9. Il nostro pane quotidiano (prima parte, il pane laico)
Avendo bisogno (e chi non ne ha) di protezione, ci prendiamo un santo tutto nostro,
anzi ce ne prendiamo due, e cominciamo a riflettere sul pane dando un primo sguardo
alla foto che Robert Doisneau ha scattato a Picasso a Vallauris nel 1952.
Robert Doisneau, Les pains de Picasso, 1952
L’ambiente è famigliare ma curato, ci sono due bicchieri davanti al coperto, la bottiglia del
vino e una tovaglia fresca. L’artista, come sua abitudine, indossa la marinara e ricordiamo
qui anche il suo gioco di parole per cui fra pêcheur (= pescatore) e pécheur (peccatore),
se in italiano c’è una ‘s’ di differenza, in francese non solo quella non c’è, ma anche la
pronuncia è la medesima, per cui bisogna mettere tutto per iscritto per accorgersi della
variazione dell’accento.
Inoltre, siccome ci piacciono le righe e ci piace anche Michel Pastoureau, che alle righe ha
dedicato un libretto delizioso (L’étoffe du diable, 1991, uscito da noi nel 2007 con il titolo
La stoffa del diavolo), raccontiamo qui il gustoso aneddoto riferito dallo studioso di una
visita del grande maestro a un negozio alla ricerca di un pantalone a righe, con righe
verticali, specifichiamo, perché voleva ‘se zébrer le cul’, frase che non traduciamo perché
sia la zebra che il resto si capiscono benissimo.
Per la cronaca, Picasso uscì a mani vuote, non avendo trovato quello che cercava.
(Per uno che diceva ‘Io non cerco, trovo’, una specie di contrappasso, che chissà se lo
fece ritornare sul suo punto di vista).
Abbiamo rotto il ghiaccio? Bene, allora andiamo avanti e della foto diciamo che,
famosissima, racconta insieme il sense of humour, ovvero la capacità di stare al mondo,
sia del fotografo che del modello, visto che una visita all’ora di pranzo si trasformò
nell’occasione di giocare con le ‘manine’, che diventano le mani dell’uno e l’occhio
dell’altro.
Tecnicamente il pane è un ‘alimento che si ottiene cuocendo al forno un impasto di farina,
solitamente di frumento, e acqua, condito con sale e fatto lievitare’ (dal mio Zingarelli).
I verbi relativi al pane sono: ‘impastare, lievitare, infornare, cuocere, sfornare’ (medesima
fonte).
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Diffido di che non ama il pane.
Ho una teoria secondo la quale più una città è moderna e civilizzata, più in essa si mangia
pane cattivo.
Ciò detto, la complessità simbolica di questo alimento base è data anche e per esempio
dall’abbondare dei modi di dire che lo contengono: ‘Buono come il pane’; ‘Rendere pan
per focaccia’; ‘Dire pane al pane e vino al vino’; ‘Non è pane per i suoi denti’; ‘Trovare
pane per i propri denti’; ‘Mangiare il pane a ufo o a tradimento’; ‘Guadagnarsi il pane’;
‘Togliersi il pane di bocca’.
Personalmente trovo bellissimo per motivi professionali ‘Spezzare il pane della scienza’,
che traduce il concetto di ‘insegnare’ in modo cristologico.
(A questo proposito e per cercare di venire a capo di tutto il densissimo argomento, vi dico
subito che intendo dividere i campi, riservando alla fine tutta la relazione che i Vangeli
intrattengono con il pane).
Belle anche le locuzioni che prendiamo in prestito: ‘Manger son pain blanc le premier (=
mangiare il proprio pane bianco per primo)’ che significa ‘Avere degli inizi felici’; ‘Long
comme un jour sans pain (= lungo come un giorno senza pane)’, ovvero ‘interminabile’;
‘Objets qui se vendent comme des petits pains’ (= oggetti che si vendono come dei
panini)’, cioè facilmente.
