È una storia realmente accaduta, ricca di coincidenze, che ha come protagonisti principali tre persone: Antonio, Oreste (il don) e Paolo (mio padre). Anni fa avrei ritenuto più semplice incastrare tutto nelle caselle delle casualità; oggi mi appare più affascinante considerarle come un intreccio di storie che, quasi si fosse in un racconto biblico, vogliono svelare qualcosa d’altro. In molte email personali che troverete in questo racconto, mi rivolgo al Signore. È una preghiera sincera che però, ahimè, è sempre accompagnata da una sottaciuta domanda: “ma ci sei veramente?” Copertina e impaginazione: Kaleidon nella treccia, la speranza walter toni nella treccia, la speranza Uno speciale ringraziamento per i suggerimenti a Giacomo Ruggeri, Barbara Mondaini e Alessandro Ramberti. Il guadagno dell’autore sarà interamente devoluto a Casa Betania, una casa di pronta accoglienza, presso la Parrocchia della S. Famiglia di Fano, in grado di ospitare persone prive di un posto dove dormire e di una cena calda. Le accoglienze durano circa sette giorni e non hanno la pretesa di risolvere i problemi e i bisogni materiali delle persone, ma vogliono semplicemente offrire, a chi è ospitato, la possibilità di riposarsi e di godere di un clima familiare con lo scopo di potersi meglio dedicare alle proprie esigenze, come la ricerca di una casa o di un lavoro. Se il libro ti è stato regalato, e desideri comunque sostenere Casa Betania, lo puoi fare attraverso un bonifico su conto corrente bancario intestato a: AMICI DI CASA BETANIA onlus IT33 P0851 96839 00000 50154 092 BCC di Fano - Ag. Marotta Progetto grafico e copertina: Kaleidon - Rimini © 2010 Tau Editrice Pian di Porto - 06059 Todi (PG) Tel. 075.8980433 www.editricetau.com [email protected] ISBN 978-88-87472-95-0 Proprietà letteraria riservata. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore. L’editore è a disposizione degli eventuali detentori di diritti che non sia stato possibile rintracciare. A mia madre e come sempre, come ogni cosa, a Lisetta, Sofia, Aurora e Bianca. Premessa importante Capita di essere protagonisti di coincidenze che incuriosiscono e a volte lasciano interdetti chi le vive. Anni fa avrei ritenuto più semplice incastrare tutto nelle caselle delle casualità; oggi mi appare più affascinante considerarle come un intreccio di storie che, quasi si fosse in un racconto biblico, vogliono svelare qualcosa d’altro. Ho iniziato a scrivere questo testo con molto timore perché so bene quanto io sia narcisista – un “pavone” come mi definiscono in famiglia – e sento quindi forte il pericolo di mettere in mostra prima di tutto me, e non quella “treccia” di vicende veramente vissute, che se lette con un briciolo di fede, possono diventare la chiave interpretativa della propria esistenza. È per questo che, anche se più avanti dirò che lo faccio per le mie figlie, mettere nero su bianco quanto ho effettivamente vissuto, in realtà nasce prima di tutto da un mio bisogno, in modo che nella mente confusa e sempre più frammentata i ricordi non svaniscono, e continuino ad alimentare il desiderio di ricerca. –7– Per cultura, famiglia d’origine, io avrei tendenzialmente una concezione del mondo più simile a quello di Margherita Hack. Ma l’incontro con persone particolari, l’intreccio di certe situazioni non poteva che innescare in me il dubbio e far crescere sempre più forte il desiderio di essere uomo di fede. Molte volte, nelle email personali che troverete in questo racconto, io mi rivolgo al Signore. È una preghiera sincera che però, ahimè, è sempre accompagnata da una sottaciuta domanda: “Ma ci sei veramente?” Un po’ come quando mi trovo a messa a proclamare il credo e mentalmente mi viene da aggiungere “ci provo”. Poca fede, un po’ d’amore, ma tanta, tanta speranza, di questo almeno son sicuro. La speranza, spesso nascosta nella diatriba tra il valore della fede e dell’amore, è la virtù che in questo periodo della vita faccio completamente mia. Con speranza ricerco, provo a pregare, e scrivo. Oh, quante email i miei amici hanno dovuto sopportare! Eppure questo compagno di lavoro, il portatile, che da oltre quindici anni viaggia con me ogni mattina in treno, è sicuramente uno strumento di vera relazione, di questo ne sono certo. Prima che creassimo una mailinglist parrocchiale, inviavo email di auguri e riflessioni a tutto il mio indirizzario, ottenendo moltissime risposte inaspettate, e relazioni inattese. Penso soprattutto a confronti, profondi e sinceri con gli studenti dell’ISIA di Urbino che dovevano assorbirsi un docente di Informatica design esistenzialista. Per questo motivo le email inserite nel racconto non svelano nulla di privato perché erano già state inviate a centinaia di destinatari. Consapevole del rischio di suscitare lo stesso scarso interesse di quando si obbliga ad assistere alla visione di diapositive di vacanze a cui non si è partecipato, per aiutarvi ad entrare nel contesto del racconto che ha inizio nell’ottobre del 2006, ho raccolto alcune delle email più significative, che precedono quel momento. Potete tranquillamente saltarle, o leggerne solo alcune per farvi una idea del “brodo” in cui avevo iniziato a galleggiare, perché le cose non nascono mai casualmente dall’oggi al domani, ma sono il frutto quasi sempre di percorsi, a volte obbligati come sensi unici, ma molto spesso scelti. –8– –9– A queste email, fa seguito il racconto che ha per protagonisti tre persone: Antonio, Oreste (il don) e Paolo (mio padre). 2003-2006 Ogni tanto, una email dal treno tra Fano e Rimini Da: Valter Toni <[email protected]> Data: 11 luglio 2003 09.29.56 GMT+02.00 Oggetto: Sulla morte. La settimana scorsa con sentimento turbato riflettevo sulla morte dopo aver visto un piccolo topo che era diventato dimora di vermetti bianchi. Faremo la stessa fine? Certamente sì, tutti. Ma ieri mentre facevo la doccia, forse grazie al santo patrono, o alla più assidua riflessione e lettura di testi sacri (sto leggendo con più attenzione la 1ª lettera di San Giovanni), mi sentivo in animo di dire come San Francesco: “Laudato sii mi signore per nostra morte corporale.” Ma te l’immagini – ho pensato – se non ci fosse la morte, la fine, una data di scadenza. Il tempo non avrebbe senso. Gli scopi dell’esistere verrebbero sicuramente meno. Lo vedi nelle piccole cose, nei bambini, in noi stessi. Più hai e meno sei stimolato. Figuriamoci: se avessimo l’immortalità sembrerebbe di avere tutto. Eppure spesso vorrei fermare il tempo. Soprattutto quello dei ricordi. Ma a quale età? A venti, trenta... Quella sì che sarebbe – 11 – la vera morte! Al di là di tutte le credenze religiose. L’immortalità non è sicuramente per questo viaggio in questa dimensione terrena... Ce ne saranno altre di dimensioni? Forse. Spesso lo spero, perché comunque la morte senza un continuo mi lascia un senso di incompletezza. Per bella che sia la vita (e quando non lo è si apre l’altro grande problema della sofferenza) mi parrebbe una sinfonia incompiuta. Oppure una specie di occasione persa, di non avere fatto, o meglio, amato come avrei potuto. Cristo ce ne ha dato un assaggio. Un Amore stolto, folle, ma totale e per questo incomprensibile come l’infinito spaziale e temporale... Ritorna sempre Qoelet: “Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, ma egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine.” Bene. Sulla morte mi son fatto qualche ragione. E sulla sofferenza? Forse devo farmi un’altra doccia... Valter Chiedo scusa se ho turbato qualcuno con l’argomento, ma fra tante “cazzate” che ogni giorno arrivano nella posta, pensare ad argomenti “vitali” e condividerli anche attraverso la tecnologia mi sembra una occasione da non perdere. Non so per quale motivo il tuo indirizzo è nella mia rubrica, ma se desideri che lo cancelli fammelo sapere. – 12 – Da: Valter Toni <[email protected]> Data: 08 agosto 2003 08.31.17 GMT+02.00 Oggetto: Dove sono i miei nonni? Mi rivolgo soprattutto a chi si dice “credente”... Morte, morte, morte Scusate se insisto... non lo faccio per angoscia, ma per ignoranza, per essere certo di “saper di non sapere” (da bambino non sono stato un assiduo frequentatore di momenti formativi; a dottrina ci andavo poco, mi sembravano storielle per piccoli). Nessuno, credo, può dire qualcosa di certo sulla morte, ma un aiuto ve lo chiedo: – il cristiano, il cattolico cosa deve pensare di fronte alla morte? O se volete, mettiamola sotto forma di sondaggio: come pensi che il cristianesimo concepisca questo “straordinario evento” a cui “nullo omo può scampare”? Dante ha creato solo confusione coi suoi viaggi? Le omelie durante i funerali sono coerenti con la dottrina della Chiesa, o semplici parole consolatorie da psicoterapie di gruppo? I santi dove sono? I miei nonni, è vero che mi vedono dal cielo?... Quasi mi vergogno a fare certe domande. Sono banali? Lo so, lo so: importante è amare, bla, bla, bla... ma nel dialogo tra credente e non credente (anche quello dentro di me), nel rapporto con altre religioni, questi argomenti vengono fuori e io non so neanche cosa pensi effettivamente il mio parroco. Buon ferragosto. Valter – 13 – Da: Valter Toni <[email protected]> Data: 31 dicembre 2004 00.52.47 GMT+01.00 A: [email protected] Oggetto: Dopo l’uomo ragno, l’uomo moscerino Carissimi. È diverso tempo che non vi scrivo le mie considerazioni esistenziali. Ma ieri mi è capitato di riflettere su quanto accaduto in questi giorni in Asia. Mentre ripulivo la soffitta da uno sciame di migliaia di piccoli moscerini morti in terra mi è venuto di fare una associazione visiva con le immagini di tutti quei cadaveri dilaniati dal maremoto. Dentro di me si è lacerato il pensiero. Signore, se esisti, come è possibile che possa accadere una tragedia così grande. Ammassi di corpi spostati da ruspe... dove è finita la loro dignità di creature “fatte poco meno di angeli”, dove sarà ora il loro spirito devastato da un inferno d’acqua. Che grande mistero! Davanti a queste tragedie, come anche le guerre, riesco quasi a dare un senso alla morte “solitaria” in un incidente stradale, o causata da una malattia che, seppur lunga e tragica, prende almeno per sé, tutta una attenzione di preghiera o di romantico rimpianto. Qui no! Le ruspe appiattiscono la terra dall’ammasso di corpi e la mia fragile fede viene messa ancora una volta a dura prova, e sento il bisogno di pregare per non sentirmi un moscerino. E pensare che è Natale. Buona notte, ma soprattutto Buon 2005 Valter – 14 – Da: Valter Toni <[email protected]> Data: 20 gennaio 2005 09.13.33 GMT+01.00 A: [email protected] Oggetto: piccolo, piccolo. Del recente viaggio al Cairo, oltre ai motivi che lo hanno determinato, ricorderò alcune cose che voglio condividere. Mi son sentito piccolo, piccolo... ma veramente! Lo ripeto piccolo, piccolo. – piccolo di fronte alla città. 17 milioni di persone che usano non so quanti milioni di auto che rendono ridicolo anche il traffico di Roma, figuriamoci quello di Fano. – piccolo di fronte alla storia. Cose di 5 mila anni fa che brillano la loro bellezza e che ridicolizzano il tuo sentirti al centro del mondo come cultura, come tempo, come tutto... Devo dire con sincerità che la visita al museo Egizio, che tra l’altro avevo già visitato, è una esperienza mistica. – piccolo di fronte alle grandi religioni. La grande moschea, il grande rispetto verso il divino che respiri dentro, da noi dimenticato, credo che non possa lasciare indifferente neanche il più “cristiano” dei cristiani. – piccolo di fronte ai luoghi comuni. Di fronte alle bugie, di fronte alle immagini e ai racconti pressapochisti della tv che appiattiscono un’area che va dal Marocco all’Irak come fosse tutta uguale. – piccolo di fronte alla rinuncia di un Bacio Perugina. Al Cairo, ripeto 17 milioni di persone, la Nestlé marchia in bella vista quasi la totalità delle bottiglie di acqua minerale. “Nestlé is life” o qualcosa del genere te la ritrovi, in compagnia dei telefonini, nella maggior parte dei cartelloni pubblicitari... E sarà così chissà in quanti altri Paesi... Come non mai ho percepito la maestosità di queste potenze economiche, e il mio acquisto di un prodotto equo e solidale uguale a quella di un “moscerino”... Valter – 15 – Da: Valter Toni <[email protected]> Data: 23 marzo 2005 10.10.58 GMT+01.00 A: [email protected] Oggetto: Auguri per una Pasqua piena di speranza Comunque la pensiate vi prego di non leggermi con gli occhi del pregiudizio. Vi racconto la sensazione di smarrimento che ho vissuto ieri... cinque lunghi minuti in cui la mia testa non riusciva a trovare un appiglio ad alcun lembo di razionalità. Sospeso, frastornato, mi son sentito un po’ male... forse non abbastanza. Sono ancora un po’ scosso. Come persona, ma soprattutto come uno che ci prova a credere in Dio. Alcuni amici o parenti che fanno più fatica di me a credere, sentiranno nelle mie parole puzza di sacrestia. Ma non mi importa. Racconto ugualmente ciò che ho provato. È accaduto che un amico mi a chiesto un parere tecnico/comunicativo sul montaggio di una sequenza fotografica. Il tema era l’interruzione di gravidanza. Ma il mio giudizio è andato a farsi friggere. Le immagini con corpicini, grandi come le piccole bambole delle mie figlie, ammassati in sacchetti neri di spazzatura, dilaniati come barbie con testa e gambe spezzate a causa degli interventi, non poteva che farmi ricordare le foto in bianco nero di un vecchio sterminio. Adesso io invece mi chiedo continuamente: Mentre discutiamo della dignità degli embrioni come è possibile non piangere per ciò che accade in molti ospedali ogni settimana ad appuntamenti prestabiliti? Come faccio a non vedere quel filo elettrico spinato che tiene lontana la mia coscienza di buon cattolico da questo sterminio? Possibile che siano bastate poche foto per interpellarmi così fortemente sul male che l’umanità sta facendo a sé stessa, su ciò che pensiamo renda le persone libere? Una volta era il lavoro a rendere liberi... oggi l’avere un figlio in meno! Sono arrabbiato, moltissimo, sicuramente non con le povere mamme, ma con la nostra società perbenista e ipocrita che le porta a questa scelta. Colgo l’occasione di inviare un grosso abbraccio a Franca e agli amici del servizio “Maternità difficile” della APG-XXIII e auguro a tutti un giovedì di passione tormentato di pensieri e una Pasqua piena di speranza. Valter p.s. su l’opportunità di mostrare le foto non riesco ad esprimere un giudizio sereno perché se da un lato hanno provocato in me una forte reazione solitamente io sono a favore di una comunicazione “positiva”... ma avrò ragione? E con la stessa analogia visiva con i campi di concentramento mi sono venuti in mente quei tedeschi che si dice non potessero essere consci di ciò che stava accadendo e anche il successivo dibattito sull’opportunità di fare vedere quelle foto terribili alla fine della guerra per non scuotere ulteriormente la coscienza dell’umanità già dilaniata dalle bombe. – 16 – – 17 – Da: Valter Toni <[email protected]> Data: 11 ottobre 2005 09.37.50 GMT+02.00 A: Don Giacomo <[email protected]> Cc: [email protected], Oggetto: Re: Ciao Valter, un parere per un articolo che ... Caspitina Giacomino, mi prendi in un momento che a confronto Leopardi era un giullare di corte, spero comunque che in ciò che ti scriverò riecheggi qualche nota ottimistica. Comunque ci provo, in questo veloce tragitto Fano-Rimini: Sento forte il rischio di banalizzare la risposta ad una domanda così importante, perché secondo me dietro il problema della costruzione/distruzione di una famiglia c’è quell’elemento venuto meno in tanti ambiti del nostro vivere: la buona comunicazione. Non che un tempo fosse tanto buona, ma oggi questa assenza mi sembra essere messa in forte risalto dall’avere tanti mezzi a disposizione (sembriamo tutti delle piccole emittenti locali), ma che “bruciamo” in tante occasioni perse. E questo è un discorso che vale non solo per la famiglia, ma per la società tutta: nella scuola, nelle comunità laiche e religiose, ed anche, purtroppo, con sé stessi. Ho la fortuna di lavorare nella comunicazione e forse di avere qualche recettore abbastanza sviluppato per affermare questo. Questa contradizione, che apparentemente sembra essere solo un problema sociologico/psicologico e che mette in luce tutte le difficoltà che posso vivere come sposo, come padre, come collega di lavoro, ha bisogno in realtà di un’analisi ancora più profonda e che, per quanto mi riguarda, trova risposta solo in ambito religioso. Cerco di spiegarmi: io credo che tutto ciò di cui ho parlato sopra, questa paradossale schizofrenia di un mondo in cui siamo ipertecnologicamente attrezzati per poter comunicare e non riuscire a farlo è semplicemente dovuto al fatto che la società oggi cerca di farci credere che ognuno può bastare a sé stesso. Il rapporto con gli altri è un optional che possiamo usare in poche circostanze, se può farci comodo. Un rapporto di autosufficienza che arriva a negare la comunicazione a tutti i livelli persona-persona, famiglia- – 18 – famiglia, gruppo-gruppo. Quand’anche ci fosse un tentativo, un desiderio di allacciare rapporti, questo raramente è volto ad una comunicazione vera fatta anche di ascolto. Un vecchio detto dice che non a caso abbiamo due orecchie e una bocca, perché dobbiamo ascoltare il doppio. E qui credo di essere al cuore della questione e della crisi della famiglia. L’incapacità di ascoltarsi, di ascoltare. Una crisi comunicativa che investe anche la famiglia cristiana che faticosamente trova momenti per accogliere non solo ciò che Dio dice, ma anche i propri cari. Pronti sempre a chiedere. A trasmettere tante informazioni volte alla domanda, per me, per la famiglia, per la comunità... Questo anche con Dio: l’ascolto, fatto di lettura e preghiera silenziosa, mi pare ridotta a pochi piccoli secondi. E sono venuto ad un altro punto a mio avviso focale. Il silenzio. Non quello determinato dalla rottura di un televisore, citando don Oreste, che mette in evidenza solo il rumore delle forchette a tavola. Un silenzio che è volto, lo ridico, all’ascolto soprattutto di chi ti è vicino, messo lì forse non a caso (almeno una coppia cristiana dovrebbe credere questo). Penso che una comunicazione più vera (=ascolto), che in alcuni casi può essere aiutata da qualche strumento tecnologico (senza abusarne), e che coinvolga direttamente i nostri cinque poveri sensi ormai ridotti a solo studio di marketing, sia la base, sia il fondamento principale per costruire una casa sulla roccia. Sto arrivando a Rimini, e può bastare. Invio questa email anche alla mailinglist della santafamiglia per cogliere l’occasione di invitare, a nome mio e di Lisetta, Sabato 29 ottobre (probabilmente alle ore 16) fidanzati che vogliono sperimentare strumenti per comunicare un po’ meglio. Ciao Valter – 19 – Da: Valter Toni <[email protected]> Data: 19 novembre 2005 09.59.36 GMT+01.00 A: [email protected] Oggetto: [tutti] sul vangelo di oggi Della serie a volte ritornano. :-) - dai era un po’ che non scrivevo. Mi capita di riflettere e trovarmi con inquietudine di fronte a due pensieri apparentemente opposti e assurdi: - guardo Gaia alla TV, dove il presentatore mostra un fossile che ha milioni di anni... una