Rosalma Salina Borello
Se una notte una farfalla
sogna di essere Zhuang-zi
Incontri di poeti, filosofi, pittori
sulla Via della seta:
Montale, Calvino, Lao-tzu, Okakura, Po Chou-i,
Yang-ti, Kenk, Nishida, Sasaki, Nietzsche,
Jung, Alquié, Artaud, Van Gogh,
Gatto, Bigongiari, Breton e altri.
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ISBN 88-548-0139-9
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
I edizione: aprile 2005
I ristampa aggiornata: settembre 2006
a mio padre
NON DOMANDARCI LA FORMULA
AL LETTORE
La farfalla dalle ali rosse che si libra nell’aria sopra la pesante realtà è emblema di
quella leggerezza che Calvino augurava al nuovo millennio.
Nel dipinto di Lü Shoukun (1919-1975) la resa grafica della materia ci sembra
alludere al lento e faticoso lavoro di decantazione che la “letteratura della leggerezza”
deve compiere, quasi attraversando le varie fasi della trasformazione alchemica (dalla
“nigredo” alla “rubedo”) per conquistare l’aerea levità di tanti personaggi che popolano l’universo poetico di Montale, quello dei surrealisti (dalla prima all’ultima generazione) e le pagine di Calvino.
I saggi raccolti in due volumi, in un certo senso, complementari, Se una notte una
farfalla sogna di essere Zhuang-zi e La maschera e il vuoto, derivano in gran parte
dall’elaborazione di discorsi e interventi negli incontri internazionali, da me organizzati,
all’insegna dell’amicizia e del dialogo tra cittadini del mondo Si ricorderanno quasi
sempre in nota le diverse occasioni, sedi e figure di amiche e amici intervenuti, di volta in
volta, come interlocutori in un dialogo che spesso continua oltre i muri d’ombra e le
distanze, in apparenza, più incolmabili…
Nella pagina precedente: L’essere se stesso del Maestro Zhuang-zi di Lü Shoukun, 1974.
«Esser vasto e diverso».
A proposito di Montale.
Agli studenti
di Regensburg
e di Roma, Tor Vergata
Un messaggio in bottiglia
La consonanza di Montale con un “sentire” che potrebbe
avvicinarsi a quello del grande poeta cinese Po Chou-i non è poi
tanto sorprendente. Come egli dice nella prefazione all’antologia
di Liriche cinesi, pubblicata da Einaudi nel 1952, quella poesia
«non è un microcosmo che riveli e illumini perfettamente l’entità
macrocosmica che le ha permesso di formarsi – la formicolante,
travagliata, civile, ed estenuantissima vita, e vita millenaria, di un
popolo sterminato, diversissimo dai nostri». È invece «un
insieme di gocce d’acqua che dovrebbero rivelarci un oceano e se
ne stanno chiuse nelle loro fiale delicate e sottili; è un lampo di
madreperla che illumina una tragedia troppo più che individuale
per suggerirci parole di quaggiù»1.
Argomento unico di quella «sterminata efflorescenza»
sembra essere la poesia stessa come un messaggio in bottiglia:
una «bouteille à la mer trasmessa da iniziato a iniziato». Po
Chou-i cantava per tutti, lontano da ogni mandarinismo poetico,
eppure pare che solo Yuan Chen possa essere il destinatario dei
suoi versi quando li scopre scritti sul muro di una locanda:
1
Cfr. E. Montale, Prefazione a «Liriche cinesi» in Sulla poesia, Milano
Mondadori, 1976, pp. 41-48, passim.
9
Il mio goffo poema sul muro della locanda
Nessuno finora s’era curato di leggere.
Muschio e tracce d’uccelli ne avean cancellato i caratteri.
Poi giunse un avventore dal cuore così traboccante,
Che, benché fosse Paggio al trono dell’Imperatore,
Si degnò con un lembo del suo ricamato mantello
2
Di spazzar via la polvere e leggere .
Evidentemente l’opera «è giunta a destinazione, ha trovato
finalmente il suo lettore», commenta Montale. Nelle composizioni di Po Chou-i e degli altri poeti cinesi «l’uomo e l’arte tendevano alla natura, erano natura».
Si avverta intanto che non si tratta qui di rifacimenti o pastiches di
un artista originale su una materia presa a prestito in quanto suscettibile di modernissime variazioni musicali: […] Attraverso secoli di
guerre, di flagelli, di carestie e di orrori, questi pochi poeti, questi in
realtà numerosissimi poeti che si contano per dinastie (e sono imperatori e ministri, generali che corrispondono in versi, mogli ripudiate
e funzionari in esilio) si sono trasmessi il fior di giada dell’arte loro,
l’hanno elaborata e perfezionata, adorna di sensi e supersensi, di
parallelismi concettuali e di acuzie tecniche, hanno compiuto insomma prima di noi tutto il ciclo evolutivo e involutivo ai quali ci han
reso familiari, in pochi secoli, le maggiori letterature dei nostri paesi.
[…] Si consideri la relativa traducibilità di coteste perle cinesi, certo
più accessibili, portate in un altro linguaggio, di moltissimi frammenti
greci. In esse la contraddizione tra fondo e forma, tra significato e
stile, che noi riteniamo costitutiva d’ogni poesia, non ha toccato certo
il suo vertice. Quel loro impalpabile prestigio formale che si sovrappone alla verità e non l’annulla, dovette essere in qualche misura una
bellezza di scuola, apprendibile, tramandabile. Una bellezza quale
può essere toccata, appunto, anche da duemila poeti nel giro di tre o
quattro secoli. E una retorica trasmissibile, s’intende, esiste anche da
noi ed è il fondamento di tutto il nostro classicismo. Ma nel mondo
occidentale, cristiano, il bello si è fatto più intrinseco, la forma è
diventata una forma-fantasma e il dissidio tra la bellezza e il suo
2
10
Ibid., p. 46.
significato è ormai dialettico, è sceso nel tempo dell’uomo e nel suo
3
destino .