Inoltre: ‘bread and butter (= pane e burro)’, che equivale alla principale fonte di reddito di
una persona e che significa anche qualcosa di basilare e di molto importante (non è un
caso che la cultura anglosassone consideri fondamentale il burro e non l’olio, come invece
avviene da noi, ma la linea di confine sta molto più in basso, direi poco sotto al
Settentrione d’Italia).
Le varietà infinite di pane raccontano anche dappertutto le diversità nazionali e regionali,
anche se spesso c’è il trucco, per cui la pagnottella diventa pagnottina, michetta, panino e
anche rosetta e il bastone, a sua volta, filone, bastoncino, sfilatino, filoncino, baguette,
ciriola semplicemente prendendo un treno, un bus o un aereo.
Le differenze sono minime e l’aria di famiglia è quella.
A Napoli chiamano a via dei Tribunali ‘fischietti’ i medesimi panini che alla Sanità sono
conosciuti come ‘maggiolini’, un caso di fantasia incontenibile e diffusa non raro in una
città che di fantasia ne ha da vendere.
(Compro sempre il pane a Napoli perché è più buono di quello di Roma. In vacanza, come
sto adesso, è una delle cose che più mi mancano della mia sede di lavoro partenopea).
Ma andiamo avanti e proponiamo un’altra fotografia, che ci suggerisce di rispondere ‘No,
grazie’, quando dal fornaio ci chiedono se vogliamo che taglino la baguette.
La baguette ce la tagliamo a casa da soli, a costo di fare briciole.
Ma volete mettere il gusto di citare l’immagine freschissima di Willis Ronis con il ragazzino
con i denti da latte aperti in un sorriso che corre felice con il suo tesoro sotto il braccio,
piccolo atleta di salto con l’asta ripreso per la strada in un giorno di sole con sul
marciapiede la sua ombra e quella del pane che si confondono.
Un’immagine di felicità? Forse, se siamo capaci di trovare la felicità anche nel pane
quotidiano, bell’esercizio di sopravvivenza, soprattutto dell’umore.
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Willy Ronis, Le petit Parisien, 1952
Ma torniamo un po’ indietro nel tempo e parliamo di un tipo analogo di gioia.
Ce ne dà la possibilità il pittore olandese Jan Steen (Leida, 1625/26-79) che, nella
narrazione della vita quotidiana, fa il ritratto al fornaio che ha appena sfornato ‘broodjes,
krakelingen, kadetten, duivekater’ (lascio i nomi dei pani in olandese così quando andate a
Amsterdam sapete che cosa mangiate) e ci mostra con orgoglio la sua produzione, con la
moglie che gli fa da sfondo e il figlioletto con la tromba che avverte dell’avvenimento.
Perché il pane caldo, appena sfornato, è tale, genera attesa, aspettative, poi conforta,
pensate solo all’odore che è capace di spandere intorno.
Jan Steen, Il fornaio Arent Oostwaard e la moglie Catharina Keizerswaard, 1658
L’opera di Steen ci offre anche la possibilità di constatare come il Secolo d’oro della pittura
olandese, appunto, il XVII, indaghi soggetti da noi poco frequenti, che definiamo qui
borghesi e privati, ben diversi da quelli religiosi e ufficiali, legati a grandi committenze
istituzionali, diffusi in Italia.
E il campione di questa pittura che ai nostri occhi appare esotica è certamente Jan
Vermeer (1632-75), amatissimo e misterioso, almeno nella parte centrale della sua
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carriera superiore ai suoi contemporanei per la capacità un po’ di cogliere la fuggevolezza
di alcuni attimi e un po’ di renderli in modo intimo e cristallino.