storia così grande, che tocca quasi l’infinito. Faccio fatica a farci entrare Dio in questa storia e soprattutto a pensare alla mia vita oltre gli spazi e i tempi che conosciamo. E penso al sipario finale della mia vita. Si chiuderà e, come per tutti... avanti un altro! - contemplo le mie domande, ma soprattutto l’amore dei santi che mi fa sudare acido sotto le ascelle e dico: sono cotto, sono presuntuoso a chiudere il creato dentro i miei ragionamenti... mi gira la testa... ma mi sento come un ateo che ha voglia di ringraziare Dio... perché è diventato carne come la nostra, perché ha sofferto e così nessuno potrà dirgli - “no, tu non puoi capire”, perché continuamente ci tocca col suo Spirito, e addirittura lo si può “mangiare” ogni giorno, perché (per me una assoluta new entry) ci conforta con Colei che lo ha accolto in seno! E così la testa non gira più. – 20 – Da: Valter Toni <[email protected]> Data: 28 novembre 2005 09.46.23 GMT+01.00 A: [email protected] Oggetto: Il potere del passato Sabato scorso l’incontro con i fidanzati ha avuto come titolo “Il potere del passato”. È stata una bella occasione per riflettere sui propri legami con le famiglie d’origine, per mettere in luce quelle dinamiche di rapporto, a volte di ostacolo, che soprattutto nei primi anni di matrimonio possono incontrarsi. Stamattina ho guardato a me stesso, non tanto per pensare a quei fatidici problemi annuali del dove passare il pranzo di Natale, ma sul ruolo che la mia famiglia ha avuto nel formarmi come “uomo che pensa in un certo modo”. La mia famiglia mi ha trasmesso un forte senso critico, tollerante, di cui non posso che essere fiero. Contemporaneamente ha sempre messo in primo piano gli aspetti pratici, razionali e materiali della vita. E questo non me lo tolgo più di dosso. O meglio sento che faccio più fatica di altri. Senza una tradizione respirata da bambino in cui il Natale è vissuto come evento cristiano, è molto difficile dopo, fare i corsi di recupero. Puoi anche andare alla messa tutte le mattine, ma un tarlo, o meglio un nocciolo duro, resistente, dentro te rimane sempre. Se non fosse per alcuni momenti forti che ti fanno scoprire che questa parte di te, grazie a Dio, è dura ma non impermeabile alle lacrime, mie, di chi mi è vicino, e non solo. Saranno forse solo emozioni, le famose “sudate acide” tante volte provate semplicemente per aver incontrato don Oreste e i suoi ragazzi. Forse non romantiche e gradevoli quanto il profumo di rose di Padre Pio, ma sicuramente vere fino in fondo. Non è per niente facile credere per chi ha vissuto solo il Natale di Babbo Natale. E anche se amare è possibile a chi non crede, rimane comunque difficile vedere le persone oltre quella scatola, quel corpo che le contiene, e adorare l’altro per il valore di ciò che – 21 – contiene. Almeno per me è così. In questo senso la grande testimonianza, fatta a volte di semplice dignità, di chi soffre nel corpo, per malattia, handicap o anche per razzismo per un aspetto un po’ diverso nella forma o nel colore, è il regale di Natale più grande che il Signore mi fa. Buon Avvento a tutti Valter Da: Valter Toni <[email protected]> Data: 07 aprile 2006 10.01.40 GMT+02.00 A: [email protected] Oggetto: confusamente... Anche se lo spunto di questa mia riflessione può essere politico, per le continue sollecitazioni che mi vengono da più parti, il pensiero che ne consegue credo sia più di “persona che cerca” (cosa ancora ben non so), ma cerca... Ad ogni modo... gli ingredienti, quelle sollecitazioni a cui ho accennato sopra, di questa miscela di riflessione sono: - amici, che forse fanno più fatica a credere di me, che mi chiedono perché un cristiano è contro l’aborto. - vedere su FanoTV Casini circondato da amici che discutono su cose importanti. - il giornale Libero che ieri scriveva “È vero. Anche oggi in Cina si mangiano i bambini” - il prof. Bonetti che da non credente al liceo, con tono provocatorio, citava Dostojevski dicendo: “senza Dio tutto è permesso” - Don Vincenzo che con tono fermo dice ai fidanzati futuri sposi: “ragazzi, se voi non siete convinti che Cristo è sempre in mezzo a noi, ora come il giorno delle nozze, il vostro matrimonio è nullo”. Ho miscelato, un po’ pregato, e formulato questo pensiero. Ha ragione Dostojevski. Perché dentro di me c’è una persona che potenzialmente potrebbe farsi convincere che sia giusto buttare la bomba atomica (citazione di Carretto), che sia giusto emarginare i diversi (per abilità, per colore, per religione, per sessualità...), che sia giusto sopprimere un bambino ancora non nato perché destabilizzante di un equilibrio (economico, psicologico, fisico), che alla fine “materialismo per materialismo” un buon e seducente lavaggio del cervello potrebbe convincermi (vedi film “Metropolis” - o “Quarto potere” - o perché no “Momo”), potrebbe convincermi del contrario dell’umanità, fino (non scherzo) a ritenere – 22 – – 23 – giusto il cannibalismo. In fin dei conti, come mi diceva un amico medico, la pipì non è altro che acqua con qualche sostanza chimica e quindi in caso di estrema necessità non vi è alcun problema a farne uso come bevanda per sopravvivere, estremizzando “materialismo per materialismo” cosa siamo noi se non un ammasso di cellule ben ordinate, ben composte e nutrienti!? Se non sentissi un pezzettino di Gesù vicino a me non so se mi sentirei così felice di vederla: quasi con la voglia, non dico di abbracciarla, ma di farle un grosso saluto. Scusate la provocazione, quasi blasfema, ma alla fine dico: grazie a Dio anche i comunisti sovietici hanno avuto bisogno di creare mausolei per onorare i propri morti. Non avranno capito niente perché hanno negato Dio, ma a modo loro si sono contraddetti. L’uomo ha bisogno di eternità. Quella che ti fa sentire immerso in un pensiero più grande che non ha né inizio né fine. Che ti fa sentire questa vita come il passaggio, il viaggio dall’Egitto a Gerusalemme, con tutte le sue fatiche. Che ti fa sentire Gesù presente, vicino, a me che scrivo, a te che leggi, ai politici che lo ascoltano solo per ciò che interessa loro... a tutti insomma! È grazie a Dio se amo. Gli altri, me stesso. Altrimenti sarei capace di fare del male, ma tanto male, eccome! Basterebbe poco a convincermi. Può bastare un bel film fatto da Goebels. Può bastare qualcuno che dica che al mondo siamo troppi. Mi ci vuole davvero poco! Come al solito confusamente Walter. In diretta, mentre vi scrivo, la signora si appoggia per dormire e mi chiede scusa se mi gira le spalle... Ma è necessario un cambiamento forte. Dice Giovanni: come puoi amare Dio che non vedi, se non ami il fratello che vedi? Aggiungo io: come puoi pretendere di amare e proteggere un embrione che vedi al microscopio se non ami la moglie, i fratelli, gli uomini, gli avversari, i nemici che forse non vorresti vedere, ma che invece vedi benissimo! È per questo che voglio a tutti i costi diventare cristiano. E mentre salvo questo confuso scritto nella stazione di Rimini, una signora malconcia, che puzza di urina che ride e parla da sola mi si siede accanto. – 24 – – 25 – Da: Valter Toni <[email protected]> Data: 16 luglio 2006 16.46.59 GMT+02.00 A: [email protected] Oggetto: Un quesito che ha 2000 anni Durante il biblico di venerdì scorso sarei voluto intervenire con le parole di Don Nino Nicolini: “su, tiriamoci un po’ su... il Signore non ci ha fatto poi così male...” e pensavo che in quel clima sollecitato dalle belle domande proposte dalla tribù di turno, ad un qualsiasi giovane che fosse capitato lì per la prima volta non so se saremmo riusciti a trasmettergli che essere cristiani “è bello e conviene”... Invece la riflessione che è continuata dentro me è stata innescata dall’intervento di Giorgio sulla spiritualità e rinvigorita poi da un colloquio con Luciano che mi ha fatto capire ancora di più il senso di un quesito che da duemila anni antepone la fede all carità, Marta a Maria, o con un paradosso di Luciano, Gino Strada a Madre Teresa. Il quesito mi tocca non tanto perché mi sento chiamato a redigere una classifica di santità che certamente non mi compete. Il quesito mi interroga fortemente su me stesso. Rispetto la carità, l’Amore per il prossimo, che differenza c’è tra il Valter che negli anni ottanta (quello che ascoltava Radio Radicale e provava un senso di ammirazione verso quei giornalisti che nei paesi dell’Est comunista davano la vita per gridare la libertà) e il Valter di oggi che dedica alcuni frammenti della giornata per dare un senso alla vita in nome di Gesù Cristo? Tristemente mi sembra di poter rispondere: apparentemente c’è poca differenza. Gino Strada in prima linea, ma anche Beppe Grillo con le sue denunce e tanti altri oracoli di questo tempo hanno la mia ammirazione. Ma il quesito di don Oreste (oh, potrebbe sbagliare anche lui) di pochi giorni fa mi rintrona e mi fa meditare: “A che serve guarire il corpo se la persona rimane nei suoi peccati? Non solo non serve, ma aggrava la situazione perché con il corpo ristabilito in salute peccherà ancora di più, se prima della guarigione del corpo non avrà guarito l’anima dal peccato.” Sembra uno scritto medievale, ma voglio farmi comunque provocare. Forse come direbbe Nino (il nostro, non il don) tutto deve essere visto nella prospettiva del tempo finale, di una vita che va oltre quella che pensiamo di gestire con il nostro sapere, il nostro denaro, il nostro tempo. In questo senso la “deriva spirituale” dei nostri discorsi può aiutarci a vivere meglio l’Amore fino in fondo, e diventare come San Cristoforo portatori di Gesù... senza nulla togliere a tutti quelli che lo sono inconsapevolmente. Questa è la mia Speranza. Valter-Walter La mia àncora di salvezza è quell’ “apparentemente”. Voglio sperare ardentemente che vi siano frutti d’Amore che forse oggi non appaiono, ma come in un investimento di talenti, si manifesteranno nel tempo voluto dal Signore. – 26 – – 27 – Da: Valter Toni <[email protected]> Data: 25 luglio 2006 09.30.15 GMT+02.00 A: [email protected] Oggetto: Dignità “grazie” - a Luciano che sa essere così chiaro nel dare voce ai miei pensieri. - a tutti gli altri che, non sempre in sintonia con me, mi costringono a riflettere e forse mi spingono a volare più in alto. E in questa riflessione confesso pubblicamente il mio peccato di non riuscire a mettere sullo stesso piano guerra e embrioni. Forse solo perché, come tanta gente, sono figlio di questa cultura delle immagini, che si commuove di fronte ad un bambino martoriato, si raggela rispetto alla foto di un aborto, ma non riesce ad “amare ciò che non vede”. Mi serve ancora molta strada, molto studio o forse molta preghiera, per mettere sullo stesso piano tutto questo con ciò che Chico definisce “delirio hitleriano”. Mi dispiace per Chico perché starà pensando: “se uno come Valter, che è vicino alla Chiesa, ha conosciuto don Oreste, mi dice questo, ma quanto lavoro mi spetta!” Già! È proprio così. Penso che ci sia molto lavoro per te, anche perché in questo caso io mi sento un po’ la cartina tornasole di un pensiero diffuso. Forse Chico avresti bisogno più di alleati soprattutto fuori dalla chiesa, persone tipo Pier Paolo Pasolini, del quale, un servizio televisivo qualche sera fa, mi ha fatto sentire una grande mancanza. http://www.pasolini.net/saggistica_campofreda_controaborto.htm Comunque non disperare Chico, ho scritto ciò che la mia (sincera) razionalità mi spinge a pensare, ma come sempre io ce la metto tutta. Grazie Valter – 28 – La treccia. Ottobre 2006. La scuola era iniziata da poco più di un mese, e come ogni mattina prima di prendere il treno per Rimini, mi trovavo ad accompagnare le figlie affrontando con l’orologio alla mano il traffico di Fano, che pur non essendo una metropoli, tra le 7,45 e le 8,15, faceva di tutto per imitare il caos di una grande città. Sofia già frequentava le scuole medie per cui era la prima a scendere al semaforo di Porta Maggiore, mentre con Aurora e Bianca arrivavo vicino alla Chiesa di Santa Maria Nuova, perché lì, subito dopo, si trovavano i portoni delle loro scuole. Bianca in realtà doveva essere accompagnata all’interno dell’istituto perché ancora frequentava la materna e così ero costretto a parcheggiare lungo il viale con le quattro frecce lampeggianti. A volte capitava anche che non essendo riusciti a preparare la merenda a casa, dovevo allungare la sosta per comperare i panini nel bar vicino della piccola piazzetta. Ottobre cominciava già a far sentire il cambiamento di stagione, e da un po’ di giorni capitava sempre più di frequente di notare sotto il grande portico della chiesa di – 31 – S. Maria Nuova, vicino all’ingresso della scuola, un paio di sacchi a pelo che sicuramente ospitavano qualcuno, ma che allo sguardo di noi genitori che accompagnavamo di fretta i figli, apparivano come qualcosa di confuso, ammassi gonfi e disordinati. A volte erano due i sacchi a pelo, altre uno solo, straordinariamente tre. Di fianco, qualche sacchetto di plastica con qualcosa da mangiare, un cartoccio tetrapak di vino. Ogni tanto anche un cane era lì a dormire, probabilmente compagno di strada di alcuni di loro. Quasi sempre i pochi minuti di questo spettacolo, a cui nessun genitore avrebbe voluto assistere, non riservavano la scena del risveglio, per cui “i barboni” oltre a non avere un nome non avevano neppure un volto. Tutto poteva finire lì, con al massimo uno sguardo accompagnato da quel pizzico di compassione che non ti fa sentire crudele. Invece un fastidio interiore “buono”, quello provocatore, a cui il più delle volte tendo a fuggire, ha dato inizio ad una storia, questa storia, che ho deciso di appuntare se non altro per lasciarne una memoria proprio alle figlie che accompagnavo a scuola. Chi mi conosce sa che da diversi anni mi sono avvicinato ad un percorso di fede, che in realtà preferisco chiamare di ricerca, e che trova nutrimento in due momenti fondamentali. Il primo è la messa all’alba insieme a Don Vincenzo. Si tratta di una tentata fedeltà, perché, pur provando piacere a respirare l’aria delle prime ore del mattino, non è poi sempre così facile rimanere fedeli a questo impegno. Qualcuno a volte mi dice: “ma quanta fede hai per alzarti così presto”. No, è profondamente vero il contrario; lo faccio esclusivamente perché dopo aver vissuto lontano dalla Chiesa, sento profondamente che la mia fede, è ancora molto fragile, e che se non la nutro con un po’ di preghiera, ogni momento è buono per cedere. C’è un nocciolo duro di “non credente”, dentro di me, che è sempre lì in agguato in tante banali situazioni. A volte mi sembra di essere in lotta con Dio, come lo fu Giacobbe, perché mi aiuti ad eliminare tutte le scorie di incredulità ancora forti. Quella del mattino è un’ora tutta mia che non toglie niente a nessuno, a cominciare dalla mia famiglia, che già trascuro molto per il lavoro. Anzi loro sono contenti perché così ci guadagnano qualche buona colazione che riporto dopo la messa. In quelle ore l’andare o il non andare a pregare, è determinato esclusivamente da me e non da volontà o motivazioni esterne. Insomma, non posso dare la colpa ad altri. A volte scherzando, ma non troppo, a chi mi chiede se riesco ad essere fedele a questo impegno, racconto che passando per il campo, che divide la mia via dal quartiere della chiesa, incontro gente che porta il proprio cagnolino a fare i “bisognini”, e mi chiedo: “ma che forza di volontà hanno queste persone? Sono da ammirare! Così fedeli e puntuali. Possibile che io non riesca ad esserlo altrettanto? Con tutto il rispetto per loro, la mia anima, il desiderio di incontrare Dio, se veramente esiste, varrà almeno quanto la pipì di un cagnolino!” E così a volte nel mio cuore ringrazio questi signori perché sono per me diventati un sprone a continuare. Ma a parte gli scherzi, con la preghiera del mattino, sento che la giornata parte con il piede giusto e più facilmente prosegue con un andamento molto più scorrevole, bello e positivo, soprattutto nel rapporto con le persone che incontro e che vivono vicino me. Se ne giova – 32 – – 33 – la mia debole fede che solo in questo modo con maggior forza sovrasta il Valter dei dubbi e dell’incredulità. Quando scrivo queste cose ho sempre molto timore di puzzare come una vecchia sacrestia, o apparire troppo semplice e banale, perché mi sembra di nascondere le lacerazioni interiori che un dubbioso come me prova soprattutto di fronte alla morte, interrogandosi continuamente sul reale valore, religioso e spirituale, di certe scelte. Mi chiedo a volte, se una messa feriale abbia solo un significato di “igiene” psicologica simile ad una bella passeggiata fatta la mattina in riva al mare; oppure che senso abbia venire in chiesa quando si è così in pochi e tutto sembra ridursi ad una esperienza esclusivamente personale. Altre volte invece mi rimprovero: piuttosto che andare a messa non sarebbe meglio dedicare più tempo alle persone che hanno bisogno, andare a dormire a Casa Betania, l’appartamento messo a disposizione da don Vincenzo in cui un gruppo di volontari ospita per una settimana persone che non hanno un tetto? Sono ragionamenti, forse tentazioni, che nascono dalla fatica, che a volte riesco a superare pensando a coloro che hanno fatto grandi cose innanzitutto perché si sono nutriti di tanta preghiera e di ore di contemplazione. E sicuramente, voi che leggete, lo sapete meglio di me. questo rito usiamo da anni un piccolo libretto in cui don Oreste Benzi commenta le letture del giorno. Mi pare che fu proprio dopo la lettura della parabola del “buon samaritano” che il nostro pensiero andò immediatamente a quei sacchi a pelo, e così il consiglio famigliare ristretto, formato da me, Aurora e Bianca, deliberò all’unanimità e senza alcun indugio che quella mattina avremmo “dato da mangiare agli affamati”. E così in quella fatidica mattina di ottobre del 2006, invece che comperare due panini ne acquistammo tre, e con un atto, che purtroppo, e non so per quale motivo, ancora oggi ha dell’incredibile, ci trovammo ad appoggiare un sacchetto bianco contenente un panino con la mortadella, di fianco ad un sacco a pelo che senza dubbio non profumava né di violette né di lavanda. Ricordo quel momento con una certa particolarità. Ero emozionato, il gesto fu decisamente frettoloso per la paura forse del giudizio di altri genitori che accompagnavano i figli a scuola. Però fu fatto, e fu un gesto molto importante. Il secondo momento importante con cui mi piace iniziare la giornata, sono le letture quotidiane del Vangelo insieme alle figlie durante il viaggio verso scuola, in mezzo al traffico. Anche questo a raccontarlo, un po’ mi imbarazza, ma vi assicuro che sono situazioni altrettanto edificanti, anche quando al posto dell’amen, le auto ferme in fila mi inducono a gesti e pensieri non proprio liturgici. Ad ogni modo, per Al di là della lettura del “buon samaritano” credo che ognuno di noi in certe situazioni si trovi a fare, o forse sarebbe meglio dire, a ripetere, ciò che altri testimoni hanno lasciato come segni indelebili nella propria vita. Penso ai genitori, a mio padre che, quando gestiva il bar all’interno dell’ospedale, non disdegnava di fermarsi a scambiare due parole con persone che avevano disturbi mentali, oppure agli