La questione del lavoro
come
risorsa umana di realizzazione.
Dopo K. Marx
La questione del lavoro
Molti segnali ci attestano, oggi,
che il lavoro con la sua divisione
da fonte della ricchezza delle nazioni,
come Adam Smith* l'aveva scoperto,
è diventato portatore di problematicità
e non solo economica ma addirittura umana.
*Il lavoro in Adam Smith
La ricchezza delle nazioni (An Inquiry into the Nature and Causes of the
Wealth of Nations), pubblicata il 9 marzo 1776, è la principale opera di Adam
Smith, ritenuto il fondatore dell'economia politica liberale.
L'opera è contestualizzata storicamente nel periodo che precede la Guerra
d'Indipendenza americana (1779). Venne pubblicata nel 1776, l'anno della
Dichiarazione d'Indipendenza americana.
Il monopolio dell'industria manufatturiera inglese fu una delle cause scatenanti
il conflitto con l'Inghilterra che non voleva la nascita di un'industria sul suolo
americano. A. Smith assunse una posizione contraria all'intervento statale,
perchè l'affermazione del laissez-faire nel caso americano avrebbe significato il
mantenimento delle importazioni dalla madrepatria inglese. Proprio a tale
politica economica la teoria smithiana forniva un fondamento teorico.
In quest'opera comparve la metafora della mano invisibile, tanto cara agli
ideologi del liberismo economico.
*Il lavoro in Adam Smith
La Ricchezza delle nazioni consta di 5 Libri:
nel Libro Primo, Delle cause del progresso nelle capacità produttive del lavoro e
dell'ordine secondo cui il prodotto viene naturalmente a distribuirsi tra i diversi
ceti della popolazione, vengono trattati gli effetti della divisione del lavoro ed è
esposta in dettaglio la teoria smithiana del valore e della distribuzione del reddito;
nel Libro Secondo, Della natura, dell'accumulazione e dell'impiego dei fondi,
viene affrontato il ruolo svolto dalla moneta e la teoria dell'accumulazione del
capitale;
il Libro Terzo, Del diverso progresso della prosperità nelle diverse nazioni,
contiene un'esposizione critica della storia economica dalla caduta dell'impero
romano;
il Libro Quarto, Dei sistemi di economia politica, è un piccolo trattato di storia del
pensiero economico e contiene la critica radicale della dottrina mercantilistica e
fisiocratica;
il Libro Quinto, Del reddito del sovrano e della repubblica, analizza il ruolo dello
Stato e delle finanze statali nello sviluppo economico.
*Il lavoro in Adam Smith
Smith individua nel lavoro svolto
«il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e
comode della vita».
Tuttavia, nota Smith, la quantità della produzione sarà il risultato di due cause
distinte:
 «l'arte, la destrezza e l'intelligenza con cui vi si esercita il lavoro», che sono le
determinanti della capacità produttiva dello stesso;
 il rapporto tra coloro che sono impiegati in lavori produttivi e coloro che non lo
sono, quelli che Smith chiama lavoratori improduttivi.
In Smith la ricchezza di una nazione non deriva quindi dalla quantità di risorse
naturali o metalli preziosi di cui essa può disporre, come ritenevano i mercantilisti,
né è generata solo dalla terra, l'unica risorsa capace di produrre un sovrappiù per i
fisiocratici, ma dal lavoro produttivo in essa svolto e dalla capacità produttiva di
tale lavoro.
*Il lavoro in Adam Smith
Nel Capitolo I Smith passa all'individuazione dei fattori che influiscono su
tale produttività. A tale proposito afferma:
« La causa del progresso nelle capacità produttive del lavoro, nonché della
maggior parte dell'arte, destrezza e intelligenza con cui il lavoro viene
svolto e diretto, sembra sia stata la divisione del lavoro »
(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili
Economici Newton, Roma, 1995, pp. 66)
*Il lavoro in Adam Smith
Nelle società moderne, in cui la divisione del lavoro si è pienamente
affermata, la maggior parte delle cose di cui un uomo ha bisogno le trae dal
lavoro di altri.
