MODULO II
Fenomenologia del lavoro
Attendere la liberazione del lavoro
Ancor oggi un'idea marxiana di lavoro
aleggia su di noi:
lavorare significa inevitabilmente alienarsi,
solo per pochi privilegiati il lavoro è mezzo di autorealizzazione!
Mentre attendiamo quel cambiamento strutturale, profetizzato
dalla scienza socio-economica marxiana,
continuiamo a lavorare,
Ma mentalmente curiamo
di arginare i presunti danni antropologici del lavoro,
“evadendo” il più possibile dal lavoro e procurandoci con le
nostre stesse mani alienazione!
Un dubbio
Ma davvero il lavoro è così totalmente e
ineluttabilmente bloccato dal morto capitale,
nel benefico ritorno sulla soggettività del suo
prodotto, nel quale esso rende disponibile alla
soggettività ciò per cui questa l'aveva
attivato?
Davvero la soggettività ha consegnato tutta
la sua vitalità al suo lavoro, privandosene
completamente?
Un dubbio verificato
Ma allora,
come spiegare i sempre più numerosi casi
di “immigrazione felice”?
Essi documentano che
ci si può esporre, e per lungo tempo,
a dosi massicce di alienazione di lavoro
e salvaguardare la propria umanità,
fino a realizzare
il proprio progetto di vita buona.
Cfr.: D. Verducci, Lavoro ed essere persona: interazioni
auspicabili, in: F. Totaro (a cura di), Il lavoro come questione di
senso, EUM, Macerata 2009, pp. 329-350.
Un tentativo di risposta
Proprio per rispondere a una simile domanda,
Max Scheler, in un breve saggio del 1899,
Arbeit und Ethik/Lavoro ed etica,
ci offre l'opportunità di abbozzare un
esperimento mentale
(cfr.: tr. it. di D. Verducci, Città Nuova, Roma
1997, pp. 79-81) .
L'esperimento mentale di
Max Scheler
Si tratta di immaginare il caso in cui
uno solo lavora ad un solo prodotto
e di metterne a fuoco il vissuto,
in modo da evidenziare
l'essenza del lavoro umano.
L'esperimento mentale da Max Scheler (1)
FASE I:
Quando un artigiano si trova davanti a un pezzo di
legno grezzo, in primo luogo emerge in lui la domanda
su che cosa farne.
Si attivano cioè i processi “morali” con i quali egli
avverte in ciò che è, la sporgenza di ciò-che-ha-daessere e non è ancora, lo determina (=se ne fa
un'idea/scopo), applicando la riflessione al contenuto
del sentire assiologico (=sentire riguardante il valore) e
lo porge all'intenzionalità volontativa, che lo
interiorizza, ponendoselo come scopo nel volere-delfare.
L'esperimento mentale di Max Scheler (2)
FASE II:
In secondo luogo, una volta che disponga dello scopo
da realizzare o volere-del-fare, la volontà si volge al
voler-fare e comanda alle membra di muoversi in
conformità a ciò che la realizzazione dello scopo
richiede: così la volontà attiva il processo esecutivo
dello scopo, che dà luogo al prodotto nella realtà
extramentale o comunque oggettiva.
L'esperimento mentale di Max Scheler (3)
Dalla descrizione fenomenologica del lavoro e m e r g e che:
1) c'è una marcata distinzione tra le due principali fasi lavorative,
la fase ideativo-finalizzatrice e quella realizzativo-esecutiva
ovvero il lavoro è intrinsecamente «divisione del lavoro»
(Arbeitsteilung);
2) in linea di principio, non v'è esclusione tra la dimensione
morale/finalizzatrice della persona umana che, ponendosi uno
scopo da realizzare, dà avvio al lavoro e lo dirige e quella
esecutiva degli automatismi psico-fisici del vivente umano, per
mezzo dei quali, nella seconda fase del lavoro, gli scopi
progettati soggettivamente giungono a realizzazione in prodotti
oggettivati.
L'esperimento mentale di Max Scheler (4)
Certamente, il soggetto ha dovuto sperimentare l'insoddisfazione
per la situazione di possesso solo ideale dello scopo.
Ha dovuto inoltre misurarsi con la resistenza che al suo progetto
opponevano gli automatismi fisici e vitali.
Ha provato dispiacere e fatica.
Ma il risultato di tutto ciò, in una condizione di integralità
lavorativa, non è solo l'esteriorizzazione/alienazione, per la quale
pure si passa necessariamente, dovendo andare dal piano soggettivoideale a quello oggettivo-reale,
quanto l'attraversamento-dell'alienazione, il venirne-a-capo, per
un ritorno dello scopo elaborato sulla soggettività, che la soddisfa e
la incrementa, rendendole disponibile ciò che non lo era, ma di cui
essa avvertiva l'esigenza e per la quale ha lavorato.
