Vittorio Maglia Ricordi e ricette Aprile 2012 In copertina: “Una mela spaccata in due”, Casasco circa 1955 Si ringrazia l’Istituto Professionale Pavoniano Artigianelli di Milano in particolare Luigi Corno per aver reso possibile questa pubblicazione Chi ricorda vive due volte (Gabriel Garcia Marques) Noi non ci sediamo a tavola per mangiare ma per mangiare insieme (Plutarco) Indice Prima parte Introduzione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 7 Ricordi di pranzi e ricette. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »9 Ricordi sul pesce. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »16 Vino e ricordi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »17 Casasco, il luogo dei ricordi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »21 La presenza dei parenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »26 Ricordi di mio padre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »28 Mamma e cibo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »30 Le ricette degli amici. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »32 Le mie ricette . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »55 Consigli per la lettura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 65 I menu di Vittorio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »69 Seconda parte Altre ricette di Casa Maglia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »83 5 Introduzione Mio padre una volta mi raccontò che sua madre gli diceva che in casa sua non si mangiava la stessa minestra due volte l’anno. Basterebbe questo a spiegare tutto, l’importanza per la mia famiglia del cibo, della tavola, ma soprattutto del convivio, proprio nel senso che gli dà Massimo Montanari come momento fondante la nostra cultura. Per questo mi sono innamorato a prima vista della citazione di Plutarco (noi non ci invitiamo l’un l’altro per mangiare e bere semplicemente, ma per mangiare e bere insieme) e so quanto sia difficile sedersi a tavola da solo. Tanto mi piace cucinare, quanto poco poi mangiare da solo, come se fosse fatica sprecata, occasione perduta, destino e punizione per una vita sprecata. Non sono ancora entrato nell’età per cui quello che scrive Gabriel Garcia Marques è una condanna senza ritorno, ma, spero, un modo per cercare sé stessi e, attraverso la socializzazione dei ricordi, stare insieme agli altri. I ricordi, infatti, servono a stare insieme, con un po’ nostalgia ma con ancora voglia di costruire. Mi è stato detto che devono essere stimolati, allenati; non tutti, infatti, emergono naturalmente e il modo migliore è farli emergere insieme ad altri. Un lungo periodo della mia vita è quasi senza ricordi, forse rimossi; chissà se attraverso il cibo non li possa recuperare un po’. Resta il fatto che per ora sono scarsi anche quelli lì. Ho scritto queste note soprattutto per me, per chi non c’è più e per chi viene dopo. Per tutti gli altri, e in particolare per chi non può condividere questi ricordi, essi possono avere senso per “leggersi”, per ritrovare situazioni, profumi e piatti dell’infanzia, in particolare per quelli della mia età che “hanno i piedi nel medioevo”. Questa è una citazione dal libro “La generazione fortunata” di Serena Zoli ma che io usavo ben prima di averla letta lì; in ogni caso è un libro che consiglio, da leggere ma soprattutto per leggersi, per stimolare ricordi. Siamo l’ultima generazione che può ricordare i tempi lenti nei cambiamenti, dove si può pensare che i nostri ricordi siano simili a quelli dei nostri genitori e vanno facilmente indietro nel tempo. Ovviamente ci sono state prima di noi decine di generazioni come la nostra, ma noi siamo l’ultima di un certo tipo: nello stesso tempo abbiamo i piedi nel medioevo e la testa nel duemila. Ogni generazione ha la sua caratteristica: questa è la nostra. È 7 bello e vero chiamarla “generazione fortunata”, senza guerre, senza dittature, senza troppi e oggettivi problemi nel lavoro, con le nuove medicine e le nuove tecnologie, senza però aver perso il legame con il passato e le tradizioni. Anche se, forse, ciò ci porta ad essere meno pronti ad affrontare le difficoltà di oggi, sia della crisi in atto, sia dell’invecchiare. Ricordi che vengono prima del boom economico, quando c’era la messa in latino, la bronchite veniva curata con le polentine sul petto e il Chino faceva i fumenti stando sopra una pentola usata solo per questo e coperto da un asciugamani, quando d’inverno si avevano i geloni e la prima corsa del 15 ci svegliava facendo la esse per scendere dal sagrato dopo esser passato davanti alle Colonne di San Lorenzo. I primi ricordi sono legati al cibo (scontato pensare al latte materno); ad esempio penso che il primo o uno dei primi sia legato a una visita alla Rosa a Civenna (essendo mancata nel 56 avevo al massimo 4 anni) e al suo regalo