Cronaca breve di quei dieci anni, di Monica Maimone
Ritratto, di Sandro Colbertaldo
L’Armata Brancaleone, di Anna Foà
Il tram della rivoluzione, di Alberto Montanari
Il rischio di essere Saracino, di Antonello Nociti
Cronaca breve di quei dieci anni
di Monica Maimone
1962
La mia prima manifestazione in piazza: crisi di Cuba, avevo 17 anni. Io e
mia sorella manganellate da un carabiniere. Mi fecero impressione i guanti
neri sulle mani quasi femminee. Un SS gentile. Rividi anni dopo gli stessi
guanti sulle mani di Restelli (noto personaggio del Movimento Studentesco
e poi dell’Armata Brancaleone, se doveva usare le mani lo faceva con
eleganza) a una manifestazione, ed ebbi la stessa impressione.
Ricordo un operaio che roteava la sua bicicletta per farsi largo tra quelli
della celere.
Ero iscritta al PCI, non alla FGCI come era d’obbligo per i giovani,
direttamente al Partito. Un onore.
Film: di Ingmar Bergman. Libri: Le memorie di una casa morta, Fëdor
Dostoevskij. Musica: Ne me quitte pas, Jacques Brel.
1963
Frequentavo una Comune, in via Scaldasole. Vivevano lì dei compagni; mi
ricordo di Saverio, con una barba lunga, che ancora non si usava. L’essenza
di vita che si cercava era sulla rotta di Parigi. Ancora Bohème. Altro
ricordo: una coppia fantastica, lei capelli rossi e baschetto, lui un artista
figurativo molto piccolo; si diceva che lei lo facesse dormire in un cassetto.
Per starci ci stava.
Come contraltare Mondo Beat: un gruppo di irregolari, proletari, che
avevano sede in una cantina, ribelli e pacifisti, fondarono “Barbonia city”:
una piccola città di tende, forse le prime canne.
Per qualche motivo strano io, giovane comunista, ero accettata dal loro
capo. Mi fecero scrivere sul loro giornale libertario – un articolo che
inneggiava alla violenza rivoluzionaria.
Intanto, in America, “I have a dream”, Martin Luther King, il mondo stava
cambiando.
Film: Salvatore Giuliano, Francesco Rosi. Libri: 1919, John Dos Passos.
Musica: Ballata per l’Ardizzone, Ivan Della Mea.
1964
Era un’epoca in cui si arrivava ancora vergini al matrimonio. Lessi per caso
Wilhelm Reich, rivoluzione sessuale, amore libero ma comunista. Non molti
mi seguirono.
Nel frattempo conoscemmo Aldo Brandirali, segretario dell’organizzazione
giovanile comunista. Nacque Falcemartello, gruppo “entrista”, affiliato in
modo sghembo alla IV Internazionale trotzkista, che teorizzava: stare nel
Partito (il PCI) ovviamente, per spingerlo a sinistra. Temutissimi, i quattro
gatti trotzkisti rappresentavano l’orrore puro per l’apparato del Partito: lo
spettro del frazionismo.
Film: Il Vangelo secondo Matteo, Pierpaolo Pasolini. Libri: Memorie d’una
ragazza perbene, Simone de Beauvoir. Musica: Blowin’ in the wind, Bob
Dylan.
1965
E così, dopo riunioni segrete, nomi di battaglia, letture attente sull’esempio
del Mali (Stato africano che non ricordo perché stava molto a cuore ai
trotzkisti), venimmo espulsi dal Partito Comunista.
Avevo 20 anni, mi sposo.
Viene ucciso Malcom X. A Berkeley iniziarono le manifestazioni contro la
guerra nel Vietnam, si costituì il Free Speech Movement.
Quanto a noi, fu lì, in Falcemartello, che incontrai “gli studenti”: Saracino,
Nozzoli, Radino. Ci si chiamava per cognome, come a scuola. Credo che
arrivassero tutti dal Liceo Leonardo. Due mondi diversi. Il nucleo originale
di Falcemartello era proletario. Brandirali, io, mia sorella, gli altri del mio
“gruppo” eravamo lavoratori/studenti, quelli delle serali, lavoravamo da
quando avevamo 14-15 anni.
Eravamo per un cambiamento radicale contro i privilegi che non avevamo.
Non capivo gli altri, che i privilegi li avevano; ne diffidavo. L’unico
“studente” accettato dall’inizio, il nostro Majakovskij, era Alberto
Montanari, il giovane alto e biondo che sfidava i fascisti tutti i giorni al
Berchet ed era quotidianamente malmenato.
Film: Le mani sulla città, Francesco Rosi. Libri: La recherche, Marcel
Proust. Musica: Hasta siempre, Comandante (Che Guevara).
1966
Giungevano intanto notizie, grazie soprattutto agli articoli di Nozzoli (il
padre del nostro Nozzoli) sul Giorno: gli invincibili Vietcong. Non
affascinanti come i belli, solari, sorridenti “Barbudos” cubani, ma comunque
eroi della rivoluzione. “L’imperialismo americano” divenne sempre più il
nemico da battere. Ascoltavamo Bob Dylan, ma – noi proletari – ci
rifiutavamo di parlare inglese. La nostra lingua era quella di Sartre. Anche
se il nostro eroe di quell’anno era Rudi Dutschke, con gli studenti tedeschi
in prima fila nella lotta contro la guerra del Vietnam.
Film: La battaglia di Algeri, Gillo Pontecorvo. Libri: Autobiografia di
Malcom X, Alex Haley. Musica: Auschwitz, Equipe 84.
1967
In Bolivia uccidono il “Che”, gli tagliano le mani. Mio comizio in Piazza
Duomo, nel quale sostenni in buona fede che il cadavere non era di Guevara
ma un montaggio della CIA (!).
Grandi manifestazioni. “Il Che è vivo e lotta insieme a noi”. Era così bello e
sorridente, era giovane, ci sembrava immortale.
Film: Blow up, Michelangelo Antonioni. Riviste: Quaderni rossi. Musica:
Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, Fabrizio De Andrè.
1968
Sparano a Rudi Dutschke; di quella ferita morì non molti anni dopo. Fu la
prima uscita pubblica di Falcemartello. Ci trovammo in Piazza Duomo, una
manifestazione spontanea. Ricordo io e mia sorella in prima fila. Fu un
inizio: sfaccendati, giovani, studenti, si aggregarono al minuscolo corteo di
partenza e diventammo tanti. E fu lì, io credo, che si rovesciarono le parti.
Fino a quel momento le manifestazioni, i cortei, erano “di difesa”: gli
operai, i comunisti che scendevano in piazza sapevano di doversi scontrare
con la polizia, ma ad armi impari. C’era coraggio, ma anche paura. In quel
corteo, soprattutto di giovani e di studenti, c’era voglia di attacco, non di
difesa: il ribaltamento di un mondo. E fu lì che i nostri, Saracino per primo,
divennero protagonisti.