Le labili epifanie di un poeta come Montale sono l’emblema,
a tutti familiare, di quelle «forme-fantasma» che popolano la
lirica occidentale, ma il «tono di corrispondenza, di confessione,
di epistola» che egli rileva nella «vastissima satura4» della poesia
cinese (e pervade tutta la tradizione letteraria dell’EstremoOriente, compresa, ovviamente, quella giapponese) non manca
certo nella sua produzione. Non a caso il suo nome affiora nel
discorso di Gian Carlo Calza, quando parla di Kenk, autore di
una specie di «elzeviri formato zen», in cui parrebbe di poter
ritrovare un’assonanza con la poesia di Montale:
Pare un distillato di saggezza umana, tanto più squisita in quanto è
offerta con noncuranza, come se si trattasse della cosa più ovvia e
naturale e spesso per il tramite di un fatto di per sé insignificante. Ma
questo elemento di banalità viene trasformato nello strumento prezioso che indica a ciascuno la via per la conquista della propria condizione di uomo acquistando così valore esemplare, e facendo assurgere
l’aspetto quotidiano della vita alla sfera degli archetipi.
3
Ibid., pp. 42-48 passim.
Ibid., p. 44. Montale rileva come nella produzione letteraria dell’antica
Cina tutto sia «come sommerso e livellato da una clima, da un gusto» che
permea anche la produzione successiva, dove «mancano le nostre, del resto
relative, partizioni di genere; ma per lo più la lirica e la satira sembrano
affiancarsi liberamente in questa vastissima satura, l’epopea vi è quasi
sconosciuta se non l’epos, e la poesia primitiva, essenzialmente popolare, quella
del Libro delle Odi (1753-600 a. C.) è bastata a Confucio per dispanarvi le fila
dei suoi precetti morali e delle sue interpretazioni allegoriche». E continua:
«Nulla d’implicito in questa lirica di poeti che furono ad un certo punto anche
pittori e calligrafi; nessun abisso che divida la poesia colta da quella popolare o
rimasta senza attribuzione. […] Di mano sconosciuta è per esempio il Poema di
Magnolia, la fanciulla guerriera che solo dopo molti anni di battaglie, di lotte e
di vittorie, dimette l’armatura, stringe i capelli in un nodo, si tinge la fronte di
giallo ed esce incontro ai suoi commilitoni» (Ibid., pp. 44-45).
4
11
Si diceva che questa «voce» ha per noi italiani una nota di familiarità.
Era a Montale che il pensiero correva. E tra le tante analogie che si
potrebbero scoprire, la più pregnante è proprio quella dell’atteggiamento verso la morte. Si pensi, in occasione del discorso per il conferimento del premio Nobel a Stoccolma, al riferimento fatto al proprio
«coccodrillo», l’elogio funebre delle personalità di rilievo che giace,
5
preconfezionato in vitam negli archivi dei quotidiani .
Nella voce di Urabe Kaneyoshi, chiamato Kenk, di quel
monaco letterato giapponese del Trecento che sa distillare, con
somma eleganza e noncuranza, perle di saggezza da triti fatti,
pare effettivamente anche a me di avvertire una sorprendente
consonanza con quella di Montale. Gli elementi di banalità, i
«triti fatti» vengono trasmutati in entrambi nello strumento prezioso che indica a ciascuno una via non dissimile da quella del
Wu-Wei proposto dal Tao. Non è certo facile per il mondo
occidentale recepire il pensiero taoista che permea di sé la poesia, le arti, la cultura dell’Estremo Oriente, come ha sottolineato
Jung che, forse più di ogni altro, ne ha compreso il messaggio e
lo ha saputo metabolizzare nell’elaborazione delle sue teorie
sulla personalità:
È caratteristico dello spirito occidentale non possedere nessun
concetto corrispondente a quello del Tao. L’ideogramma cinese è
composto dai segni “testa” e “andare” […] La “testa” potrebbe alludere alla coscienza, l’“andare” al “percorrere una via” e il concetto
significherebbe quindi “andare consapevolmente”, o “ via cosciente”.
Con ciò concorda il fatto che come sinonimo di Tao s’ impieghi la
“luce del cielo”, che “dimora tra gli occhi” come “cuore celeste”.
L’essere e la vita sono contenuti nella luce del cielo. E Liu Hua Yang
li considera i segreti più importanti del Tao. Ora la “luce” è
l’equivalente simbolico della coscienza, e la natura della coscienza
viene espressa da analogie con la luce, Il Hui Ming Ching inizia coi
versi:
5
12
Cfr. G. C. Calza, Stile Giappone, Torino, Einaudi, 2002, p. 35.
Se vuoi produrre il corpo di diamante, senza dispersioni
Con cura devi riscaldare la radice della coscienza e della vita.
Illuminare devi il paese beato ch’è sempre vicino,
E colà celato, lasciarvi sempre abitare il tuo vero Io.