di una grande scatola di Biscotti Doria. La condanna di chi per lavoro scrive per gli altri è di far fatica a scrivere per sé. Tutto ciò che sai far bene per lavoro non serve quando sei tu a parlare o scrivere, le parole escono con difficoltà, le idee restano nella penna. Ci vorrebbe sempre una bottiglia di Gewurstraminer di Gianni, quella che nell’unico esame scritto casalingo mi ha permesso di essere il migliore, semplicemente perché un po’ brillo mi ero lasciato andare a pensieri laterali ed ero stato meno scontato degli altri. Dopo questa lunga premessa è tempo di presentare la struttura del libretto. Nella prima parte il capitolo più importante è quello dedicato ai ricordi soprattutto dell’infanzia e prima adolescenza, il secondo è dedicato agli amici, che rendo immortali avendo chiesto ad alcuni di loro di scrivere una ricetta lasciandoli liberi di eventualmente contestualizzarla, seguono le mie ricette più praticate e spero apprezzate e i consigli per la lettura, si finisce con alcuni menu dei miei convivi degli ultimi 10 anni. La seconda parte è dedicata alle “Altre ricette di Casa Maglia” ed è il seguito dell’ormai esaurito libretto che avevo preparato nel lontano 1988, quello che dedicavo agli amici scrivendo “In Casa Maglia si è sempre mangiato bene. In queste ricette (di mia nonna e di mia bisnonna con significative integrazioni di mia madre) c’è un po’ della mia cultura, un po’ del mio cuore e… troppo della mia pancia”. 8 Ricordi di pranzi e ricette Un capitolo sul roast beef Ci vorrebbe un intero capitolo dedicato al roast beef di mia madre. Un po’ perché era il piatto forte di tanti pranzi domenicali, ma soprattutto perché era veramente buono. Rifacendolo tante volte mi domandavo perché non riuscivamo a farlo così buono. E sia ben chiaro che lo facevamo buonissimo anche noi, cercando la carne giusta, quella picchiettata dentro di bianco, dove il grasso è soffuso e poi si scioglie, e con una cottura sempre a regola d’arte, sul fuoco, non al forno e con burro, non olio. Poi, col tempo, ho trovato la risposta, una risposta ovvia, ma che spiega tante cose. Il peso medio del pezzo di carne era sopra i due chili, ma spesso anche i tre, per sfamare una dozzina di persone – quante erano spesso a tavola la domenica – tenendo conto che era buono anche freddo. Quando mai ho preparato un roast beef per così tanta gente? Solo così, però, si riesce a farlo croccante fuori e quasi crudo dentro con tutte le sfumature di cottura della carne. Questa è la fortuna di chi ha tante persone da sfamare. Il resto della bontà non si spiega se non con la dolcezza dei ricordi. Nei pranzi domenicali era quasi sempre accompagnato dalle patatine fritte, quelle vere; mia madre non ha usato mai nessun olio di semi e, per sostenere che non erano pesanti, diceva che il litro d’olio che usava per friggerle rimaneva tutto lì. Pollo in guazzetto Il pollo in guazzetto è un tipico piatto Mascetti (cioè della famiglia di mia madre), almeno così penso. E questo sì rifatto tante volte con successi alterni ma spesso con grande soddisfazione: piace anche a Ruggero. Guazzetto o sguazzetto, il nome viene dal fatto che il pollo a pezzi piccoli dopo la tostatura finisce per essere immerso nel liquido di cottura e nell’abbondante vino bianco, tanto limone e tantissimo prezzemolo. Un arrosto molto bagnato, anzi un non arrosto. Ho deciso di non infarinare più, ma forse mi sbaglio e dipende dalla mia incapacità di infarinare e tostare a regola d’arte. Non è una ricetta particolare, ma è semplice e riesce facilmente. 9 Carré di maiale affumicato Non so perché il carré di maiale affumicato sia entrato nella nostra consuetudine alimentare. Non entrò tanto presto e la prima volta fu forse per un pranzo importante con un parente lontano, che poi non arrivò (il Leone Maglia?) e veniva chiamato con il termine tedesco Kaiserfleish (carne dell’imperatore). Mia madre lo preparava spesso in padella perché lo trovava a fette dal Bezza (cfr. poi). Il vero piatto che ho ereditato ed esaltato è quello semplicemente bollito, leggermente segato sull’osso per facilitarne il taglio. Alcune volte veniva, ma in epoca tarda, sostituito dal prosciutto di maiale affumicato, come quella volta a Natale quando fu incaricato dell’acquisto il Chino che ne comprò due da Peck. Anche allora era costoso oltre il dovuto e si prese una specie di esaurimento nervoso. Per me il carré di maiale affumicato è diventato un piatto sacro, che i miei amici hanno imparato ad amare, a volte pensando che sia complesso da preparare. È solo difficile da trovare, anche se ho un paio di posti basic per evitare esborsi innaturali. In famiglia lo si mangiava con la senape, così come i wurstel che il Chino e solo lui mangiava bianchi. Risotto con prosciutto e borlotti Per mia madre una regola aurea era quella che il risotto