Parigi, la Francia in rivolta. L’immaginazione al potere. Parole d’ordine
affascinanti e pompose, come solo i francesi sanno fare. “Vietato vietare”,
“Corri compagno il vecchio mondo ti sta dietro”, “La vita è altrove”.
Seduzioni alle quali era impossibile resistere, per dei giovani affamati di
cambiamento, in un’Italia ancora codina e repressiva.
Nasce il Movimento Studentesco, con un leader improbabilmente vestito
con una mantella. Viene dalla Cattolica, ha una parlata umbra, mi ricorda
Davide Lazzaretti, il profeta del Monte Amiata. Mi piace. Lui, non gli altri.
Saracino e i nostri studenti si sanno inserire; sono i comunisti, quelli seri, e
nello stesso tempo quelli che stanno al gioco. Vero, di boccette, e vero di
strategie di scontri con la polizia. Abbiamo con noi un po’ di universitari.
Film: Teorema, Pierpaolo Pasolini. Libri: Cent’anni di solitudine, Gabriel
García Márquez. Musica: Aquarius, Hair (film).
1969
Il mio giovane marito va militare. Non ho i soldi per pagare l’affitto della
casetta. Mia sorella va a vivere con Saracino. A me Saracino concede una
stanza, a un costo di affitto decoroso. Torno ad abitare in “Comune”.
Così era l’appartamento, quello del “fatto” di anni dopo: un ingresso, una
cucina abitabile, un bagno, la mia stanza, quella di Savona (il figlio del
Quartetto Cetra), quella di Saracino in fondo. Una stufa a cherosene, un tubo
che passa nelle altre stanze per scaldare. Il tubo della stufa porta parole e
suoni da una stanza all’altra. Lavoro e tengo il telefono vicino al letto,
perché ogni notte si occupa una fabbrica (sono un dirigente politico) e devo
dare istruzioni ai miei pards.
Intanto sento la vita degli altri, anche se Saracino (diventato Popi per me)
parla sempre a voce bassa, perché sa del tubo. Gli ospiti in prevalenza di
sesso femminile no.
Naturalmente non c’è televisione.
In agosto si tiene il Festival di Woodstock.
Da parte nostra azione di attacco al consolato americano, organizzazione
logistica perfetta, con medici, posti di ritrovo, piani di attacco.
Organizzazione militare anche, sempre con Saracino.
Film: Queimada, Gillo Pontecorvo. Easy Rider, Dennis Hopper. Libri: Il
Capitale, Karl Marx. Musica: With a little help from my friends, Joe Cocker.
1970
Siamo a casa da soli, noi tre, io, Popi e Savona. Vita da scapoli.
Popi entra nella mia camera e mi trova mentre dormo con una mia
compagna di lavoro (avevo rotto politicamente con Dario Fo: dopo sei anni
di lavoro comune, stavo con i suoi ex compagni a fare teatro politico). Si
entusiasma all’idea di aver scoperto un amore saffico. Delusione, era solo
ospitalità per mancanza di denaro.
Ma intanto mi vuole un po’ di bene. Pulisco la casa. Adesso sto sempre a
Milano, prima viaggiavo. Passo anche la lucidatrice, tutto splende. Popi mi
elogia, sono silenziosa, sessualmente inappetibile, politicamente
interessante.
Mi chiede, dopo l’estate: «Hai letto Lavoro Politico?» (pubblicazione
marxista-leninista-maoista, ci scrivevano Curcio e Berio). «Sì, hanno
ragione» (non l’avevo letto). «Adesso siamo sei» (non ricordo gli altri
quattro). E così, a studiare rapidamente, s’impara a parlare e scrivere come i
cinesi, ci si innamora degli slogan “Fuoco sul quartier generale”, bellissimo
per noi, detto da Mao che era il Quartier Generale. Un leader che chiede di
non essere considerato infallibile! Così pensavamo, ignari della lotta politica
che si stava svolgendo in un Paese di cui non sapevamo nulla. “Ribellarsi è
giusto”, le Guardie Rosse, la Rivoluzione Culturale… Ci sembrava uno
splendido ribaltamento dei rapporti di potere!
Dopo tanto tempo si può dire che il rapporto città-campagna del mondo fu
uno sguardo sul futuro. Ma allora non sapevamo altro che il Libretto rosso e
Stella rossa sulla Cina di Edgar Snow. Ci bastava.
Così andammo allo sbaraglio, contro Brandirali e altri. Non fu un massacro,
ci dividemmo in due gruppi paritari. Entrammo nel Partito Comunista
d’Italia marxista-leninista, riconosciuto da Mao.
La cosa più buffa è che subito il PC m-l si divise in due gruppi, noi eravamo
“La linea rossa” e gli altri si chiamavano “La linea nera”. Ma, incredibile, si
chiamavano così anche tra loro! Ed era evidentemente un aggettivo
spregiativo.
Dovemmo fare autocritica e includere Stalin tra i nostri riferimenti. Stalin,
per noi che eravamo stati trotzkisti (!).
Film: Woodstock, Michael Wadleigh. Musica: Acqua azzurra, acqua chiara,
Lucio Battisti.
1971
Prima manifestazione del PC m-l linea rossa: grande coreografia. Servire il
Popolo ci seguiva e aveva tutto da imparare. Scontro con il servizio d’ordine
del PCI-CGIL, Radino si prese un sigaro acceso sul collo. Gli iscritti al PCI
il nostro nuovo obiettivo, non più gli studenti, che tanto avevano
entusiasmato una certa borghesia milanese.
Portavamo il distintivo di Mao, sognavamo le loro divise. La severità era un
must. Anche nella vita privata si doveva mettere ordine. C’erano i nuclei
territoriali, io ero la dirigente del Partito a Milano: una delle mie limitate
virtù politiche era che sapevo imitare molto bene il modo di scrivere dei
cinesi. A quel tempo bastava.
Ero fiera del mio esercito, delle mie Guardie Armate. In un sopralluogo
contro un raduno fascista restammo isolati, io, Daniele Nozzoli e Popi,
nell’albergo occupato in Piazza Fontana. Con loro mi sentivo tranquilla, non
ebbi paura.
Ci fu una rivolta del Nucleo Universitario, non ricordo il motivo: nuova
minaccia di scissione. Popi era caduto in moto e si era fatto molto male.
Andai da sola a fronteggiare questi ragazzi, quasi tutti biondi, belli, inadatti
alla divisa blu. Ero spaventata e mi sentivo impreparata. Popi arrivò e fece
quello che aveva sempre fatto: fu onesto. Disse le cose come stavano. Fu
l’unico a non mediare, e ne avrebbe avuto modo; tutti volevano lui, ma
decise di stare dalla parte meno attraente. Beh, non lo dimentico.