Qui chiedo aiuto a Mario Praz che nel suo La filosofia dell’arredamento (1945, ristampa
del 2009), un testo squisito e coltissimo che nasce dalla passione del grande studioso per
gli interni e per ciò che rappresentano, descrive Vermeer con queste parole: ‘Non si vorrà
degradare l’impareggiabile pittura di Vermeer van Delft…a mero documento di costume e
di arredamento; v’è ben altro in essa, come v’è ben altro nei romanzi di Jane Austen che
la curiosa documentazione delle mode e della civile conversazione dell’Inghilterra fra la
fine del Settecento e il principio dell’Ottocento…più che scene sono momenti: momenti
fissati nella loro essenza fuggevole che qui permane eterna. Il realismo si spiritualizza
nell’intensità della visione; il pittore ha presentato al mondo uno specchio, ma uno
specchio incantato’.
Ed è incantata, e incantevole, la visione della lattaia dalle braccia abbronzate fino al
risvolto della manica che versa il latte dalla brocca, con la consueta finestra che immette
luce da sinistra, nella cucina in cui non mancano la gerla appesa al muro e la trappola per
i topi.
A guardar bene accanto a quest’ultima, compare uno zoccolo formato da mattonelle di
Delft sulle quali ci sono degli amorini.
E’, questa, una delle chiavi di interpretazione del dipinto (l’arte essendo, come ben
sappiamo, un dispositivo a più cassetti, che possiamo aprire a nostro piacimento): per
almeno un paio di secoli prima di Vermeer lattaie e servette avevano avuto, loro volenti o
nolenti, una dimensione erotica; frequenti sono, infatti, le scene di cucina o di mercato
allusive.
Il grande maestro, siccome è tale, sceglie l'understatement e lo fa con la presenza di
Cupido, che però bisogna andare a cercare, perso com'è nei dettagli della stanza,
illuminata come spesso accade dalla finestra a sinistra e riempita dalla sacralità domestica
di un gesto quotidiano di cui l'artista fissa l'essenza fuggevole, consegnandolo a
un'eternità 'più divina di quella dei paradisi dipinti in tele d'altri' (ancora Mario Praz).
Jan Vermeer, La lattaia, 1660 ca, insieme e dettaglio dello zoccolo con un Cupido
Dal medesimo ambito culturale ma da una generazione precedente proviene Pieter Claesz
(1597–1660), magnifico pittore di nature morte che mai ci stanchiamo di ammirare
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nonostante la voluta reiterazione dei soggetti (o forse proprio per questo, variazioni sul
tema, ricerca inesausta): tavole con lembi di tovaglia inamidati, stoviglie sulle quali si
rincorrono riflessi dell’ambiente, cibi semplici che compaiono su tutte le mense olandesi
della Repubblica: pane, vino, spesso aringhe e, in questo caso, ostriche, con il limone
tagliato, il coltello obliquo che definisce lo spazio, che sarà una costante di tanti artisti che
frequenteranno analoghi argomenti (Manet e Cézanne fra gli altri), il magnifico bicchiere,
elemento verticale che bilancia l’orizzontalità dell’andamento e che offre la possibilità di
dare prova di grande perizia tecnica nella resa della trasparenza e del traslucido.
Qui compare anche un cono dal quale fuoriesce del tabacco.
Pieter Claesz, Natura morta con bicchiere di vino e ostriche, anni ’30 sec. XVII
La lucida interpretazione della realtà, tipica di tutta la cultura dei Paesi Bassi, è molto ben
rappresentata dal filosofo Spinoza (1632-1677), contemporaneo dei nostri artisti, che si
guadagnò da vivere mettendo a punto una tecnica molto precisa di pulitura dei vetri del
microscopio, come se la qualità fredda della luce nordica, così diversa da quella nostra,
calda e mediterranea, fosse una specie di comune denominatore sotto il quale tutti questi
conterranei vanno a sistemarsi.
Come del resto fanno anche i vicini fiamminghi, per la pittura dei quali utilizziamo volentieri
i termini ‘perspicuo’ e, guarda un po’, ‘lenticolare’.
A queste due caratteristiche ricorrenti si aggiunge spesso un delicato tono privato e
domestico che ci dà la possibilità di sbirciare quasi indiscretamente dentro le loro case,
con finestre aperte su paesaggi nei quali succede sempre qualcosa ed oggetti ciascuno
dei quali ha un ruolo da protagonista.