Questi versi contengono una sorta di istruzione alchemica, un metodo
o una via per la produzione del corpo adamantino, di cui si parla
anche nel nostro teso. A questo scopo è necessario operare un “riscaldamento”, ovvero un ampliamento della coscienza affinché la dimora
dell’essere spirituale ne venga “illuminata”. Non solo la coscienza
dev’essere ampliata, ma anche la vita va resa più intensa6
La poesia di Montale, che è stata spesso definita nei termini
di una «microescatologia dell’effimero»7, potrebbe essere ricondotta a un minimalismo esistenziale che induce – si potrebbe dire
con Lao-tzu – a considerare il piccolo come grande, il poco come
molto. Sua è la parola che in Mediterraneo sa rivelare nella
fluttuante vastità marina l’«eterno ‘réservoir’ delle forme, che
accoglie indifferentemente le vuote larve dell’essere e l’informe
vita ancora da configurarsi» (come aveva intuito Solmi in un
celebre saggio del ‘26).
Mia vita, a te non chiedo lineamenti
8
fissi, volti plausibili o possessi.
Forse occorreva il coltello che recide, non l’attenzione al
ribollio della vita fugace. Forse occorrevano altri libri, non l’assidua lettura della pagina rombante del mare, ma il poeta ammette
di non rimpiangere nulla:
6
Cfr. C.G. Jung, Commento al «Segreto del fiore d’oro» in Studi sull’alchimia, Torino, Boringhieri, 1997, pp. 17-18.
7
Cfr. A. Frattini, P. Tuscano, Eugenio Montale, in Poeti italiani del XX secolo, Brescia, La Scuola, 1974, p. 575.
8
Questi versi di un celebre osso, tratti come tutte le altre citazioni dall’edizione critica a cura di Gianfranco Contini e Rosanna Bettarini, si trovano in E.
Montale, L’opera in versi, Torino, Einaudi, 1980, p. 31.
13
Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale
siccome i ciottoli che tu volvi,
mangiati dalla salsedine;
scheggia fuori del tempo, testimone
di una volontà fredda che non passa.
Altro fui: uomo intento che riguarda
in sé, in altrui, il bollore
della vita fugace - uomo che tarda
all’atto, che nessuno, poi, distrugge9.
Il cuore che ogni moto tiene a vile, non più squassato da trasalimenti, sa che la più vera ragione è di chi tace10. Sa, come sa
Arsenio (lo vedremo e, intanto, si noti la rima stolto-volto) che
quando si è alle origini ogni decisione è stolta:
Quivi sei alle origini
e decidere è stolto:
ripartirai più tardi
11
per assumere un volto
Stolto sarebbe opporsi all’inclinazione naturale delle cose,
alle erratiche forze dei venti che s’ingolfano verso l’oceano:
Mia vita è questo secco pendio,
mezzo non fine, strada aperta a sbocchi
di rigagnoli, lento franamento.
È dessa, ancora, questa pianta
che nasce dalla devastazione
e in faccia ha i colpi del mare ed è sospesa
12
fra erratiche forze di venti .
Una strada aperta a sbocchi di rigagnoli è la via seguita dal
poeta, che vi si abbandona senza riserve e rimpianti, partecipe
9
Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale (Ossi di seppia, abbr. OS) p. 57
So l’ora in cui la faccia più impassibile, (OS) p. 36.
11
Là fuoriesce il Tritone (OS) p. 35.
12
Giunge a volte, repente (OS) p. 55.
10
14
alla legge universale del mutamento. Anche il nostro passato non
ci appartiene più:
Cigola la carrucola del pozzo,
l’acqua sale alla luce e vi si fonde.
Trema un ricordo nel ricolmo secchio,
nel puro cerchio un’immagine ride.
Accosto il volto a evanescenti labbri:
si deforma il passato, si fa vecchio,
13
appartiene ad un altro…
Su questo celebre osso potrebbe aver agito, come memoria
più o meno involontaria, una poesia di Yuan Chen (779-831
d.C.) di cui nell’antologia einaudiana è riportato un componimento intitolato Il secchiello:
In sogno mi trovai sopra un pianoro altissimo
E su quel pianoro vidi un pozzo profondo.
La mia gola era secca a forza di salire
E con tutte le forze desideravo bere.
I miei occhi erano avidi di chinarsi a guardare
Nella fresca voragine; mi misi a camminare
Intorno al pozzo e infine mi chinai e guardai:
La mia specchiata immagine nel pozzo contemplai.
Un secchiello di coccio calava nel profondo,
Ma non c’era una fune per ritirarlo su.
Stranamente turbato al pensiero di perderlo
Mi misi come un pazzo a correr su e giù;
Di villaggio in villaggio, sempre in cerca d’aiuto,
Tutto l’alto pianoro invano perlustrai;
Erano assenti gli uomini; i cani mi assalivano;
Mi rivolsi e piangendo al pozzo ritornai.
Fitte, sempre più fitte, cadevano accecanti
Le mie lacrime, e infine dal pianger mi svegliai.
Dalla candela tremula guizzava un fumo verde;
Le lacrime brillavano a lume di candela.
E tentai di scrutare in fondo al mio pensiero:
13
Cigola la carrucola del pozzo (OS) p. 45.
15
L’altipiano dei sogni miei era il cimitero
Di Chang-an: quei cento ettari di terra incoltivata.
Il terreno pesante, gli alti mucchi di terra
E sotto ai mucchi i morti nelle casse profonde.
Profonde son le casse, pure talvolta i morti
Trovan la via del Mondo sopra le loro tombe.
E l’amor mio stanotte, morto da tanto tempo,
M’apparve nella forma del secchiello nel pozzo;
Ecco perché le lacrime sgorgaron come fiume,
Come fiume improvviso, bagnandomi la veste14.