Entro breve, sarebbe diventato il tutti contro tutti. Estremismo, malattia
infantile del comunismo.
Erano ragazzi, ma erano quelli del futuro e avevano nelle loro mani il golem
della vittoria, potevano imporre le regole del gioco. Chi poteva resistere al
loro charme, alla loro sicurezza, alla loro caparbietà? E alla loro ingenua
avidità di tutto? Avrebbero attraversato con fatica tutto quello che venne
dopo: il femminismo, la messa in discussione del machismo, il rapporto con
il denaro, la via aspra della rimozione o quella dolce del rimpianto. Ma
riuscirono comunque a cambiare le cose.
Film: Fragole e sangue, Stuart Hagmann. Libri: L’anello di Re Salomone,
Konrad Lorenz. Musica: Echoes, Pink Floyd.
1972
Nacque mio figlio, mi spostai da casa di Popi in una casa mia, mi separai da
mio marito che andò con la sua compagna ad abitare a casa di Popi, nella
mia ex stanza.
Andai a insegnare in una scuola media a Quarto Oggiaro. Continuavo a fare
politica nella scuola. Poco dopo tornai in teatro e lì rimasi, fino a quando
una nuova spinta politica mi portò in giro per il mondo a dare consistenza a
utopie della memoria.
Non incontrai più nessuno di loro. Persi di vista i miei magnifici studenti, il
mio esercito, i miei nuclei proletari.
Dopo tanti anni chiesi a Popi in affitto la sua casa per i miei stagisti romani.
Ci sentimmo per telefono.
Avevo sue notizie dai pochi che ancora incontravo.
E poi ci fu “il fatto”, la notizia dello stupro. Non mi stupì. Non perché
pensavo che fosse realmente accaduto. Ma ero consapevole che l’orda del
protofemminismo alla ricerca di sangue sacrificale di allora non poteva
trovare obiettivo più ghiotto, e più stupidamente inerme. Come potevano
fargliela passare liscia?
Ai nostri tempi fu imprigionato per una qualche manifestazione. Uscì da San
Vittore e andammo in tanti a prenderlo. Mi abbracciò e, come sempre, non
si commiserò.
Non l’ho più visto. Ma lo ricordo. Bene.
Ritratto
di Sandro Colbertaldo
Un tipo differente. Passava di lì perché viveva in Montenapoleone ma,
quando mi fece salire a casa sua, non aveva niente a che vedere con gli
splendenti appartamenti dei miei amichetti. Viveva da solo con suo padre,
un avvocato già anziano, separato dalla moglie, in un appartamento abitato
da due uomini, labirintico, disperso e disordinato, pieno di librerie polverose
cariche di volumi consunti, divani e poltrone coperti da pile di giornali e
riviste, portaceneri pieni di cicche, piatti da lavare in cucina e letti sfatti.
Mi trovai a mio agio, contento, libero di muovermi e di fare ciò che mi
pareva.
Si vestiva in qualunque modo, casuale, tutto stropicciato, e con qualche
patacca qua e là, ma non gli stava affatto male. Lo si vedeva sciolto, agile,
disinvolto. I capelli, un po’ lunghi, spettinati e castani, avrebbero avuto
bisogno di un buon parrucchiere e di uno shampoo, ma gli cadevano bene,
col ciuffo sugli occhi chiari, liquidi come l’acqua. Parlava in fretta, come
una mitraglietta, e sorrideva, ironico, come se ciò che stava dicendo fosse
uno scherzo o una barzelletta.
L’Armata Brancaleone
Saracino leader anomalo del ’68 milanese
di Anna Foà
Ho conosciuto il Popi Saracino a Milano nel 1970, quando era leader
dell’Armata Brancaleone, un gruppo poco compatto e tantomeno allineato di
compagni universitari che si erano scissi dal Movimento Studentesco,
un’accozzaglia di dissidenti dal gruppo dirigente di Capanna, capo
indiscusso che dava la linea.
Quelli erano tempi in cui i gruppi marxisti-leninisti e l’MS avevano una
struttura a piramide molto rigida, con gerarchie, organi dirigenti e riunioni
traslati dal partito cinese o dai vecchi comitati centrali del PCI. Verbali
accurati, cellule militanti, decisioni prese solo dallo stretto gruppo dirigente,
tutti gli altri “del collettivo” addetti a mansioni minori: ciclostilare, scrivere
in bella calligrafia i tazebao, diffondere volantini, persino “portare la borsa”
dei capi. Le decisioni venivano dall’alto e i sottoposti difficilmente si
azzardavano, un’idea diversa significava espulsione. La teoria veniva calata
attraverso documenti (lunghissimi e astrusi) d’ispirazione maoista stilati dal
“soviet supremo” di turno.
Pur essendo ginnasiali, dopo un po’ tutta questa storia cominciò a starci un
po’ stretta. Sì le manifestazioni erano toste e con i plebisciti assembleari ti
sembrava di “fare la storia”, però non era certo il fiorire di tutte le idee
libertarie di cui si vagheggiava a Parigi o a Berkeley, piuttosto quelle ci
arrivavano da Bob Dylan, insieme alla lotta planetaria contro la guerra del
Vietnam, questa sì che cementava i movimenti.
Invece nei gruppi che dominavano il ’68 ci si perdeva in minuziose
discussioni su dettagli della lotta di classe con o senza operai, su come
definire l’imperialismo, sulla rappresentanza, sul Capitale, con feroci
scontri su Stalin, Trotzkij e i diversi modelli di comunismo o socialismo o
anarchia o regno dei cieli in terra ecc. ecc.
In quei primordi – poco dopo si arrivò allo scontro fisico tra le diverse
fazioni che sfinì e incupì il movimento – comparve questo “Gruppo
Saracino”, chiamato da tutti Armata Brancaleone, che si contrapponeva
all’MS, nella fase in cui questo si organizzava sempre più come servizio
d’ordine.
Non so in che modo arrivò la notizia a noi piccoli, i “medi” come eravamo
chiamati, ma l’aspetto che più ci attraeva era che qui c’era un sacco di gente
grande che discuteva, era il caos, non c’era un ordine o una gerarchia
prestabilita, sembravano “cani sciolti”, non si capiva bene chi fossero i capi,
se c’erano non si comportavano come capi m-l o Capanna e i suoi
“ufficiali”, era una specie di dibattito continuo, senza un vero filo logico.
Un’accozzaglia di persone diverse e pensanti, universitari e fuori corso,
intellettuali che non sarebbero sopravvissuti un giorno alle Guardie Rosse di
Mao (detto col senno di poi). Andavi lì e in quelle stanze fumose potevi
sentir parlare le persone più disparate che insinuavano dei dubbi, era come
affrontare per la prima volta la complessità, dopo i reggimenti m-l e i
servire-il-popolo (tutto stava già nel nome, ma servivi il capo).