Visto che di pane stiamo parlando, vi propongo una delle prove più buone di Gerard David
(1459-1523), di nascita olandese e carriera fiamminga, qui alle prese con la deliziosa
Vierge à la soupe au lait, una madonna che ha preparato per il suo piccolo una pappa al
latte e gli insegna a mangiarla, dotandolo di un secondo cucchiaio.
Sul tavolo, allestito semplicemente, anche una mela, un coltello e una pagnottina che ci dà
la possibilità di inserire questo piccolo (35 x 29) capolavoro nel nostro argomento.
Tenerezza e trepidazione caratterizzano il pasto, così lontano dai malinconici
presentimenti che spesso gettano la loro ombra sulle scene in cui nel Bambino è già
leggibile la tragedia che lo attende.
Ancora una volta, troviamo pane e latte. Dovremmo riflettere su questo accostamento,
base dell’esistenza, primi alimenti che passano nelle nostre bocche.
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Gerard David, La Vergine della pappa di latte, 1515
Nato a Fuente de Cantos (che si traduce con Fonte delle Pietre ma che Cees Nooteboom,
scrittore olandese che dice cose non comuni sul suo conto, tradurrebbe volentieri con
Fonte dei Canti), Francisco de Zurbarán (1598-1664) è uno dei tesori meglio nascosti di
Spagna.
In quanti lo conoscono?
Cominciamo con il dire che anche la Spagna nel XVII secolo attraversa un periodo di
splendore, con una potente monarchia, terre in America e artisti famosi, primo fra tutti
Diego Velázquez, giustamente definito da Manet ‘le peintre des peintres’, il pittore dei
pittori. Ma accanto a lui ci sono anche personalità più segrete e meno dirompenti, o,
meglio, che irrompono nella nostra esistenza in modo diverso.
Guardatelo, Zurbarán, ma guardatelo dal vivo, andate in Spagna, a Siviglia, a Madrid,
anche Londra con la sua National Gallery vi dà una mano, guardatelo e perdetevi nelle
sue tele, metri e metri di stoffa, e oggetti. Lasciate stare le definizioni, ‘tenebrismo’,
‘caravaggismo’, sono tutte riduttive e stavolta non servono, posate semplicemente il vostro
sguardo su queste invenzioni, austere, enigmatiche.
‘Pittore della fantasia’, ‘pittore tattile’ (ancora Nooteboom, Verso Santiago, 1992, edizione
italiana 1994), pittore delle sante (‘dame eleganti, pronte per andare a teatro, donne che
vanno da qualche parte…’) i cui corpi ‘sono nascosti da abiti riccamente drappeggiati, di
un lusso favoloso’; e, come in questo caso, pittore di monaci.
‘Zurbarán ne ritrasse più di chiunque altro, bianchi, grigi, bruni e neri. Alcune specie nel
frattempo si sono estinte, altre, simili a quelle dei quadri, resistono ancora…Quando li
vedi, ti accorgi che sono vestiti come nei quadri…Tonache, sai, cappucci e scapolari sono
fatti per lo più di stoffe rigide: nei monasteri spesso fa freddo.’.
Realizzato per la Cartuja de Santa Maria de las Cuevas, il monastero certosino che ospita
oggi il Centro Andaluz de Arte Contemporáneo di Siviglia, il dipinto mostra i sette monaci
fondatori dell’ordine voluto da San Bruno (1030-1101). Si narra che ci fu un miracolo nel
monastero a Grenoble nel 1084 in occasione della visita del vescovo, poi S. Ugo, la
domenica precedente il mercoledì delle ceneri. Era stata portata della carne per il pasto e
presero tutti a discutere della possibilità di vivere senza di essa. A un certo punto un
torpore soprannaturale invase i presenti, che si addormentarono per quarantacinque
giorni. Il primo a ridestarsi fu Ugo, che si accorse che la carne si era tramutata in cenere.
Da questo momento i monaci decisero di rinunciare ad essa in segno di mortificazione e
ascetismo.