Forte è la suggestione di questi antichi versi, non solo per la
densità delle immagini, ma per l’interpretazione del mondo onirico che assedia la fantasia del poeta, ne popola le notti, ne trafigge i giorni con lame affilate dal ricordo.
L’immagine del pozzo-memoria, quella del secchio come
tramite per l’emergere del passato, parrebbe aver fatto presa sui
versi di Montale che, di riflesso, acquistano una tonalità più lugubre e onirica.Yuan Chen che interpreta il suo sogno ci dischiude
un ventaglio interpretativo che si può estendere anche a Montale:
quell’altro disciolto nel ricolmo secchio non può che appartiene
al regno dei revenants, dei trapassati. Nel poemetto Mediterraneo
questa consapevolezza si vena di nostalgia, nel rimpianto di un
rapporto privilegiato con l’elemento equoreo primordiale vissuto
in un passato mitico (quello delle estati della sua infanzia):
La casa delle mie estati lontane
t’era accanto, lo sai,
là nel paese dove il sole cuoce
e annuvolano l’aria le zanzare.
Come allora oggi in tua presenza impietro,
mare, ma non più degno
mi credo del solenne ammonimento
14
La poesia di Yuan Chen, Il secchiello, figura nell’antologia di liriche
cinesi, di cui Montale curò per Einaudi la prefazione. Cfr. Liriche cinesi, op.
cit., p. 139.
16
del tuo respiro. Tu m’hai detto primo
che il piccino fermento
del mio cuore non era che un momento
del tuo; che mi era in fondo
la tua legge rischiosa: esser vasto e diverso
15
e insieme fisso…
Negli Ossi di seppia l’abbandono al naturale fluire della vita
viene attribuito a un’età mitica, quella dell’infanzia, «dove ogni
umano impulso / appare seppellito / in aura millenaria» come ci
vien detto in una poesia in cui paiono trasfusi in versi i dettami
della pittura zen. Ne citerò qualche stralcio:
Rombando s’ingolfava
dentro l’arcuata ripa
un mare pulsante, sbarrato da solchi,
cresputo e fioccoso di spume.
Di contro alla foce
d’un torrente che straboccava
il flutto ingialliva.
Giravano al largo i grovigli dell’alighe
16
e tronchi d’alberi alla deriva .
Dopo questa marina si apprezzi l’estatico affissarsi nel ricordo di un paesaggio montuoso:
Poco s’andava oltre i crinali prossimi
di quei monti; varcarli pur non osa
la memoria stancata.
So che strade correvano su fossi
incassati, tra garbugli di spini;
mettevano a radure, poi tra botri,
e ancora dilungavano
verso recessi madidi di muffe,
d’ombre coperti e di silenzi…
15
16
Antico, sono ubriacato dalla voce (OS) p. 52.
Fine dell’infanzia (OS) p. 65.
17
Di quella stupita fanciullezza sopravvive un ricordo di armonia (rapido rispondeva / a ogni moto dell’anima un consenso /
esterno), l’instabile vicenda di quelle immagini di vita in perpetua fluttuazione ed insieme l’agile ritmo che le governava:
Ma dalle vie del monte si tornava.
Riuscivano queste a un’instabile
vicenda d’ignoti aspetti
ma il ritmo che li governa ci sfuggiva.
Ogni attimo bruciava
negl’istanti futuri senza tracce.
Vivere era ventura troppo nuova
ora per ora, e ne batteva il cuore.
Norma non v’era,
solco fisso, confronto,
a sceverare gioia da tristezza.
La ricerca di un «ritmo» si trasfonde nell’attesa di una parola
leggera e duttile nel cogliere l’esistenza nel suo perpetuo fluire.
La parola ossimorica di Montale, radicata in una profonda coscienza filosofica (nonostante le dichiarazioni dell’autore sulla
sua scarsa competenza in materia), in una sorta di “a-teologia del
relativo”, sa fare questo: cogliere il non-essere come polo cui
tende l’essere, il perpetuo fluire delle cose nell’evanescenza delle
colori, nello svariare e svanire di tutto ciò che esiste:
Portami il girasole ch’io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l’ansietà del suo volto giallino.
Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.
Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
18
e vapora la vita quale essenza;
17
portami il girasole impazzito di luce .
Il perpetuo svariare e svanire di forme e colori può richiamare alla mente alcune intuizioni di Lao-tzu riprese da Kakuzo
Okakura in un prezioso libretto in cui l’autore, discendente da
una antichissima famiglia di samurai, riesce a spiegare, attraverso la cerimonia del tè, i caratteri precipui del pensiero
cinese:
Letteralmente, Tao significa Sentiero.[…] Lo stesso Lao-tzu ha detto:
«Esiste una cosa che contiene tutto, nata prima che esistessero Cielo e
Terra. Com’è silenziosa! Com’è solitaria! Se ne sta sola e non muta.
Ruota su se stessa senza pericolo, ed è la Madre dell’Universo. Con
riluttanza la chiamo Infinito. Infinito è Fugacità, Fugacità è svanire,
Svanire è Ritornare». Il Tao è nel Passaggio, più che nel Sentiero. È
lo spirito del Mutamento Cosmico, l’eterno sviluppo che ritorna su se
stesso come il drago, simbolo prediletto dei taoisti. Si addensa e si
squarcia come fanno le nuvole. Si potrebbe parlare del Tao come
della Grande Transizione. Dal punto di vista del soggetto, è il modo
18
di essere dell’Universo. Il suo Assoluto è il Relativo .
L’a-teologia del relativo consente alla parola montaliana di
cogliere il miracolo: la rivelazione del vuoto, su cui, in un celebre e celebratissimo osso, si accampano, per la consueta messa in
scena, per l’inganno consueto, le cose:
Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
19
di me, con un terrore di ubriaco .
