La questione del lavoro come risorsa umana di realizzazione. Dopo K. Marx La questione del lavoro Molti segnali ci attestano, oggi, che il lavoro con la sua divisione da fonte della ricchezza delle nazioni, come Adam Smith* l'aveva scoperto, è diventato portatore di problematicità e non solo economica ma addirittura umana. *Il lavoro in Adam Smith La ricchezza delle nazioni (An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations), pubblicata il 9 marzo 1776, è la principale opera di Adam Smith, ritenuto il fondatore dell'economia politica liberale. L'opera è contestualizzata storicamente nel periodo che precede la Guerra d'Indipendenza americana (1779). Venne pubblicata nel 1776, l'anno della Dichiarazione d'Indipendenza americana. Il monopolio dell'industria manufatturiera inglese fu una delle cause scatenanti il conflitto con l'Inghilterra che non voleva la nascita di un'industria sul suolo americano. A. Smith assunse una posizione contraria all'intervento statale, perchè l'affermazione del laissez-faire nel caso americano avrebbe significato il mantenimento delle importazioni dalla madrepatria inglese. Proprio a tale politica economica la teoria smithiana forniva un fondamento teorico. In quest'opera comparve la metafora della mano invisibile, tanto cara agli ideologi del liberismo economico. *Il lavoro in Adam Smith La Ricchezza delle nazioni consta di 5 Libri: nel Libro Primo, Delle cause del progresso nelle capacità produttive del lavoro e dell'ordine secondo cui il prodotto viene naturalmente a distribuirsi tra i diversi ceti della popolazione, vengono trattati gli effetti della divisione del lavoro ed è esposta in dettaglio la teoria smithiana del valore e della distribuzione del reddito; nel Libro Secondo, Della natura, dell'accumulazione e dell'impiego dei fondi, viene affrontato il ruolo svolto dalla moneta e la teoria dell'accumulazione del capitale; il Libro Terzo, Del diverso progresso della prosperità nelle diverse nazioni, contiene un'esposizione critica della storia economica dalla caduta dell'impero romano; il Libro Quarto, Dei sistemi di economia politica, è un piccolo trattato di storia del pensiero economico e contiene la critica radicale della dottrina mercantilistica e fisiocratica; il Libro Quinto, Del reddito del sovrano e della repubblica, analizza il ruolo dello Stato e delle finanze statali nello sviluppo economico. *Il lavoro in Adam Smith Smith individua nel lavoro svolto «il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita». Tuttavia, nota Smith, la quantità della produzione sarà il risultato di due cause distinte: «l'arte, la destrezza e l'intelligenza con cui vi si esercita il lavoro», che sono le determinanti della capacità produttiva dello stesso; il rapporto tra coloro che sono impiegati in lavori produttivi e coloro che non lo sono, quelli che Smith chiama lavoratori improduttivi. In Smith la ricchezza di una nazione non deriva quindi dalla quantità di risorse naturali o metalli preziosi di cui essa può disporre, come ritenevano i mercantilisti, né è generata solo dalla terra, l'unica risorsa capace di produrre un sovrappiù per i fisiocratici, ma dal lavoro produttivo in essa svolto e dalla capacità produttiva di tale lavoro. *Il lavoro in Adam Smith Nel Capitolo I Smith passa all'individuazione dei fattori che influiscono su tale produttività. A tale proposito afferma: « La causa del progresso nelle capacità produttive del lavoro, nonché della maggior parte dell'arte, destrezza e intelligenza con cui il lavoro viene svolto e diretto, sembra sia stata la divisione del lavoro » (La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 66) *Il lavoro in Adam Smith Nelle società moderne, in cui la divisione del lavoro si è pienamente affermata, la maggior parte delle cose di cui un uomo ha bisogno le trae dal lavoro di altri. « [Un uomo] sarà ricco o povero secondo la quantità di lavoro che può comandare, ovvero che può permettersi di comprare. Il valore di una merce...