« [Un uomo] sarà ricco o povero secondo la quantità di lavoro che può
comandare, ovvero che può permettersi di comprare. Il valore di una
merce...è quindi uguale alla quantità di lavoro che essa...mette in grado di
comandare. Il lavoro è dunque la misura reale del valore di scambio di tutte
le merci. »
(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili
Economici Newton, Roma, 1995, pp. 82)
* Il lavoro in A. Smith
Il salario
«Il prodotto del lavoro costituisce la ricompensa naturale, o
salario, del lavoro. »
Sia il profitto che la rendita sono «deduzioni del prodotto del lavoro».
In seguito all'accumulazione dei fondi e alla proprietà privata sulla terra,
che sostituisce la «situazione originaria...in cui tutto il prodotto del
lavoro appartiene al lavoratore»,
« in tutte le arti e le manifatture, la maggioranza degli operai ha
bisogno di un padrone che anticipi i materiali del lavoro, i salari e il
mantenimento, finché il lavoro non sia portato a termine. Questi ha una
quota sul prodotto del loro lavoro, ossia sul valore che il lavoro
aggiunge ai materiali su cui si esercita; in questa quota consiste il suo
profitto».
(La Ricchezza delle Nazioni, cit., pp. 107-108)
* Il lavoro in A. Smith
La ripartizione della quota spettante al lavoratore e di quella spettante al
proprietario dei fondi è dunque tendenzialmente conflittuale. Entrambi
tendono a coalizzarsi per aumentare la loro quota, ma Smith lucidamente a
tale proposito osserva:
«Non è comunque difficile prevedere quale delle due parti in una
situazione normale prevarrà nella contesa...I padroni, essendo in numero
minore, possono coalizzarsi più facilmente; e la legge, del resto, autorizza o
almeno non proibisce le loro coalizioni, mentre proibisce quelle degli
operai...[Inoltre] in tutte queste contese i padroni possono resistere più a
lungo...Nel lungo periodo l'operaio può essere tanto necessario al padrone
quanto il padrone all'operaio, ma la necessità non è altrettanto immediata»
(La Ricchezza delle Nazioni, cit., pp. 109).
Il limite minimo del salario è determinato da quel livello strettamente
necessario alla sussistenza del lavoratore e della sua famiglia.
Segnali di problematicità
antropologica del lavoro
I segnali di problematicità antropologica del lavoro si
susseguono. Nel XX secolo sono emersi:
- il workhaolism o sindrome da dipendenza da lavoro*
- il burn-out o sindrome dell'esaurimento affettivo,
specie nelle helping professions**
-il mobbing o pratica della marginalizzazione nel
lavoro*
* Cercare ulteriori notizie su internet!
**Cfr.: allegato:D. VERDUCCI, Ritrovare l’empatia perduta
Segnali di problematicità
antropologica del lavoro
- la generazione «né studio né lavoro» ovvero 700.000
giovani tra i 18 e i 35 anni che in Italia si sentono
vittime di una devastazione lavorativa, al pari dei
loro coetanei spagnoli, secondo i dati del Rapporto
Giovani 2008, elaborati dal Dip. Studi sociali e
demografici della Sapienza di Roma per conto del
ministro della Gioventù Giorgia Meloni e pubblicati
dal Corriere della sera.*
- l'uomo flessibile di R. Sennett, il cui carattere si
destabilizza a causa della instabilità del lavoro*
* Cercare ulteriori notizie su internet!
K. Marx (1818-1883)
Era stato K. Marx tra i primi a denunciare
sia
ne Il Capitale* che nei Manoscritti
economico-filosofici del 1844**
i rischi di depauperamento dell'umano
connessi con il lavoro
nella sua organizzazione capitalistica,
generatrice di alienazione (Enteusserung).
*Il Capitale
Il Capitale (Das Kapital) è l'opera maggiore di Karl Marx ed è
considerata il testo-chiave del marxismo.
Il Libro I, Critica dell'economia politica, fu pubblicato quando
l’autore era ancora in vita (1867), mentre gli altri uscirono
postumi.
Il Libro II ed il III uscirono a cura di Friedrich Engels
rispettivamente nel 1885 e nel 1894.
Il Libro IV venne pubblicato (1905-1910) da Karl Kautsky con il
titolo di Teorie del plusvalore.