17
Portami il girasole ch’io lo trapianti (OS) p. 32.
Cfr. K. Okakura, Lo zen e la cerimonia del tè, a c. di L. Gentili, Milano,
Feltrinelli, 1997. pp. 31-32.
19
Forse un mattino andando in un’aria di vetro (OS) p. 40.
18
19
Ecco il timore e l’ebbrezza del nulla, in una navigazione
senza più alcun battello o «bateau ivre», in una deriva senza fini
né fine. Ma, a differenza del JE-bateau di Rimbaud, troviamo qui
un io lirico disciolto in un’esperienza del vuoto non delirante, ma
filosofica, che potrebbe essere quella proposta dalle varie scuole
di meditazione buddista o zen. Nel secondo verso l’aspetto
positivo del vuoto è evidenziato dal fatto che è posto a sinonimo
di «miracolo», un miracolo che, a fine strofa, viene ridimensionato, secondo un procedimento di relativizzazione dell’assoluto che ci è ormai familiare, da una quasi-rima, una rima imperfetta con «ubriaco»: una di quelle rime, fatte «per abbassare il
tono, non per alzarlo» – direbbe Calvino – in cui Montale è, al
pari di Gozzano, maestro20.
A ben vedere – suggerisce Calvino in un suo famoso saggio –
l’aria di vetro «è il vero elemento di questa poesia» e continua:
È la determinatezza del medio che sbocca nel senso del nulla (mentre
in Leopardi è l’indeterminatezza che raggiunge lo stesso effetto). O
per essere più precisi, c’è un senso di sospensione, dal «Forse un
mattino» iniziale, che non è indeterminatezza ma attento equilibrio,
«andando in un’aria di vetro», quasi camminando nell’aria, in aria,
nel fragile vetro dell’aria, nella luce fredda del mattino, fino a che non
ci s’accorge d’essere sospesi nel vuoto21.
Il concetto di vuoto è così fondamentale nel pensiero orientale
(perché la Via è vuota e nonostante l’uso non si riempie mai,
secondo il taoismo22) da improntare la tradizione letteraria, filo20
Per l’interpretazione montaliana di Gozzano rimando al saggio Guido
Gustavo Gozzano. Un ritorno al futuro inserito alla fine del volume La maschera e il vuoto, attualmente in corso di stampa presso la Aracne.
21
Questa citazione è tratta, come tutte le altre, dall’edizione mondadoriana
dei Meridiani diretta da Claudio Milanini. Cfr. I. Calvino, Eugenio Montale,
Forse un mattino andando, in Saggi, tomo II, Milano, Mondadori, 1995, p.
1181.
22
Lao-tzu sosteneva che solo nel vuoto si trova ciò che è veramente
essenziale. La funzione di una stanza, ad esempio, va ricercata nello spazio
20
sofica, le arti visive e le intuizioni scientifiche confermate – ne
riparleremo – dalle più recenti acquisizioni della fisica moderna.
L’esperienza del vuoto porta a un affinamento della percezione,
che permette di cogliere l’indistinto e il precategoriale, riattivare
quei canali di coscienza e di energia che ci consentono di recepire
– parafrasando la celebre frase di Rimbaud – non solo il JE come
un Autre, ma l’Autre come un JE. Illuminante a questo proposito
il famoso episodio di Zhuang-zi che sogna di essere una farfalla,
«una farfalla svolazzante e soddisfatta della sua sorte e ignara di
essere Zhuang-zi». Risvegliatosi bruscamente si accorge con
stupore di «non sapere se era Zhou che sognava di essere una
farfalla, o una farfalla che sognava di essere Zhou».
Bruscamente si risvegliò e si accorse con stupore di essere Zhuangzi. Non seppe più allora se era Zhou che sognava di essere una farfalla, o una farfalla che sognava di essere Zhou. Tra lui e la farfalla
vi era una differenza. Questo è ciò che chiamano la metamorfosi
degli esseri23.
In fondo al Graal…
È interessante osservare come il quasi troppo evidente e
scontato riferimento al pensiero e alle letterature orientali – la cui
conoscenza da parte di Montale è certificata anche dalla sua fortunata antologia della poesia cinese – venga sottaciuta da Calvino
vuoto delimitato dalle pareti e dal tetto e non nel tetto e nelle pareti che fungono
da sostegno. L’utilità di una brocca consiste nel vuoto nel quale l’acqua viene
versata, e non nella forma del vaso o nel materiale di cui è fatto: il vuoto è
onnipotente perché contiene ogni cosa. Solo nel vuoto il movimento è possibile.
Colui che riesce a fare di sé un vuoto in cui gli altri possano entrare e uscire
liberamente potrà dominare ogni situazione. Queste idee taoiste hanno esercitato una profonda influenza su tutta la cultura dell’estremo Oriente, persino
sulle arti marziali.
23
Cfr. Zhuang-zi (a cura di Liou Kia-hway), Milano, Adelphi, 1992, p. 32.
21
in pagine critiche che si configurano come una riscrittura-travestimento del celebre osso.
Il «vuoto» e il «nulla» sono «alle mie spalle», «dietro di me». Il punto
fondamentale del poemetto è questo. Non è una indeterminata sensazione di dissoluzione: è la costruzione d’un modello conoscitivo che
non è facile da smentire e che può coesistere in noi con altri modelli
più o meno empirici. L’ipotesi può essere enunciata in termini molto
semplici e rigorosi: data la bipartizione dello spazio che ci circonda in
un campo visuale davanti ai nostri occhi e un campo invisibile alle
nostre spalle, si definisce il primo come schermo d’inganni e il
secondo come un vuoto che è la vera sostanza del mondo24.