incontri avuti con il don Oreste commentatore del libretto, che definiva l’odore dei barboni come profumo degli angeli. Comunque il gesto ci piacque ripeterlo il giorno dopo, – 34 – – 35 – anche perché capimmo subito che farlo una sola volta aveva un senso molto limitato. Anche la seconda volta la consegna fu fatta in maniera piuttosto veloce, mentre il terzo giorno, il gesto del porre il sacchetto con il panino fu accompagnato dal risveglio e dalla apertura di pochi centimetri della cerniera del sacco a pelo da cui finalmente uscì un volto a cui a breve avremmo dato persino un nome. “Buongiorno, ci siamo permessi di darle un panino. Immaginavamo che le avrebbe fatto piacere.” “Oh grazie, siete molto gentili.” “Queste sono Aurora e Bianca… salutate ragazze.” “Buongiorno.” “Buongiorno.” “Oh come siete carine! Io mi chiamo Antonio, vi ringrazio tanto.” “Arrivederci Antonio, io mi chiamo Walter, buona giornata.” sicurazioni non riconosciute, a giustificare la sua presenza lì. Facevo fatica a capire fino a che punto i suoi racconti fossero veri, avevano comunque un che di affascinante che alimentava in me la voglia di dargli un po’ di aiuto, una possibilità di riscatto. Per dare uno sviluppo positivo e concreto a questo incontro, un giorno alla fine della chiacchierata feci ad Antonio la proposta di presentarsi a Casa Betania. Antonio con una certa lucidità mi rispose di aver già saputo di Casa Betania dalla Caritas, ma di voler lasciare quella “carta” per quando avrebbe fatto più freddo. Mi raccontò di aver lavorato in una ditta che asfaltava le strade, ma che poi fu costretto a smettere per un incidente che gli causò seri problemi alla colonna vertebrale (indicandomi con precisione i numeri dei dischi lesi). Era in attesa che gli venisse riconosciuta l’invalidità che gli avrebbe dato una pensione, ma nel frattempo era stato sfrattato per il mancato pagamento dell’affitto. Accompagnai le figlie e ritornando verso la macchina, feci un gesto veloce per salutare Antonio. Veloce perché perdevo il treno, ma anche perché si era accumulata dentro me una tensione molto grande per quell’incontro. I suoi racconti continuavano a creare in me un miscuglio di sentimenti e a farmi sentire al limite tra il “buon samaritano” e un giornalista di Santoro alla ricerca di storie sofferte. Sentivo il desiderio di conoscere meglio quel mondo e allora, dal treno che mi portava verso Rimini, decisi di scrivere agli amici di Casa Betania una email che intitolai “poveri ed extraterrestri” per togliermi alcune curiosità: - quante storie, forse semplici, ma contemporaneamente incredibili come queste, vi capitano? - fino a che punto saranno vere, e che tipo di filtro bisogna mettere per interpretarle in maniera corretta? I giorni seguenti, la consegna del panino fu ripetuta e non potei più sottrarmi allo scambio di alcune veloci parole, che mi permisero di conoscere qualcosa di più di Antonio. Il treno delle 8 e 20 spesso era perso, ma fortunatamente dopo un quarto d’ora ve ne era un altro. Incominciò a raccontarmi un po’ tutta la sua storia, a farmi vedere pezzi di carta, certificati sanitari, documenti, as- – 36 – – 37 – Nella lettera aggiunsi anche una riflessione, e cioè che ammettendo pure che queste storie fossero vere solo in parte, è bello conoscerle, e anche farle conoscere, sia a noi adulti duri di cuore, ma soprattutto ai giovani, ai ragazzi e persino ai bambini, in maniera da pulire (quando ancora si è in tempo) il facile e banale giudizio che ti fa vedere i poveri come fossero esseri extraterrestri, capitati in questo mondo non si sa per quale ragione. Un giorno, approfittando del fatto che sarei poi rimasto la mattina a casa, mi trattenni per un po’ più di tempo a parlare con Antonio. Non ricordo bene cosa mi disse, ma ho bene in mente il viaggio in macchina verso casa. Ero un po’ frastornato, continuavo a ripetermi “Walter, tranquillo, non stai facendo nulla di che… hai fatto semplicemente ciò che si dovrebbe fare. Dare un panino a chi ha fame, scambiare due parole con chi è solo, dovrebbe essere la normalità, almeno per un buon cristiano. Al contrario ciò che solitamente facciamo, cioè ignorare se non addirittura disprezzare, dovrebbe essere posto alla nostra attenzione.” Confuso, sterzai verso la chiesa della mia parrocchia, don Vincenzo non c’era, rimasi perciò un po’ in silenzio nella cappellina. Poi tornai a casa e scrissi una email agli amici: – 38 – Data: Da: Oggetto: A: 17 ottobre 2006 10.42.01 GMT+02.00 Valter Toni <[email protected]> Extraterrestri e superman [email protected] Il Signore oltre ad avermi donato un tratto di viaggio in treno utile a riflettere e a scrivere, mi ha regalato il martedì mattina a casa dove dovrei preparare la lezione che tengo di pomeriggio a Urbino. Sta di fatto che senza la fretta dell’orario di partenza, mi ritrovo con più tempo a disposizione per pensare, scrivere e angosciare chi ha la pazienza di leggermi. Stamattina insieme a Bianca, prima di entrare all’asilo, abbiamo portato un po’ di colazione ad Antonio, di cui vi ho scritto giorni fa. Ci è capitato anche qualche altra volta, ma sempre con una certa fretta. Fretta reale, ma più spesso emotiva. Senso di vergogna, orgoglio e paure, che ti fanno correre ancora di più del necessario. Stamattina, senza il timore di perdere il treno, abbiamo parlato un pochino di più... POSSIBILE CHE BASTINO 3 MINUTI DI COLLOQUIO CON UN POVERO PER FARTI VENIRE LA TREMARELLA NELLE GAMBE?????? Cosa cavolo ho fatto di così tanto straordinario da uscire malconcio e frastornato? È il Signore o l’orgoglio da Superman che mi spinge? La voglia di portarlo in un posto caldo a lavarsi è materia da guida spirituale o da psicoterapeuta? Ho cercato Donvi per parlarne, ma non l’ho trovato e così mi sfogo col mio portatile e con chi ha voglia di leggere. In questa società, in molti, siamo così poco abituati a fare del bene a chi ne ha urgente bisogno, che se dai una fetta di panettone ad un povero, ti senti per due minuti Madre Teresa... Che adolescente, che mondo malato!!! C’è qualcosa che non va! Ci diciamo che essere onesti nel lavoro, trasmettere una buona educazione ai figli oggi è una conquista. CI MANCHEREBBE!!!! Dovrebbe essere la norma. Ma anche mangiare e dormire al caldo dovrebbe – 39 – essere una norma per tutti! A volte ho come la sensazione, parlo solo esclusivamente per me, che dietro al dedicare tempo alla parola di Dio, ci sia il nascosto desiderio di tener lontano questo impegno che costa più fatica. Eppure sento che nel mio continuo vacillare e dubitare su cosa ci stia io a fare dentro una chiesa (altro che diacono!) la risposta che ti danno questi frammenti di vita passati con un povero hanno un valore immenso! Vi prego, amici di casa Betania, di Casa Nazareth, della Santa Famiglia, ditemi che è così, che non è emotività da piccolo superman, da Vip superuomo, ma c’è dell’altro: che effettivamente i poveri, come tutte le persone che incontri che hanno bisogno di te, sono il vero modo per incontrare il Signore, anche quelli misteriosamente fastidiosi come Angela. Quante volte abbiamo la parola “poveri” in bocca. Quante volte la sentiamo durante le funzioni religiose, anche durante i matrimoni “sappiate riconoscer Dio nei poveri e nei sofferenti”, quante volte, quante volte... come in questa email che mi faccio bello per quella fetta di panettone ad Antonio! Quante volte! È dura! E se malgrado le stupende messe domenicali in parrocchia, di cui non puoi più fare a meno, in cui ti viene detto che ci verrà dato “cento volte tanto”, malgrado i venerdì sera, malgrado l’eucarestia quotidiana, io faccio ancora fatica a darmi la patente di “buon credente” la strada del servizio rimane forse l’unica speranza. espressione, l’icona per eccellenza che ti scava, ti si insinua nelle budella, ti fa, appunto, tremare le gambe. Capisci perché il Signore li ha definiti “beati”. Ed è forse vero, e comunque sicuramente bello, pensare che colui che servi – povero, ammalato, studente, bambino, fidanzato... comunque persona, volto – sarà colui che ti precederà e ti aprirà la porta all’incontro con colui che continuamente cerchi. È vero o no? con speranza vi abbraccio Valter Quando si è premuto il tasto “invia” la prima reazione è quella di pensare “ma cosa vuoi che freghi alla gente”, chiedendomi anche se tutto questo scrivere email non sia altro che desiderio di mettersi in mostra. Mi sembrava di rivivere la situazione di una quindicina d’anni prima, nel fervore della presunta conversione, quando, dopo aver conosciuto don Oreste, mi fermai a parlare con Ermanno, un barbone doc che girava per Rimini, e telefonai a casa con la testa un po’ tra le nuvole da una cabina, sfarfugliando qualcosa che deve aver preoccupato non poco la mia futura moglie. E in effetti, a pensarci bene, anche dopo gli incontri con il gruppo di fidanzati, spesso capita di sentirti stanco ma con una gratificazione, buona e sincera, diversa da quella che provi nel lavoro fatto bene e persino nella prestazione musicale, e che ti fa sentire in pace con te stesso, con gli altri e forse con Dio. Sì, forse la parola chiave è proprio “servizio”. I poveri ne sono la massima In realtà l’email spedita ha avuto risposte che mi hanno molto consolato: alcune di ringraziamento, di condivisione del sentimento, e soprattutto quella di un amico, il mio omonimo Walter che, avendo i figli nella stessa scuola, si è poi “aggiunto” nell’aiuto verso Antonio, regalandogli addirittura un sacco a pelo nuovo per affrontare il freddo: – 40 – – 41 – Caro Valter, solo due righe veloci dall’ufficio dopo aver letto a casa le tue su Antonio. Io ne sono certissimo: saranno i poveri a venirci incontro, quel giorno. Né soldi, né capi, né altro, solo quelli che avevano bisogno per farci sentire tristezza o felicità, infinita, appunto. Ho parlato con Antonio alcune mattine, di notte mi sveglio spesso e sento il letto “duro”, mi alzo e vado a sentire, aprendo la finestra, quanto freddo fa fuori. Mi immagino a dormire nell’umidità della notte. Mi sembra tanto “innaturale” prima che immorale, che io abbia una casa, coperte e ci sia qualcuno che dorma sotto S. Maria Nuova, anche se gli abbiamo regalato un sacco a pelo nuovo a prova -13°C. Una mattina chiamai al telefono Stefano, segretario di don Oreste, per sapere se si poteva fare qualcosa per una persona che stava vivendo delle difficoltà. Come sempre trovai la massima disponibilità per cercare una soluzione, anche se il caso era difficilmente inquadrabile, benché tipico per una comunità come la Papa Giovanni. La situazione non era ancora molto chiara, difficile dire ancora chi fosse veramente Antonio. Era molto bello ascoltarlo, ti faceva capire come dietro ogni persona esiste un potenziale “film”, che di “fiction” ha ben poco, seppur al narratore probabilmente piaceva dare coloriture che evidenziavano solo alcune parti. Forse Antonio di mezze verità ne ha dette tante, perché la realtà da lui vissuta è stata sempre ricca di situazioni dure, crude, momenti tristi, come gli anni che aveva passato in galera. Già, la galera. Antonio, al di là delle prime storie raccontate che non erano bugie, si trovava lì perché probabilmente uscito a causa dell’indulto. Non ho capito bene come sia effettivamente andata, perché su questo argomento il racconto era spesso confuso, e in diversi punti contraddittorio. Però la galera era vera, come il tatuaggio che mi ha mostrato dopo una mia esplicita domanda. E con molta probabilità, uscendo ed entrando diverse volte, non erano stati neppure pochi gli anni passati dentro. Furti e spaccio i motivi principali, iniziati con il consumo di droga in quei fatidici anni settanta. Gli anni dei “fontaneros”, i tanti giovani che davanti alla statua della Fortuna trovarono l’incontro, all’inizio forse con la politica, ma poi con la droga e qualcuno con la morte. Ragazzi intorno ai vent’anni di cui non ho certo la capacità io di raccontarne la storia; molti lo hanno fatto con diari e film stupendi come “La meglio gioventù”. Sicuramente tra quei giovani fanesi vi era Antonio, anzi Tony lo svizzero. Svizzero perché oltre le Alpi era nato negli anni cinquanta da due emigranti italiani. Infanzia difficile tra collegi e difficoltà dovute innanzitutto ad un padre che ad un certo punto sarebbe sparito dalla circolazione dopo aver messo al mondo quattro figli. Ho usato il condizionale – 42 – – 43 – Il dialogo con Antonio continuava, la storia si arricchiva di tanti particolari, e la sua vita diventava come un racconto a puntate. Spesso mi capitava, prima di salutarlo, di voler trovare qualche soluzione immediata ai suoi problemi. Son fatto così, al limite tra il tenace e il frettoloso; delle cose mi piace vedere presto il fondo, soprattutto quando c’è qualcosa che non va, come quando mi si rompe un computer e divento un ossessione per chi lo deve aggiustare finché non me lo riconsegna. Nel caso di Antonio, a costo di apparire ingenuo, sentivo che se non aggredivo subito la cosa, sarebbero bastati pochi minuti perché diventasse una storia dimenticata. perché questo è il racconto di Antonio, ma sapete com’è, meglio lasciare il beneficio del dubbio: a volte la ricerca di pietà potrebbe portare a “romanzare” un po’ la propria vita. Ma a me poco interessava la verità provata. Molti riscontri li stavo ottenendo da persone che lo avevano conosciuto, e la cosa che mi colpiva di più era forse proprio la sua ricerca di aiuto, condita di orgoglio e disperazione. Tutte le persone che lo avevano conosciuto in verità mi dicevano di lasciar perdere. “Chi? Tony lo svizzero? Non perdere tempo…”, “Un drogato, un vero delinquente che ha fatto tanto soffrire sua madre”. Di sua madre, ammalata, che viveva lontano, accudita dalla figlia più giovane, me ne parlò. Lo fece perché mi mettessi in contatto per avere un po’ di danaro. Ci parlai con quella donna, di cui non oso pensare la sofferenza. Le raccontai tutto, anche della richiesta, ma fui io a consigliare di non dare soldi, perché secondo me Antonio, per quello che incominciavo a capire, aveva bisogno di tutto fuorché di danaro da spendere. La madre era d’accordo e con voce rassegnata, ma non priva di speranza, mi disse: “Faccia lei, ma sarà dura”. Dovetti giocare un po’ d’astuzia per giustificarmi con Antonio dicendo che vi erano difficoltà tecniche a ricevere quanto lui si aspettava. Stava emergendo una realtà più complessa, dura e difficile da accettare, e spesso fui lì, lì per far cadere nel dimenticatoio l’esistenza di Antonio, ma poi, a volte per casualità, a volte per cocciutaggine, l’intreccio della mia vita con la sua diventò più difficile da sciogliere. Come quella volta che dopo avergli proposto di farsi accogliere a Casa Betania, gli diedi un appuntamento con Simonetta che gestiva i colloqui per l’accoglienza; e lui quel venerdì sera non si presentò. Non c’era neppure il lunedì seguente sotto il porticato della chiesa dove solitamente dormiva. Dapprima pensai: “ok, doveva andare così: lasciamo perdere”, ma poi, mentre stavo andando alla stazione, sterzai all’improvviso per ritrovarmi con l’auto in piena “isola pedonale” con la speranza di incontrare Antonio per dargli ancora una chance. Mi trovavo lungo il corso di fronte ai giardini del vecchio “Luigi Rossi” e vidi un gruppo di persone intorno ad una panchina che nella normalità delle cose avrei volentieri evitato. Tra di loro c’era Antonio con in testa un basco che sembrava un pittore. Mi fermai, misi le quattro frecce pensando forse così di schivare l’infrazione stradale. Scesi, e da una debita distanza chiamai Antonio. Subito si girò mi venne incontro sorridendo come a volermi dire che in realtà anche lui stava cercando me. Era andato come ogni mattina al Sert per prendere la sua dose di metadone e, per non so quale motivo, c’era dovuto andare un po’ prima. Stranamente queste difficoltà non servirono ad altro che ad aumentare il mio desiderio di mettere a posto i tasselli di una storia che mi aveva ormai coinvolto. E poi come potevo tirarmi indietro? Dopo un po’ Antonio, mentre mi accompagnava verso l’auto, scoppiò a piangere: – Basta, non ne posso più! Questi non mi aiutano. Io voglio andare da “Papa Giovanni”. Vedi quello – mi indicò una persona vicino ad una panchina – tu non sai quante volte è stato nelle comunità! Entra, esce, poi va in galera, poi rientra... Io lo so che da Papa Giovanni non è così, li ti vogliono veramente bene. L’ho capito quando mi sono venuti a trovare in prigione a Pesaro, poi sono uscito e non ho più avuto modo di incontrare nessuno. – 44 – – 45 – Vedere piangere un viso con occhi dolci posti sopra una bocca da pirata, vedere mani rugose fare il tipico gesto dei bambini quando si asciugano le lacrime agli occhi, non lascia indifferenti. Ero commosso, ma sorridevo anche per quel modo di dire con strano accento svizzero-fanese “voglio andare da Papa Giovanni”, e non “alla Papa Giovanni”, quasi volesse andare da Roncalli direttamente. Ero anche molto emozionato, perché in quel momento Antonio appariva ai miei occhi come un angelo che dava significati particolari alle vicende della mia vita; a cominciare proprio da Papa Giovanni, il cui faccione ha probabilmente segnato la mia infanzia. Sono nato l’anno della sua morte. Benché la mia famiglia non fosse cristiana praticante, il suo ritratto di profilo mi ha accompagnato fino a ventiquattro anni, perché era posto in bella vista nel bar gestito dai miei genitori in un quadro retro-illuminato che incorniciava una carta filigranata di Fabriano. Le suore dell’ospedale, che mi hanno fatto per così dire da asilo privato, avevano giocato forte sulla mia sensibilità, tanto che alla domanda che cosa volessi fare da grande, rispondevo: “il papa”. E lo dicevo pensando sicuramente a Giovanni XXIII e non a Paolo VI. Ricordo che anche durante gli anni in cui mi definivo ateo, la voce di Roncalli della famosa sera con la luna e la carezza del papa, mi procurava una certa emozione. Vi ho poi già detto che decisamente importante per me, per la mia vita, fu l’incontro con don Oreste Benzi, un altro bel faccione, che alla fine degli anni sessanta diede vita alla Comunità Papa Giovanni XXIII. – 46 – Il timore della retorica mi porta a non parlare di quest’uomo, che non ha certamente bisogno della mia presentazione. Grazie a Dio le nostre strade si intrecciarono in diverse occasioni, e per me è stato un grandissimo onore, anche dal punto di vista professionale, poter disegnare quel marchio “Xxiii” che da ormai dieci anni è diffuso in tutti i continenti. Nel frattempo, proprio Stefano mi diede una serie di contatti per affrontare l’emergenza, anche perché il freddo incominciava a farsi sentire. Benché vi fossero problemi da superare, non solo dal punto di vista burocratico, individuammo nella “Capanna di Betlemme” di Rimini la struttura che poteva effettuare una prima accoglienza. La mattina dopo trovai Antonio particolarmente stanco e con una tosse molto forte. Lo obbligai a presentarsi la sera stessa a Casa Betania. Questa volta andò, e fu Michele ad accoglierlo. È stato un bel momento che mi ha permesso di approfondire la conoscenza di questa importante struttura di accoglienza nella nostra parrocchia: con alcuni operatori e responsabili siamo diventati amici. Rimasi