**I Manoscritti economico-filosofici
del 1844
Si tratta di fogli di appunti su questioni economiche e filosofiche
che Marx scrisse mentre si trovava a Parigi, fra la primavera e
l'estate del 1844.
Egli vi affronta impegnativi temi economici, quali «il salario», il
«profitto» del capitale, la «rendita fondiaria», il «lavoro alienato»,
la «proprietà privata e il lavoro», la «proprietà privata e il
comunismo».
Alla fine c'è poi una «critica della dialettica e della filosofia
hegeliana in generale», che si ricollega alla Critica dell'anno
precedente.
Vi è però anche evidente l'eredità del materialista L. Feuerbach, che
aveva rivalutato l' «uomo reale, corporeo, che sta sulla ferma e
solida terra», di contro all'idealista Hegel, per il quale «l'uomo è
uguale ad autocoscienza».
I Manoscritti economico-filosofici
del 1844
Di questa mole di appunti sono conservati tre manoscritti,
pubblicati per la prima volta nel 1932.
In essi Marx si appoggia a minuziosi appunti che aveva tratto
dalle opere degli economisti letti, opere che ora sottopone a
critica utilizzando la nozione filosofica di «estraneazione»
(Entfremdung/Enteusserung), presa nel senso che le aveva
dato L. Feuerbach e combinata con indicazioni di Moses
Hess..
Ludwig Feuerbach (1804-1872)
Feuerbach nel celebre libro del 1841,
L'essenza del Cristianesimo, aveva descritto la
dinamica di estraneazione antropologica che
presiede alla formulazione dell'idea di Dio,
come un trasferimento su quest'ente
immaginario, che l'uomo compie, di tutte le
qualità sue proprie nel massimo grado,
alienandole da sé.
Moses Hess (1812-1875)
In un saggio, Sul denaro, destinato agli Annali
franco-tedeschi e mai pubblicato per la
chiusura della rivista, Hess affermò che nella
moderna società industriale c'era una fonte di
alienazione antropologica ben maggiore di
quella rappresentata dalle idee religiose: nel
regime capitalistico l'uomo aliena se stesso
nella ricchezza, che sotto forma di denaro, gli
si erge di fronte come un'entità estranea,
sostanzialmente ostile perchè non riesce a
controllarla.
Liberare il lavoro con la rivoluzione
Per uscire dalla condizione di alienazione, indotta dal
lavoro nella sua organizzazione capitalistica, Marx
proponeva una rivoluzione socio-economica.
Egli riteneva che solo modificando l'assetto
capitalistico della società, si sarebbe potuto liberare
il lavoro dall'alienazione, facendolo ritornare ad
essere integrale espressione e mezzo insostituibile
della capacità umana di produrre liberamente la
propria vita.
Un dubbio
A quasi due secoli dall' ipotesi marxiana di
liberazione rivoluzionaria del lavoro,
ancora attendiamo l'aprirsi di una via d'uscita
nell'orizzonte socio-economico
e ci sentiamo anzi paralizzati dall'unilateralità
dell'aspettativa di una soluzione oggettiva al problema
dell'alienazione del lavoro.
Un dubbio ci sfiora:
e se ci fosse una via soggettiva da percorrere ,
sfuggita a Marx, mentre ci adoperiamo alla
trasformazione strutturale del mondo?
Un tentativo
Non ci resta che andare a rivisitare
direttamente la teoria del “lavoro liberato”,
sviluppata da Marx nei Manoscritti economicofilosofici, preparatori delle analisi economiche
de Il Capitale,
per verificare se egli non sia stato troppo
frettoloso nel considerare tutte le risorse
soggettive oggettivate nel lavoro e,
nell'assetto capitalistico, definitivamente
fagocitate dal capitale.
Manoscritti economico-filosofici del
1844
Lettura e commento dal Ms. I,
§§ XXII, XXIII, XXIV, XXV
(K. Marx, Oekonomisch-philosophische
Manuskripte aus dem Jahre 1844,
in: MEW, Erg. 1, pp. 511-520;
tr. it. in: A. Negri, Filosofia del lavoro. Storia
antologica, vol. IV, Marzorati, Milano 1985,
pp. 990-998).
