, “Sa Mama ‘e su Sole”) che soprattutto i nostri nonni ci rievocavano da bambini per farci stare buoni. Inconsciamente però il mio sguardo è attratto dalla volta celeste e mi vengono in mente i versi stupendi (spero che la mia traduzione riesca a renderne tutta le bellezza!) del mio amico poeta banarese Gino Porcheddu, vincitore di una messe di premi a tutti i concorsi di poesia sarda: “Quando il giorno esala il suo respiro/ Mille e mille luminose stelle/ Trapuntano l’arco del cielo nero/ E con l’oscurità mi regala/ La voce arcana di mute parole (…). Cosa vedere a Banari - Museo di Arte Contemporanea della “Fondazione Logudoro Meilogu - FLM” e “Palazzo Tonca” del Maestro Giuseppe Carta in Via Marongiu, n. 30, ingresso da Via Sassari – Tel (+39) 079 826.199 – www.fondazionelogudoro.com - Segnalo che entrambi sono chiusi per tutto il mese di maggio per lavori - Santuario della Madonna di Cea e “sos sette coroneddos”: si trovano a circa 4 km da Banari sulla strada per Ittiri. Non ci sono però guide a disposizione per cui occorre organizzarsi individualmente Cosa vedere nei dintorni: Consiglio un piccolo tour in auto del Logudoro/Meilogu con base a Banari, da suddividere in almeno due giorni e che comprenda necessariamente queste tappe e relative visite: - Ad Ardara: la Basilica romanica di Santa Maria del Regno del XIII secolo con all’interna la più imponente opera d’arte conservata in Sardegna: il cosiddetto “Retablo Maggiore” - Presso Bonorva: la necropoli ipogeica di Sant'Andria Priu - A Borutta: la Basilica romanica di San Pietro di Sorres - Presso Codrongianos: la Basilica romanica della SS. Trinità di Saccargia - Presso Florinas: Reggia Nuragica di Santu Antine - Presso Mores: il dolmen “Sa Coveccada” - Presso Thiesi: la necropoli/domus de janas di “Mandra Antine” Dove dormire a Banari: - Bed & Breakfast S’asilo di Carmela Pes – Via Marongiu, 28 - Tel: (+39) 079 826232 Cell: (+39) 333 9489518 - Web: www.bbsasilo.com - Facebook.com/bbsasilo - Bed & Breakfast S’Athera domo di Paoletta Cabras – Via la Marmora, 39 - Tel. (+39) 079 826186 Cell: (+39) 333 1199418 – E-mail: [email protected] - Facebook.com/sathera.domo - Bed & Breakfast "Montiju" di Giovanni Pes – Via Marongiu, 5 - Tel: (+39) 079 826161 E-mail: [email protected] Dove mangiare a Banari - Ristorante Pizzeria “Sa Casara” di Mario Sini e Beatrice Maricosu – Specialità tipche sarde Tel. (+39) 335 8018629 - (+39) 349 8369893 - Facebook.com/sa.casara Per organizzare il Vs. viaggio/soggiorno a Banari: - M&M Viaggi di Gianfranco Manconi - Via Vittorio Emanuele n. 18 Tel. (+39) 079/827013 - 339/7655393 - 334/9555995 – E-mail: [email protected]