colpito dal clima fraterno che trovai la prima sera in un dopocena, e allo stesso tempo mi dispiacevo che qualcosa di tanto bello fosse in fin dei conti poco conosciuto, non dico alla città, ma persino agli stessi parrocchiani. Una coincidenza strana volle poi che anche Lisetta, in quegli stessi giorni si trovava ad aiutare una donna albanese che con l’intera famiglia era rimasta senza casa. Anche in quel caso, Michele, Eleonora e forse anche “the big president” Ireneo, furono determinanti per trovare una sistemazione a cinque persone in mezzo alla strada. – 47 – Mi venne spontaneo la mattina dopo scrivere una lettera nella mailinglist della Santa Famiglia: Data: Da: Oggetto: A: 23 novembre 2006 09.13.14 GMT+01.00 Valter Toni <[email protected]> Casa Betania [email protected] Torno alla carica con la proposta: aiutiamo i giovani a conoscere questa realtà. Non solo perché un giorno potranno collaborare, ma anche e soprattutto per far capire come la vita possa avere risvolti diversi da quelli che siamo abituati a conoscere. Ne ho parlato stamattina in treno nel breve tratto Fano- Pesaro con Alessio. Una pazzia: “Che ne dici di far incontrare il gruppo giovani con un operatore e un ospite... una cosa un po’ così alla don Oreste?” Io, pazzia per pazzia, lo avrei organizzato anche per stasera... ma lo so, io sono un istintivo, invadente, lascio poco tempo al ragionamento e alla programmazione. Però per il futuro pensiamoci. Casa Betania, i suoi “Angels” (operatori e ospiti), hanno veramente tanto da dare a tutti noi che forse non saremo mai né operatori e né, speriamo, ospiti. Circa un mesetto fa vi presentai in una mia email una persona, Antonio, che dormiva di fronte a Santa Maria Nuova, e in quell’occasione proposi di organizzare incontri pubblici con gli operatori di Casa Betania. Bene, credo che il Signore ci abbia messo del suo nel resto della vicenda. Non so come andrà a finire per Antonio, che in questi giorni dorme a Casa Betania e che la prossima settimana verrà accolto dalla Papa Giovanni, ma il mio cuore è veramente gonfio di gioia. C’è stata anche un’altra storia che ha riguardato una bella famiglia albanese in grande difficoltà, e anche qui, benché ancora lontani dalla soluzione, mi sembra che il Signore ci stia mettendo delle pezze non indifferenti. Ma la cosa di cui vi vorrei parlare oggi sono i volontari di Casa Betania. Ehi ragazzi! Ma di cosa vi nutrite di kryptonite? Siete eccezionali!! Siete una forza della natura!! Avere visto come operate, come vi coordinate, come vi volete bene, è stata per me una delle più belle scoperte di questi anni! Spesso andiamo alla ricerca in giro per il mondo di esperienze significative per ridare un giusto senso alla vita e non ci accorgiamo di averle nella porta a fianco della chiesa che frequentiamo. Non vado avanti con i complimenti che vorrei fare a “Casa Betania” nel suo insieme, e soprattutto ai singoli, uno ad uno, con i propri nomi... ma siccome non li conosco tutti, per non fare torto a qualcuno lo farò un’altra volta. A casa Betania, Antonio ha avuto la possibilità di farsi voler bene e non credo perché fosse, diciamo così, raccomandato dai miei racconti. Antonio è come un cocktail agro-dolce, un mix di umanità, delinquenza e gentilezza. Forse in lui, benché l’età fosse tra i 50 e 60 anni, vi erano ancora tutti i segni di riconoscimento di una infanzia passata tra durezza e collegi svizzeri. Lo si capiva anche dalla scrittura, tipica di chi aveva frequentato scuole, come quelle germaniche, che ancora oggi danno un voto in calligrafia. I giorni passati a Casa Betania permisero di conoscerlo meglio, anche perché i volontari che si alternano la sera e che dormono con gli ospiti hanno una occasione incredibile di conoscere la vita delle tante persone meno fortunate di noi. – 48 – – 49 – Grazie Casa Betania Valter p.s. W la Sicilia Antonio contraccambiava l’ospitalità anche con il desiderio di collaborare, gli piaceva farsi vedere volenteroso e, malgrado il pregiudizio che dietro certi atteggiamenti ci fosse anche la furbizia, anche questo era un modo per farsi accettare più facilmente. La permanenza in Casa Betania non fu a dire il vero una settimana tutta rose e fiori. Una sera alcuni suoi vecchi amici, di quelli che possono vantare un curriculum analogo al suo, suonarono al citofono perché volevano parlare con Antonio. Sono questi momenti, a cui io non ho assistito, che mettono a dura prova il servizio svolto dai volontari. Antonio scese, e mi è stato raccontato che l’incontro fu molto duro. Vi era fra questi anche una che si definitiva la fidanzata, erano lì per chiedere ad Antonio cosa stesse mai facendo e di venire via da lì. Ma Antonio si arrabbiò molto e ribadì che la decisione l’aveva presa: “voglio andare da Papa Giovanni”. La sera dopo mi chiamò Claudio, volontario di Casa Betania e mi chiese di andare subito lì perché Antonio mi voleva parlare. Ero preoccupato, chissà cosa era accaduto di tanto urgente. Antonio aveva raccontato di me e della proposta della Papa Giovanni ai responsabili di un ufficio pubblico che si prende cura di chi vuole entrare in una comunità di recupero. Questi, forse con qualche giusto sospetto, dissero ad Antonio che volevano conoscermi e se quindi fossi stato disposto una mattina ad accompagnarlo. Cosa dovevo fare? Dire no? Diedi la mia disponibilità. Da: Valter Toni <[email protected]> Data: 24 novembre 2006 11.48.42 A: [email protected] Oggetto: Servizi pubblici e rosario Abbiano pazienza tutti coloro che sono volontari da anni e che conoscono bene le strutture pubbliche che dovrebbero aiutare il prossimo. Prendetemi come un bambino che non ha mai visto le mucche e si meraviglia di tutto... Ma come siamo messi???? Questa mattina, il treno era in forte ritardo, ho approfittato allora per andare presso un ufficio del servizio sanitario per i tossicodipendenti perché volevano dei chiarimenti su questa “Casa Betania” che ospita Antonio, se si tratta di una setta, quanti soldi vogliamo, e perché lo facciamo. È stata una esperienza veramente allucinante. L’impressione che ho avuto è che se uno non si droga, passando lì potrebbe iniziare. Tutto norme e burocrazie: questo non si può, questo neppure... e non provate a parlare di Papa Giovanni, eventualmente San Patrignano... (ma non credo per rispetto del santo anche perché Roncalli non è da meno). Consiglio a chi dovesse aver a che fare con questi servizi di armarsi di rosario da stringere forte in tasca fra le mani, per non farsi prendere dall’emozione e far uscire parole sensate. E se anche i consultori pubblici sono sullo stesso piano siamo messi proprio bene. Valter Come andò questo incontro lo racconto in questa email: – 50 – – 51 – Dopo un’ora da questa email, la testa continuava a girare e ne inviai un’altra per precisare. Da: Valter Toni <[email protected]> Data: 24 novembre 2006 13.12.40 A: [email protected] Oggetto: Dicono che siamo in Europa Più ci penso più questa storia mi sembra assurda. Il problema principale è la territorialità. Se sei un tossicodipendente marchigiano non puoi andare a curarti in Emilia Romagna perché la Regione può pagare solo le comunità del proprio territorio. Come dire che chi è di Gabicce o Gradara non può andare a Cattolica. Ma questo è un risultato del federalismo? O è sempre stato così? Dicono che siamo in Europa e per certe cose sembra di essere in un feudo. Per i calciatori si scomodano sentenze “Bosman” per il libero mercato e per curarti non puoi uscire dal castello. Sempre chiaramente per una questione di soldi. Boh! Sarò strano io... o siamo veramente il paese di Azzeccagarbugli? Valter Sì, effettivamente questa storia mi presentava l’ennesima faccia di come i servizi pubblici siano imbrigliati da leggi, cavilli burocratici lontani dai bisogni del cittadino, soprattutto quando questo è debole. Un altro aspetto su cui ho riflettuto è come persone che non siano animate da valori “alti” e “altri” rispetto a quelli dello stipendio, rischiano fortemente di aumentare questo solco. Non avevo creduto ad Antonio quando mi aveva raccontato che in un giorno di festa gli fu “donata” una razione doppia di metadone, alla faccia del dosaggio a scalare che dovrebbe aiutare ad al- – 52 – lontanare dalla droga. Ma dopo aver visto con i miei occhi l’ambiente di quella mattina, i suoi racconti hanno acquistato punti di probabilità. Ho incominciato a pensare che anche intorno al metadone vi fossero vicende un po’ simili a quelle che si raccontano sull’incentivazione al consumo del latte artificiale e medicinali; tutto può aiutare il business, anche qualche dose in più. Un pensiero purtroppo confermato qualche tempo dopo quando un’altra persona raccontò che, dopo essere uscito da una comunità (non proprio psicologicamente recuperato), ma comunque disintossicato, un servizio pubblico dell’entroterra lo avrebbe ricondotto candidamente all’uso del metadone. Anche in quel caso pensai: “questo esagera, chissà come sono andate le cose”. Ebbene no! La stessa struttura ha confermato! Così candidamente, senza farsi tanti problemi, donando al malcapitato un po’ di metadone come fosse camomilla per dormire. È chiaro che dopo aver visto cliniche della civile Lombardia aumentare gli interventi chirurgici per fini economici, questa sembra una storia di serie B. E non vorrei neppure prendermela solo con la sanità perché sappiamo bene quanti ambiti della nostra società siano macchiati da comportamenti che in maniera dolce definiamo malcostume. A tal proposito un amico medico a cui inviai una email, mi ha poi risposto con questa bella riflessione: Carissimo Walter, non può che essere così; il trattamento della tossicodipendenza dato in mano a “tecnici’’ non può che essere questo; si pensa possa esistere una neutralità educativa. Si pensa che le verità sulla persona siano semplicemente opinioni: se tu sentissi che cosa pensa dei Sert Don Oreste, ti renderesti – 53 – conto di una necessità impellente: ricominciare a vedere l’uomo in modo nuovo riprendendo in mano l’educazione. Con tutta la pochezza dei nostri mezzi, noi in parrocchia abbiamo iniziato a discutere di educazione: guarda caso iniziando dalla tossicodipendenza. Questo è il compito imprescindibile della Chiesa non disgiungibile dall’annuncio del Vangelo. Purtroppo il servizio pubblico e tanta ideologia ci impongono una versione di uomo che non corrisponde a verità. Conosco le cose che raccontano gli operatori delle tossicodipendenze nelle scuole, i consultori o che altro. A costo di sembrare Don Chisciotte mi faccio avanti perché (ahimè) nel panorama non penso che il sentirsi inadeguati alle sfide della educazione possa farci desistere. Mi rendo conto che non si può improvvisare, ma ci costringe a lavorare (a studiare) e probabilmente anche per Donvi diventerà una necessità, perché la Parola cade su un terreno sempre in movimento. Io rimango stupito da don Oreste per la lucidità e la preparazione in ordine alla realtà delle cose. Credetemi: la Chiesa è una grande opportunità e una grande fonte di conoscenza della realtà umana. Antonio comunque in quei pochi giorni di permanenza a Casa Betania, aveva già assunto un aspetto completamente diverso. Me lo ricordo la domenica sera parlare con Don Vincenzo, il quale malgrado fosse stanco per tre messe celebrate, lo ascoltò con molta attenzione. Chissà quante storie simili a questa aveva già avuto modo di sentire, e forse per questo capivo dalle espressioni del suo volto che si faceva molte meno illusioni, anche se non si risparmiò nel dare ad Antonio tante parole di incoraggiamento per la nuova vita che avrebbe iniziato qualche giorno dopo a Rimini. – 54 – Il viaggio verso Rimini Don Oreste diceva: “Ci sono tanti poveri che non ci cercheranno mai! Quelli, li dobbiamo cercare noi.” Fu così che a metà degli anni ottanta nacque “La Capanna di Betlemme”, la prima destinazione romagnola per Antonio. In realtà quella non poteva che essere una struttura provvisoria, per dare possibilità poi alla comunità di trovare la giusta collocazione rispetto alle esigenze di una persona senzatetto, ex-detenuto e dipendente dal metadone. Ero contento di fare quel viaggio insieme ad Antonio anche perché era una occasione per conoscere la Capanna. Ne avevo sentito parlare parecchie volte, avevo letto molte cose, ma non c’ero mai stato. Avevo avuto diversi contatti telefonici per questo incontro e desideravo vedere le persone con cui avevo parlato. Quel giorno ero sicuramente più confuso del solito: ricordo che tra i tanti pensieri avevo pure quello di tutelare la mia famiglia dal punto di vista igienico, perché il passeggero era decisamente insolito. Durante il viaggio Antonio parlò in continuazione. Non so fino a che punto fosse consapevole che la sua narrazione – 55 – era degna del miglior scrittore di trame di serial televisivi, dove ogni puntata riserva allo spettatore quelle sorprese utili a creare una sorta di dipendenza dalla storia. E in questa puntata, una delle più lunghe, gli “scoop” furono tanti. Dal fratello morto tragicamente diversi anni prima in conseguenza della vita “storta”, alla esistenza di un figlio ormai quasi trentenne che viveva in Svizzera con la madre. Parlammo anche dei giovani, perché diceva di essere molto preoccupato per loro. “Non sai quanti ce ne sono che vengono nei giardini a cercare la droga. Non ti rendi conto di quanti vengono giù da Urbino perché vogliono un po’ di sballo. Ma questi non hanno niente nella testa, mi fanno una gran pena. Almeno noi avevamo degli ideali, eravamo presi dalla politica... ma oggi sono vuoti, è importante solo sballare”. Quando diceva queste cose lo avrei voluto proporre a qualche nostro catechista del gruppo giovani, per fargli fare un incontro, perché dal suo viso certe verità, benché note, assumevano un valore del tutto particolare. Arrivammo alla Capanna di Betlemme verso le dieci e fummo accolti bene, con quella gentilezza bella e sincera tipica nelle persone della comunità, priva di formalità e convenevoli inutili. Un operatore ci offrì un caffè permettendoci di raccontare qualcosa. Antonio era visibilmente emozionato e ancora una volta stava mettendo in atto le sue doti seduttive. Mi accorgevo però subito che la persona davanti a lui, una di quelle che per amore vive a contatto con persone simili ad Antonio, aveva una capacità particolare di riconoscere le parole vere da quelle un po’ romanzate; lo si capiva dalle domande. Dopo un po’ che eravamo lì, incominciai a sentirmi di troppo, e con una certa soddisfazione mi sembrava che fosse terminata la mia missione. Antonio mi accompagnò verso l’auto, era molto felice, e mi salutò calorosamente, con tre baci perché, così – disse lui – bisogna fare. Era la prima volta che lo sentivo dire. Io gli regalai una piccola rubrica con il mio numero di telefono sperando che l’aiutasse ad avere un po’ più ordine rispetto ai tanti foglietti che aveva sparsi nelle tasche. Sul frontespizio un augurio sincero di buona fortuna, che per me era anche segno di ringraziamento verso una persona che mi aveva svelato lati nuovi dell’umanità. – 56 – – 57 – Caro Antonio Ti auguro veramente di trovare la strada che fino ad oggi hai faticato a trovare, e che mi permetterà di rincontrarti in giro sereno e felice come io ti ho visto in questi giorni che sei stato ospite a Casa Betania. Quel giorno potrai dire di avere vinto, perché avrai riconquistato la vita. Anche io mi sentirò vittorioso con te, soprattutto verso tutti coloro che mi avevano consigliato di lasciare perdere perché stavo perdendo tempo. Tieni duro e buona strada. Mi sentivo molto leggero, e mi sembrava di capire appieno quelle frasi tipo: “far del bene fa bene” oppure “quanta gioia c’è nel dare” che tante volte abbiamo sentito e ripetuto condite di quella retorica che non vorrei certo trasmettere ora mentre scrivo. Mi sembrò comunque giusto comunicare agli amici che la storia per il momento aveva preso la giusta piega. Da: Valter Toni <[email protected]> Data: 29 novembre 2006 00.48.40 GMT+01.00 A: [email protected] Oggetto: [SF] Fine della prima serie... Volevo vivere nel silenzio questa giornata... Ma vi ho inviato tante email su angosce, dubbi, riflessioni, che mi sembra giusto, una volta tanto, rendervi partecipi della gioia di un lieto fine (anche se è solo la prima parte di una storia che non è una fiction). Antonio questa notte dorme a Rimini, e la APG23 farà del suo meglio per aiutarlo. Valter Mi ero ripromesso che avrei cercato comunque di mantenere dei contatti con Antonio, di sapere come andava. Poteva accadere che in assenza di punti di riferimento esterni alla comunità avesse bisogno di qualcosa. Infatti vi erano ancora molte cose da sistemare, a cominciare da quella pensione d’invalidità a cui probabilmente aveva diritto. Devo dire che, forse grazie al coinvolgimento che avevo prodotto con le mie email, trovai molte persone disponibili a dare una mano. Alle belle parole di un amico risposi con questa email in cui faccio il primo accenno alle coincidenze che mi hanno spinto a scrivere questa storia, ma che sono un niente rispetto a ciò che poi capiterà in seguito. – 58 – Da: Valter Toni <[email protected]> Data: 02 dicembre 2006 12.56.25 GMT+01.00 Oggetto: Re: [SF] Fine della prima serie... Grazie Angiolo delle belle parole. Mi danno carica, e mi permettono di aggiungere poche cose. Il Walter della mattina, quello che fa meno fatica a credere (i dubbi non so perché mi arrivano sempre la sera) si è convinto che troppe vicende in questa storia sono accadute, per non vederci una mano superiore che guidava il tutto. La dinamica, i tempi, le situazioni nelle quali mi sono spesso trovato senza volerlo mi hanno fatto sentire, ti giuro, uno strumento a cui va il solo merito di non essersi opposto. Mi ha forse aiutato un po’ di tenacia che metto nelle cose, in tutte, quando vorrei vederci la fine. Divento un po’ insistente e rompiscatole anche nel lavoro con i miei clienti e fornitori, pretendo sempre molto dagli studenti. Se mi si rompe un computer arrivo a infastidire la Apple in California. Quando in famiglia qualcuno non sta bene stresso i medici... ne sanno qualcosa in pediatria alla nascita delle tre figlie con la storia del latte materno (ero diventato discepolo di Barbara). E così, anche in questa vicenda, molte cose che mi sembravano non giuste, di fronte ad un volto sofferente, mi hanno spinto a voler trovare una qualche soluzione alternativa rispetto a tutte quelle, devo dire un po’ rassegnate e di basso profilo, che mi venivano proposte. Tutto qui. È una vicenda che sicuramente, a prescindere da come andrà a finire, mi ha maturato e mi ha fatto conoscere una realtà diversa, e sono grato di essermi sentito strumento, e nulla più... provando una gioia veramente grande. Nello stesso tempo mi imbarazzo a parlarne perché mi sembra di farmi grande, quando invece ci sono persone veramente grandi che fanno cose grandissime ogni giorno nel silenzio. E comunque grazie. W(v)alter p.s. le ultime notizie mi dicono di un Antonio sereno. – 59 – Durante il periodo di permanenza alla Capanna di Betlemme ho avuto di Antonio solo qualche sporadica notizia. Sinceramente non davo per scontato nulla, neppure che uno come lui potesse resistere come aveva promesso. Ma fortunatamente dopo