è quindi uguale alla quantità di lavoro che essa...mette in grado di comandare. Il lavoro è dunque la misura reale del valore di scambio di tutte le merci. » (La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 82) * Il lavoro in A. Smith Il salario «Il prodotto del lavoro costituisce la ricompensa naturale, o salario, del lavoro. » Sia il profitto che la rendita sono «deduzioni del prodotto del lavoro». In seguito all'accumulazione dei fondi e alla proprietà privata sulla terra, che sostituisce la «situazione originaria...in cui tutto il prodotto del lavoro appartiene al lavoratore», « in tutte le arti e le manifatture, la maggioranza degli operai ha bisogno di un padrone che anticipi i materiali del lavoro, i salari e il mantenimento, finché il lavoro non sia portato a termine. Questi ha una quota sul prodotto del loro lavoro, ossia sul valore che il lavoro aggiunge ai materiali su cui si esercita; in questa quota consiste il suo profitto». (La Ricchezza delle Nazioni, cit., pp. 107-108) * Il lavoro in A. Smith La ripartizione della quota spettante al lavoratore e di quella spettante al proprietario dei fondi è dunque tendenzialmente conflittuale. Entrambi tendono a coalizzarsi per aumentare la loro quota, ma Smith lucidamente a tale proposito osserva: «Non è comunque difficile prevedere quale delle due parti in una situazione normale prevarrà nella contesa...I padroni, essendo in numero minore, possono coalizzarsi più facilmente; e la legge, del resto, autorizza o almeno non proibisce le loro coalizioni, mentre proibisce quelle degli operai...[Inoltre] in tutte queste contese i padroni possono resistere più a lungo...Nel lungo periodo l'operaio può essere tanto necessario al padrone quanto il padrone all'operaio, ma la necessità non è altrettanto immediata» (La Ricchezza delle Nazioni, cit., pp. 109). Il limite minimo del salario è determinato da quel livello strettamente necessario alla sussistenza del lavoratore e della sua famiglia. Segnali di problematicità antropologica del lavoro I segnali di problematicità antropologica del lavoro si susseguono. Nel XX secolo sono emersi: - il workhaolism o sindrome da dipendenza da lavoro* - il burn-out o sindrome dell'esaurimento affettivo, specie nelle helping professions** -il mobbing o pratica della marginalizzazione nel lavoro* * Cercare ulteriori notizie su internet! **Cfr.: allegato:D. VERDUCCI, Ritrovare l’empatia perduta Segnali di problematicità antropologica del lavoro - la generazione «né studio né lavoro» ovvero 700.000 giovani tra i 18 e i 35 anni che in Italia si sentono vittime di una devastazione lavorativa, al pari dei loro coetanei spagnoli, secondo i dati del Rapporto Giovani 2008, elaborati dal Dip. Studi sociali e demografici della Sapienza di Roma per conto del ministro della Gioventù Giorgia Meloni e pubblicati dal Corriere della sera.* - l'uomo flessibile di R. Sennett, il cui carattere si destabilizza a causa della instabilità del lavoro* * Cercare ulteriori notizie su internet! K. Marx (1818-1883) Era stato K. Marx tra i primi a denunciare sia ne Il Capitale* che nei Manoscritti economico-filosofici del 1844** i rischi di depauperamento dell'umano connessi con il lavoro nella sua organizzazione capitalistica, generatrice di alienazione (Enteusserung). *Il Capitale Il Capitale (Das Kapital) è l'opera maggiore di Karl Marx ed è considerata il testo-chiave del marxismo. Il Libro I, Critica dell'economia politica, fu pubblicato quando l’autore era ancora in vita (1867), mentre gli altri uscirono postumi. Il Libro II ed il III uscirono a cura di Friedrich Engels rispettivamente nel 1885 e nel 1894. Il Libro IV venne pubblicato (1905-1910) da Karl Kautsky con il titolo di Teorie del plusvalore. **I Manoscritti economico-filosofici del 1844 Si tratta di fogli di appunti su questioni economiche e filosofiche che Marx scrisse mentre si trovava a Parigi, fra la primavera e l'estate del 1844. Egli vi affronta impegnativi temi economici, quali «il salario», il «profitto» del capitale, la «rendita fondiaria», il «lavoro alienato», la «proprietà privata e il lavoro», la «proprietà privata e il comunismo». Alla fine c'è poi una «critica della dialettica e della filosofia hegeliana in generale», che si ricollega alla Critica dell'anno precedente. Vi è però anche evidente l'eredità del materialista L. Feuerbach, che aveva rivalutato l' «uomo reale, corporeo, che sta sulla ferma e solida terra», di contro all'idealista Hegel, per il quale «l'uomo è uguale ad autocoscienza». I Manoscritti economico-filosofici del 1844 Di questa mole di appunti sono conservati tre manoscritti, pubblicati per la prima volta nel 1932. In essi Marx si appoggia a minuziosi appunti che aveva tratto dalle opere degli economisti letti, opere che ora