Il travestimento dell’osso montaliano operato metodicamente
da Calvino attraverso l’uso di in linguaggio scientifico, da cui
trae in realtà suggestioni e metafore (che andranno a popolare le
labirintiche involuzioni e circonvoluzioni fantastiche di Palomar)
passa innanzitutto attraverso una rivisitazione delle teorie della
percezione di Merleau-Ponty:
Merleau-Ponty nella Fenomenologia della percezione ha pagine
molto belle sui casi in cui l’esperienza soggettiva dello spazio si
separa dall’esperienza del mondo oggettivo (nel buio della notte, nel
sogno, sotto l’influsso della droga, nella schizofrenia, ecc.). Questa
poesia potrebbe figurare nell’esemplificazione di Merleau-Ponty: lo
spazio si disgiunge dal mondo e s’impone in quanto tale, vuoto e
25
senza limiti .
Con la stessa sofistica minuzia, con quella sua cervellotica
capziosità da «loico viscerale26» cui sono improntate tante pagine
memorabili, Calvino continua imperterrito, in questo saggio, ad
accumulare quelle che per lui sarebbero prove inconfutabili della
presenza nell’osso montaliano di modelli conoscitivi tratti dai più
24
Cfr. I. Calvino, Saggi, op. cit., p. 1184.
Ibid., p. 1182.
26
La definizione è tratta da S. Perrella, Calvino, Bari, Laterza, 1999.
25
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disparati campi scientifici, dalla biologia alla fenomenologia della percezione, dalla medicina agli studi antropologici, a volte con
effetti di una comicità grottesco-surreale:
L’uomo ha sempre sofferto della mancanza di un occhio sulla nuca, e
il suo atteggiamento conoscitivo non può che essere problematico
perché egli non può essere mai sicuro di cosa c’è alle sue spalle, cioè
non può verificare se il mondo continua tra i punti estremi che riesce
a vedere storcendo le pupille in fuori a sinistra e a destra. Se non è
immobilizzato può girare il collo e tutta la persona e avere una
conferma che il mondo c’è anche lì, ma questa sarà anche la conferma
che ciò che egli ha di fronte è sempre il suo campo visuale, il quale si
estende per l’ampiezza di tot gradi e non di più, mentre alle sue spalle
c’è sempre un arco complementare in cui in quel momento il mondo
potrebbe non esserci. Insomma, ruotiamo su noi stessi spingendo
davanti ai nostri occhi il nostro campo visuale e non riusciamo mai a
vedere com’è lo spazio in cui il nostro campo visuale non arriva.
Il protagonista della poesia di Montale riesce, per una combinazione
di fattori oggettivi (aria di vetro, arida) e soggettivi (ricettività a un
miracolo gnoseologico), a voltarsi tanto in fretta da arrivare, diciamo,
a gettare lo sguardo là dove il suo campo visuale non ha ancora
occupato lo spazio: e vede il nulla, il vuoto 27.
Lo spassoso travestimento-travisamento calviniano continua
con la trovata dello specchietto retrovisore «situato in modo da
escludere l’io dalla visione», ma da cui l’uomo motorizzato dovrebbe essere garantito «dell’esistenza del mondo dietro di lui»,
in quanto «munito d’un occhio che guarda indietro» che gli consente di «comprendere in un solo sguardo due campi visivi contrapposti senza l’ingombro dell’immagine di se stesso, come se
egli fosse solo un occhio sospeso sulla totalità del mondo». Nella
conclusione del suo saggio, in cui avvertiamo già tutto il labirintico arzigogolare di Palomar (che non per nulla si rifarà a
quest’osso montaliano per lanciarsi in una delle sue più avventurose elucubrazioni), Calvino sembra voler distruggere il castel27
Cfr. I. Calvino, Saggi, op. cit., p. 1185-1186.
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lo di carte costruito con l’aiuto delle più disparate teorie scientifiche sulla rivoluzione della tecnica percettiva operata dallo
specchietto retrovisore:
Ma, a ben vedere, l’ipotesi di Forse un mattino non viene scalfita da
questa rivoluzione della tecnica percettiva. Se l’«inganno consueto» è
tutto ciò che abbiamo davanti, questo inganno s’estende a quella
porzione del campo anteriore che, per essere incorniciata nello specchietto, pretende di rappresentare il campo posteriore. Anche se l’io
di Forse un mattino stesse guidando in un’aria di vetro e si voltasse
nelle stesse condizioni di ricettività, vedrebbe al di là del vetro
posteriore della macchina non il paesaggio che andava allontanandosi
nello specchietto, con le strisce bianche sull’asfalto, il tratto di strada
appena percorso, le macchine che ha creduto di sorpassare, ma una
voragine vuota senza limiti.
Del resto, gli specchi di Montale – come Silvio D’Arco Avalle ha
dimostrato per Gli orecchini (e per Vasca e altri specchi d’acqua) – le
immagini non si riflettono ma affiorano «di giù», vengono incontro
all’osservatore28.