Il lavoro estraniato (1)
Dice Marx:
«Noi partiamo da un fatto presente e non ci trasportiamo
come fa l'economista quando vuole dare una spiegazione
in una condizione originaria soltanto immaginata.
Il fatto presente è che
«il lavoratore diventa tanto più povero quanta più
ricchezza produce, quanto più la sua produzione aumenta
in potenza e in volume»
(Ms. 1, § XXII, tr. it., p. 990).
Il lavoro estraniato (2)
Nella normalità lavorativa, continua Marx,
«il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un
oggetto, che si è materializzato, è l'oggettivazione del
lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua
oggettivazione»
Ma,
«questa realizzazione del lavoro nelle condizioni
dell'economia politica [a regime capitalistico] si manifesta
come perdita di realtà del lavoratore, l'oggettivazione
come perdita e schiavitù dell'oggetto, l'appropriazione
come estraneazione, come alienazione» (Ms. 1, § XXII, tr.
it. p. 991).
Il lavoro estraniato (3)
«L'appropriazione dell'oggetto si manifesta a tal
punto come estraneazione che, quanti più oggetti il
lavoratore produce tanto meno può possedere e tanto
più è preso sotto il dominio del suo prodotto: il
capitale»
Il lavoro estraniato (4)
Nella misura in cui,
come avviene nell'economia borghese capitalistica,
il lavoro è principalmente rivolto
ad accumulare un capitale/proprietà,
risulta bloccato
il ritorno sul soggetto lavoratore
del prodotto del lavoro.
Il lavoro estraniato (5)
Marx enfatizza tale difficoltà di ritorno soggettivo sul
lavoratore del prodotto del suo lavoro:
«è chiaro, su questo presupposto [=il dato di fatto che
l'operaio si rapporta al prodotto del proprio lavoro
come ad un oggetto estraneo], che quanto più il
lavoratore si svuota nel lavoro, tanto più potente
diventa il mondo estraneo, oggettivo, quello che egli
si crea di fronte, tanto più povero diventa lui stesso, il
suo mondo interiore, tanto meno egli ha di proprio»
(p. 991).
Il lavoro estraniato (6)
Marx generalizza il carattere alienante che
l'oggettivazione del lavoro assume nell'assetto
capitalistico dell'economia, estendendolo anche
all'oggettivazione religiosa:
«Proprio come nella religione. Quanto più l'uomo
pone in dio tanto meno mantiene in se stesso. Il
lavoratore mette la sua vita nell'oggetto; ma allora
essa non appartiene più a lui, bensì all'oggetto» (p.
991).
Il lavoro estraniato (7)
Così Marx conclude:
«Noi abbiamo certamente ricavato il concetto del lavoro estraniato
(della vita estraniata) dall'economia politica come risultato del
movimento della proprietà privata. Nell'analisi di questo concetto,
però si mostra che, se la proprietà privata appare come
fondamento e causa originaria del lavoro estraniato, essa è
piuttosto una conseguenza del medesimo, come pure gli dei,
originariamente, non sono la causa originaria, bensì l'effetto dello
smarrimento dell'intelletto dell'uomo. Successivamente questo
rapporto si rovescia in reciproco effetto di scambio. Soltanto
nell'ultimo punto culminante dello sviluppo della proprietà privata,
questa rivela nuovamente il suo segreto: che, cioè, essa, da una
parte è prodotto del lavoro alienato e, secondariamente, che essa è il
mezzo per il cui tramite il lavoro si aliena, la realizzazione di
questa alienazione» (p. 998).
Il lavoro estraniato (8)
Il risultato è che così l'alienazione del lavoro
nell'assetto capitalistico determina una
circolarità viziosa, dalla quale la soggettività
non sembra in grado di fuoriuscire con le sue
forze, essendosi privata/alienata della sua
intera vitalità.
La liberazione della soggettività deve perciò
giungere dall'esterno, da una trasformazione
dell'assetto oggettivo quale è la rivoluzione
Attendere la liberazione del lavoro
Ancor oggi un'idea marxiana di lavoro aleggia su di noi:
lavorare significa inevitabilmente alienarsi,
solo per pochi privilegiati
il lavoro è mezzo di auto-realizzazione!