L'esperimento mentale di Max Scheler (5)
Anzi, il lavoro, nella sua completezza procedurale di
finalizzazione ed esecuzione, vi si manifesta quale
dispositivo di cui l'uomo è naturalmente dotato per
vivere umanamente, posto che egli viene al mondo
svincolato dall'istintualità e «aperto al mondo», cioè
incapace di un'immediata fruibilità della natura,
compresa la sua, come documentano le ricerche di
antropologia filosofica e scientifica (M. Scheler, H.
Plessner, A. Gehlen, L. Bolk, A. Portmann)
Patologia del lavoro
E' vero tuttavia che il lavoro umano,
oggi, nel mondo occidentale,
non risulta più in grado di riconsegnare
al soggetto, che l'ha attivato e diretto,
i risultati poietici conseguiti.
Una grave patologia sembra averlo colpito,
simile a quella diagnosticata da Marx.
Patologia del lavoro (2)
Secondo il Marx
dei Manoscritti e del Capitale,
la viva referenzialità di uomo e natura,
intessuta dal lavoro,
sarebbe stata uccisa
dal morto capitale, che vi si è interposto.
Patologia del lavoro (3)
Anche secondo Hanna Arendt:
«dal punto di vista della natura è piuttosto
l'opera del lavoro che è distruttiva,
perchè il processo dell'operare sottrae materia
alla natura senza restituirgliela,
come avviene nel rapido corso
del metabolismo naturale del corpo vivente».
Patologia del lavoro (4)
E' certamente vero che la forma che il lavoro
umano ha assunto nel mondo contemporaneo,
ha enfatizzato la fase esecutiva a scapito di
quella finalizzatrice, demandata sempre più, già
prima dell'avvento del fordismo-taylorismo, all'
organizzazione anonima, tecnica, sociale e di
mercato,
considerata
più
adeguata
a
padroneggiare i numerosi fattori in gioco.
Patologia del lavoro (5)
Sembra di conseguenza che ai soggetti lavoratori
non resti davvero che eseguire ciò che la morta
organizzazione stabilisce in vista del conseguimento
della maggiore utilità economica generale,
ma a danno del ritorno sul soggetto individuale e
sociale del prodotto del lavoro e con esso della stessa
forma di vita lavorativa, che perde così ogni carattere
di vita umana, riducendosi ad automatismo naturale,
spesso vissuto anche compulsivamente.
Apertura dell'orizzonte
Dalla fenomenologia del lavoro
si apre un punto di fuga
in quest'orizzonte che,
finchè il lavoro umano è considerato
interamente consegnato a entità “morte”
(capitale, organizzazione),
sembra definitivamente chiuso,
come Marx aveva affermato.
Apertura d’orizzonte (1)
Si è visto infatti che la fase esecutiva del lavoro,
quella che dipende dal fine “tecnico” che la
volontà ordina alle membra di eseguire e
l’organizzazione impone ai lavoratori,
s u b e n t r a solo ad un certo punto della prassi
di finalizzazione, che si era avviata a partire
dall’avvertire assiologico di qualcosa che
aveva-da-essere, di un’esigenza, di un
bisogno, di un desiderio da soddisfare.
Apertura d’orizzonte (2)
Dunque, l’assunzione da parte dell’
organizzazione della finalità tecnica da
eseguire, non esaurisce il campo
dell’umana capacità morale/intenzionale di
finalizzazione, che anzi viene più
fortemente investita della responsabilità di
riguadagnare ai propri progetti di vita, il
segmento
lavorativo
sottoposto
all’organizzazione per motivi di efficienza.
Apertura d’orizzonte (3)
Ciò significa che il lavoro-dell’uomo non può
propriamente consistere o assestarsi nella sua sola
fase oggettivo-esecutiva, come accade invece al
lavoro dell’animale o della macchina.
Infatti, per lavorare, il lavoratore deve disporre di un
certo “sapere dello scopo” del suo lavoro e volerlo,
almeno per quel minimo che gli consente di muovere
opportunamente le membra, come nel caso delle
azioni miste, volontarie e involontarie insieme,
documentate da Aristotele*.
*Le azioni miste secondo Aristotele
«Quando si gettano fuori bordo i propri averi durante le tempeste
[è discutibile se siano azioni volontarie o involontarie],
giacchè in generale nessuno butta via volontariamente, ma
chiunque abbia senno lo fa per salvare se stesso e tutti gli altri.