sottopone a critica utilizzando la nozione filosofica di «estraneazione» (Entfremdung/Enteusserung), presa nel senso che le aveva dato L. Feuerbach e combinata con indicazioni di Moses Hess.. Ludwig Feuerbach (1804-1872) Feuerbach nel celebre libro del 1841, L'essenza del Cristianesimo, aveva descritto la dinamica di estraneazione antropologica che presiede alla formulazione dell'idea di Dio, come un trasferimento su quest'ente immaginario, che l'uomo compie, di tutte le qualità sue proprie nel massimo grado, alienandole da sé. Moses Hess (1812-1875) In un saggio, Sul denaro, destinato agli Annali franco-tedeschi e mai pubblicato per la chiusura della rivista, Hess affermò che nella moderna società industriale c'era una fonte di alienazione antropologica ben maggiore di quella rappresentata dalle idee religiose: nel regime capitalistico l'uomo aliena se stesso nella ricchezza, che sotto forma di denaro, gli si erge di fronte come un'entità estranea, sostanzialmente ostile perchè non riesce a controllarla. Liberare il lavoro con la rivoluzione Per uscire dalla condizione di alienazione, indotta dal lavoro nella sua organizzazione capitalistica, Marx proponeva una rivoluzione socio-economica. Egli riteneva che solo modificando l'assetto capitalistico della società, si sarebbe potuto liberare il lavoro dall'alienazione, facendolo ritornare ad essere integrale espressione e mezzo insostituibile della capacità umana di produrre liberamente la propria vita. Un dubbio A quasi due secoli dall' ipotesi marxiana di liberazione rivoluzionaria del lavoro, ancora attendiamo l'aprirsi di una via d'uscita nell'orizzonte socio-economico e ci sentiamo anzi paralizzati dall'unilateralità dell'aspettativa di una soluzione oggettiva al problema dell'alienazione del lavoro. Un dubbio ci sfiora: e se ci fosse una via soggettiva da percorrere , sfuggita a Marx, mentre ci adoperiamo alla trasformazione strutturale del mondo? Un tentativo Non ci resta che andare a rivisitare direttamente la teoria del “lavoro liberato”, sviluppata da Marx nei Manoscritti economicofilosofici, preparatori delle analisi economiche de Il Capitale, per verificare se egli non sia stato troppo frettoloso nel considerare tutte le risorse soggettive oggettivate nel lavoro e, nell'assetto capitalistico, definitivamente fagocitate dal capitale. Manoscritti economico-filosofici del 1844 Lettura e commento dal Ms. I, §§ XXII, XXIII, XXIV, XXV (K. Marx, Oekonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844, in: MEW, Erg. 1, pp. 511-520; tr. it. in: A. Negri, Filosofia del lavoro. Storia antologica, vol. IV, Marzorati, Milano 1985, pp. 990-998). Il lavoro estraniato (1) Dice Marx: «Noi partiamo da un fatto presente e non ci trasportiamo come fa l'economista quando vuole dare una spiegazione in una condizione originaria soltanto immaginata. Il fatto presente è che «il lavoratore diventa tanto più povero quanta più ricchezza produce, quanto più la sua produzione aumenta in potenza e in volume» (Ms. 1, § XXII, tr. it., p. 990). Il lavoro estraniato (2) Nella normalità lavorativa, continua Marx, «il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, che si è materializzato, è l'oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione» Ma, «questa realizzazione del lavoro nelle condizioni dell'economia politica [a regime capitalistico] si manifesta come perdita di realtà del lavoratore, l'oggettivazione come perdita e schiavitù dell'oggetto, l'appropriazione come estraneazione, come alienazione» (Ms. 1, § XXII, tr. it. p. 991). Il lavoro estraniato (3) «L'appropriazione dell'oggetto si manifesta a tal punto come estraneazione che, quanti più oggetti il lavoratore produce tanto meno può possedere e tanto più è preso sotto il dominio del suo prodotto: il capitale» Il lavoro estraniato (4) Nella misura in cui, come avviene nell'economia borghese capitalistica, il lavoro è principalmente rivolto ad accumulare un capitale/proprietà, risulta bloccato il ritorno sul soggetto lavoratore del prodotto del lavoro. Il lavoro estraniato (5) Marx enfatizza tale difficoltà di ritorno soggettivo sul lavoratore del prodotto del suo lavoro: «è chiaro, su questo presupposto [=il dato di fatto che l'operaio si rapporta al prodotto del proprio lavoro come ad un oggetto estraneo], che quanto più il lavoratore si svuota nel lavoro, tanto più potente diventa il mondo