una ventina di giorni Antonio fu assegnato ad una nuova struttura: Da: Valter Toni <[email protected]> Data: 19 dicembre 2006 10.59.05 GMT+01.00 A: [email protected] Oggetto: Il resoconto del martedì mattina Approfitto della mattinata leggera da impegni per darvi qualche aggiornamento su Antonio: ora non è più ospite alla Capanna di Betlemme, ma è entrato in una struttura di recupero a Rimini, in via Dardanelli, che per coincidenza si trova a due passi dal mio studio. Sarà per lui questo il momento sicuramente più difficile. Mi pare molto bella l’idea di Michele che chi l’ha conosciuto gli faccia avere un biglietto d’auguri per Natale. Rispetto ai problemi dovuti alla legge che chiede che un tossicodipendente si “curi” nella propria regione non si sono trovate altre soluzioni se non quella che la Ass. Papa Giovanni farà a meno del contributo della regione e pagherà in proprio le spese dell’accoglienza. A maggior ragione speriamo che Antonio non rifiuti questo privilegio. Anche perché l’entrata di Santa Maria Nuova ha trovato un nuovo inquilino: Carmine, 3 anni di galera, e che rifiuta di dormire nei luoghi di accoglienza perché - dice - dopo è più dura ritornare all’aperto... non so, avrà ragione anche lui. È probabile che questa email preoccupò qualcuno perché immaginava di doversi sorbire una nuova valanga di informazioni su Carmine. In realtà pure questa segnalazione fu recepita da alcuni amici che si interessarono di lui, anche se non ho poi più saputo come sia andata a finire. Da: Valter Toni <[email protected]> Data: 21 dicembre 2006 14.27.11 GMT+01.00 A: [email protected] Oggetto: [SF] Tanti saluti da Antonio Oggi, come ogni giovedì all’ora di pranzo, sono stato cacciato dalla signora delle pulizie che non vuole nessuno fra i piedi quando i pavimenti son bagnati, e allora ho approfittato per far visita ad Antonio, che ora abita a 5 minuti a piedi da qui. L’ho trovato molto bene, malgrado il rigore dei limiti imposti dalle regole, l’ho visto forte e determinato... affascinato, e ci mancherebbe, da don Oreste. Mi ha detto: “Oh, lo sai, alla fine della messa ci viene a salutare tutti!!” Mi ha chiesto di portare gli auguri a Fano specialmente a tutte le persone che ha conosciuto a Casa Betania. V.W. Buon martedì Valter – 60 – – 61 – 2007 Un nuovo anno era da poco iniziato. Grande festa in famiglia perché mio padre, Paolo, compiva 80 anni nello stesso giorno, il 19 gennaio, in cui mia madre, Rina, ne compiva 75. Sì, ho avuto anche questa fortuna, due genitori uniti in tutto, anche nel compleanno. Anche a loro, come al resto della famiglia d’origine, raccontai qualcosa di Antonio, ma con molta discrezione, senza esagerare, forse per quegli stessi motivi che mi facevano posare il panino in maniera veloce, agli inizi di questa storia, sempre più ricca di “coincidenze”. Con tutti i posti della Comunità Papa Giovanni sparsi per il mondo, il fatto che Antonio fosse finito a pochi metri dal mio ufficio a Rimini non poteva che essere interpretato come un primo segnale di quella “treccia” di cui vi sto raccontando. Antonio si era già ben inserito nella struttura in via Dardanelli, in una accogliente villetta verde che ospita per pochi mesi coloro che entrano in comunità per ricostruire una vita distrutta dalle droghe. Lì avviene la prima fase del programma, quando ancora le dipendenze dagli stupefacenti sono più di natura fisica e non solo psicologica. – 63 – Antonio aveva nel giro di pochi giorni tolto completamente l’uso del metadone, e io non capivo come potesse essere che lì ci fosse riuscito in pochi giorni, mentre a Fano lo davano per irrimediabilmente spacciato e destinato alla eterna dipendenza. Dopo avermi presentato praticamente tutti gli ospiti, che mi colpirono per la cordialità del saluto, mi mostrò con orgoglio la lavanderia e la stireria di cui era diventato responsabile. Mi raccontò poi anche della festa di capodanno, se non ricordo male presso la colonia di Marebello, dove nel 1990 conobbi da vicino la comunità in una esperienza che si chiamava “Due giorni giovani”. Antonio era sbalordito dalla figura di don Oreste. “Per me quello non è normale, la notte di San Silvestro è venuto da noi e c’è anche stato parecchio, poi è andato dalle prostitute, poi è andato a dir messa... ma ti rendi conto tutta la notte in giro e ha ottantadue anni?!” Sì, lo aveva proprio inquadrato bene questo prete straordinario che ha dato tutta la sua vita per stare accanto ai poveri, alle prostitute, lottando per la giustizia e la pace nel mondo. Quanto ci sarebbe da scrivere su quest’uomo! Credo che chiunque lo abbia incontrato anche per pochi istanti avrebbe la possibilità di scrivere cose stupende. In via Dardanelli sono andato diverse volte. Avevo preso come impegno ogni giovedì verso l’ora di pranzo, facendo così un favore a chi svolgeva le pulizie settimanali dell’ufficio. Ma già dopo un paio di mesi la permanenza di Antonio in via Dardanelli aveva i giorni contati per una nuova destinazione, che di certo non sarebbe stata altrettanto agevole per le mie visite. – 64 – Da: Valter Toni <[email protected]> Data: 08 febbraio 2007 14.10.17 GMT+01.00 A: [email protected] Oggetto: [SF] Saluti da Antonio Antonio si è raccomandato di farvi avere i suoi calorosi saluti, in special modo agli amici e amiche di casa Betania. È molto contento, oggi è entrato in contatto con la seconda fase del programma e presto, 1 o 2 settimane, lascerà Rimini per una casa di Cesena (dove tra l’altro verrà operato alla schiena). Valter La nuova sistemazione in effetti non era più a Rimini, ma in una bella casa di campagna nell’entroterra romagnolo. Anche lì, come del resto durante la prima fase, le visite esterne erano ammesse solo avvisando prima e soprattutto con il consenso dei responsabili. Anzi, a dire il vero, la possibilità di incontrare gli ospiti veniva data solo una volta al mese, in una giornata in cui solitamente sono i genitori far visita ai propri figli. Per Antonio era diverso, e forse anche per questo fu fatto uno strappo alla regole, e mi fu permesso di andarlo a trovare sempre all’ora di pranzo. Per arrivare a Bagnolo dal mio ufficio ci volevano circa quaranta minuti di una strada panoramica molto bella ricca di salite e discese, che ho saputo essere la gioia dei ciclisti. La distanza comunque era un problema per me, e non so se ci fosse relazione tra la mancanza di quei giovedì passati a parlare con Antonio, ed il ritornare a ragionare in maniera dubbiosa sulla fede, quasi a testimoniare la veridicità del fatto che, come diceva Tonino Bello, è la solidarietà con i poveri (i beati) che ci porta ad essere benedetti. – 65 – From: “Valter Toni” <[email protected]> To: <[email protected]> Sent: Thursday, April 05, 2007 9:27 AM Subject: [SF] Buona Pasqua dal mio trenino... In questo ultimo viaggio quaresimale in treno verso Rimini mi permetto di scrivere due righe per augurare a tutti Buona Pasqua. È stata per me una quaresima non facile dal punto di vista spirituale, vissuta fortemente, più che mai, nel grande contrasto fra l’invito ad assumere responsabilità nella Chiesa di Dio e il sentirti attore della più grande fiction della storia. Ma non voglio tediarvi con le solite mie questioni del credente e non credente che spero, anzi prego, di terminare il più presto possibile. Anche perché, se a volte mi sembra assurda la pretesa che quel cerchietto bianco di farina possa realmente contenere Dio, ho raggiunto la piena consapevolezza che anche quest’ammasso di cellule e di atomi che stanno pensando e scrivendo queste cose, sono, razionalmente, una grande assurdità... né più e né meno della prima. E così, ringraziando il Signore della mia bella famiglia, di tutte le persone che mi fa conoscere, per Lucia e sui cari che ieri hanno riempito il cuore di tutta la comunità, per Antonio che proprio l’altro giorno mi ha detto essere molto felice nella sua nuova sistemazione vicino Cesena, e ringraziando il Signore soprattutto perché non mi colma mai pienamente di felicità così da non privarmi della nostalgia e voglia di cose più grandi... auguro a voi tutti BUONA PASQUA nel Signore. Valter – 66 – Da: Valter Toni <[email protected]> Data: 22 maggio 2007 14.30.05 GMT+02.00 A: [email protected] Oggetto: [SF] APG Lo so, non ce n’è bisogno, ma voglio ancora una volta manifestare tutta la mia infinita ammirazione per la Papa Giovanni. Non per Don Oreste, che conosciamo e ammiriamo tutti, ma per gli operatori nei centri di recupero che da veri angeli custodi dedicano la propria vita per aiutare le persone che nessuno vorrebbe più accanto, a cominciare da chi qualche anno fa, partendo magari da un po’ di cannabis, si è ritrovato ai margini del mondo. Stamattina ho fatto visita ad Antonio, che ha passato un momento un po’ difficile, nella sua nuova sistemazione in un centro, molto affascinante, ma un po’ sperduto nelle colline romagnole, dove 18 ragazzi vivono il proprio programma di recupero. Se qualcuno un giorno, per caso, si trovasse a non sapere per chi pregare... beh, sappia che una preghiera per loro non è sprecata. Antonio saluta calorosamente Don Vincenzo e tutti gli amici di Casa Betania che ricorda con tanto affetto. La distanza aveva diradato le mie visite, e questo però mi permise di apprezzare ancora di più i grandi progressi che Antonio stava facendo dal punto di vista relazionale. Forse anche a causa dell’età, per qualche ragazzo poteva essere tranquillamente il padre, ma sicuramente per il suo modo garbato, aveva acquisito una autorevolezza che lo faceva sembrare un piccolo responsabile della struttura. In realtà una responsabilità vera e propria l’aveva: l’orto e gli animali, a cui orgogliosamente mi fece far visita. Ho capito, conoscendo da dentro una comunità di recupero, quanto sia importante far sentire responsabili le persone. Credo che da queste esperienze avremmo tutti molto – 67 – da imparare, come genitori e come educatori in genere. Mi pare che uno dei più gravi furti che in questi anni sia stato fatto ai giovani, sia proprio quello di averli privati della responsabilità. Sicuramente questa esperienza mi ha fatto apprezzare ancora di più l’attività scout iniziata dalle mie figlie dove l’essere responsabili è fondamentale nel percorso di crescita. A dire il vero il programma di recupero prevede anche altre forme di rieducazione basate sulla disciplina e persino la punizione che sembra apparentemente entrare in contrasto con la concezione di libertà individuale a cui siamo abituati. Ma come diceva giustamente Antonio: “Ho sgarrato e per questo mi hanno tolto cinque sigarette. Ma per uno che è stato in galera cosa vuoi che sia?” Un sabato di luglio, nella giornata in cui i genitori facevano visita ai propri figli, andai a trovare Antonio con tutta la famiglia, eccetto Sofia che era ad un campo scout. Era una bella giornata di sole che ci permise di godere dell’ampio e bel giardino intorno alla casa. Antonio quel giorno era di turno in cucina e quindi ci accolse con tanto di grembiule e cappello. Era un bello spettacolo vederlo muovere fra i fornelli, dettare ordini ai compagni, come fosse lo chef di un grandhotel. A pranzo tutti sotto l’ombra, di fuori di fronte la casa. Un’occasione per conoscere tante storie di giovani, per certi versi uniche, ma che allo stesso tempo con tanto in comune. Ad esempio l’essere benestanti. Oppure avere una esperienza sportiva alle spalle di un certo valore. Un giovane giocava nella nazionale di calcio di San Marino, un altro era campione internazionale di vela. Anche questo fatto me- – 68 – riterebbe una riflessione non banale su cosa possa indurre un giovane a non ritenersi soddisfatto neppure delle glorie sportive. Vicino a noi era seduto il padre di un ragazzo che dai suoi racconti sembrava aver fatto tutto per il figlio. Forse era vero. Lo stava facendo anche in quel periodo, organizzando per tutta la casa d’accoglienza gite in collina che raggiungevano il culmine della festa con grigliate all’aperto di carni argentine, che avevano poi solleticato la fantasia di Antonio tanto che affermava: “Quando verremo fuori da qui metteremo su un ristorante con la carne Argentina che ci procurerà il padre di questo ragazzo.” Di fronte a me a tavola vi era un responsabile che era un po’ come il vice della casa. Infatti quel giorno il responsabile principale che avevo già conosciuto in altre occasioni non c’era, e un po’ mi dispiaceva, perché avrei voluto presentarlo a Lisetta. Il vice, invece, era un po’ diverso, un modo di fare un po’ più burbero: con lui Antonio mi confidò di non essere proprio in sintonia. Ma anche questo ci sta in una grande famiglia, in una casa che ospita una ventina di persone. – 69 – Settembre 2007 Le vacanze stavano ormai terminando. Come ogni anno il 26 di agosto è occasione di incontro con la mia famiglia d’origine, perché quel giorno oltre che essere mio compleanno è l’anniversario di matrimonio dei miei genitori. Antonio stava concludendo l’estate con una vacanza in una località balneare nel sud d’Italia, e la sua permanenza a Bagnolo scorreva nel migliore dei modi. La mia mente e quella di mia moglie in quei giorni era occupata, oltre che dall’inizio della scuola e dal rientro al lavoro, da due carissimi amici che per le loro difficoltà ci stavano toccando profondamente il cuore e coinvolgendo in maniera totalizzante. Storie di vita, purtroppo sempre più frequenti, che non ha alcun senso raccontare se non per dire che, anche in questo caso come per Antonio, ero sicuro che vi fossero possibilità per trovare vie d’uscita positive. Il 16 settembre, oltre che essere il decimo compleanno della nipote Elisabetta, si presentava come una bella domenica per la dedicazione di un parco alla figura di Baden – 71 – Powell. La bellezza dell’evento era dovuta soprattutto al fatto che in quella giornata i due gruppi scout fanesi, FSE e Agesci, sarebbero stati non antagonisti, ma uniti nell’evento. In realtà i due gruppi si erano già avvicinati grazie ai loro rispettivi capi, Luca e Alessandra, che si erano sposati dopo aver frequentato il corso per fidanzati nella nostra parrocchia. Proprio da loro, che avevo conosciuto in quella occasione, venni coinvolto per la realizzazione di una speciale targa da inserire nel parco. Purtroppo però le feste di quella domenica non furono completamente serene. Il giorno prima mio padre era stato accompagnato da mia sorella e da mia madre in ospedale perché era ormai da un paio di mesi che si sentiva come vinto da una continua stanchezza. Io non c’ero perché mi trovavo fuori Fano da un amico prete per studiare una strategia d’aiuto per gli amici in difficoltà. Mio padre, grazie all’interessamento di Pierpaolo, amico medico da sempre, con cui ho condiviso elementari, medie, liceo, gruppi musicali, e l’essere testimoni alle reciproche nozze, venne ricoverato per iniziare tutti gli accertamenti diagnostici. Quando la sera lo andai a trovare ricordo che parlammo anche del viaggio fatto, perché la mia mente quel giorno era piena di discorsi, di preoccupazioni più per quegli amici che per mio padre, che pensavo avesse qualcosa di facilmente risolvibile. Malgrado la mia mente fosse occupata e stanca, leggendo un’articolo sui quotidiani locali a proposito di una ordinanza del sindaco sui barboni, trovai il tempo per sfogare la mia rabbia verso quanto stava accadendo a Fano. – 72 – Da: Valter Toni <[email protected]> Data: 15 settembre 2007 17.50.35 Oggetto: Barboni e stampa A mio modesto avviso gli articoli usciti negli ultimi tempi sulla stampa locale a proposito del problema barboni, sono a dir poco scandalosi e razzisti, non solo per le scelte politiche che descrivono, ma per il tono e il taglio con il quale vengono espressi. Quasi che il problema dei barboni non avesse a che fare con persone, volti, drammi umani, ma si trattasse esclusivamente di un problema di decoro urbano di una città turistica. Sinceramente disgustato Walter Toni Con sorpresa ricevetti il giorno seguente la cortese telefonata di Scatassi, giornalista de «Il Messaggero», nella quale precisava che il suo pensiero era lontano dalle scelte politiche sui barboni e mi ringraziava per aver espresso una opinione diretta su quanto scritto sulla cronaca locale. La discussione su quella ordinanza continuò non solo a livello politico, perché si sa quanto certi argomenti siano banalmente utilizzati per raccogliere facili e demagogici consensi, fino a calpestare la dignità dell’essere umano. Sempre più spesso mi capita di pensare, forse l’ho scritto anche in qualche email, che lo spirito di Goebbels, quello che ti seduce e convince che il male sia un bene, continua purtroppo ad aleggiare subdolamente anche nel nuovo millennio. – 73 – Da: Valter Toni <[email protected]> Data: 22 settembre 2007 10.18.05 A: [email protected] Oggetto: Sondaggi barbosi e barboni... Il Carlino ha lanciato un sondaggio: Sei d’accordo con l’ordinanaza anti-barboni del sindaco di Fano? Risultati: Sì, è giusto salvaguardare l’igiene pubblica (73.96%) No, provvedimento eccessivo (26.04%) Scusatemi, sarà un mio limite, ma il fatto che Antonio, l’amico che dormiva di fronte a S. Maria Nuova (che oggi con Michele andremo a trovare) si stia rifacendo una vita, non riesco proprio a vederla in termini di vantaggio igienico per Fano. Mi sembra di essere ancora ai tempi dei “Promessi Sposi”. In questi casi mi aiuta pensare che se Kennedy fosse stato a sentire i sondaggi non avrebbe abolito alcuna legge razziale contro i neri... Buon Weekend Walter Nel mese di ottobre, esattamente un anno dopo il primo incontro, Antonio non riuscii mai ad incontrarlo. La malattia di mio padre inaspettatamente rimaneva senza soluzione: non si capiva cosa causasse una febbre costante con valori del sangue sballati rispetto alla percentuale del ferro. Aveva iniziato una cura piuttosto forte a base di cortisone che avrebbe dovuto mettere un po’ a posto le cose. E così quello che doveva essere un ricovero di controllo di pochi giorni durò circa un mese, per poi addirittura riprendere verso fine ottobre, perché erano esplosi i valori della glicemia probabilmente in conseguenza ad alcuni medicinali. – 74 – Anche altri impegni caratterizzarono quel periodo. Sicuramente piacevole fu il week-end con Aurora ad Assisi insieme alle scuola per una manifestazione di sensibilizzazione alla pace. Dal punto di vista professionale trovai la grande soddisfazione di concludere finalmente un cdrom proprio sull’educazione alla pace, pubblicato dalla Erickson a cui stavo lavorando da parecchio tempo e che mi aveva permesso di conoscere meglio il prof. Andrea Canevaro, persona intelligente, sensibile e disponibile, molto gradevole da incontrare. Di quel mese ricordo con piacere il fatto che mi venne dato l’incarico dalla Comunità Papa Giovanni di ridisegnare il sito internet. Per me ogni occasione di contatto con amici della comunità, è un momento di ricarica. Poter lavorare a contatto di persone che alle idee aggiungono ideali è per me il massimo. Ricordo con simpatia un giorno mentre dialogavo attraverso skype con Daniele, il webmaster di apg23.org, e ad un certo punto scrisse: [18/10/07 16.12.45] Daniele: scusa ma è arrivato don Oreste e qui si è bloccato tutto!!! [18/10/07 16.13.01] Daniele: quando passa è peggio di un