Mentre attendiamo quel cambiamento strutturale,
profetizzato dalla scienza socio-economica marxiana,
continuiamo a lavorare.
Ma mentalmente curiamo
di arginare i presunti danni antropologici del lavoro,
“evadendo” il più possibile dal lavoro e
procurandoci così, con le nostre stesse mani, alienazione!
Un dubbio
Ma davvero il lavoro è così totalmente e
ineluttabilmente bloccato dal morto capitale,
nel benefico ritorno sulla soggettività del suo
prodotto, nel quale esso rende disponibile alla
soggettività ciò per cui questa l'aveva attivato?
Davvero la soggettività ha consegnato tutta
la sua vitalità al suo lavoro, privandosene
completamente?
Un dubbio verificato
Ma allora, come spiegare i sempre più
numerosi casi di “immigrazione felice”, che
documentano che ci si può esporre a dosi
massicce di alienazione di lavoro e per lungo
tempo e salvaguardare la propria umanità, fino
a realizzare il proprio progetto
di vita buona?
Un tentativo di risposta
Proprio per rispondere a una simile domanda,
Max Scheler, in un breve saggio del 1899,
Arbeit und Ethik/Lavoro ed etica,
ci offre l'opportunità di abbozzare un
esperimento mentale
(cfr.: tr. it. di D. Verducci, Città Nuova, Roma
1997, pp. 79-81) .
L'esperimento mentale di
Max Scheler
Si tratta di immaginare il caso in cui uno solo
lavora ad un solo prodotto e di metterne a
fuoco il vissuto, in modo da evidenziare
l'essenza del lavoro umano.
L'esperimento mentale da Max Scheler
FASE I:
Quando un artigiano si trova davanti a un pezzo di legno
grezzo, in primo luogo emerge in lui la domanda su che
cosa farne.
Si attivano cioè i processi “morali” con i quali egli
avverte in ciò che è, la sporgenza di ciò che ha da essere e
non è ancora, lo determina, applicando la riflessione al
contenuto del sentire assiologico (=se ne fa un'idea/scopo)
e lo porge all'intenzionalità volontativa, che lo
interiorizza, ponendoselo come scopo nel volere-del-fare.
L'esperimento mentale di Max Scheler
FASE II:
In secondo luogo, una volta che disponga dello scopo
da realizzare o volere-del-fare, la volontà si volge al
voler-fare e comanda alle membra di muoversi in
conformità a ciò che la realizzazione dello scopo
richiede: così la volontà attiva il processo esecutivo
dello scopo, che dà luogo al prodotto nella realtà
extramentale o comunque oggettiva.
L'esperimento mentale di Max Scheler
Dalla descrizione fenomenologica del lavoro,
emerge che,
1) c'è una marcata distinzione tra le due principali fasi
lavorative, la fase ideativo-finalizzatrice e quella
realizzativo-esecutiva ovvero il lavoro è intrinsecamente
«divisione del lavoro» (Arbeitsteilung),
2) in linea di principio, non v'è esclusione tra la
dimensione morale/finalizzatrice della persona umana
che, ponendosi uno scopo da realizzare, dà avvio al lavoro
e lo dirige e quella esecutiva degli automatismi psico-fisici
del vivente umano, per mezzo dei quali, nella seconda fase
del lavoro, gli scopi progettati soggettivamente giungono a
realizzazione in prodotti oggettivati.
L'esperimento mentale di Max Scheler
Certamente,
il
soggetto
ha
dovuto
sperimentare
l'insoddisfazione per la situazione di possesso solo ideale dello scopo.
Ha dovuto inoltre misurarsi con la resistenza che al suo
progetto opponevano gli automatismi fisici e vitali.
Ha provato dispiacere e fatica.
Ma il risultato di tutto ciò, in una condizione di integralità
lavorativa, non è solo l'estraneazione/alienazione, per la quale pure si
passa necessariamente, dovendo andare dal piano soggettivo-ideale a
quello oggettivo-reale,
quanto l'attraversamento-dell'alienazione, il venirne-a-capo,
per un ritorno del prodotto elaborato sulla soggettività, che la soddisfa
e la incrementa, rendendole disponibile ciò che non lo era, ma di cui
essa avvertiva l'esigenza e per la quale ha lavorato.