estraneo, oggettivo, quello che egli si crea di fronte, tanto più povero diventa lui stesso, il suo mondo interiore, tanto meno egli ha di proprio» (p. 991). Il lavoro estraniato (6) Marx generalizza il carattere alienante che l'oggettivazione del lavoro assume nell'assetto capitalistico dell'economia, estendendolo anche all'oggettivazione religiosa: «Proprio come nella religione. Quanto più l'uomo pone in dio tanto meno mantiene in se stesso. Il lavoratore mette la sua vita nell'oggetto; ma allora essa non appartiene più a lui, bensì all'oggetto» (p. 991). Il lavoro estraniato (7) Così Marx conclude: «Noi abbiamo certamente ricavato il concetto del lavoro estraniato (della vita estraniata) dall'economia politica come risultato del movimento della proprietà privata. Nell'analisi di questo concetto, però si mostra che, se la proprietà privata appare come fondamento e causa originaria del lavoro estraniato, essa è piuttosto una conseguenza del medesimo, come pure gli dei, originariamente, non sono la causa originaria, bensì l'effetto dello smarrimento dell'intelletto dell'uomo. Successivamente questo rapporto si rovescia in reciproco effetto di scambio. Soltanto nell'ultimo punto culminante dello sviluppo della proprietà privata, questa rivela nuovamente il suo segreto: che, cioè, essa, da una parte è prodotto del lavoro alienato e, secondariamente, che essa è il mezzo per il cui tramite il lavoro si aliena, la realizzazione di questa alienazione» (p. 998). Il lavoro estraniato (8) Il risultato è che così l'alienazione del lavoro nell'assetto capitalistico determina una circolarità viziosa, dalla quale la soggettività non sembra in grado di fuoriuscire con le sue forze, essendosi privata/alienata della sua intera vitalità. La liberazione della soggettività deve perciò giungere dall'esterno, da una trasformazione dell'assetto oggettivo quale è la rivoluzione Attendere la liberazione del lavoro Ancor oggi un'idea marxiana di lavoro aleggia su di noi: lavorare significa inevitabilmente alienarsi, solo per pochi privilegiati il lavoro è mezzo di auto-realizzazione! Mentre attendiamo quel cambiamento strutturale, profetizzato dalla scienza socio-economica marxiana, continuiamo a lavorare. Ma mentalmente curiamo di arginare i presunti danni antropologici del lavoro, “evadendo” il più possibile dal lavoro e procurandoci così, con le nostre stesse mani, alienazione! Un dubbio Ma davvero il lavoro è così totalmente e ineluttabilmente bloccato dal morto capitale, nel benefico ritorno sulla soggettività del suo prodotto, nel quale esso rende disponibile alla soggettività ciò per cui questa l'aveva attivato? Davvero la soggettività ha consegnato tutta la sua vitalità al suo lavoro, privandosene completamente? Un dubbio verificato Ma allora, come spiegare i sempre più numerosi casi di “immigrazione felice”, che documentano che ci si può esporre a dosi massicce di alienazione di lavoro e per lungo tempo e salvaguardare la propria umanità, fino a realizzare il proprio progetto di vita buona? Un tentativo di risposta Proprio per rispondere a una simile domanda, Max Scheler, in un breve saggio del 1899, Arbeit und Ethik/Lavoro ed etica, ci offre l'opportunità di abbozzare un esperimento mentale (cfr.: tr. it. di D. Verducci, Città Nuova, Roma 1997, pp. 79-81) . L'esperimento mentale di Max Scheler Si tratta di immaginare il caso in cui uno solo lavora ad un solo prodotto e di metterne a fuoco il vissuto, in modo da evidenziare l'essenza del lavoro umano. L'esperimento mentale da Max Scheler FASE I: Quando un artigiano si trova davanti a un pezzo di legno grezzo, in primo luogo emerge in lui la domanda su che cosa farne. Si attivano cioè i processi “morali” con i quali egli avverte in ciò che è, la sporgenza di ciò che ha da essere e non è ancora, lo determina, applicando la riflessione al contenuto del sentire assiologico (=se ne fa un'idea/scopo) e lo porge all'intenzionalità volontativa, che lo interiorizza, ponendoselo come scopo nel volere-del-fare. L'esperimento mentale di Max Scheler FASE II: In secondo luogo, una volta che disponga dello scopo da realizzare o volere-del-fare, la volontà si volge al voler-fare e comanda alle membra di muoversi in conformità a ciò che la realizzazione dello scopo richiede: così la volontà attiva il processo esecutivo dello scopo, che dà luogo al prodotto nella realtà extramentale o