A parlare erano Piccardi, Nociti, Levi Della Torre, Pepe, Scherillo e
naturalmente Saracino. Lui per noi, nonostante tutto, era il capo, sì, ma era
anomalo e sfuggente, mai troppo afferrabile, dava “la linea” ma era tortuosa.
Insomma i soliti meccanismi qui non funzionavano, almeno per noi, forse
per loro quello delle donne che sognavano solo di conquistare il capo sì,
però il Popi aveva quella bella fidanzata, sobria, Luisa, che tutti gli
invidiavano…
Nell’insieme era un’enclave di individui anticonformisti, lontani dalle
ovazioni assembleari e soprattutto dalle “spedizioni punitive”. Molte
riunioni avvenivano al bar, dove si giocava a boccette e si beveva, cui erano
ammessi anche i liceali, che bigiavano la scuola per andarci.
Non ricordo quando e perché si sciolse il gruppo, come succede a ogni
armata brancaleone, o se fummo noi piccoli (e groupies) a stancarci prima,
non ricordo quanto sia durato, ma era un laboratorio vivo di idee, mentre
fuori tutto si faceva più cupo.
Insomma per noi che, per età, il ’68 ce l’eravamo trovato lì bell’e fatto,
quella fu l’unica zona di libero scambio delle idee che conoscemmo.
Chi era il Popi: un Nowhere Man? carisma senza potere? Pensava in fretta
e parlava a raffica, talvolta in modo quasi incomprensibile, mischiando temi
e piani, non sembrava un capo-popolo avido di consenso assembleare – chi
capisce bene, chi non capisce amen –, piuttosto cercava l’attenzione di
pochi, era un mentore “per sbaglio”, mai un guru, niente fedeli, non mi
pareva approfittasse del suo potere, non c’illudeva di portarci chissaddove.
Senza illusi né disillusi fu meno traumatico il “liberi tutti!”.
Il tram della rivoluzione
di Alberto Montanari
«POPI» urlavamo a squarciagola Lolla e io nel cortile della sua casa di Via
Spartaco, quando ancora non si rischiava una denuncia per disturbo della
quiete pubblica. “Popi” o ci faceva salire, o ci cacciava via con un gesto
inequivocabile o taceva del tutto, il che significava, nove volte su dieci, che
era impegnato in tornei amorosi. Ma quella volta che ci fece salire quasi non
accorgendosi di noi, e camminando a larghi passi fra l’ingresso e la cucina,
e finalmente sbottando:
«Mi hanno denunciato per stupro.»
«Ma chi?»
«Una mia allieva.»
«Ma sei scemo?» dissi io.
«Quanti anni ha» chiese Lolla, più pratica.
«Ha 18 anni e convive con uno.»
Fu allora che decidemmo, io subito, Lolla dopo qualche minuto di
riflessione, che andava difeso. Chi espresse il giudizio più lapidario
sull’episodio fu la nonna di Saracino: «Così impari a metterti con le mezze
calzette».
L’avevo conosciuto alcuni anni prima, alla FGCI, che altro non era che
l’organizzazione dei giovani comunisti, a cui mi ero iscritto a 15 anni, nel
1960, dopo i fatti di Genova. Avevo vissuto con straordinaria passione
l’ultima fase del togliattismo culturale, fra un pallido richiamo al realismo
lukacsiano – «Leggete I Buddenbrook, compagni» – e la riscoperta dei
Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx. Un mondo da favola, già
umbratile, fra la sezione “15 martiri”, gli anni del Berchet, gli amici –
carissimi – del circolo della FGCI con cui si andava in vacanza nell’ostello
di Lerici. «Il compagno Montanari, dirigente senza pari, che ci porta ai
monti e ai mari», si canticchiava.
Morì Togliatti e io mi iscrissi alla IV Internazionale trotzkista, parendomi la
faccia di Breznev insopportabile. Fondammo un giornalino, Falcemartello,
e una corrente nascosta all’interno del PCI che ci causò la chiamata alla
CCC – che sta per Commissione Centrale di Controllo – con l’accusa di
frazionismo.
Ero dunque un Giano bifronte quando, verso il ’65, incontrai Saracino e i
ragazzi del circolo “Fillak”: ero dentro il partito ma fortemente critico e la
cosa suscitò entusiasmo. Facemmo amicizia: loro si avvicinarono a
Falcemartello e l’intesa politica divenne personale.
Apparvero subito di un altro mondo: di qualche ascendenza meridionale,
tutti del liceo scientifico, tutti tombeurs de femmes con tanto di scommesse e
liste snocciolate, tutti dalla mente rapida nel cogliere fatti e sfumature, tutti
– e non è affatto questione secondaria – militarmente impeccabili.
Perché io militavo in una sezione che si chiamava “15 martiri” e avevo
passato la mia adolescenza fra manifestazioni e randellate, sempre prese e
mai date, per commemorare dei morti: il compagno Grimau, garrotato da
Franco; il compagno Lumumba, assassinato dal vile imperialismo belga; i
compagni indonesiani, massacrati da Suharto e via così, con la guerra di
Spagna che incombeva, tetra. Io stesso pensavo che l’importante non fosse
vincere, ma sportivamente partecipare, che significava buttarsi come un
fesso in mezzo ai fascisti o alla polizia e uscirne regolarmente con le ossa
rotte.
Saracino e i suoi, allorché si pose la questione, chiarirono subito che non
erano lì per partecipare ma per vincere, come peraltro facevano laggiù i
Vietcong, e dunque durante le manifestazioni si appostavano dietro qualche
angolo, aspettavano i poliziotti e li menavano come tamburi, ma – va detto –
senza cattiveria.
Ora l’effetto sulle ragazze era devastante: mentre io potevo contare al
massimo su sguardi di simpatia, a loro si offriva – anche se i tempi non lo
consentivano – ogni sorta di beneficio che si riserva al riposo del guerriero.
Nulla andava sprecato: si trombava per menare e si menava per trombare.
Era la nuova frontiera, il nuovo mondo che emergeva a Milano con l’intento
dichiarato di farsi strada sulle prossime macerie della società industriale,
imponendo un nuovo ritmo alla città. Il ’68 rappresentò per costoro la via
maestra per emergere: simili agli eroi di Stendhal, si fecero strada fra le
assemblee della Statale, i lacrimogeni della polizia e le provocazioni
fasciste, utilizzando pragmaticamente la rivoluzione come un tram.
La fine del ’68, come si sa, era stata traumatica per molti e anche Saracino
finì per ritrovarsi marginalizzato, a fare il professore di geografia, e allora
troppa erba, troppa inquietudine. Troppe donne. E immancabilmente
incappò in quella sbagliata.