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Zurbarán, uomo dei Seicento, quindi barocco, sceglie di rappresentare il momento
emotivamente denso della constatazione del miracolo, la cui sostanza è ribadita dal
dipinto appeso sul muro di fondo che rappresenta San Giovanni Battista, altro santo della
mortificazione alimentare per il suo soggiorno nel deserto, con la Vergine e il Bambino.
Unico cenno alla vita mondana, il ragazzo in primo piano, elegantemente vestito, che
deroga al bianco e grigio dei monaci, seppure con una tavolozza limitata di colori, ed è
illuminato da dietro, cosicchè in lui si colgono le tracce di quel tenebrismo cui abbiamo
fatto cenno.
Bellissimi i pani sulla tavola, ogni monaco ha il suo.
Quasi quasi, in cambio di quel pane, rinunciamo anche noi alla carne.
Francisco Zurbarán, S. Ugo e i Certosini, 1630
Ancora pane, questa volta distribuito in forma di carità cristiana, per fra’ Martino de
Vizcaya, portinaio del monastero geronimita di Guadalupe, noto per la sua generosità.
L’opera è ancora sistemata dell’antica sagrestia, quindi respiriamo insieme ad essa
l’atmosfera della vecchia struttura e della consuetudine di accogliere i poveri per ristorarli.
Esempio e esortazione, incitamenti tipici della Controriforma, tradotti dall’artista in una
sobrietà capace di essere incandescente per gli atteggiamenti dei protagonisti e il realismo
dei dettagli; il più trionfale di tutti è il cesto con i pani, messo al centro della sua, e della
nostra, riflessione.
Francisco Zurbarán, La carità di fra’ Martin de Vizcaya, 1639
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Ma, come è noto, non si vive di solo pane, quindi vi offriamo anche qualcosa da
consumare intorno.
Avete voglia di una tazza di tè? Forse anche di un’albicocca in conserva, o di un bicchiere
di vino.
O semplicemente di una pittura silenziosa, immobile, fatta di una sostanza vicina alla
polvere, quando la polvere si condensa e prende forma.
Jean-Siméon Chardin (1699 – 1779), grandissimo maestro del XVIII secolo, riconosciuto
tale anche da artisti, secondo il loro e il nostro gusto, moderni, è probabilmente il più
grande pittore di nature morte di tutti i tempi.
Ma qui è come se la definizione di pittura di genere non bastasse e fosse necessario
inventare un nome nuovo per la produzione del più grande di tutti.
Piccole tele con oggetti quotidiani dipinte con una tecnica raffinatissima di sovrapposizione
di strati con smorzatura delle tinte trasfigurano, letteralmente, il mondo e l’esistenza.
Sto dicendo che dopo aver visto, mettiamo, una tazza di tè dipinta da Chardin,
nessun’altra tazza avrà per noi l’aspetto che aveva prima.
Non è forse questo che chiediamo all’arte? Di cambiarci la vita e di trasformare il modo in
cui guardiamo intorno.
(Capisco che non ci sono andata giù leggera, ma da qui non si scappa).
E dunque. La semplicità e l’immediatezza della visione conducono in realtà a qualcosa di
profondo, di serio, come se fossero cambiate di segno. Del resto spesso le cose sono
complesse e complicate, tutte, gli oggetti, i fatti, i sentimenti, quello che proviamo e che ci
accade, anche la pittura lo è, eccome, anzi, è una delle cose più complesse che ci siano al
mondo.
Il silenzio di Chardin è come se immettesse in una dimensione successiva, nella quale,
finalmente, vediamo nel modo corretto.
Immagini poetiche, nelle quali non c’è la nostalgia della presenza umana (che, quando c’è,
è sobria, scarsa, reticente, di solito una sola persona e impegnata in un’attività nella quale
non siamo coinvolti), immagini che bastano a se stesse, vicine, certamente, alla tradizione
olandese dei ‘cabinet painting’, piccoli dipinti da cavalletto pensati per essere visti da
vicino in interni borghesi di poche pretese, ma parecchio distanti dalla modestia dei
modelli.