tornado. – 75 – Novembre 2007 Novembre è il mese in cui si inizia la raccolta delle olive, e anche la mia famiglia come ogni anno era impegnata, per quel che poteva, ad aiutare Italo e Marisa, i genitori di mia moglie, che hanno una ottantina di olivi a Montegiano, vicino al Beato Sante. Il due novembre cadeva di venerdì, e le scuole erano rimaste chiuse per il ponte dopo la festa di tutti i santi. Io ero rimasto a casa da solo con Bianca e non ero andato a messa la mattina presto perché ci sarebbe stato un momento di preghiera la sera. Comunque lessi le letture del giorno nel mio solito libretto. Il due novembre è un giorno in cui un cristiano dovrebbe dare particolare attenzione alla preghiera per i defunti, ma anche al senso più ampio del significato della morte, e don Oreste aveva scritto un commento molto bello, toccante, non solo perché, come avrete ormai capito, tratta di un tema che invade nel profondo le mie debolezze di fede. No, si trattava di un testo bello di per sé, per la capacità descrittiva con cui don Oreste riusciva a spiegare il senso della morte per lui: – 77 – Nel momento in cui chiuderò gli occhi a questa terra, la gente che sarà vicino dirà: è morto. In realtà è una bugia. Sono morto per chi mi vede, per chi sta lì. Le mie mani saranno fredde, il mio occhio non potrà più vedere, ma in realtà la morte non esiste perché appena chiudo gli occhi a questa terra mi apro all’infinito di Dio. Noi lo vedremo, come ci dice Paolo, faccia a faccia, così come Egli è (1Cor 13,12). E si attuerà quella parola che la Sapienza dice al capitolo 3: Dio ha creato l’uomo immortale, per l’immortalità, secondo la sua natura l’ha creato. Dentro di noi, quindi, c’è già l’immortalità, per cui la morte non è altro che lo sbocciare per sempre della mia identità, del mio essere con Dio. La morte è il momento dell’abbraccio col Padre, atteso intensamente nel cuore di ogni uomo, nel cuore di ogni creatura. Tratto da “Pane quotidiano”, novembre-dicembre 2007, Edizioni Sempre. Ero di fronte al computer, con il pensiero di riscrivere questo commento per inviarlo agli amici, quando mi chiamò al telefono don Vincenzo che con voce sottile mi dice: “Avrai sicuramente già saputo che è morto il don. Pensavo di organizzare per questa sera un momento di preghiera per lui, cosa dici? Avvisi tu tramite una email?” Lì per lì quasi non capii a chi si riferisse con quel “don” senza nome, dato con tono tanto confidenziale, ma fu solo questione di attimi, un intontimento di pochi secondi per poi capire che “il don” era lui, don Oreste. Un po’ freddamente e sconcertato ringraziai di avermi avvisato e della bella idea che avrei subito diffuso. Immediatamente chiamai Lisi che era andata a raccogliere le olive e non riuscii a trattenermi dal pianto quasi singhiozzante. Ricordo che dicevo: “Scusami Lisi, ma mi fa così, non ce la faccio a trattenermi.” – 78 – Mi sedetti poi nel grande tavolo del soggiorno per scrivere al computer e diffondere la notizia. Avevo vicino a me Bianca che giocava, ma con un occhio scrutava le mie mosse: Da: “Walter (Valter Toni)” <[email protected]> Data: 02 novembre 2007 10.02.47 GMT+01.00 A: [email protected] Oggetto: E’ morto don Oreste Don Oreste è morto questa notte 2 novembre alle 2.22. Don Vincenzo invita tutti questa sera in chiesa: “Sarebbe bello che tutta la comunità lo sapesse e che si riunisse in maniera speciale questa sera al rosario delle 20.30 per il Don.” Il mio pianto spontaneo è stato consolato da Bianca vicino a me: “Babbo la morte non è brutta perché don Oreste è adesso da Gesù.” Nel giro di pochi minuti la notizia era su tutte le principali testate giornalistiche online, accompagnata da numerosi commenti, compreso quello di Benedetto XVI che lo ha definitivo “un infaticabile apostolo della carità a favore degli ultimi e degli indifesi”. Subito dopo pranzo, con tutta la famiglia insieme a don Vincenzo, approfittando della nostra capiente Multipla, ci recammo a Rimini presso la chiesa della Resurrezione, nella zona chiamata Grotta Rossa, dove don Oreste era già stato posto in poche ore per l’ultimo saluto. Don Oreste era morto lì, nel suo vecchio appartamento dove aveva vissuto per anni come parroco, ma che da diverso tempo non usava, non solo per i suoi numerosi viaggi in giro per il mondo, ma perché quando si trovava a Rimini, aveva deciso di vivere vicino a i poveri della Capanna di Betlemme. – 79 – Chissà, forse anche aver chiuso gli occhi vicino al suo vecchio amico don Elio, era qualcosa di già scritto. Il clima nella chiesa era particolare, molto composto, qualcuno intonava un canto. La cosa che più mi colpì era il volto delle persone, commosse, ma come trasfigurate da una felice sicurezza: don Oreste era comunque lì presente più di prima, oltre quel suo corpo posto ad accogliere la preghiera dei tanti “piccoli fratellini” che amava. La sera andai a trovare mio padre all’ospedale. Chiaramente aveva saputo di don Oreste, e quando arrivai fece un commento che mi toccò profondamente: “Mi dispiace, so che per te era come un secondo padre”. Ancora oggi mi commuove pensare un padre, mio padre, che riconosce la paternità anche di un’altra persona. Si trattava della paternità di quella fede che mio padre era ben consapevole di non essere riuscito a darmi. Ma a Paolo il Signore aveva forse chiesto altro, e questo lui lo ha fatto sicuramente bene. Mio padre, don Oreste lo aveva ascoltato diverse volte, a cominciare da quell’ottobre 1990 quando ero andato a prendere il don a Rimini con la mia Renault 5 per un incontro nella chiesa di San Cristoforo che festeggiava sessant’anni. A dire il vero quella volta mio padre brontolò un po’ per il notevole ritardo. Ma chi lo ha conosciuto sa che don Oreste, come lui diceva scherzosamente, ai ritardi era sempre puntuale. Se quella volta non lo fossi andato letteralmente a rapire a Rimini, forse quell’incontro non ci sarebbe stato, perché era lunga la fila delle persone che volevano parlare con lui, e tutti avevano un buon motivo. Ci fermammo a prendere un caffè al primo autogrill, e durante il viaggio mi raccontò della registrazione che aveva fatto a Tele San Marino in quel pomeriggio. La mia emo- zione era tanta, avrei voluto che quel momento fosse durato di più per dialogare, ma poi come spesso capita in queste situazioni, ti senti un po’ rincretinito e dici cose diverse da quelle che avresti voluto dire. E comunque a don Oreste non servivano le parole per capire le persone. Ogni volta che mi vedeva mi diceva che tanto prima o poi avrei ceduto, ed era anche piuttosto insistente, riuscendo a trovarmi anche in mezzo al pubblico durante le conferenze, chiamandomi per fare una domanda. “Tu, tu, sì tu, vieni” e io mi guardavo intorno se ero ancora una volta io. “Non vi dico chi è costui, lo sa solo Dio. Da quant’è che resiste! Speriamo che questa volta il Signore gli dia una buona benedizione!” – 80 – – 81 – Stavo dicendo che mio padre lo aveva ascoltato diverse volte, ma salutato scambiando due parole solo una volta, dopo un incontro presso la “Spiaggia dei talenti”. Ho un ricordo molto affettuoso di quel confronto fra due quasi coetanei, in una specie di gara su chi fosse più anziano. Don Oreste vinceva di due anni, era del venticinque, mio padre del ventisette. Il vuoto lasciato da don Oreste era comunque qualcosa che da subito iniziava a lasciare segni di cristiana unione fra le persone, nella comunità, ma anche fra gente comune come me e Lisi che lo avevamo semplicemente conosciuto. Da: “Walter (Valter Toni)” <[email protected]> Data: 04 novembre 2007 23.57.10 GMT+01.00 A: [email protected] Oggetto: Don Oreste per noi. Walter e Lisi Don Oreste per noi. In questi giorni sono state scritte e dette tante belle cose su don Oreste... non poteva essere altrimenti. Lo si fa quasi sempre per chi muore. Ma in questo caso credo sia percepibile a tutti, anche a chi non lo ha conosciuto, che siamo di fronte a qualcuno veramente del tutto speciale. Sono giorni, questi, in cui la nostra mente ripercorre continuamente le tappe di quegli incontri iniziati nel lontano 1989, nelle chiese, i convegni alla Grotta Rossa, alla Fiera, le “due giorni giovani”, le vacanze a Canazei. Quanta energia benefica... quanta voglia di Gesù! Capivi che in Don Oreste Gesù aveva trovato veramente, come ha detto il papa l’altro giorno, un apostolo. Tutti quei ragazzi riportati in vita dal buco dell’eroina, le sedie a rotelle che diventavano la normalità e non ti accorgevi più che ci fossero, tutto incredibile, dove il bello e il giusto diventavano possibili, cose dell’ “altro mondo” come diceva lui scimmiottando la famosa discoteca. Tanti momenti, alcuni pubblici, altri più intimi che è bello ripercorrere in questi giorni in cui siamo presi dallo sconforto per non poter più vedere quel fantastico sorriso. Ma è bello anche che insieme a lui, al grande Don, si presentino in fila nei nostri ricordi anche i volti di tante persone, che come per contagio o per emanazione dello Spirito, sono diventate a pieno titolo gente di Dio. Questo ci conforta e ci rende certi che la Papa Giovanni continuerà ad essere sempre la Papa Giovanni. Persone che a noi hanno dato tanto. Persone che a volta appaiono eccezionali perché il Signore le ha volute più vicino agli ultimi, – 82 – in casa famiglia, in centri di accoglienza o recupero. Ma la Papa Giovanni è molto di più di questo “eccezionale” che appare. La Papa Giovanni è fatta anche di gente “normale” la cui eccezionalità è data dall’aver capito chi è Gesù per loro. Gesù nella propria vita, nella coppia, nella famiglia, nel lavoro, nella scuola, nella pace... Troppo spesso ci è capitato di parlare della Papa Giovanni con amici che la identificavano solo per una sua parte, per lo più le case famiglia. No, la Papa Giovanni è molto di più: è come dire che don Oreste è il prete delle prostitute... cosa fra l’altro percepita in maniera limitata in questi giorni. No don Oreste è molto di più, e la Papa Giovanni è molto di più... e grazie a lui stesso e a Dio è anche molto di più di don Oreste che sarà riconosciuto santo. Don Elio, Giorgio, Davide ed Elisabetta che sono in paradiso, Stefano, Alessandra, Giuliano, Grazia, Pier, Pino, Daniela, Ferdinando, Beatrice, Italo, Eros, Eraldo, Barbara, e tanti, tanti altri di cui a volte è rimasto nella nostra mente solo un volto, hanno aiutato Gesù ad entrare nella nostra casa. Questa è la Papa Giovanni. Walter e Lisi Il 5 novembre era il giorno dei funerali. Tanta gente era prevista e quindi l’idea iniziale di celebrare il rito in duomo fu abbandonata in favore della vecchia fiera riminese dove don Oreste aveva tenuto tanti incontri e congressi. Fu proprio lì che nel 1990 forse avvenne la “folgorazione”, quando per organizzare l’incontro di cui ho scritto prima, andai ad un convegno sulle tossicodipendenze. Mi sembra ieri, ricordo benissimo quel momento in cui mi avvicinai a lui, era attorniato da tantissime persone, mi pare ci fossero anche Vit- – 83 – torino Andreoli, Antonio Riboldi, e lui mi fulminò con un saluto come fossimo amici da chissà quanti anni. Eppure ci eravamo incontrati una sola volta. Ho capito poi che questa manifestazione è tipica dei santi, che imitano Gesù quando riconosce Natanaele sotto il fico. Devo ammettere che per organizzare l’incontro di Fano sono stato molto fortunato perché ogni volta che in seguito lo cercavo per decidere, o rassicurarmi che la data scelta fosse confermata, riuscivo ad incontrarlo malgrado tutti lo ritenessero irraggiungibile. In realtà avevo scoperto un modo semplice: andare alla grotta Rossa alle sette del mattino, quando celebrava lodi e messa, insieme a non più di una decina di persone. Momenti per me indimenticabili perché era un modo di conoscere un don Oreste più intimo e confidenziale, che giocherellava con le aste degli occhiali e chiedeva perdono per le sue apparizioni televisive, domandandosi se fossero effettivamente per amore del prossimo, di Cristo, e non invece per sé stesso. Oh, quanto avevi ragione! Me lo chiedo anche adesso mentre scrivo: perché lo faccio? Avvolto anche da questi ricordi mi diressi a piedi con molte altre persone verso la vecchia fiera. Tenevo stretto in mano, dentro la tasca del giaccone, un rosario che non ho mai imparato ad usare bene. Qualche ave-Maria l’ho detta con la mente che rimbalzava tra la celebrazione a cui stavo per assistere, i problemi di mio padre, la mia fede vacillante. Quando entrai c’era sul palcoscenico montato come altare e l’amico Giorgio, vestito di bianco, che organizzava alcune preghiere e riflessioni in attesa della messa. Il clima dentro quel palacongressi era incredibile, si percepiva il senso di una preghiera forte che ti faceva capire quanto non siano i luoghi, ma le persone a determinarla. Rimasi colpito da tanti particolari, dalla sensibilità e cura nelle cose, nell’attenzione alle persone soprattutto i piccoli fratellini amati da don Oreste. Per fare un esempio: sul lato sinistro del palco c’era una persona che con segni interpretava la messa per chi non aveva l’udito. Si dice che ci fossero diecimila persone, ma dal silenzio, dal raccoglimento era come ce ne fossero dieci. Tutto si è svolto perfettamente, anche grazie alla collaborazione di CL che, nella organizzazione di incontri, non è seconda a nessuno, e di Rinnovamento dello Spirito che aveva lì concluso la propria conferenza il giorno prima. Anche questo fatto, qualcuno lo interpretò ironicamente come il primo miracolo di don Oreste, avere cioè intorno a sé la Chiesa nel suo insieme compresi i movimenti. Il Vescovo di Rimini, Francesco Lambiasi, attorniato da tanti sacerdoti e vescovi, riuscì subito ad entrare nello spirito della comunità, con giuste parole semplici e toccanti, attraverso un racconto scherzoso su una ipotetica discussione in paradiso fra i santi Tonino Bello, Madre Teresa e Helder Câmara che raccomandavano don Oreste al Signore. Al termine della messa, tutta la gente uscì composta, e mi colpì il senso di pace, per niente affranta, tranquilla veramente consapevole che d’ora in poi don Oreste avrebbe avuto la possibilità di essere più vicino a tutti. Io ero solo, giravo in qua e là, alla ricerca di qualche viso noto da salutare. Presi un ricordino con la foto di don Oreste che veniva distribuito insieme al libretto con il dorso viola “Pane quotidiano” di quei due mesi, novembre-dicembre 2007, in cui era contenuto il commento che aveva scosso non solo la mia sensibilità. – 84 – – 85 – Incontrai il responsabile della casa di Bagnolo, che mi disse che Antonio era lì. Lo cercai, ma non lo trovai. Da: “Walter (Valter Toni)” <[email protected]> Data: 09 novembre 2007 09.25.44 GMT+01.00 A: [email protected] Oggetto: [SF] Basiliche maggiori e minori Sette giorni fa, in queste ore, si stava diffondendo nel mondo la notizia che don Oreste non è più su questa terra con il suo corpo. Vi sono in questi casi diversi modi per dire che uno è morto: “ci ha lasciati”, “è tornato al Signore”, “è nella casa del Padre”. Ma non voglio tediarvi con le mie solite riflessioni su questo tema perché ho già la mia “maestra” Bianca che, anche stamattina, invitandola ad una preghierina per i morti mi ha detto in auto mentre andavamo a scuola: «babbo non ti preoccupare perché la parola “vita” vuol dire “invito” ad andare alla festa con Gesù quando moriremo». Vi giuro che potevo rischiare l’incidente se non ero fermo in colonna perché io, insieme alle altre figlie, ci siamo fermati a guardarla con occhi increduli... barbone ubriaco puzzolente che dormiva a casa mia e che non ho avuto il tempo di salutare perché ora il suo corpo giace su una lastra di marmo senza che nessuna persona cara possa accompagnarlo alla sepoltura.” Signore, io non so cosa sia la morte, ma ho capito che le idee più chiare non sono in molti ad averle. Quelle che mi convincono di più sono quelle di questi tuoi grandi testimoni come don Tonino, don Oreste di cui domani ricorre l’onomastico. Grazie per averceli donati e dona ancora alla tua Chiesa un numero di sacerdoti e laici che continuino la loro missione. Sai, a volte, quando penso a quel settembre di tanti anni fa, in cui mi trovavo all’arena di Verona e sul palco erano presenti alcuni “beati” che oggi non sono più tra noi mi sento un po’ orfano. Ma so che è un problema mio che, forse più che a contemplare Te, mi incanto a guardare chi sta col dito puntato verso Te. eccomi qua, stazione di Rimini. Buona giornata a tutti. Walter A parte questo, mi viene spontaneo, a sette giorni dalla morte del Don, ringraziare il Signore per averlo lasciato su questa terra per 82 anni a testimoniare il volto di Cristo che si manifesta soprattutto nei poveri, nei sofferenti, in coloro che non hanno alcun apparente potere. E nella giornata di oggi in cui la Chiesa celebra la dedicazione della Basilica Lateranense, ho pensato all’altro grande profeta dei nostri anni, Tonino Bello, quando a Fano raccontò un aneddoto sulla dedicazione di una basilica minore, e trovandosi impreparato di fronte alla domanda su che differenza ci fosse fra basilica minore e maggiore, improvvisò una delle sue solite uscite di alta poesia, all’incirca così: “Basilica maggiore siamo noi, sei tu, è il cardinale qui vicino a me, e il In quei giorni stava poi accadendo intorno a me qualcosa di strano, che da un certo punto di vista non poteva che farmi piacere. Don Oreste era entrato con una certa prepotenza nella mia quotidianità. Don Vincenzo aveva deciso che la nuova bella sala adiacente alla parrocchia, che avrebbe inaugurato prima di Natale, si sarebbe chiamata “Sala di fraternità Don Oreste Benzi”. Qualcuno chiamò me e Lisetta a raccontare di don Oreste ai giovani, cosa che facemmo volentieri, ma non ci sentivamo di certo con le carte in regola più di tanti altri che, anche a Fano, sono stati segnati dalla sua conoscenza. Molte persone mi chiamavano e scrivevano, quasi fossi un manager della Papa Giovanni, perché erano – 86 – – 87 – interessate ad avere lo stupendo dvd intitolato “Do you love Jesus?” che racconta la vita di don Oreste. Anche per il periodo d’avvento, don Vincenzo voleva che la figura del “don” fosse posta al centro, visto che il 2 dicembre sarebbe stata la ricorrenza del trigesimo, e per l’occasione avevamo due invitati speciali: Giorgio, amico della prima ora della Papa Giovanni e don Nino, amico prete di Bologna, che per quanto mi riguarda, pur non avendo giocato lo stesso ruolo di don Oreste, è stato indubbiamente incisivo insieme a figure come Tonino Bello per darmi una bella spinta al di là del muro dell’ateismo. All’adrenalina dolce che accompagnava questi fatti si aggiungeva quella amara rispetto alla salute di mio padre. Non stava andando per niente bene: febbre e debolezza perenni. I medici decisero di andare più a fondo con le analisi e fare quindi una biopsia polmonare rispetto ad una piccola zona che appariva sospetta sulle lastre. Anche per questo decisi un giorno di prendermi una pausa da tutto e durante l’ora di pranzo pensai di andare a trovare Antonio. Erano passate un paio di settimane dalla morte del don, e mi piaceva sapere da lui come l’aveva vissuta, e quale clima ci fosse in casa. Come sempre chiamai, mi rispose il responsabile che immediatamente senza giri di parole disse: “Ah ciao