comunque oggettiva. L'esperimento mentale di Max Scheler Dalla descrizione fenomenologica del lavoro, emerge che, 1) c'è una marcata distinzione tra le due principali fasi lavorative, la fase ideativo-finalizzatrice e quella realizzativo-esecutiva ovvero il lavoro è intrinsecamente «divisione del lavoro» (Arbeitsteilung), 2) in linea di principio, non v'è esclusione tra la dimensione morale/finalizzatrice della persona umana che, ponendosi uno scopo da realizzare, dà avvio al lavoro e lo dirige e quella esecutiva degli automatismi psico-fisici del vivente umano, per mezzo dei quali, nella seconda fase del lavoro, gli scopi progettati soggettivamente giungono a realizzazione in prodotti oggettivati. L'esperimento mentale di Max Scheler Certamente, il soggetto ha dovuto sperimentare l'insoddisfazione per la situazione di possesso solo ideale dello scopo. Ha dovuto inoltre misurarsi con la resistenza che al suo progetto opponevano gli automatismi fisici e vitali. Ha provato dispiacere e fatica. Ma il risultato di tutto ciò, in una condizione di integralità lavorativa, non è solo l'estraneazione/alienazione, per la quale pure si passa necessariamente, dovendo andare dal piano soggettivo-ideale a quello oggettivo-reale, quanto l'attraversamento-dell'alienazione, il venirne-a-capo, per un ritorno del prodotto elaborato sulla soggettività, che la soddisfa e la incrementa, rendendole disponibile ciò che non lo era, ma di cui essa avvertiva l'esigenza e per la quale ha lavorato. L'esperimento mentale di Max Scheler Anzi, il lavoro, nella sua completezza procedurale di finalizzazione ed esecuzione, vi si manifesta quale dispositivo di cui l'uomo è naturalmente dotato per vivere umanamente, posto che egli viene al mondo svincolato dall'istintualità e «aperto al mondo», cioè incapace di un'immediata fruibilità della natura, compresa la sua, come documentano le ricerche di antropologia filosofica e scientifica (M. Scheler, H. Plessner, A. Gehlen, L. Bolk, A. Portmann) Patologia del lavoro E' vero tuttavia che il lavoro umano, oggi, nel mondo occidentale, non risulta più in grado di riconsegnare al soggetto, che l'ha attivato e diretto, i risultati poietici conseguiti. Una grave patologia sembra averlo colpito, simile a quella diagnosticata da Marx. Patologia del lavoro Secondo il Marx dei Manoscritti e delCapitale, la viva referenzialità di uomo e natura, intessuta dal lavoro, sarebbe stata uccisa dal morto capitale, che vi si è interposto. Patologia del lavoro Anche secondo Hanna Arendt: «dal punto di vista della natura è piuttosto l'opera del lavoro che è distruttiva, perchè il processo dell'operare sottrae materia alla natura senza restituirgliela, come avviene nel rapido corso del metabolismo naturale del corpo vivente». Patologia del lavoro E' certamente vero che la forma che il lavoro umano ha assunto nel mondo contemporaneo, ha enfatizzato la fase esecutiva a scapito di quella finalizzatrice, demandata sempre più, già prima dell'avvento del fordismo-taylorismo, all' organizzazione anonima, tecnica, sociale e di mercato, perchè più adeguata a padroneggiare i numerosi fattori in gioco. Patologia del lavoro Sembra di conseguenza che ai soggetti lavoratori non resti davvero che eseguire ciò che la morta organizzazione stabilisce in vista del conseguimento della maggiore utilità economica generale, ma a danno del ritorno sul soggetto individuale e sociale del prodotto del lavoro e con esso della stessa forma di vita lavorativa, che perde così ogni carattere di vita umana, riducendosi ad automatismo naturale, spesso vissuto anche compulsivamente. Apertura dell'orizzonte Dalla fenomenologia del lavoro si apre un punto di fuga in quest'orizzonte che, finchè vi intervengono entità “morte” (capitale, organizzazione), sembra definitivamente chiuso, come Marx aveva affermato. Apertura d’orizzonte Si è visto infatti che la fase esecutiva del lavoro, quella che dipende dal fine “tecnico” che la volontà ordina alle membra di eseguire e l’organizzazione impone ai lavoratori, subentra solo ad un certo punto della prassi di finalizzazione, che si era avviata a partire dall’avvertire assiologico di qualcosa che aveva – da-essere, di un’esigenza/bisogno/desiderio da soddisfare. Apertura d’orizzonte Dunque, l’assunzione da parte dell’ organizzazione della finalità tecnica da eseguire, non esaurisce il campo dell’umana capacità