Qui, di modesto, non c’è niente. Anzi, assistiamo al trionfo della rappresentazione, anche
se è un trionfo dai toni interiori, spirituali, generato non solo dalla forma ma anche e
soprattutto dalla sostanza, insomma, se solo pensate che Chardin è figlio del Rococò
(Fragonard è stato suo allievo), vi rendete conto di quanto sia diverso e fuori dal tempo.
Quel tempo che sempre ci sfugge e che lui, fissando un momento miracoloso, è capace di
fermare.
La tela, di forma ovale, raramente utilizzata dall’artista, è stata restituita all’ammirazione
del pubblico dell’Art Gallery of Ontario (pensate all’effetto che deve fare a un americano
una cosa del genere) nel 2012 dopo due anni di restauro. Sono stati ritrovati e colori
originari e la scheda tecnica mette in evidenza il rinnovato rapporto di forme fra gli oggetti,
prima confuso.
Una meraviglia.
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Jean-Simeon Chardin, Barattolo di albicocche, 1758
Abbiamo parlato dell’effetto che fa Chardin negli USA. E allora, questi due? Come devono
aver colpito il pubblico statunitense, accostati con tanta intelligenza e tenuti insieme
(anche) dal pane, oltre che da una bella amicizia, Camille Pissarro e Paul Cézanne?
Il MoMA di New York si è incaricato nel 2012 di indagare nella mostra Pioneering Modern
Painting: Cézanne and Pissarro, 1865-1885 la relazione fra i due artisti, mettendo in luce
come tanti sviluppi del moderno siano nati dallo scambio e dalla discussione invece che
dalla ricerca individuale.
Figura paterna e presente in tutte le esposizioni del gruppo degli Impressionisti, Camille
Pissarro (1830-1903) espresse un grande talento anche nell’insegnamento, e lo
sperimentarono personalmente, per esempio, Gauguin e, appunto, Cézanne (1839-1906).
Nel corso del loro lavoro comune, reso tale dalla vicinanza fisica, dalla scelta dei soggetti
e da una specie di aria di famiglia che ha a che fare con ciò che definiamo qui brevemente
stile, si sente spirare un’aria diversa da quella che deve aver tirato in tutte le
sperimentazioni di pittura en plein air, all’aperto, nella quale l’Impressionismo eccelle.
Qui c’è solidità delle forme, chiarezza, peso degli oggetti, mi viene da pensare che le uova
di Cézanne siano sode e probabilmente belle ferme, di quelle che sono state a bollire per
15 o 20 minuti (fonte Rose Bakery, ovvero Rose Carrarini, How to Boil an Egg, 2013).
Insomma, c’è il senso della costruzione e non quello della distruzione, con un risultato che
non sfugge di mano e che si può consegnare alla storia.
Vi è venuto appetito? Si è manifestato in voi, improvvisamente, il desiderio di una
colazione di quelle semplici alla Hemingway quando va a pesca con pane e vino, servito,
quest’ultimo, in bei bicchieri, e qualche aggiunta da legare alla tradizione contadina?
Allora vuol dire che i dipinti funzionano.
Date retta a me. E’ facile capire se una persona vi piace: desiderate rivederla. Se un abito
è suggestivo: vi fa tornare alla mente abiti analoghi che avete indossato. Se un film è
buono: non sembra finto, ci state dentro anche voi e fino al collo. Se un artista è grande: vi
coinvolge, vi fa venire fame con cibi dipinti, vi apre finestre, risponde alle vostre domande,
vi porta dove mai avreste pensato di andare.
Lo diceva anche Picasso: ‘La pittura è più forte di me, mi fa fare quello che vuole’
Se lo pensa Picasso, per noi proprio non c’è gara.
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Camille Pissarro, Natura morta, 1867; Paul Cézanne, Natura morta con pane e uova, 1865
Se, poi, andate cercando qualcosa di meno scarno, eccovi serviti.