Il commento calviniano, dopo aver imbrigliato la poesia in
un groviglio di reti interpretatitive di tipo tecnico-scientifico,
riprende quota quando si tratta di mettere a frutto le indubbie
competenze scientifiche dell’autore, ad esempio a proposito dello
schermo su cui si proiettano nuovamente alberi, case, colli per
l’inganno consueto. L’immagine illusoria «che veniva tradizionalmente resa da poeti e drammaturghi con metafore teatrali» si
esprime attraverso il linguaggio cinematografico:
Questa poesia (databile tra il 1921 e il 1925) appartiene chiaramente
all’era del cinema, in cui il mondo corre davanti a noi come ombre
d’una pellicola, alberi case colli si stendono su una tela di fondo
bidimensionale, la rapidità del loro apparire («di gitto») e l’enumerazione evocano una successione d’immagini in movimento. Che
siano immagini proiettate non è detto, il loro «accamparsi» (mettersi in campo, occupare un campo, ecco il campo visivo chiamato
28
24
Ibid., p. 1187.
direttamente in causa) potrebbe anche non rimandare a una fonte o
matrice dell’immagine, scaturire direttamente dallo schermo (come
abbiamo visto avvenire nello specchio), ma anche l’illusione dello
spettatore al cinema è che le immagini vengano dallo schermo 29.
In chiusura di articolo, la ricostruzione del mondo prospettata
attraverso una metafora cinematografica, si trova una perfetta
consonanza «con l’andatura assorta e sospesa nell’aria del mattino» del flaneur montaliano, avvolto nel silenzio «in cui si custodisce il segreto carpito nel fulmineo moto intuitivo». Un’analogia
sostanziale – conclude Calvino, ritrovando il tono leggero e
svagato delle pagine iniziali – unisce quell’andar zitto al «vuoto
che sappiamo essere origine e fine del tutto» (e, vorrei aggiungere, il sEgRETO all’aria di vETRO che del vuoto è l’«apparenza esteriore meno ingannevole»30).
Il labirintico imbozzolarsi del pensiero di Calvino in un
groviglio di riferimenti scientifici pur di esorcizzare l’idea del
«vuoto», respingere il disagio di fronte al «miracolo» di quella
scoperta è sintomatico di una preclusione tipica della mentalità
occidentale, come viene sottolineato da Gian Carlo Calza:
Il concetto di vuoto nella nostra tradizione ha valenza precipuamente
negativa, di carenza, il che non avviene in Giappone e Cina dove
invece riveste un ruolo positivo e in vari modi viene anche raffigurato. Per intenderne il valore potrà servire spostare l’attenzione
dal concetto di vuoto che può lasciare a disagio, dall’horror vacui, a
31
un concetto a noi più familiare, quello di «silenzio ».
Nell’arte dell’Estremo Oriente, improntata al pensiero taoista
cinese, anche nella sua derivazione Ch’an (o Ch’on, che ne è la
rivisitazione in chiave buddhista, fatta propria dallo Zen giapponese) fondamentale è la presenza di spazi vuoti, da cui si sprigiona
29
Ibid., p. 1188.
Ibid., p. 1189.
31
Cfr. G.C. Calza, Stile Giappone, op cit., pp. 18-19.
30
25
tutta l’energia di ciò che non è definito, non è ancora detto, offrendo allo spettatore la possibilità di completare la rappresentazione e
stimolandone quindi la creatività, anziché l’ottundimento e la passività. Se nella pittura occidentale le nubi – osserva ancora Calza –
servono a costruire dei pieni, come in Tiepolo per esempio, in Cina e Giappone «le nubi sono qualcosa che s’inframmette tra il visibile e l’invisibile», sono un’interruzione della visione che serve a
stimolare nell’immaginazione dell’osservatore un’attitudine creativa. Se sovrapponiamo al nostro concetto di vuoto quello del silenzio, ecco che il vuoto non è più per noi occidentali un fatto
negativo: «pittoricamente il vuoto può essere una nebbia che
interrompe la visione di una montagna, ma diventa anche l’allusione a un mondo che c’è e l’osservatore può immaginarsi: ed è cercando di immaginarselo che si compie un processo di formazione
personale: si fa uno sforzo, si diventa creativi».
Sarà forse il caso di ricordare che il concetto di vuoto in
un’accezione simile sta prendendo piede anche nella nostra cultura, grazie soprattutto alle nuove acquisizioni in campo scientifico. Lo stesso Calvino, ne parla spesso nei suoi saggi, soprattutto in quelli inclusi nelle Lezioni americane. Nella prima lezione, dedicata alla leggerezza, ammette di cercare nella scienza
(nei quarks, nei neutrini vaganti nello spazio, nei messaggi del
DNA ecc.) quel vuoto “concreto” come i corpi solidi che recepiamo nel De rerum natura di Lucrezio:
Il De rerum natura di Lucrezio è la prima grande opera di poesia in
cui la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della compattezza
del mondo, percezione di ciò che è infinitamente minuto e mobile e
leggero. Lucrezio vuole scrivere il poema della materia ma ci avverte
subito che la vera realtà di questa materia è fatta di corpuscoli invisibili. È il poeta della concretezza fisica, vista nella sua sostanza
permanente e immutabile, ma per prima cosa ci dice che il vuoto è
altrettanto concreto che i corpi solidi32.
32
26
Cfr. I. Calvino, Lezioni americane, in Saggi, op. cit., p. 636.
Vuota è l’armatura che consente ad Agilulfo di assumere il
ruolo di cavaliere senza macchia e senza paura ed insieme quello
astratto, metafisico e metanarrativo, di manichino (non dissimile
da quelli di De Chirico) in funzione di supporto del Geist der
Erzählung33 (o pura istanza narrativa) che, a un ceto punto,
giunta ad esaurimento, decreta la fine del cavaliere inesistente.