Prese sottogamba l’accusa, rifiutò, pure con coraggio, una via di fuga che gli
era stata offerta con l’insufficienza di prova, e lo condannarono. Montò
contro di lui la canea del politicamente corretto, con alla testa il PCI che
mostrava la sua vera natura antiliberale, a cui non pareva vero prendersi
delle meschine rivincite, naturalmente giudiziarie.
Riuscì a essere saldo in carceri pesanti, aiutato da una gentile giovane donna
che gli voleva bene, e forse anche dall’affetto degli amici, fra cui un
gentiluomo, Dado Ulrich.
Si andò all’Appello, dove mi capitò di rivivere le temperie di ragazzo con
l’arringa ciceroniana, caustica, lucida, risorgimentale, di uno straordinario
avvocato monarchico, Lodovico Isolabella.
Fu assolto da una magistratura non ancora militarizzata.
Quel che non poterono i gradi di generale avuti nel corso del ’68 poté una
vittoria processuale dai contenuti ambiguamente emblematici: da quella
vittoria, non dalla via Paal, prese il via il suo vero ingresso a Milano.
Il rischio di essere Saracino
di Antonello Nociti
Del mio amico (perduto) Giuseppe, volete sapere? Sì, davvero? Bene, allora
cominciamo.
Avrete notato che ci sono vite che se ne stanno docilmente racchiuse in una
tazzina di caffè. Il tempo passa, e uno non s’accorge nemmeno più se si
sono svuotate o sono state lasciate sul bancone d’un bar, sempre più fredde,
trascurate e magari neppure pagate. Lo stesso, più o meno, succede anche se
sono state invece versate in un boccale o in un calice. Non v’inganni
l’euforia d’un poco di schiuma, o lo sfarfallio precoce di qualche migliaio
d’isteriche bollicine: dopo un avvio, mettiamo pure, disinvolto e brioso, il
subbuglio si placa, s’assopisce del tutto, e così, in qualsiasi ampiezza di
bicchiere, si spegne e affoga anche la più minuscola voglia d’evadere.
E Giuseppe? Giuseppe Saracino? Un momento, Saracino, notate bene: ogni
nomen ha il suo omen. Almeno per noi, civilizzati, svogliati ed evangelizzati
latini, abituati dai tempi di Petronio ad acquattarci in qualche loculo, nella
tana di qualche nostra lascivia o di un nostro inestinguibile risentimento,
insomma nel primo bicchierino disponibile ad accoglierci e là rimanere, al
riparo e in riposo, fino al giorno del nostro inavvertito trapasso.
Ah, lui no, no, non scherziamo. Non dico infatti in una tazza, ma metti pure
in una capace caraffa, in un catino, o persino in una vasca da bagno, non
c’era proprio nessun modo di rinserrarlo. Qualsiasi margine, per lui, lungi
dall’essere una protezione, come per la più parte di noi, era una gabbia che
l’offendeva, provocava, eccitava: ovunque lo si mettesse, non c’era verso,
lui, prima o poi, straripava.
Osservo, con l’apatia e la sicumera dello storico: non tutte le sue
esondazioni ebbero l’effetto benefico d’un Nilo, ché, anzi, spesso ne usciva
malconcio e lutulento lui stesso, al punto che gli amici lo tenevano in
quarantena. Eppure Giuseppe era così, un Proteo che, al chiuso, ritrovava
miracolosamente chissà quale energia della savana, e dalla gabbia, piuttosto
che sgusciar fuori, se ne andava, ogni volta, diroccandola a forza di grugniti
e di pugni sul muro.
Un filosofo di mestiere sarebbe rimasto esterrefatto di fronte al groviglio e
al ruggito dei suoi pensieri. Meno male che, in quel periodo, andava di
moda, presso una minoranza d’eretici all’ultimo stadio, la frase di Pascal
secondo la quale “beffarsi della filosofia, è filosofare davvero”. Così
prendeva la lode, e riscuoteva un certo successo tra i suoi coetanei. La
normalità accademica, comunque, rimaneva all’incirca quella che è sempre
stata. Non preoccupatevi. C’erano giovani aspiranti filosofi, dei quali ancora
non s’intuiva la casacca che avrebbero indossato, per accasarsi come
assistenti o ordinari. Sartriani, nietzschiani, heideggeriani, popperiani,
linpiaoisti: dove mai si sarebbero arruolati? Mi seguite? Sicuro? Alludo a
quel tipo d’intelletti che si credono orgogliosi di tenere al caldo, nel
cervello, opinioni coerenti, profonde e personali, senz’essersi però neanche
accorti che un pensiero estraneo, di passaggio, come un qualunque cinico
sostitutore di uova nei nidi, da chissà quanto tempo s’era infilato anche nel
loro, l’aveva ripulito d’ogni residuo delle idee originali e stanziali, e al loro
posto aveva intromesso una o un’altra verità da cuculo fedifrago, che essi
avrebbero conservato per sempre, come se fosse la più legittima e prediletta
delle loro covate.
Ehi, ehi, non sia mai: Giuseppe, il mio rodomontico amico (perduto e non
ancora ritrovato), qualche giacca d’ordinanza l’aveva in effetti infilata, dato
ch’era stato maoista, guevarista, mickjaggerista, persino simpatizzante della
reaganomics (anche i migliori cadono in periodi di catalessi intellettuale,
non c’è scampo). Tutto vero e documentato. Tuttavia si sarebbe detto che
ogni volta fosse l’ideologia stessa del momento, ancor prima di lui, a
sentirsi offesa e a disagio, sbilenca e raffazzonata come si vedeva ridotta in
sua compagnia, affranta e avvilita di dover aderire a un corpo, ma
soprattutto a uno spirito, che era senza rimedio troppo sconnesso, sregolato
e irriverente per farle fare una decorosa figura.
Si vestiva arraffando un pullover qui e un jeans lì, a casaccio, e faceva
all’incirca lo stesso coi giudizi e i pensieri anche meglio stirati. Talvolta, è
vero, finiva per accoppiare un calzino verde con uno rosa, ma direi che
l’effetto, se non altro, era che Giuseppe, comunque avesse a sproposito
accoppiato i colori e le fogge, non riusciva mai a mascherare il Giuseppe
(Saracino) che era e sarebbe rimasto, vitale e incoerente, sotto qualunque
uniforme.
Se avesse riletto di quando in quando i vangeli, invece d’imparare a
memoria La pratica e Sulla contraddizione del presidente Mao, per poter far
sfoggio di citazioni tra le guardie rosse del liceo Berchet o del Leonardo,
che pendevano allora dalle sue labbra, avrebbe intuito che così come il
sabato è per l’uomo, e non viceversa, così pure qualunque ideologia, fosse
pure la più nobile e rispettata, era per il Saracino, e non lui per essa, e che
non bisognava rimanervi appiccicato sopra, come una patella al suo unico
scoglio, per tutta una vita.