Walter, vieni, vieni, che c’è Antonio che non si sta comportando proprio bene”. Partii immediatamente e durante il viaggio incominciai a pensare che cosa mai potesse essere accaduto. Quando arrivai, non c’era come al solito Antonio ad aspettarmi. I più erano tavola, Antonio no. “Dov’è Antonio?” chiesi. “È in camera sua, vai pure...” rispose il responsabile. Salite le scale, con le mani in tasca i pugni stretti, per assumere un aspetto determinato pur non sapendo a cosa andavo incontro, trovai Antonio in quel tipico atteggiamento, visto più volte nei film, di chi vuole andarsene facendo frettolosamente e disordinatamente la valigia. Mi salutò: “Ah ciao Walter...” ma non si fermò dal prendere le cose nei cassetti. “Hai visto qui come mi trattano?” Antonio non era solo, nella stanza c’era anche l’altro responsabile, il vice, che avevo conosciuto durante il pranzo d’estate e con cui non correva buon sangue. “Perché come ti trattiamo?” lui chiese. “Ah, non so dico! Questa estate mi avete promesso che avrei potuto avere la patente. Sono tre mesi che aspetto... una volta non si può, l’altra neppure, ditelo che non volete aiutarmi...” “Antonio sai che abbiamo fatto tutto ciò che prima era necessario fare. Prima di tutto mettere a posto la salute. Ti abbiamo trovato il busto a nostre spese; si tratta solo di avere pazienza. Il problema è un altro è che tu sei un grande egoista e da un po’ non ti stai comportando bene.” Il clima stava salendo di temperatura ed io mi sentivo come una rete in un campo da tennis. Ogni tanto intervenivo con qualche frase scontata per cercare di riportare Antonio alla ragione, ma era proprio fuori di sé. Non appena ebbe finito di fare le valigie ci ritrovammo nell’ufficio del responsabile che con un po’ più di delicatezza cercava pure lui di portare Antonio a riflettere e a ripensarci rispetto allo sbaglio che stava facendo. “Ma dove vai? Sei così sicuro che fuori tutti siano lì ad aspettarti?” “Guarda che il Comune me la deve dare una casa perché è mio diritto.” – 88 – – 89 – “Eh già! – intervenni io. – “Son tutti là fuori ad aspettarti! Figurati che vi sono famiglie intere con bambini piccoli che sono in lista d’attesa per avere un alloggio e la vengono dare a te! Aspetta Antonio, un giorno avrai anche la tua casa, ma devi avere pazienza e finire il tuo percorso, che per il momento prevede ancora di stare qui!” “No, io sono a posto.” “Ah se lo dici tu... ” “Sì, sì sono a posto, dai Walter andiamo.” “Dove, Andiamo? Io non ti porto da nessuna parte. Sono stato tuo complice per la ricostruzione non lo sarò per la tua distruzione, se te ne vuoi andare vai pure a piedi!” Antonio uscì dalla porta, scese dalle scale e se ne andò. Io rimasi ancora qualche minuto a decomprimere lo stato di tensione, commentando in maniera banale, ma reale il futuro a cui sarebbe andato incontro uno come Antonio. Poi me ne andai pure io, pensavo che forse avrei incontrato Antonio lungo la strada e non avevo la benché minima idea di come dovessi comportarmi. Ma non lo incontrai e forse fu meglio così. Novembre stava volgendo al termine e i miei pensieri venivano assorbiti dalla salute di mio padre. Don Vincenzo mi mandò un messaggio: “Come sta il babbo? vorrei condividere le tue preoccupazioni. So cosa si prova.” Io risposi in una email: Tutto è pesantemente più grande delle mie spalle. Chiedo il dono di un briciolo di conforto della fede per lui e i miei familiari.Stamattina ha fatto una biopsia polmonare e siccome l’unica cosa evidente da due mesi a questa parte è che si sta spegnendo non so quale esito sperare pur di conoscere la verità e fare una cura precisa. – 90 – Sì, sono le cose grandi che da un lato mettono benzina nel fuoco delle inquietudini, ma contemporaneamente, se incanalate nella fede assumono la dimensione di speranza: La mia mente ha il grosso difetto di provare una sensazione di vertigine verso le cose che non riesce a contenere. L’ho già scritto altre volte e non mi dilungo... ma è successo anche ieri sera quando aiutando Sofia su galassie, polveri cosmiche, e miliardi di anni mi sentivo sempre più piccolo e inconsistente. Fortunatamente il pessimismo cosmico va oltre il “cogito ergo sum” e ti meravigli del fatto che un puntino infinitamente piccolo come me riflette su cose più grandi di sé... sarà pure un bel mistero? Don Oreste lo sentivo particolarmente vicino, o forse ero io semplicemente più vicino a lui. Una notte, girovagando in internet trovai in un blog personale un bel dialogo con una persona a cui proponeva di entrare nella comunità Papa Giovanni. Questi si riconosceva quasi in tutto rispetto alla comunità, ma aveva un problema: i dubbi sull’esistenza di Dio, e quindi sentiva che la proposta non poteva riguardarlo. Don Oreste lo spiazzò rispondendo che bastava, che non era importante. “Neppure l’esistenza di Dio?” ribatté questa persona. “No – rispose don Oreste – tanto esiste lo stesso anche se tu pensi che non sia possibile.” Immaginatevi poi come mi sentii quando sfogliando «Sempre» il mensile della comunità, sull’ultimo numero in cui don Oreste aveva potuto dare risposte nella rubrica dedicata alle domande dei lettori trovai pubblicata questa lettera: – 91 – Caro don Oreste Ieri ho letto il tuo comunicato stampa sulla vicenda delle gemelline e dell’aborto. Oggi si celebra il martirio di San Giovanni Battista, che ancora nel seno di sua madre, percepì la presenza del Signore. Ritorno con una riflessione che proposi al “servizio maternità difficile” giusto un anno fa: perché non nominare Giovanni Battista protettore dei bambini ancora in seno alle proprie madri, ed Elisabetta delle madri in difficoltà? Con grande affetto ti abbraccio Walter Caro Walter Hai avuto un’intuizione molto felice. Giovanni il Battista è stato il primo su questa terra a riconoscere Gesù, nell’incontro che Maria ha avuto con Elisabetta, sua parente. Quando Maria è arrivata da Elisabetta, Giovanni che era nel suo grembo sobbalzò di gioia. È stato il primo saluto dell’umanità al suo Creatore, diventato uomo. Ogni bambino che viene concepito e che poi nasce - biologicamente o rigenerato nell’amore - è il sorriso di Dio sull’umanità. Chiediamo che Giovanni il Battista sia un protettore dei bimbi non nati, perché ogni bambino è il grazie - concreto, tangibile dell’umanità al suo Creatore che continua ad amarci. Leggere quella risposta, forse l’ultima data in quella rubrica, è stato per me un grande regalo, che feci leggere anche a mio padre sottolineando la coincidenza e l’onore. – 92 – Dicembre 2007 Dicembre iniziò subito in maniera impegnativa già dal secondo giorno, in cui avevamo ospiti sia don Nino di Bologna, che Giorgio della Papa Giovanni. A dire il vero quel giorno la parrocchia è riuscita a dare il meglio di sé, inserendo nella messa delle undici anche un saluto di amici anglicani e la presenza dei volontari dell’Unitalsi con le “ragazze” accolte a “Casa Serena” di Bellocchi. Alla Santa Famiglia le cose o si fanno in grande oppure niente. Il giorno seguente, il 3 dicembre, all’improvviso arrivò la possibilità di portare mio padre in un centro specializzato di chirurgia toracica a Modena dove gli approfondimenti non riusciti a Fano sarebbero stati condotti al meglio. Così, io, mia madre e mio padre, partimmo immediatamente, con la speranza di riportare almeno una diagnosi certa. Mio padre al di là della tanta stanchezza, che gli rendeva faticoso il camminare, aveva un bell’aspetto, ancora piuttosto giovanile, evidenziato forse da una tuta blu dell’Adidas. La cordialità del primario, e la professionalità dimostrata nel dialogo, diedero a me e ai miei genitori una iniezione di speranza. – 93 – Con il cuore gonfio, ripensando agli incontri di domenica, mi venne spontaneo scrivere: Data: 05 dicembre 2007 09.18.42 A: [email protected] Oggetto: [SF] Il mio vero grazie vero che non tutti riusciamo a viverle in maniera identica, ed è per questo che sono nate e hanno senso le comunità. Tutti non possiamo far tutto, ma quanto meno possiamo ringraziare gli altri che arrivano dove noi non arriviamo. E perciò grazie a chi pulisce la chiesa, a chi prega, a chi pensa ai giovani, e chi agli anziani, a chi cura e partecipa al biblico, a chi cura Casa Betania, Casa Nazareth, a chi ha nel cuore Mondo Comunità e Famiglia, a chi tiene rapporti con la Apg23, a chi cucina per le feste, a chi ha tanta voglia di parlare, a chi invece solo di ascoltare, a chi ha la pazienza di leggere quanto scrivo, e a chi non mi sopporta e mi aiuta a migliorare... ma anche grazie a chi non ha voglia di fare niente, a chi rifiuta tutto questo, e che aumenta la voglia di incontrarlo per raccontargli della bellezza di una comunità viva che, in questo piccolo fazzoletto di terra sull’Adriatico, è forse l’unico modo di testimoniare il Dio vivente, al di là di tutti i miei dubbi... Tanto, come dice don Oreste, Lui esiste anche se io lo ritengo impossibile. Ringrazio il Signore delle letture di oggi, che rappresentano il sigillo del mio pensiero a tre giorni dal ritiro del 2 dicembre. Proprio ieri infatti ripensando a quella giornata, e a quelle tre parole che tengo nel cuore, chiudendo gli occhi, mi sono venute in mente delle immagini che possono aver più valore delle parole. Sono i volti delle donne che sono ospiti a Casa Serena e che hanno partecipato alla messa. Lo scambio della pace è stato per me un forte momento di commozione, non un gesto banale, ma una valigia di ricordi condivisi appunto con l’Unitalsi. Oggi farei fatica a ripetere quella esperienza sia per ragioni di tempo, sia perché è più difficile per me sopportare una “divisa” che sento come segno di “divisione” con chi fa fatica a vivere. Ma è pur vero che le prime e forse più importanti esperienze di condivisione le ho fatte, con l’aiuto di mia moglie, proprio a Loreto con questa associazione. E quindi viva l’Unitalsi! Ma i volti di quelle donne - faccio un po’ fatica a chiamarle ragazze - non mi richiamano solo ricordi, ma anche scelte sul presente e futuro. Mi fanno riflettere che anche tutte le belle parole di domenica rimarranno parole di benpensanti se non creano scelte di vita concrete di condivisione con chi fa più fatica a vivere. E lodato sia quindi il Signore che ci ha donato a pochi passi da casa nostra Casa Nazareth e Casa Betania, e soprattutto belle persone che superano le fatiche della quotidianità, che tutti abbiamo, per portarle avanti e rendere vive queste concrete opere di carità. Sono proprio vere le parole del vescovo, che mi ha riportato Luciano, che la diocesi per stare in piedi deve reggersi su tre gambe (Eucarestia, Parola e Amore per il prossimo). Ma è altrettanto La festività dell’otto di dicembre la passai insieme a Lisetta e Sofia a Modena. Mio padre non era ancora riuscito a fare la biopsia perché, dopo aver tolto il massiccio uso di cortisone, la sua condizione fisica subì un peggioramento che costrinse i medici di aiutare la respirazione con l’ossigeno. La sera dello stesso giorno fu organizzata a Casa Nazareth una visione pubblica del film sulla vita di don Oreste. – 94 – – 95 – Questo è il nostro anello prezioso, che dobbiamo custodire e passare ai nostri figli, naturali o accolti. Buon avvento a tutti Walter La sala era piena e la commozione forte, e non poteva essere altrimenti perché “Do you love Jesus?” è un documentario fatto veramente bene, con ottima regia e ottime musiche. Mio padre non riusciva a migliorare, l’ossigeno stava diventando indispensabile, e di conseguenza non fu più possibile fare alcun tipo di analisi approfondita. Una mattina verso le quattro, fui svegliato da una telefonata di mia sorella, che mi chiedeva di andare immediatamente a Modena in quanto mio padre aveva passato una notte molto difficile dal punto di vista respiratorio. Chiamai mio fratello e andammo insieme. Ero particolarmente turbato anche per un sogno che avevo fatto proprio quella notte: mi lavavo i denti e mi si sfilavano dalle gengive come non avessero radici. Non potevo rimanere indifferente ad una diceria che attribuisce a questo un presagio di lutto. Una mente razionale come la mia rifiuta tutto questo, però può accettare una relazione di tipo psicologico che attribuisce al sogno il significato di paura di perdita dolorosa di qualcosa, o di qualcuno. Comunque mi turbò. Mio padre era lucidissimo, ma allo stato di grande debolezza si era aggiunta una grande sofferenza, che non era dolore, ma comunque molto inquietante: il senso di soffocamento. Avvicinando il pollice all’indice indicava che il fiato era corto, e a tutto questo i medici diedero il nome di fibrosi polmonare, di cui in realtà si sapeva da anni, ma non gli si era data particolare attenzione. Quanto poteva durare una situazione come questa? Domanda a cui nessuno riusciva dare una risposta. Io, mia sorella Mirna, mio fratello Oscar, Lisetta e le nipoti più grandi incominciammo a fare i turni di notte all’ospedale, a volte anche mia madre desiderava rimanere, ma noi la spingevamo ad andare a riposare a casa. Con me portavo qualche libro e naturalmente il portatile con cui di tanto in tanto entravo in contatto con qualche amico. Arrivati a Modena l’emergenza sembrava superata e decidemmo di tornare prima possibile a Fano, almeno avremmo ostacolato il pessimismo di mio padre che diceva: “Mi sa che a Fano non ci torno.” Invece ci tornò presto, in un viaggio in cui feci da scorta con la mia auto all’ambulanza modenese. Appena arrivati i simpatici accompagnatori non risparmiarono tutte le loro impressioni negative sulle difficoltà di raggiungere l’ingresso dell’ospedale fanese e sull’incredibile asfaltatura accidentata della nostra città. Son due notti che sono con mio padre in ospedale. Al giorno vengo ugualmente a Rimini... puoi immaginare come son ridotto. Una settimana veramente dura, fatta di notti vissute come l’ultima, ma dove in una, la mia preghiera insieme al “Pane quotidiano” di don Oreste e al mio lavoro col computer portatile sul sito della Associazione PGXIII vicino a lui sul letto dell’ospedale, mi hanno fatto percepire come un momento di “prove tecniche” di un miracolo, perché dopo diversi giorni di grande sofferenza mio padre ha sempre dormito profondamente, lì accanto me... Scusami sono un po’ stanco e rischio di passare per un bigotto devoto di un santo dei nostri giorni, cosa che sicuramente lui non voleva. Ma è stata comunque una bella notte di preghiera e gioia. Ora le cose sono stazionarie, e il Signore sembra volerci donare altri momenti per riflettere insieme sui profondi significati del- – 96 – – 97 – la vita, di contemplazione dell’«oltre» che la quotidianità vuole nascondere. Ti chiedo una preghiera per mio padre, Paolo, che pur avendo vissuto lontano dalla Chiesa è sempre stato un grande maestro di valori, di rispetto per il prossimo e superbo testimone di come si ama e si serve una moglie per 57 anni. Walter Credo che in quei giorni io abbia anche imparato a pregare. Ricordo una sera che durante il percorso che facevo a piedi per arrivare in ospedale tenevo stretto in mano la corona, ma più che dire il rosario ripensavo a don Oreste quando diceva che prima di entrare in discoteca per parlare con i ragazzi si rivolgeva alla Madonna e “la intortava un pochettino” perché così l’avrebbe aiutato. Io mi trovai nella stessa situazione. Riflettevo molto su cosa chiedere. Sicuramente non potevo pregare per la guarigione del corpo, perché la sentivo come una richiesta profondamente egoistica e soprattutto ingiusta nei confronti dei tanti che non hanno potuto vivere una vita tutto sommato bella come mio padre. Allora cosa chiedere? Di vivere con fede questo momento per avere forza nella speranza e aiutare le persone che erano vicino a me, e che avrebbero fatto più fatica a sopportare quel momento. Questo chiedevo. Dopo aver fatto questa preghiera, ed essere arrivato in ospedale pronto ad affrontare la notte, ecco accadere un fatto che, a pensarlo ancora oggi, ha dell’incredibile: mi trovo nella stanza con mio padre, ci sono anche mia madre e mia sorella. Giro lo sguardo verso la porta della camera, ed es- – 98 – sendo orario di visite vedo diverse persone passare, quando ad un certo punto con postura inconfondibile, schiena dritta, e passo un po’ da burattino, in un pigiamino rigato di altri tempi, fa una veloce apparizione Antonio. Non riesco a crederci. Esco immediatamente e chiamo: “Antonio!” “Oh, Walter che ci fai tu qui? “Sono con mio padre, ricordi che ti avevo detto che non stava bene. Tu piuttosto da quando sei ricoverato?” “Da ieri, perché sono svenuto e guarda che gambe gonfie.” “E dove sei stato tutto questo tempo?” “Prima sono stato all’ospedale a Pesaro poi però mi hanno dimesso... vado a fumare fuori, mi accompagni?” “Vieni un secondo che ti presento mio padre e mia madre.” La visita inaspettata portò un po’ distrazione per alcuni istanti nella camera. Mio padre lo guardò con occhio sospettoso, lo salutò, ma mi parve più per liquidare velocemente la visita che per altro. Accompagnai fuori Antonio fino alla porta e poi lui uscì al freddo in pigiama per fumare. L’incontro, indubbiamente inaspettato, fu una bella sorpresa, che per certi versi mi faceva sorridere. Durante la notte ogni tanto pensavo: “Ma guarda te chi mi doveva capitare di incontrare ricoverato nello stesso reparto di mio padre!” Nel frattempo in parrocchia ci si preparava alla grande inaugurazione della nuova struttura, la bellissima sala di fraternità, un piccolo gioiello architettonico che avrebbe arricchito gli spazi per le attività parrocchiali: – 99 – Da: “Walter (Valter Toni)” <[email protected]> Data: 19 dicembre 2007 12.58.59 GMT+01.00 A: [email protected] Oggetto: Inaugurazione Domenica alle ore 16 Carissimi tutti, Allora, come ormai tutti sanno domenica alle ore 16 ci sarà l’inaugurazione della sala di fraternità intitolata a don Oreste. Don Vincenzo mi ha chiesto di coordinare un po’ il pomeriggio, anche se sono consapevole che in questo particolare momento della mia vita, con mio padre malato, sto correndo un paradossale rischio di devozione verso il Don trasformandolo in una sorta di Padre Pio locale che fa prove tecniche di miracolo (dovrà pur allenarsi, no?)