Vuote le maschere pseudo-oggetive o pseudo-soggettive indossate dai testi con raffinata spregiudicatezza come osserva Claudio
Milanini34. Inesistente è il mondo per l’alchimista o dottor Faust
33
L’espressione Geist der Erzählung (spirito della narrazione), tratta dal
romanzo Der Erwählte di Th. Mann, è diventata un topos della narratologia in
cui indica un tipo di romanzo-che-si-fa-da-sé «- Chi dunque suona le campane
di Roma? - Lo spirito della narrazione. - Può dunque egli essere dappertutto, hic
et ubique […] nello stesso tempo in cento luoghi sacri? - Certo, lo può. È aereo,
incorporeo, onnipresente, non legato allo spazio, non soggetto alle differenze
del Qui e Là. È lui che dice: «Tutte le campane suonano», e di conseguenza è
lui che le suona. Così spirituale è questo spirito e così astratto che di lui,
grammaticalmente, si può parlare solo nella terza persona e si può dire solo:
«Egli è». Ma questo «Egli» può anche raccogliersi in una persona e cioè nella
prima, e impersonarsi in qualcuno che in essa parla e dice: «Sono io. Io sono lo
spirito della narrazione che, seduto là dove ora mi trovo, e precisamente nella
biblioteca del chiostro di S. Gallo, in terra alemanna, dove una volta sedeva
Notkero il balbuziente, racconto questa storia per divertimento e straordinaria
edificazione e comincio dalla sua fine gloriosamente santa e suono le campane
di Roma» Th. Mann, Der Erwählte, Frankfurt a. M., Fischer, 1951 [trad. it.
Romanzi brevi, Milano, Mondadori, 1955, pp. 604 s.]. Per una più ampia
trattazione di questo e altri aspetti teorici del racconto e in particolare di quelli
connessi al punto di vista rimando al mio saggio Literaturwissenschaft e
romanzo. Voce narrante e punto di vista in AA. VV. Discorsi sul romanzo (a c.
di P. Bagni), Firenze, Alinea, 1982, pp. 101-134), e a R. Salina Borello e C.
Lardo, «L’impossibilità di dire:Io» A proposito della voce narrante in Gadda,
Roma, Nuova Cultura, 1996.
34
Cfr. C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggi su Italo Calvino, Milano,
Garzanti, 1990, p. 170. Claudio Milanini osserva, ad esempio che i protagonisti,
dei tre racconti riuniti in Sotto il sole giaguaro sono recettivi e passivi a priori:
«entità appiattite in una vita psichica fluida e instabile», il loro «io» è soprattutto un luogo, un sub-iectum esposto continuamente agli urti di una realtà
esterna che lo destabilizza. In Palomar «soltanto in extremis la voce narrante
27
che nella Taverna dei destini incrociati35 lo paragona alle miriadi
di combinazioni realizzabili con le settantotto carte del gioco dei
tarocchi. Il vuoto è invece, per Perceval-Parzifal-Parsifal, il
«nocciolo del mondo», il principio di ogni movimento e trasformazione, di ogni percorso o ricerca. Anziché compiere un processo di trasmutazione interore, «far diventare la sua anima inalterabile e pura come l’oro», Faust «inverte la regola dell’alchimista, fa dell’anima un oggetto di scambio» In compenso –
obbedendo alla stessa legge di oscillazione pendolare tra due
estremi – l’eroe-senza-macchia-e-senza-paura trasmuta le regole
della Tavola Rotonda, cessa di sottomettere «le sue azioni a una
legge morale assoluta e severa». Come per il “Vero Uomo”
taoista la ricerca della virtù, la stessa quête del Gral, sarà perseguire un’inclinazione naturale: «le virtù cavalleresche saranno in
lui involontarie, verranno fuori come un dono della natura, come
i colori delle ali delle farfalle, e così compiendo le sue imprese
con attonita incuranza, forse riuscirà a sottomettere la natura alla
sua volontà, a possedere la scienza del mondo come una cosa, a
diventare mago e taumaturgo, a far cicatrizzare la piaga del Re
Pescatore e a ridare verde linfa alla terra deserta36». E così,
mentre nel suo delirio combinatorio Faust vede il mondo risucchiato nel buco nero del nulla, per Parsifal dal vuoto si sprigiona
il tutto, al massimo delle sue potenzialità, della sua bellezza e
della sua armonia:
- Il mondo non esiste, - Faust conclude quando il pendolo raggiunge
l’altro estremo, - non c’è un tutto dato tutto in una volta: c’è un numero finito d’elementi le cui combinazioni si moltiplicano a miliardi
di miliardi, e di queste solo poche trovano una forma e un senso e
assume e dichiara il proprio «punto di vista» tramite una subitanea e imprevedibile giravolta stilistica». (Ibid., pp. 170-171).
35
Cfr. I. Calvino, Due storie in cui si cerca e ci si perde, in Il castello dei
destini incrociati, in Romanzi e racconti, (a c. di M. Barenghi e B. Falcetto),
vol. II, Milano Mondadori, 1992, pp. 582-589).
36
Ibid. p. 585.
28
s’impongono in mezzo a un pulviscolo senza senso e senza forma;
come le settantotto carte del mazzo dei tarocchi nei cui accostamenti
appaiono sequenze di storie che subito si disfano.
Mentre questa sarebbe la conclusione (sempre provvisoria) di
Parsifal: – Il nocciolo del mondo è vuoto, il principio di ciò che si
muove nell’universo è lo spazio del niente, attorno all’assenza si
costruisce ciò che c’è, in fondo al gral c’è il tao, – e indica il rettangolo vuoto circondato dai tarocchi37.
37
Ibid., p. 589.
29
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Se una notte una farfalla sogna di essere Zhuang-zi