S’innamorava di frequente, forse persino troppo (così mormoravano i
rivoluzionari dell’ala più puritana, nell’ambito della morale amorosa: chissà
come mai ce n’è sempre, anche nel marasma più travolgente). Tuttavia,
devo riconoscerlo, s’innamorava sempre e ostinatamente con gli occhi suoi,
e mai e poi mai con quelli degli altri. Bambolette e belle statuine, per le
quali contendevano con furore, lasciando una scia di reciproci odi
inestinguibili, i suoi coetanei, non gli facevano né caldo né freddo. Non so
dove andasse a scovarle ma, come un pescatore subacqueo dall’audacissima
apnea, se ne tornava a riva quasi sempre con perle scintillanti e misteriose,
della cui non appariscente bellezza, noialtri suggestionabili profani, intontiti
dalla ricerca ossessiva di qualche sosia di Brigitte Bardot, avremmo capito
qualcosa un anno o una vita dopo.
Si sarebbe detto che l’Eterno Femminino in persona avesse intuito che lui
era un suo devoto, schietto ed entusiasta. E che quando proprio non trovava
a chi affidare una delle sue predilette, dalla grazia timidamente ancora in
bocciolo, si rivolgesse a lui, come a un genuino intenditore, perché
l’aiutasse a fiorire.
Non era un collezionista, comunque, oh no. Anche se un catalogo avrebbe
potuto compilarlo, un suo Leporello, e anche lunghetto. Piuttosto lui era,
diciamo così, un talent scout del fascino discreto e ancora velato, e trovava
le sue Fiammette, Zerline e Angeliche quando neanche loro sospettavano di
essere destinate a diventarlo.
Fu lui, del resto, a bofonchiare una volta, tra un risucchio di caffè e uno
sproloquio sulla politica internazionale, correndo trafelato dalla Palestina al
Cile di Pinochet, che negli ambienti della Gioventù comunista, c’era una
giovane giornalista radiofonica che meritava un’occhiata. Pensa un po’:
sarebbe diventata mia moglie. Talvolta ho il sospetto che se non me l’avesse
indicata lui, il mio amico perduto (e forse da recuperare), magari adesso
sarei ancora alla ricerca di qualche avvizzita copia di Sharon Stone. Meglio
soprassedere sul fatto che la sua prima descrizione non assomigliasse affatto
a quella del Foscolo sulla Teresa dello Jacopo Ortis, con l’arpa e una posa
da angelo raffaellesco, ma si riducesse a uno schizzo piuttosto lascivo e a
una frase spiccia, anche se, a suo modo, eloquente e augurale, «È davvero
un bel pezzo di…».
Correva voce che non fosse per niente egoista e parsimonioso, nel sesso
come nella passione. Direi che con gli altri maschietti si fosse abituato a
condurre la parte feriale e ordinaria dell’esistenza, tra contese, alleanze e
giochi di sopraffazione, mentre con le donne trascorreva la parte festiva, tra
allacciamenti interminabili da sagace bonobo, chiacchiere, allegria e
incantevoli sbirciamenti sull’abisso inesplorato del caosmos femminile. Già.
Dato che la voce e i verdetti delle sue più care fidanzate spesso non erano
affatto una fotocopia sbiadita dei suoi e di quelli maschili.
C’erano momenti nei quali Giuseppe diventava grossolano e ripetitivo,
come un orango che si dondola, penzolando per ore alle sbarre della gabbia,
avvilito di non riuscire nemmeno a difendere il suo orgoglio ferito, essendo
stato offeso da qualche sasso o da qualche ingiuria scagliatigli addosso da
un vile inserviente o dal solito incivile gorilla, fascista e reazionario, della
parte opposta dello zoo. Negli occhietti semichiusi delle sue ragazze
compariva allora, inaspettatamente, da un secondo all’altro, uno sfavillio
sornione e un po’ canzonatorio, insieme a un’increspatura ironica delle
labbra, e, senza immiserire il tutto ricorrendo alle parole, lui di colpo
s’accorgeva della meschina figura che stava facendo, sbuffando e inveendo
contro i nemici disegnati dalla propria immaginazione, oltre che, più in
generale, dello sconfortante spettacolo della rissosità e delle nevrosi del
mondo al maschile.
E allora si spalancava in un sorriso che un dio della pace, della serietà e
della riconciliazione avrebbe apprezzato moltissimo, chinava e ciondolava
l’enorme testa crinita e si metteva a ridere, a ridere, finché abbracciandole
bisbigliava qualcosa del tipo: «Oh, caspita, che massa d’idioti, noi siamo,
mamma mia. Crediamo ogni volta di bastonarci e atterrarci per meritare il
vostro applauso e voi, invece, avete smesso da un pezzo di guardare in
fondo all’arena noi che ci malmeniamo, e magari fissate da un’ora le nuvole
che s’accartocciano e si distendono in alto, danzando divertite al ritmo dei
venti. Voi donne (sai Luisa?, sai Isabella?) abitate sì in questa nostra stessa
aiuola, che rende noi maschietti tanto feroci, dementi e scontenti, ma,
secondo me, non appartenete a essa, nient’affatto, né a tutto questo
dozzinale, burlesco spettacolo del mondo».
A questo punto dovreste intuire perché, quando giunse la notizia ch’era
inciampato in una turpe storia di sequestro e di violenza sessuale nei
confronti di una sua studentessa, parecchi di noi restarono increduli e
attoniti, come se fossero venuti a conoscenza che un raffinato scopritore e
ammiratore di ritratti di Madonne e Maddalene fosse stato colto in flagrante
mentre distruggeva a martellate una splendida icona appena scoperta.
Eppure ci vollero pochi giorni perché s’instaurasse un clima di vendetta e di
tempesta.
L’ho capito in seguito, parecchio tempo dopo gli eventi, e vi consiglio di
stare in guardia, quando dovesse capitare anche a voi d’imbattervi in una di
quelle epoche fosche nelle quali una qualche armata, concepita per arrivare
alla sua Mosca, si trova invece impegolata nella melma della delusione e
della ritirata. Erano gli anni in cui era stato dato il comando del “rompete le
righe” agli euforici, spensierati, ribelli sessantottini, e ovunque sembrava
dilagare il contagio del risentimento e della collera. Sono stagioni in cui, con
la rapidità e la facilità delle trombe d’aria settembrine, s’avviluppano i venti
del furore e dell’insensatezza e, quando meno te l’aspetti, ti trovi sommerso
nella burrasca d’un linciaggio, talvolta dalla parte di chi sbraita e rincorre
con la bava alla bocca, talaltra di chi invece s’esamina stranito e perplesso,
nel dubbio d’essere diventato proprio lui la preda da scannare.
