FAI ARABO, È FACILE TUNISIA 1968 Ma quand’era iniziata questa avventura? Come mai mi trovavo in rotta verso un paese arabo con Ric? Per lui era stata una questione di curiosità mirata. Per qualche circostanza della vita che non conoscevo s’era appassionato alla cultura araboislamica e aveva deciso di applicarsi al suo studio in modo serio iscrivendosi ai corsi di arabistica di Ca’ Foscari. Il mio percorso era stato invece alquanto diverso. Autunno ’66 “Perché non fai arabo? È facile” aveva proposto Marina cogli occhi che le brillavano. Non si capiva se per il fatto di sentirla una buona idea, oppure per la presa in giro che sottendeva la proposta. Con lei tutto era possibile. Arabo?! Che idea balzana! E se Marina, invece di far arabo avesse fatto cinese? Chiaro che mi avrebbe proposto la lingua di Mao. Già, perché non aveva fatto cinese? La cerchia dei suoi amici prossimi, tutti ‘lottatori continui’ in pectore (Lotta continua sarebbe nata anni dopo), aveva delle buone propensioni verso il Grande Timoniere. Sul suo tavolo di studio c’era il libretto rosso con le massime di Mao ... in arabo. Chissà dove l’aveva scovato. Quella sera dovevo suonare al Marocco Dancing – nome roboante e ... arabo! per la balera in questione – e nel pomeriggio avevo in programma di provare una nuova canzone col mio gruppo. Di lì a poco dunque. Guardai Marina come si guarda una scombinata: “Far arabo? Non ho mica l’ego frastagliato come ce l’hai tu” rispose quello dal solido ego che, col suo bel diploma in chimica industriale, suonava la chitarra, ma gli sarebbe piaciuto suonare il sassofono, pensando intanto a cosa avrebbe potuto studiare negli ampi ritagli di tempo libero che gli concedeva l’attività musicale. Chimica appunto, suggeriva la logica. No, si diceva il ‘non frastagliato’, la chimica avrebbe richiesto tutto il tempo dell’aspirante dottore. E allora? Allora dovevo ripiegare su qualcosa di meno pretenzioso. Qualcosa che non implicasse un coinvolgimento tale da precludermi la musica. Anche per il fatto non secondario che tale attività era in quel momento la mia fonte di sostentamento e senza di quella, allora sì che mi sarei dovuto dare alla chimica. Da perito in qualche industria a Marghera com’era toccato a qualcuno dei miei compagni di studio all’istituto tecnico. I più fortunati naturalmente, perché la maggior parte di coloro che avevan fatto domanda d’assunzione era ancora in attesa di un riscontro positivo. Potevo facilmente immaginare la risposta a una mia eventuale richiesta d’essere assunto. “Sa, lei sarebbe proprio l’elemento che fa per noi. Purtroppo però il nostro personale è al completo per ora e la crisi del settore non ci permette di venire incontro all’esubero d’offerta. Sa quanti giovani periti si son presentati a noi in questo periodo? Ma a tutti abbiam dovuto ripetere con rammarico di ripassare fra un annetto almeno. Abbia pazienza anche lei”. Meglio continuare a suonare coi Sundowners. Almeno per il momento. Non si guadagnava molto, ma tanto bastava per vivere. Era inoltre un’occupazionedivertimento che lasciava – appunto – molto tempo libero. Una mattinata o due la settimana per le prove col gruppo. La domenica più altre due sere al Marocco. Qualche altro impegno saltuario. Poi basta. Certo non mi annoiavo. Fotografia, lettura, musica attiva – composizione e folk vario – e passiva mi occupavano. Ma sentivo il bisogno di qualcos’altro. Di un qualcosa di ‘serio’. Avevo accennato dunque a Marina, senza dar peso come avevo fatto anche con altri, del mio desiderio di dedicarmi a una qualche attività o – perché no? – a studiar qualcosa che mi stuzzicasse. Marina non ci aveva pensato molto. Era iscritta al primo anno di lingua e letteratura araba a Ca’ Foscari ed era uscita con la proposta fatidica: “Fai arabo. È facile”. Quella sera al Marocco stavamo terminando con immane frastuono ‘Please Please me’, quando mi flashò nella mente il “fai arabo” di Marina. E l’idea mi sembrò già meno balzana. E perché non studiar l’arabo? Una lingua inusuale, col fascino – generico per me – dell’esotico. E pure facile. Se non lo sapeva Marina che l’aveva studiato per un anno ... Oltre al fatto che i paesi arabi erano notoriamente petroliferi e la mia preparazione teorica e pratica di perito chimico comprendeva anche la tecnologia del petrolio. Ergo, competenza tecnica in sinergia con quella linguistica potevano offrire delle prospettive interessanti nel momento in cui la mia occupazione-divertimento di musicista fosse venuta meno. Così almeno m’illudevo allora. Mi iscrissi dunque ad arabo e ... subito me ne dimenticai. Una casa discografica ci aveva proposto di incidere un disco da una nostra canzone e il progetto ci aveva assorbito per vari mesi. Primavera ’67 Pietro, il batterista dei Sundowners ha una delusione d’amore. Non se la sente di continuare a suonare e decide di riprendere il suo precedente mestiere di marconista a bordo di navi mercantili. Parte dunque per dimenticare la sua cotoletta impanata e ... addio Sundowners. Non c’è sprint per cercar un altro batterista e il gruppo si scioglie, pur ritrovandosi in qualche sporadica occasione. Momento di smarrimento. Andare a Marghera? No! Ero o non ero iscritto all’università? Perché non andare a vedere un po’ com’era quest’arabo? “Facile” l’aveva definito Marina. (ORIENTaleggiando p. 10)