L'esperimento mentale di Max Scheler
Anzi, il lavoro, nella sua completezza procedurale di
finalizzazione ed esecuzione, vi si manifesta quale
dispositivo di cui l'uomo è naturalmente dotato per
vivere umanamente, posto che egli viene al mondo
svincolato dall'istintualità e «aperto al mondo», cioè
incapace di un'immediata fruibilità della natura,
compresa la sua, come documentano le ricerche di
antropologia filosofica e scientifica (M. Scheler, H.
Plessner, A. Gehlen, L. Bolk, A. Portmann)
Patologia del lavoro
E' vero tuttavia che il lavoro umano,
oggi, nel mondo occidentale,
non risulta più in grado di riconsegnare
al soggetto, che l'ha attivato e diretto,
i risultati poietici conseguiti.
Una grave patologia sembra averlo colpito,
simile a quella diagnosticata da Marx.
Patologia del lavoro
Secondo il Marx dei Manoscritti e delCapitale,
la viva referenzialità di uomo e natura,
intessuta dal lavoro,
sarebbe stata uccisa
dal morto capitale, che vi si è interposto.
Patologia del lavoro
Anche secondo Hanna Arendt:
«dal punto di vista della natura è piuttosto
l'opera del lavoro che è distruttiva, perchè il
processo dell'operare sottrae materia alla natura
senza restituirgliela, come avviene nel rapido
corso del metabolismo naturale del corpo
vivente».
Patologia del lavoro
E' certamente vero che la forma che il lavoro
umano ha assunto nel mondo contemporaneo,
ha enfatizzato la fase esecutiva a scapito di quella
finalizzatrice, demandata sempre più, già prima
dell'avvento
del
fordismo-taylorismo,
all'
organizzazione anonima, tecnica, sociale e di
mercato, perchè più adeguata a padroneggiare i
numerosi fattori in gioco.
Patologia del lavoro
Sembra di conseguenza che ai soggetti lavoratori
non resti davvero che eseguire ciò che la morta
organizzazione stabilisce in vista del conseguimento
della maggiore utilità economica generale,
ma a danno del ritorno sul soggetto individuale e
sociale del prodotto del lavoro e con esso della stessa
forma di vita lavorativa, che perde così ogni carattere
di vita umana, riducendosi ad automatismo naturale,
spesso vissuto anche compulsivamente.
Apertura dell'orizzonte
Dalla fenomenologia del lavoro si apre un
punto di fuga in quest'orizzonte che, finchè vi
intervengono entità “morte” (capitale,
organizzazione), sembra definitivamente
chiuso, come Marx aveva affermato.
Apertura d’orizzonte
Si è visto infatti che la fase esecutiva del lavoro,
quella che dipende dal fine “tecnico” che la
volontà ordina alle membra di eseguire e
l’organizzazione impone ai lavoratori,
subentra solo ad un certo punto della prassi di
finalizzazione, che si era avviata a partire
dall’avvertire assiologico di qualcosa che aveva –
da-essere, di un’esigenza/bisogno/desiderio da
soddisfare.
Apertura d’orizzonte
Dunque, l’assunzione da parte dell’
organizzazione della finalità tecnica da
eseguire, non esaurisce il campo dell’umana
capacità morale/di finalizzazione, che anzi
viene più fortemente investita della
responsabilità di riguadagnare ai propri
progetti di vita, il segmento lavorativo
sottoposto all’organizzazione per motivi di
efficienza.
Apertura d’orizzonte
Ciò significa che il lavoro dell’uomo non può
propriamente consistere o assestarsi nella sua sola
fase oggettivo-esecutiva.
Infatti, per lavorare, il lavoratore deve disporre di un
certo “sapere dello scopo” del suo lavoro e
volerlo, almeno per quel minimo che gli consente
di muovere opportunamente le membra, come nel
caso delle azioni miste, volontarie e involontarie
insieme, documentate da Aristotele*.