In breve, Giuseppe (amico e compagno davvero ingombrante e pericoloso in
certe circostanze d’alta e incontrollabile turbolenza: meglio tenersene alla
larga) divenne più reprobo e ripugnante dello stesso Edipo. Non dico che
avesse sedotto la madre, di questo non c’era prova, ma una fanciulla, per
giunta della sua classe e con ottimi voti, dal visino d’un angelo del
Mantegna, e dalla coda dorata di cavallo che avrebbe ammansito un Attila.
Lui l’aveva sequestrata o no, per un intero pomeriggio, a casa sua, per
sgualcirla e strapazzarla come si fa con un cencio? E non era magari la sua
stessa anima inconcludente, ottenebrata dall’offesa della resa e della fuga
precipitosa dei suoi fedeli, la sorgente di quella pestilenza di disimpegno, di
droghe e di vizi che si stava impadronendo della città?
Aborrivano il mio amico (abbandonato in quell’occasione alla furia degli
elementi dalla maggior parte di noi) i benpensanti d’ogni sorta, com’è
naturale; i colleghi del professore isterico – di cui lui aveva sbaragliato in
quattro e quattr’otto la guardia del corpo, fatta di signorini dal buon
cognome e di picchiatori fascisti allevati inutilmente in palestra – al quale
aveva sfasciato a pugni e a testate il taxi sul quale fuggiva a rotta di collo
dopo aver offeso l’ennesimo studente lavoratore; i giornalisti del Corriere,
accusati di scrivere che Valpreda e Pinelli erano stati scoperti con la bomba
di Piazza Fontana in mano, e che il napalm versato dai bombardieri sui
vietnamiti bruciava e scuoiava, in fondo, non degli esseri del tutto umani ma
soltanto piante della giungla o selvatici comunisti alla Giap; per non parlare
della moltitudine di coloro che si trovano a proprio agio indifferentemente
in qualsiasi tempo e in qualsiasi esistenza, e si irritano e si sentono offesi se
qualcuno li accusa d’assomigliare un pochino ai pesci rossi d’un comune
acquario conformista.
Ma poi c’erano anche i maggiorenti del grande partito di sinistra d’allora,
che lui aveva derubato in poche settimane dei tre quarti della loro preziosa
federazione giovanile, e che finalmente potevano mostrare ai loro fedeli
quali pericoli avevano evitato rimanendo immobili e leali nel recinto
dell’unico comunismo certificato da Kruscev e da Breznev.
E poi… E poi s’intrufolarono nel linciaggio alcune giornaliste del
femminismo dell’ultima ora, fiere d’aver scoperto una lurida storia che
mostrava un rivoluzionario all’università o in piazza e che in camera sua si
denudava e si trasformava in un tiranno di donne e bellezze. Già.
Dimenticavo: la città, inoltre, era piena di don Ottavi le cui mogli, figlie e
fidanzate lui aveva adescato e, loro pensavano, maltrattato come forzate
Lucrezie. Era venuto il momento di smascherare il profanatore.
Così, al primo processo fu davvero per bene staffilato e insudiciato
d’accuse. Venne, tra gli applausi d’una parte, condannato a quattro o cinque
anni, non ricordo più. Lo rivedo condotto in manette da un plotone di
carabinieri, così, non tanto, credo, per evitargli la fuga o per rassicurare le
mamme e i papà delle ragazze liceali, quanto, presumibilmente, per
ammonire altri giovani scapestrati sul modo in cui quasi sempre finiscono
certi destini insolenti e intemperanti.
A San Vittore se la cavò, il tipo, se la cavò, con la coriacea sfrontatezza d’un
Jean Valjean. Del resto fu assolto fin dal primo giorno dal tribunale dei
carcerati. I quali, a pensarci un momento, la vita, e la giustizia che li ha
atterrati e calpestati, devono conoscerla a menadito, quant’è brutale e
calunniatrice, probabilmente molto più a fondo e onestamente, di tanti
giuristi e sociologi che non hanno mai vissuto nel sottosuolo.
Come un autentico pastore tedesco (un esempio per tutti? il mio Duk),
istruito e addomesticato, una volta fuggito dalla villa, magari per colpa
d’una noia momentanea riguardo alla sua esistenza medio-borghese, se
venisse adottato da un branco di lupi, si dimenticherebbe in un nonnulla
delle ciotole e dei bocconi a orari fissi, dei “sitz” e dei “platz”, e
riscoprirebbe la sua indole superba e battagliera sotto la maschera compita e
morigerata del faccendiere peloso di casa che era, così lui s’adeguò a quel
mondo di reclusi, senza un cedimento né un rammarico, e vi trascorse un bel
po’ di mesi, imparando a farsi degli amici, a cui insegnava a giocare a
scopone o agli scacchi, e prendendosi persino a morsi, a pugni e a calci, per
far capire che genere di mascalzone anche lui, nel bisogno, sapeva
diventare, con dei compagni di cella che volevano vietargli l’ascolto del
Rigoletto.
A una visita lo trovai col volto tumefatto come un pugile dopo il match, ma
quando gli chiesi con quale bufalo si fosse scontrato, sollevò le spalle ed
evitò di rispondermi: si limitò a indicarmi un tizio che s’intratteneva
sussurrando affettuosamente qualcosa a una bambinetta, anche lui con noi
nella sala dei colloqui, e notai che anche quello sembrava uscito piuttosto
malconcio dal ring. Venni molto tempo dopo a scoprire che gli erano state
concesse alcune ore da dedicare all’ascolto della musica lirica, e che la
riconciliazione nella stanza era stata firmata davanti a un’enorme cofana di
spaghetti alla carbonara.
Noi, intanto, almeno quella manciata di ex compagni che non s’era dispersa,
travolti e intimoriti dalla sventura e dalla vergogna, lo incalzavamo con
petulanza perché moderasse almeno un poco la sua alterigia da Tarquinio il
Superbo e riconoscesse, se non d’aver commesso un autentico stupro, se non
altro una sconveniente ineleganza, oltraggiando una Lucia Mondella
ammaliata dalle sue lezioni.
Macché. Risoluto come Don Giovanni nell’ultimo atto, alle nostre insistenze
– “Pentiti, Giuseppe, pentiti, scriteriato! Non osare sfidare l’intero tribunale,
che è più duro e stentoreo della statua del Commendatore” – lui continuò
imperterrito a ripetere che i casi erano due, o aveva ragione la bella ragazza,
o aveva inventato, per qualche suo strano motivo, una storia falsa se non al
cento, almeno al novantanove per cento, e che nessuno mai l’avrebbe
assolto con una pacca sulle spalle per un reato minore.