morale/di finalizzazione, che anzi viene più fortemente investita della responsabilità di riguadagnare ai propri progetti di vita, il segmento lavorativo sottoposto all’organizzazione per motivi di efficienza. Apertura d’orizzonte Ciò significa che il lavoro dell’uomo non può propriamente consistere o assestarsi nella sua sola fase oggettivo-esecutiva. Infatti, per lavorare, il lavoratore deve disporre di un certo “sapere dello scopo” del suo lavoro e volerlo, almeno per quel minimo che gli consente di muovere opportunamente le membra, come nel caso delle azioni miste, volontarie e involontarie insieme, documentate da Aristotele*. *Le azioni miste secondo Aristotele «Quando si gettano fuori bordo i propri averi durante le tempeste [è discutibile se siano azioni volontarie o involontarie], giacchè in generale nessuno butta via volontariamente, ma chiunque abbia senno lo fa per salvare se stesso e tutti gli altri. Simili azioni sono dunque miste, ma assomigliano di più a quelle volontarie, giacchè sono fatte oggetto di scelta nel momento determinato in cui sono compiute e il fine dell'azione dipende dalle circostanze […] In questo caso si agisce volontariamente, giacchè il principio che muove come strumenti le parti del corpo in simili azioni è nell'uomo stesso: e le cose di cui ha in se stesso il principio, dipende da lui farle o non farle. Tali azioni sono dunque volontarie, anche se in assoluto sono involontarie, giacchè nessuno sceglierebbe nessuna delle azioni di tal genere per se stessa» (Aristotele, Etica Nicomachea, III, 1, 1110a 8-20). Apertura d’orizzonte Ed è qui, nel personale e intimo momento motivazionale posto al suo effettivo avvio, che il lavoro, anche quello più parcellizzato e rigidamente organizzato, in quanto è dell’uomo, si mostra profondamente e inalienabilmente integrato nel contesto etico-ontologico soggettivo. Ciò non sottrae l’attività del lavoratore alla completa immersione nella dinamica esecutiva oggettivata e oggettivante, ma consente di riscattare quella fase di inevitabile alienazione tecnica, con la ricomprensione dell’interezza dell’attività lavorativa (fase1+fase2) nell’ambito del personale piano morale di vita, che il lavoratore intende perseguire. Apertura d’orizzonte Si tratta quindi di riprendere individualmente consapevolezza della possibilità che si profila, di conseguire un riequilibrio antropologico, operando un personale superintenzionamento etico del lavorare sociale organizzato. Ciò non va ovviamente confuso con l’adesione alla mission aziendale o con il boicottaggio di essa, perché al contrario svolge la funzione di innestare proprio la finalizzazione tecnica e di utilità del lavoro, nell’ambito del personale progetto di vita di ciascun lavoratore, e di promuovere con successo l’attraversamento dell’alienazione e il ritorno al soggetto, come realizzato, dello scopo “morale” che l’aveva motivato a lavorare allo scopo tecnico impostogli dall’organizzazione. Apertura d’orizzonte L’osservazione fenomenologica ci ha così evidenziato che il lavoro umano, nella sua stessa natura di fare diviso, mantiene aperte per l'umano, pur nella condizione “capitalistica” dell'economia, vie d’uscita dall'alienazione. Apertura d'orizzonte Infatti, nella misura in cui nega immediatezza all’esecuzione produttiva e la sottopone tanto alla finalizzazione tecnica quanto alla prassi etica di finalizzazione, il lavoro dell’uomo si mostra, rispetto al lavoro in fisica o in economia, come un pluslavoro come alcuni socialisti non scientifici, quali Pierre Joseph Proudhon e Charles Peguy, avevano segnalato. Il lavoro secondo Peguy Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura. Una tradizione venuta, risalita da profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali. E sono solo io — io ormai così imbastardito — a farla adesso tanto lunga. Per loro, in loro non c’era neppure l’ombra di una riflessione. Il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o di non essere visti. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto. Apertura d'orizzonte Il lavoro umano si rivela così portatore di un surplus-di-valore, che è in grado di porre a servizio della vita buona la sua valenza di produzione materiale, cosicchè sempre si possa vivere-lavorando-per-ben-vivere e mai ci si riduca a lavorare-per-sopravvivere o a vivere-per-lavorare, neppure quando è realmente così.