*Le azioni miste secondo Aristotele
«Quando si gettano fuori bordo i propri averi durante le tempeste [è
discutibile se siano azioni volontarie o involontarie], giacchè in
generale nessuno butta via volontariamente, ma chiunque abbia
senno lo fa per salvare se stesso e tutti gli altri. Simili azioni sono
dunque miste, ma assomigliano di più a quelle volontarie, giacchè
sono fatte oggetto di scelta nel momento determinato in cui sono
compiute e il fine dell'azione dipende dalle circostanze […] In
questo caso si agisce volontariamente, giacchè il principio che
muove come strumenti le parti del corpo in simili azioni è
nell'uomo stesso: e le cose di cui ha in se stesso il principio,
dipende da lui farle o non farle. Tali azioni sono dunque
volontarie, anche se in assoluto sono involontarie, giacchè
nessuno sceglierebbe nessuna delle azioni di tal genere per se
stessa» (Aristotele, Etica Nicomachea, III, 1, 1110a 8-20).
Apertura d’orizzonte
Ed è qui, nel personale e intimo momento motivazionale
posto al suo effettivo avvio, che il lavoro, anche quello più
parcellizzato e rigidamente organizzato, in quanto è
dell’uomo, si mostra profondamente e inalienabilmente
integrato nel contesto etico-ontologico soggettivo.
Ciò non sottrae l’attività del lavoratore alla completa
immersione nella dinamica esecutiva oggettivata e
oggettivante, ma consente di riscattare quella fase di
inevitabile alienazione tecnica, con la ricomprensione
dell’interezza dell’attività lavorativa (fase1+fase2)
nell’ambito del personale piano morale di vita, che il
lavoratore intende perseguire.
Apertura d’orizzonte
Si tratta quindi di riprendere individualmente consapevolezza
della possibilità che si profila, di conseguire un riequilibrio
antropologico,
operando
un
personale
superintenzionamento etico del lavorare sociale organizzato.
Ciò non va ovviamente confuso con l’adesione alla mission
aziendale o con il boicottaggio di essa, perché al contrario
svolge la funzione di innestare proprio la finalizzazione
tecnica e di utilità del lavoro, nell’ambito del personale
progetto di vita di ciascun lavoratore, e di promuovere con
successo l’attraversamento dell’alienazione e il ritorno al
soggetto, come realizzato, dello scopo “morale” che
l’aveva motivato a lavorare allo scopo tecnico impostogli
dall’organizzazione.
Apertura d’orizzonte
L’osservazione fenomenologica
ci ha così evidenziato che il lavoro umano,
nella sua stessa natura di fare diviso,
mantiene aperte per l'umano,
pur nella condizione “capitalistica” dell'economia,
vie d’uscita dall'alienazione.
Apertura d'orizzonte
Infatti, nella misura in cui nega immediatezza
all’esecuzione produttiva e la sottopone tanto alla
finalizzazione tecnica quanto alla prassi etica di
finalizzazione, il lavoro dell’uomo si mostra, rispetto
al lavoro in fisica o in economia, come un pluslavoro come alcuni socialisti non scientifici, quali
Pierre Joseph Proudhon e Charles Peguy, avevano
segnalato.
Il lavoro secondo Peguy
Un tempo gli operai non erano servi.
Lavoravano.
Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore.
La gamba di una sedia doveva essere ben fatta.
Era naturale, era inteso. Era un primato.
Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in
modo proporzionale al salario.
Non doveva essere ben fatta per il padrone,
né per gli intenditori, né per i clienti del padrone.
Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura.
Una tradizione venuta, risalita da profondo della razza,
una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia
fosse ben fatta.
E ogni parte della sedia fosse ben fatta.
E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con
la medesima perfezione delle parti che si vedevano.
Secondo lo stesso principio delle cattedrali.
E sono solo io — io ormai così imbastardito — a farla adesso tanto lunga.
Per loro, in loro non c’era neppure l’ombra di una riflessione.
Il lavoro stava là. Si lavorava bene.
Non si trattava di essere visti o di non essere visti.
Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto.
Apertura d'orizzonte
Il lavoro umano si rivela così
portatore di un surplus-di-valore,
che è in grado di porre a servizio della vita buona
la sua valenza di produzione materiale,
cosicchè
sempre si possa vivere-lavorando-per-ben-vivere
e mai ci si riduca
a lavorare-per-sopravvivere o a vivere-per-lavorare,
neppure quando è realmente così.
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FDL_2010-11_Mod. III_PP