Vi offro, in alternativa o complemento, una delle tavole più belle e succulente della storia
dell’arte. Ne è autore James Ensor (1860-1949), belga, artista immenso che ha
frequentato più temi e problemi nella sua carriera.
Conosciuto in particolare per i suoi scheletri, manifesti contro l’ipocrisia delle relazioni
umane, il pittore ha, però, ben altre sfaccettature che qui, nella sua fase di giovinezza,
comincia a mostrarci.
Il dipinto appartiene alla cosiddetta fase de Le salon bourgeois (pensate a una riflessione
legata al soggiorno di una casa borghese) e mostra una giovane donna che mangia con
gusto evidente ostriche a un tavolo apparecchiato per due, essendo il secondo posto, si
intuisce, quello abbandonato dall’artista che si dedica alla sua tela.
Toni rossi e arancio danno la sensazione del sole, tutto è vitale, esuberante, dà
godimento, le bottiglie, il vaso di fiori, i piatti, la tovaglia e i tovaglioli, insomma, un vero
pranzo di gala, nel quale non manca il pane.
La tela è grande, 240 x 185, incombente, non può non attrarci al suo interno.
Imbarazzante? Certamente, se solo pensate che le ostriche sono ritenute afrodisiache e
hanno una precisa somiglianza con il sesso femminile.
Infatti non a caso il dipinto fu rifiutato dal Salone triennale di Anversa del 1882, episodio
che convinse Ensor a fondare un gruppo progressista chiamato Les XX, sotto la
protezione del quale l’opera fu esposta trionfalmente con giusto orgoglio.
Insomma, per farsi una bella mangiata senza disturbare, come direbbe Artusi, gli stomachi
deboli, bisogna essere, o diventare, avanguardia.
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James Ensor, La mangiatrice di ostriche, 1882
Grandissimo fra gli artisti che hanno fatto la nostra epoca, conosciamo Henri Matisse
(1869-1954) come il signore dell’arabesco e della sintesi.
Ma anche per lui ci sono stati degli inizi di segno diverso e la prova sta in questa squisita
La desserte del 1897 in cui la cameriera bretone sta dando gli ultimi ritocchi a un’altra
tavola magnificamente apparecchiata: obliqua, essa scivola verso di noi e
miracolosamente, proprio come accadeva nelle sghembe prospettive medioevali, ciò che
sta sopra non ci cade addosso.
Anche perché è proprio per questa visione dall’alto, rapida, veloce, che riusciamo a vedere
tutto e a cogliere l’atmosfera di attesa che sempre precede il rituale di un pranzo.
Il pane è sistemato sulla tovaglia, probabilmente ci saranno ulteriori aggiustamenti, è un
giorno di festa?
Henri Matisse, La desserte, 1897
Non ci crederete, ma Matisse è autore anche di quest’altro dipinto, cui dà il titolo la
cameriera bretone che abbiamo già visto all’opera.
Bello, vero? Non sembra lui, è un’opera minore, iniziale, spoglia, con quel grande pane in
primo piano e la donna che è ritratta in una posizione che ricorda un dipinto di Chardin (Le
benédicité, 1740), a testimonianza di un’onda lunga che dura tanto.
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Henri Matisse, La serveuse bretonne, 1896
Capiamo, così, come l’artista sia più volte tornato sul tema del servizio a tavola, giungendo
alla sua straordinaria fioritura con un’altra desserte, quella del 1908, intitolata anche La
stanza rossa o Armonia in rosso. C’è pane su questa tavola? Probabilmente sì, anche se
le forme sono diventate sintetiche e l’arabesco tanto atteso è comparso al suo meglio,
capace di incorniciare la sintesi bidimensionale del mondo che è il punto di vista di Matisse
su di esso.
Una nota importante. L’artista, nato a Le Cateau Cambresis, nel nord della Francia, paese
del tessile, era lui stesso figlio di un mercante di stoffe e di una modista.