Simili azioni sono dunque miste, ma assomigliano di più a
quelle volontarie, giacchè sono fatte oggetto di scelta nel
momento determinato in cui sono compiute e il fine
dell'azione dipende dalle circostanze […] In questo caso si
agisce volontariamente, giacchè il principio che muove come
strumenti le parti del corpo in simili azioni è nell'uomo
stesso: e le cose di cui ha in se stesso il principio, dipende da
lui farle o non farle. Tali azioni sono dunque volontarie, anche
se in assoluto sono involontarie, giacchè nessuno sceglierebbe
nessuna delle azioni di tal genere per se stessa»
(Aristotele, Etica Nicomachea, III, 1, 1110a 8-20).
Apertura d’orizzonte
Ed è qui, nel personale e intimo momento motivazionale
posto al suo effettivo avvio, che il lavoro, anche quello
più parcellizzato e rigidamente organizzato, in quanto è
dell’uomo, si mostra profondamente e inalienabilmente
integrato nel contesto etico-ontologico soggettivo.
Ciò non sottrae l’attività del lavoratore alla completa
immersione nella dinamica esecutiva oggettivata e
oggettivante, ma consente di riscattare quella fase di
inevitabile alienazione tecnica, con la ricomprensione
dell’interezza dell’attività lavorativa (fase1+fase2)
nell’ambito del personale piano morale di vita, che il
lavoratore intende perseguire.
Apertura d’orizzonte (1)
Si tratta quindi di riprendere individualmente consapevolezza
della possibilità che si profila, di conseguire un riequilibrio
antropologico, operando un personale super-intenzionamento
etico del lavorare sociale organizzato attraverso la
considerazione di quest’ultimo come “compito” che si svolge
per realizzare la propria vita (cfr.: il dovere morale della cura
sui nel cui ambito rientrava il lavoro salariato già secondo Ch.
Wolff).
Ciò non va ovviamente confuso con l’adesione alla mission
aziendale o con il boicottaggio di essa, perché al contrario
svolge la funzione di innestare proprio la finalizzazione tecnica
e di utilità del lavoro, nell’ambito del personale progetto di vita
di ciascun lavoratore, e di promuovere con successo
l’attraversamento dell’alienazione e il ritorno al soggetto, come
realizzato, dello scopo “morale” che l’aveva motivato a
lavorare allo scopo tecnico impostogli dall’organizzazione.
Apertura d’orizzonte (3)
L’osservazione fenomenologica
ci ha così evidenziato che il lavoro umano,
nella sua stessa natura di fare diviso,
mantiene aperte per l'umano,
pur nella condizione “capitalistica”
dell'economia,
vie d’uscita dall'alienazione.
Apertura d'orizzonte (4)
Infatti, nella misura in cui nega immediatezza
all’esecuzione produttiva e la sottopone tanto
alla finalizzazione tecnica quanto alla prassi
etica di finalizzazione, il lavoro dell’uomo si
mostra, rispetto al lavoro in fisica o in
economia, come un plus-lavoro come hanno
segnalato alcuni socialisti non scientifici, quali
Pierre Joseph Proudhon e Charles Peguy.
Il lavoro secondo Charles Peguy
Un tempo gli operai non erano servi.
Lavoravano.
Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore.
La gamba di una sedia doveva essere ben fatta.
Era naturale, era inteso. Era un primato.
Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in
modo proporzionale al salario.
Non doveva essere ben fatta per il padrone,
né per gli intenditori, né per i clienti del padrone.
Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura.
Una tradizione venuta, risalita da profondo della razza,
una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia
fosse ben fatta.
E ogni parte della sedia fosse ben fatta.
E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con
la medesima perfezione delle parti che si vedevano.
Secondo lo stesso principio delle cattedrali.
E sono solo io — io ormai così imbastardito — a farla adesso tanto lunga.
Per loro, in loro non c’era neppure l’ombra di una riflessione.
Il lavoro stava là. Si lavorava bene.
Non si trattava di essere visti o di non essere visti.
Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto.
Apertura d'orizzonte (5)
Il lavoro umano si rivela così
portatore di un surplus-di-valore,
che è in grado di porre a servizio della vita buona
la sua valenza di produzione materiale,
cosicchè
sempre si possa vivere-lavorando-per-ben-vivere
e mai ci si debba ridurre
a lavorare-per-sopravvivere o a vivere-per-lavorare,
neppure quando è realmente così.
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MODULO II - alfabetico dei docenti 2009