... ma una sera, un po’ come faceva lui quando diceva che prima di entrare in discoteca “intortava” un pochettino la Madonna, sono entrato in una sorta di dialogo con lui da cui ho ricevuto solo risultati positivi... basta, abbiate pazienza sono anche un po’ stanco! Giorgio ci invia, oltre gli auguri, un gran bel regalo, l’omelia di don Oreste del 27 ottobre, pochi giorni prima di morire, in cui parla di simpatia, sintonia, sinfonia. L’ho inserita nel nostro sito. A domenica quindi. Walter Arrivò domenica e mi trovai così a fare il Pippo Baudo della situazione di fronte ad una sala gremita e con in prima fila addirittura il sindaco e il nuovo vescovo Armando che si caratterizzò subito per affettuosità. Al di là di questo è sembrato giusto estendere l’invito il più possibile alle persone della comunità Papa Giovanni; tramite Stefano Paradisi, che sarà presente, è stata invitata tutta la zona delle Marche Nord e quindi forse ci sarà anche Don Aldo Bonaiuto; lo abbiamo fatto sapere a Wanda di Rimini, una grande esponente della prima ora della comunità, ho chiamato stamattina i meravigliosi Giuliano e Grazia Galassi di Cesena, (caspita mi viene in mente che sarebbe bello farlo sapere anche a Beatrice Mea); l’ho ricordato anche a Giorgio Mezzini... Ma come ben sapete sono tutte persone che non stanno con le mani in mano... e comunque senza assicurare la presenza nessuno ha detto no. – 100 – – 101 – La treccia nel finale Il giorno di Natale passò bene. Mio padre ebbe modo di gustare i cappelletti preparati da Marisa, la mamma di Lisetta. Di certo l’appetito non era venuto mai meno; faceva piacere a tutti vederlo mangiare con il gusto e desiderio di sempre, sembrava più in salute di quello che era, anche se la quantità di ossigeno necessario alla respirazione era aumentata, e ogni tanto la comprensione del mondo intorno a sé dimostrava avere dei cedimenti che gli procuravano come delle visioni e allucinazioni. Chiedeva perché ci fosse l’acqua per terra, o le formiche sopra il letto. Di tanto in tanto, soprattutto la notte, se la prendeva con qualcuno con cui aveva avuto una discussione di lavoro cinquanta anni prima a Cesena. Fortunatamente erano solo momenti che procuravano anche il nostro sorriso. Ormai eravamo prossimi all’ultimo giorno dell’anno, e domenica 30 dicembre, giorno in cui si festeggia la Santa Famiglia, in parrocchia vi fu un grande pranzo, il primo nella sala dedicata a don Oreste a cui parteciparono tante persone. Era venuto quel giorno un ospite d’eccezione e pro- – 103 – babilmente inatteso: Antonio, che era uscito dall’ospedale, trovò ospitalità sia dagli amici di casa Betania, sia dall’Opera Padre Pio in centro. Benché avessi deciso di passare la notte all’ospedale, anche durante il giorno ogni tanto facevo un salto a vedere mio padre che quella giornata l’aveva passata completamente dormendo, molto probabilmente anche a causa dei sedativi che venivano somministrati per limitare il senso di soffocamento ormai non più compensato neppure dall’ossigeno pompato al massimo. Quella notte anche mia madre decise di rimanere. Altre volte mi era capitato di addormentarmi per qualche ora; quella notte invece passai molto tempo a leggere, vegliare e pregare. Avevo portato con me una mezza biblioteca: un libro di Turoldo dal titolo Il dramma è Dio, e due di don Oreste, Trasgredite e Il sì di Maria. Quando era quasi mezzanotte pensai di inviare una email di auguri per l’inizio del nuovo anno: Da: “Walter (Valter Toni)” <[email protected]> Data: 30 dicembre 2007 23.05.30 GMT+01.00 A: [email protected] Oggetto: Recensione non scontate. E pure il tuo figlio il divino tuo figlio, il figlio che ti incarna, l’amato unico figlio uguale a nessuno, anche lui ha gridato, alto, sul mondo: «Perché...?» Era l’urlo degli oceani l’urlo dell’animale ferito l’urlo del ventre squarciato della partoriente urlo della stessa morte: «Perché?» E tu non puoi rispondere non puoi... Condizionata onnipotenza sei! Pretendere altro è vano. -----------------------------------Cari amici, Le occasioni di prendere libri in mano, come in queste notti di silenzio rotto dal bollire dell’acqua dell’ossigeno, ti permettono di conoscere e apprezzare ciò che difficilmente avresti tempo di fermarti a leggere. Oggi la mia recensione è meno scontata di quella inviata ieri, non solo perché non è riferita a don Oreste, ma perché si tratta di poesia, con la quale non sempre mi è facile andar d’accordo. David Maria Turoldo, IL DRAMMA È DIO, Rizzoli 1992 -----------------------------------Chi non avrò modo di incontrare nelle prossime ore, tenga stretto il mio augurio per un 2008 pieno di Speranza. Walter – 104 – – 105 – Mia madre quella notte riposò quasi sempre. Verso l’una lo strumento che indicava la percentuale di ossigeno nel sangue scese repentinamente e fummo costretti a chiamare assistenza attraverso quell’antipatico pulsante che innescava un delicato quanto insopportabile segnale acustico che per molto tempo è rimasto nelle mie orecchie. Oltre ad un medico cordiale venne una simpaticissima infermiera che io e Lisetta avevamo conosciuto anni prima a Loreto in un pellegrinaggio dell’Unitalsi. Controllarono le attrezzature che regolavano il flusso delle flebo aumentando alcuni parametri del dosaggio. Nel continuo sottofondo sonoro dell’acqua che frusciava per il bollore dell’ossigeno, il respiro di mio padre era ritmato come un vecchio locomotore a vapore fermo alla stazione. Verso le tre mi misi seduto alla destra di mio padre, con la fronte appoggiata sul letto, presi la sua mano e tenendo stretto un vecchio rosario di legno d’ulivo proveniente da Gerusalemme, contemplavo le sue grandi dita e fantasticavo in un ave Maria che con lui non avevo sicuramente mai detto. ai mesi di novembre e dicembre 2007, era iniziato con quel meraviglioso commento di don Oreste nel giorno in cui ci lasciò. Insieme incominciammo a leggere ciò che ogni anno la liturgia propone per il 31 dicembre. La prima lettura è tratta dalla lettera di Giovanni, e come gli occhi si posarono sulle prime parole, provai un brivido forte: “Figlioli, questa è l’ultima ora...” mi fermai un attimo e poi prosegui fino alla fine per iniziare immediatamente il Vangelo. E che Vangelo! Giovanni 1, il prologo: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio... Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.” Lessi i due commenti di don Oreste che concludevano l’ultima pagina del libretto con questa frase: “Rallégrati perché tu l’hai accolto! In Gesù rivélati figlio di Dio agli uomini dai quali sei atteso.” Punto! Fine! L’ennesima notte stava terminando. Verso le cinque e mezza mia madre si svegliò e ne approfittai per muovermi un po’ e prepararmi in modo che dopo un’ora sarei potuto tornare a casa a riposarmi. Un cappuccino nella macchinetta e poi quando erano ormai le sei mi sono rivolto a mia madre: “Ma’, che dici se leggiamo il vangelo di oggi?” Avevo con me due di quei piccoli libri “Pane quotidiano” con i commenti di don Oreste perché il giorno del suo funerale li distribuivano gratuitamente. Avremmo quindi letto le ultime pagine di quel libretto che, essendo riferito Mi fermai un attimo chiudendo contemporaneamente libretto e occhi per riflettere sulla preziosità di quell’oggetto che avevo tra le mani. Quando dopo pochissimi secondi li riaprii seduto in fondo al letto di mio padre e percepii un’atmosfera diversa, un suono ambientale differente. Mentre mia madre era ancora con gli occhi chiusi a meditare, mi alzai, mi avvicinai al viso di mio padre appena inclinato sulla destra e la bocca leggermente aperta dietro la maschera dell’ossigeno, e guardando il suo petto immobile mi resi conto che non respirava più. Presi la sua mano e immediatamente sentii che nessun battito era percepibile dal polso. – 106 – – 107 – “Mamma!” “Mamma! Credo che il babbo sia salito in cielo.” “Cosa dici?!?! Cosa dici?!” Saltò in piedi e si avvicinò: “Paolo!!” E incominciò insieme a me a perdere il controllo. L’abbracciai immediatamente mentre lei accarezzava la fronte del marito e iniziai subito a consolarla con un mio “sermone”, che però sentivo profondamente vero; ero agitatissimo, avvolto da emozioni contrapposte paragonabili solo al momento in cui avevo assistito alla nascita delle figlie. “Mamma ti rendi conto, se ne è andato mentre leggevamo un vangelo bellissimo!! E leggevamo l’ultima pagina di quel libretto che si era aperto con la morte di quello che babbo aveva chiamato «l’altro mio padre» e che diceva che la morte non esiste!” “Ti rendi conto che coincidenza, che miracolo! È come se fossero andati via insieme! Don Oreste lo ha portato in paradiso con sé!” “È vero Walter, è vero!” Lasciai uno dei due libretti del vangelo tra le mani di mio padre, raccomandandomi che non venisse perso. Dopo un paio d’ore, quando avevamo già portato via il corpo di mio padre, passai a casa e raccontai i particolari di questa vicenda in un clima di grande commozione, ma di certo anche di attenzione e meraviglia per le sottolineature che andavo facendo rispetto a quanto accaduto. Il giorno seguente, il primo dell’anno, passammo molto tempo insieme vicino alla bara posta nella camera mortuaria, pregando e scambiando due parole con chi veniva a fare un saluto. Mio padre aveva un aspetto molto bello, un viso per nulla provato dalla malattia che tutto sommato era stata breve. Tra le mani il piccolo libro “Pane quotidiano” insieme alla foto di don Oreste. Bianca aggiunse un suo disegno che ritraeva il nonno con le ali vicino a Gesù. Mi accorsi che quelle parole stavano aiutando mia madre, ma aiutavano molto anche me che ero veramente “fuori”, una sorta di cocktail di esaltazione e tristezza. Mai mi sarei aspettato che, per come sono fifone pensando alla morte, trovandomi di fronte a quella di mio padre, sarei riuscito a lodare Dio, e ringraziarlo per i giorni che ce lo ha lasciato. Questo era il vero miracolo che avevo ottenuto con la preghiera. Non so sinceramente che impressione abbiano avuto mia sorella che ho immediatamente chiamato, mio fratello e le persone intorno che passavano in quella stanza. Anche quel giorno capitarono situazioni strane che farò fatica a dimenticare: come quel medico che conosceva benissimo mio padre, perché era un assiduo frequentatore del bar gestito dai miei genitori dentro l’ospedale. Arrivò, io mi alzai per salutarlo cordialmente, benché avessi un conto in sospeso con lui dall’età di nove anni quando, vestito con la maschera di Zorro, mi chiamò sergente Garcia a causa della mia stazza ciocciottina. Ebbene anche questa volta mise un ulteriore sigillo sul nostro “buon” rapporto chiedendo frettolosamente dove fosse un’altra nota persona deceduta il giorno prima. Più che delusione la cosa in questo caso mi procurò un sorriso, e comunque la situazione imbarazzante fu pienamente compensata lo stesso pomeriggio quando, ci trovavamo seduti intorno a mio padre e squillò il cellulare. – 108 – – 109 – Come succede in questi casi ti senti infastidito per come la suoneria infrange il silenzio. Ero tentato di chiudere, ma sottovoce risposi al numero che non conoscevo. Era il vescovo conosciuto una settimana prima per l’inaugurazione della sala dedicata a don Oreste, che si trovava in viaggio con don Giacomo e con una cordialità infinita chiamò per un affettuosissimo saluto. La vicenda riuscì a strappare un sorriso meravigliato anche a mia madre e mia sorella. Il giorno dopo, quello dei funerali, arrivai piuttosto agitato in camera mortuaria per salutare il corpo di mio padre. La tensione della situazione fu, diciamo così, distratta da un rocambolesco incidente evitato, causato da un maldestro operaio che stava radicalmente potando le grandi piante nella via che porta all’ospedale. Fece cadere un enorme ramo sul mio parabrezza da una altezza di oltre dieci metri, e non so proprio come riuscì a non spaccarlo. Da: Walter (Valter Toni) <[email protected]> Data: 04 gennaio 2008 12.19.43 GMT+01.00 Oggetto: grazie L’affetto di tante persone è meraviglioso. Prima di tutto ti aiuta a non essere stupido e a non avercela con Dio per non averti dato un babbo immortale. Poi piano, piano – e qui è la meraviglia – ti permette di capire come la tua storia si intreccia con quella di Dio, fino a farti sentire protagonista di un racconto biblico. Cari amici, è stato un anno pieno di segni e soprattutto di incontri che sto impastando con qualche lacrima, ma che grazie a voi mi fanno dire che il Signore è Grande. Vostro Walter Il sipario su questa vicenda si stava definitivamente chiudendo e il protagonista iniziale, Antonio, decise di rimanere tale fino all’ultima scena. Era lì anche il giorno dei funerali, presente nella camera mortuaria, solo, che mi aspettava. Un copione che se scritto con fantasia non credo sarebbe arrivato a tanto. Mai avrei pensato che il giorno del funerale di mio padre mi sarei trovato da solo con lui nella mia auto. Tutto questo non poteva che suscitare in me, come sempre, grandi interrogativi, sul senso di quel che accade, ma soprattutto su chi mai fosse quella persona al mio fianco con bocca da pirata, ma occhi di un angelo. – 110 – – 111 – 2010, la treccia è terminata. Come nei titoli di coda di un film che racconta una storia realmente accaduta, ho pensato di scrivere questo breve testo conclusivo: Antonio si trova in una comunità qui vicino a Fano, ha riallacciato i rapporti con il figlio che lo ha fatto diventare da pochi mesi nonno. Dietro il suo letto, il muro è tappezzato di fotografie di un nipote che gli riempie la vita di una nuova gioia. Io invece sono qui a concludere questo racconto, sopportato e supportato da una splendida famiglia. Sono qui coi dubbi di sempre, compreso quello di aver scritto di Antonio, di don Oreste e di mio padre, per farmi bello e buono di fronte al giudizio della gente, perché tanto se Dio c’è, non ha certamente bisogno delle mie prove scritte. Sarei per questo motivo tentato di chiudere il “file” e tenerlo per me. Ma mi lascio andare, perché sono sicuro che il Signore riesce a rendere prezioso anche il mio essere vanitoso, considerando quanto da me scritto, un tentativo di voler porre la luce sopra il tavolo, per illuminare quanto di buono e bello, ho potuto vivere, solo ed unicamente, per Sua misteriosa grazia. – 113 – Se fosse un film le luci inizierebbero ad accendersi, la gente ad alzarsi dalle poltrone per uscire. Ma il tessitore dell’intreccio, il regista straordinario di questa storia non ha voluto essere secondo neppure al miglior Hitchcock, riservandoci un inaspettato colpo di scena finale, che praticamente scrivo in diretta. È stato dopo aver vissuto quella giornata che il 31 dicembre, a due anni esatti dalla morte di mio padre, ho avuto l’ispirazione di iniziare questo libro. L’ho iniziato immediatamente dopo la messa del mattino. Dopo aver scritto velocemente cinque pagine, le ho lette a Lisetta e alle figlie, che mi hanno spronato a portarlo avanti, così anche solo semplicemente per fare una sorpresa ad Antonio. Da diversi mesi, di Antonio, avevo perso le tracce. Il cellulare non dava più segnali di esistenza, ed anche amici che lo avevano conosciuto non sapevano nulla. Ogni tanto mi chiedevo dove fosse, temevo di incontrarlo dove lo avevo conosciuto o peggio che la sua vita fosse terminata senza che io fossi venuto a sapere nulla. Ecco che a Natale, poco più di un mese fa, mi è arrivata una bella lettera di auguri da parte di Antonio, dove mi racconta della sua nuova residenza, ospite presso la vicina comunità di San Cesareo. Immediatamente telefono per mettermi in contatto. E dopo una piacevole chiacchierata invita me e la mia famiglia a pranzo per il 26 dicembre. Solitamente il giorno dopo Natale la fame non è tanta, ma la richiesta non poteva essere delusa e così siamo andati tutti e cinque. Lo abbiamo trovato bene, sempre uguale con tanta forza e voglia di vivere malgrado parecchi acciacchi e problemi di salute apparentemente ben tamponati. È stato molto simpatico, oltre al rito di una completa visita della struttura, della sua camera, delle foto del nipote, ha preparato dei dolciumi incartati in tre tovaglioli legati con dello scotch, uno per Sofia, uno per Aurora e uno per Bianca, scusandosi per la confezione. Sabato scorso, 31 gennaio, ho posto il punto finale a questo libro, confidando per la prima volta ad alcuni amici ciò che avevo fatto. Anzi anche il giorno dopo, la domenica che ricorderemo per la grande nevicata, ne ho parlato in un incontro con don Valentino Salvoldi, in cui abbiamo affrontato il tema della fede. Stimolato anche da questa discussione ho deciso di stampare una bozza del libro da portare ad Antonio, per chiedere poi se aveva nulla in contrario a farne una pubblicazione dove apparisse il suo nome, e il cui ricavato sarebbe andato a Casa Betania. – 114 – – 115 – Ma una neve straordinaria ha bloccato la città per due giorni, io non sono neppure riuscito ad andare a Rimini e questo pensiero è slittato nella lista delle priorità. Ieri mattina, era il 4 febbraio, mentre accompagnavo le figlie a scuola e Bianca stava leggendo il vangelo di Marco, un “tin” mi avvisa dell’arrivo di un sms; ho subito pensato a qualcuno in difficoltà a venire al lavoro. Approfittando dello stop per la fila nel traffico prendo con una mano il telefono e leggo: “è morto Antonio”. Il gelo dentro l’auto ha superato in un secondo il freddo per la neve ancora presente nelle strade, Aurora inizia a piangere, io rimango ammutolito alcuni secondi e rompo il silenzio con l’ “eterno riposo”. In ricordo di Antonio, di Paolo, mio babbo, non posso che terminare con le parole di don Oreste che, puntuale come sempre, commenta il vangelo Mc 6, 7-13, di questo giovedì 4 febbraio 2010. Lascio le figlie nelle rispettive scuole. Sono frastornato, inizio a telefonare a chi avrebbe potuto darmi notizie, ma il mio pensiero non poteva che fossilizzarsi su questa treccia raccontata in questo libro, sul rammarico di non essere riuscito sul fil di lana a renderne partecipe Antonio. Questa volta è Sofia a consolarmi: “Babbo tranquillo, ora lo sta leggendo con più calma, però devi cambiare il finale.” L’amore per le persone si nutre vedendole con gli occhi stessi di Gesù; al di fuori di questo sguardo profondo sull’uomo si corre il rischio di non stabilire rapporti definitivi con l’uomo. Quando si va ai poveri con lo sguardo umano si corre il rischio di stare con se stessi nei poveri. Sa stare del tutto coi poveri chi sa stare del tutto col Signore. I rapporti umani, infatti, sono il prolungamento dei rapporti con Dio. Già, l’imprevedibile finale è veramente arrivato. Domani si svolgeranno i funerali di Antonio presso la nostra chiesa della Santa Famiglia, perché proprio la settimana scorsa aveva espresso il forte desiderio di venire a messa da don Vincenzo. Io son qui a terminare di scrivere questa storia vera e mi accorgo con ancora più evidenza di non aver fatto altro che aver prestato le mie dita a battere un testo, perché l’Autore della trama, anzi della treccia, non sono certamente io. Credo che sia Colui che fin troppo spesso chiudo nel recinto dell’assurdità, non accorgendomi invece che ciò che reputo assurdo non è altro che un grande mistero, che si rende visibile nell’Amore, per essere accolto con Speranza e contemplato nella Fede. Tratto da “Pane quotidiano”, gennaio-febbraio 2010, Edizioni Sempre. – 116 – – 117 – Indice Premessa importante – 118 – pag. 7 Ogni tanto, una email dal treno tra Fano e Rimini » 11 Ottobre 2006 » 31 Il viaggio verso Rimini » 55 2007 » 63 Settembre 2007 » 71 Novembre 2007 » 77 Dicembre 2007 » 93 La treccia nel finale » 103 2010, la treccia è terminata. » 113 walter toni Nato a Cesena nel 1963, battezzato col nome Walter, scopre a quindici anni di chiamarsi Valter. Questa è forse la ragione del continuo dialogo interiore fra due persone, una che fatica a credere e l’altra che aspira a diventar santo. Dal 1988 svolge l’attività di progettista grafico a Rimini e di docenza presso importanti istituti universitari. Appassionato di calligrafia e Mac è autore di “Vuota il cestino”, manuale di computergrafica - Fara Editore, e di alcuni cdrom multimediali in ambito culturale ed educativo tra i quali “Lo scontro è l’occasione per fare pace” - Edizioni Erickson. Vive a Fano con Lisetta, Sofia, Aurora e Bianca. Finito di stampare nel mese di marzo 2010 Collana € 10,00