Arrivato a Parigi in situazioni economiche precarie, mise insieme a fatica quella che lui
chiamava la sua ‘bibliothèque de travail’, una biblioteca di lavoro, ovvero una valigia con
campioni di tessuti diversi, che si sarebbe portato dietro tutta la vita.
Affascinato dall’arte islamica, antinaturalistica e tendente all’astrazione, Matisse trovò
presto la sua strada, saturando le sue opere di motivi decorativi, di ornati e di colori
sontuosi, in un trionfo di ‘bonheur de vivre’, una diffusa gioia di vivere che dà il titolo alla
sua famosa opera del 1906, capolavoro fra i capolavori di una lunga e fertile carriera.
Se vi interessa l’argomento, cercate i cataloghi delle mostre Matisse, His Art and His
Textiles, London/New York 2005 e Matisse et la couleur des tissus, Le Cateau Cambresis
2005.
Henri Matisse, La desserte rouge, 1908
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Cerchiamo in qualche modo di arrivare a un punto fermo e a un primo bilancio,
l’argomento è infinito e più si cerca, più si trova (potrebbe diventare una regola di vita).
Vi propongo, quindi, alcune opere moderne che vorrei definire assolute.
Il Cestino di pane di Salvador Dalì (1904-1989) potrebbe essere stato dipinto da Zurbarán:
medesima perizia tecnica, medesimo realismo, medesima Spagna. Una prova di
virtuosismo che di surreale ha l’eccesso di adesione al vero, si percepisce la fragranza,
potremmo prenderlo e portarlo in tavola.
Salvador Dalì, Cestino di pane, 1926
I pani di Magritte (1898-1667) prendono titoli come sempre fantasiosi e per niente in
relazione con il soggetto; sono baguette, filoncini descritti nei dettagli, decontestualizzati,
ossia non stanno né dal fornaio né sulla tavola e nessuno ci si è fatto una merenda. Da
qui, dallo spostamento di luogo e dall’annullamento della funzione di cibo, deriva il senso
di straniamento che insieme all’accurato realismo fa il fascino dell’artista belga.
René Magritte, L’avenir, 1936
René Magritte, La legende dorée, 1958
Ci sono poi dei pani nostri, italiani, meridionali, magnifici, appena fatti eppure antichi come
il mondo. Essi stanno nella produzione di Antonio Biasiucci, fotografo nato a Dragoni
(Caserta) nel 1961, grande maestro del bianco e nero, che si alimenta della sua vicenda
personale e di quella della sua terra.
Riprende i pani assiduamente, il tema ritorna, come ritornano i suoi altri soggetti, i vulcani,
gli ex voto, le vacche, i corpi.
Le croste assomigliano alle crepe della terra, pagnotte che al Sud stanno dappertutto
prendono una statura morale di cui avevamo sempre intuito l’esistenza, il pane è mistero,
inizio, destino e leggenda, l’artista ne rivela l’essenza autentica, noi non potremo mai più
mangiarne un boccone senza trasformare il nostro gesto in un atto religioso, di preghiera e
ringraziamento.
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Antonio Biasiucci, Pane
Concludo questa prima parte del nostro (provvisorio e incompleto) lavoro sul pane con una
cosa più leggera. Leggera, ma come, se è una cosa grande, fatta di tela riempita con
gomma e cartone e dipinta con acrilico, immangiabile, vagamente somigliante all’originale,
trasposizione pop di un hamburgher fatta dallo svedese Claes Oldenburg (1929-),
cambiata di dimensione?
Che volete farci, gli artisti sono fatti così, amano scombinare le nostre idee e farci vedere
le cose diversamente.
Sapete che in molti alla mia domanda ‘Questo panino vi fa venire fame?’ mi hanno
risposto di sì?
Non ci si crede, la Gola, vizio capitale, non si ferma davanti a niente e, mi viene il dubbio,
è uno dei più potenti motori del mondo.
Ma torneremo anche su questo argomento.
Claes Oldenburg, Floor Burger, 1962, anche durante il restauro del 2012
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