Tagliava corto, insomma. Ci diceva di non andarlo nemmeno a visitare se
dovevamo portargli quelle piccole dosi di opportunismo per acquietare i
nostri timori di vedercelo scomparire nella Geenna di qualche penitenziario
per pedofili e violentatori di studentesse liceali: ci limitassimo semmai a
fargli avere i volumi delle Memorie del sottosuolo, o del Viaggio al termine
della notte, o magari, perché no?, Le nozze di Figaro, dato che aveva un suo
progetto di far diventare melomani quelli della sua cella che stavano già
cominciando ad apprezzare l’aria di “Cortigiani, vil razza dannata”, e la
intonavano talvolta a squarciagola addirittura nel mezzo della notte.
Resistette, resistente, leggendo Musil, parlando di politica, ascoltando le
storie dei dannati della vita, insegnando ad alcuni di loro la consolazione
della chiacchiera tra amici e dell’opera. Ci fu poi un Appello, un giudizio in
Cassazione, un riappello, non ricordo che altro. Fatto sta che, a conclusione
d’un ciclo più o meno decennale, un giudice donna, dall’aria molto severa
ma anche molto serena, signorile ed esperta della vita, fece notare che non è
facile immaginare una violenza sessuale durante la quale le chiavi di casa
del luogo del martirio siano rimaste sempre a disposizione più della vittima
che del suo carnefice, oltre ad altre incongruenze, come il tipo particolare di
accoppiamento, su cui sarà meglio versare un poco di reticenza, anche a
distanza di tanto tempo.
So che l’avvocato avrebbe voluto che lui continuasse il duello, e
denunciasse a quel punto la sua accusatrice di calunnia, aggravata per giunta
da futili, molto futili motivi. Ma Giuseppe compì allora, forse, il gesto più
mite e longanime di tutta quella sconcia faccenda: non sporse nessuna
denuncia. Conoscendo il tipo, credo che avrebbe semmai avuto voglia
d’inviare un biglietto alla sua vittima-non-vittima, scrivendole qualcosa
come una sorprendente, concisa ma schietta dichiarazione: “Peccato sia
finita così”. Ma la ragazza, nel frattempo, si era probabilmente costruita non
una sola, ma due o tre nuove vite e famiglie, e soprattutto non aveva lasciato
alcun recapito.
Il mio amico tornò a vivere all’aria libera e aperta, e si trovò in un mondo
nel quale parlare del ’68, e delle lotte operaie e studentesche, era alla moda
come ricordare le carrozzelle coi cavalli o le poesie di Giosuè Carducci.
Non avendo più alcuna possibilità di architettare Nuovi Mondi, tantomeno
di tentare il restauro delle anime infiacchite dei giovani in arrivo, si dedicò a
ripristinare prima appartamenti di ringhiera, poi palazzi di ringhiera, quindi
palazzi meno popolareschi, e infine interi ex stabilimenti e quartieri
fatiscenti. Collaborò insomma, in mancanza di meglio, al trapasso dalla
Milano bisunta e operosa del dopoguerra a quella mezza metropoli dalla vita
fervida, e spenta, dal consumismo facile, e coartato, che ancora non sa bene
cosa fare dell’anima e del benessere suoi, ancor meno del proprio nichilismo
sempre meno gaio e sempre più smorto.
Mi piace però ricordare che, anche da costruttore di gran successo, rimase
più o meno vestito da leader trasandato di manifestazioni studentesche, non
si comprò un appartamento a San Babila né una macchina come si deve.
Neanche una donna, composta punto a punto, come un ricamo, in qualche
nobile scuola delle Orsoline. Ricoperto di calce e scamiciato, s’affaticò a
strapazzare una città che non ne voleva sapere di uscire dall’adolescenza del
boom e del primo grande sviluppo industriale.
Aggiungerei soltanto una cosa al breve schizzo biografico d’un
rappresentante d’una scontrosa specie umana, pressoché in via d’estinzione.
Vorrei invitarvi a non guardare, per un momento, soltanto al palcoscenico,
dove i personaggi e le comparse compongono quella che noi chiamiamo la
comune realtà. Provate a seguirmi per qualche minuto dietro le quinte, cauti,
senza far troppo rumore, per non infastidire e far ritirare il regista o,
nominiamolo pure, lo spirito ficcanaso dei tempi, che è l’unico vero
tessitore dello spettacolo e delle singole parti dei diversi attori.
Ci sono epoche a tal punto irrimediabilmente ibernate nell’accidia e nel
disincanto più greve e gramo, che lo spiritello stesso, agile e incontenibile
(creato, io credo, per suscitare di quando in quando la voglia euforica
dell’infinito in qualche essere vivente, che se ne sta incapsulato nella sua
dimensione ristretta e limitata), si sente apatico e malaticcio, intossicato
dalla mancanza di qualsiasi autentico, vispo desiderio, e viene lambito
spesso dal cupo pensiero che l’umanità farebbe bene ormai a riconoscere
d’essere rimasta allo stadio insuperabile d’una specie ambigua e malnata,
inadatta sia a sopravvivere tra i bruti inconsapevoli ma soddisfatti, sia a
sollevarsi tra entità più pure e più nobili. Ed eccola lì, in bilico, come di
questi tempi, tra l’impulso di regredire alla condizione spensierata e vorace
degli squali o dei varani, e la spinta, proveniente chissà mai da dove, ad
aggrovigliarsi in se stessa, e a ripetersi, come un mantra stanco e desolato,
qualche frase céliniana del tipo: “Periamo d’essere senza grandezza, senza
mistero, senza leggenda. I cieli ci vomitano. Crepiamo di retrobottega”.
Si direbbe che tutto, proprio tutto, stia tornando al caos tenebroso e al
silenzio primitivo, e che le scintille di coscienza e ambizione residue si
stiano spegnendo una ad una, consegnando l’umanità a un’esistenza magari
operosa e irrequieta, ma anche insignificante e d’una vacuità insopportabile.
E invece? Invece, nel mortorio generale, ecco spuntare qua e là qualcuno
che non segue il copione d’una esistenza regolamentare e sgomenta.
Questo, non una parola di più, volevo dire del mio amico perduto, non
dimenticato, e certo anche da ritrovare, Giuseppe Saracino. Se non ci
fossero stati quelli come lui a insegnarci la pazza ebbrezza delle ascensioni
spericolate e indimenticabili (anche molto rovinose, per alcuni, com’è
ovvio), noi saremmo rimasti quegli esseri ammalati di realismo, di sfiducia e
di rinuncia, pensando ai quali ancora oggi ci viene da piangere e da
vergognarci. Mentre al contrario siamo fieri e persino gioiosi, anche se non
sappiamo bene di che.
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Interventi di Monica Maimone, Sandro