non si faceva bene per più di sei persone. Penso per la difficoltà a garantire una cottura omogenea a fuoco lento. Questa verità, però, non evitava la preparazione di un maestoso risotto con osso di prosciutto e borlotti, di cui mi ricordo almeno una volta completamente piena la pentola di rame di Casasco. Più di tre chili, per una cena affollata in giardino alla quale c’erano anche Etta e Luigi. Se c’erano loro vuol dire che era una delle ultime con mia madre. Arrosto con l’uovo e uccellini scappati in gelatina I due piatti sono uniti dal fatto che la loro versione estiva era prevista servita fredda in gelatina. Ma per gli uccellini scappati il tempo era sempre giusto, caldi o freddi, in gelatina, ma sempre teneri e buonissimi con la foglia di salvia, il prosciutto e lo stuzzicadenti a tener il tutto insieme. Adesso si comprano fatti e non mi viene in mente di prepararli io, meglio così perché distruggerei la dolcezza di un ricordo. 10 Cervella fritta e Quinto Quarto Ho letto che una delle cose con più colesterolo è la cervella e mia madre, poi, di certo eccedeva con il burro. Ma non è qualcosa che si mangia spesso... Egoisticamente sono quasi convinto che mia madre la preparasse espressamente per me, croccante fuori e tenerissima dentro. Questa sì era una ricetta che volevo fare, anche se avevo paura di non sapere da dove incominciare, a partire da dove comprarla. Avevo soprattutto paura di non ritrovare la stessa sensazione, ma questa paura è di tutte le cose che non assaggio da tanto tempo. Poi mi sono fatto coraggio, l’ho trovata al mercato e l’ho preparata secondo le indicazioni della Grande Enciclopedia della Gastronomia: breve lessatura prima della frittura, infarinatura e non impanatura. Straordinario ritorno al passato, sensazioni identiche. La cervella di vitello fritta la sento come una cosa mia e da proporre in un mitico convivio sul Quinto Quarto. Solo per gli amici veri. Il Quinto Quarto è per me come la passeggiata al Generoso per il Chino, per stroncare sul nascere le relazioni deboli. Quinto Quarto che, oltre ai miei piatti preferiti di oggi (lingua brasata alle verdure o affumicata, savoiarda di salame di testa con la materia prima di Brarda da Cavour, durelli d’oca in carpione o in umido da Gioacchino di Mortara, testina lessa di manzo piemontese da accompagnare alla minestra di ceci) deve prevedere anche un risotto con le animelle. Difficile trovare qualche donna a cui piaccia un pranzo di questo tipo, ma la speranza è l’ultima a morire. In ogni caso per mettere a punto la ricetta penso di fare un test con i De Vecchi, figli compresi. Frittura dolce Non so se la frittura dolce fosse fatta in casa o comprata nel mitico negozio di pasta fresca di Via Orazio prima del Manzoni, dove sono andato fino a non troppo tempo fa. Bancone in marmo sulla sinistra dove venivano preparate le paste e dolci vecchie signore, sempre le stesse, a servirti. Quando sostenni di essere entrato per la prima volta nella pancia di mia madre mi dissero che era impossibile perché erano lì solo dal ’54, per poi dirmi che avevano visto mio padre pochi giorni prima. Peccato che fosse morto da più di 10 anni, forse avevano visto il Chino. La frittura dolce era ovviamente buonissima. 11 Risotto giallo ossibuchi e gremolata Tutti noi lombardi abbiamo un po’ del nostro passato negli ossibuchi con risotto giallo e gremolata. Per me significa due cose: la speciale posata che avevamo a Casasco per estrarre il midollo, a dimostrazione di quanto fosse stato comune nei tempi andati, e soprattutto il laghetto che facevo nel risotto per ospitare la gremolata che così non finiva sugli ossibuchi e che un po’ mi nauseava ma che mi divertiva tanto. Bollito con salsa bianca rosso verde Anche il bollito è un ricordo comune e non mio in modo particolare, anzi mi è stato ricordato da un mio fratello. Mi serve per ricordare enormi bolliti a Casasco, preparati, ad esempio, dalla Carolina quando si arrivava con il freddo. Bolliti alla Lombarda o dei tre cu, gallina, manzo e vitello. Il più buono lo ricordo come se fosse oggi, mangiato in Casetta dopo il funerale di mia madre, in un giorno freddo per tanti motivi, mentre Rita parlava con mio padre. Ovviamente nel brodo bisogna mettere un po’ di vino rosso. Il brodo che mio padre andava a prendere in frigorifero e beveva freddo dopo aver tolto il grasso. Il secondo giorno si mangiava freddo e poi a fette con le cipolle e se ne restava ancora finiva in polpette. Grass d’arost e polentina o semolino In frigorifero finiva anche il grass d’arost che rimaneva e ce n’era sempre un po’ sia per la quantità di arrosto che si preparava, sia per l’eccesso di burro. Quando il contenitore – un bicchiere – era pieno si usava per condire la polentina o il semolino. E questo è veramente qualcosa di unico e di mitico, di indescrivibile per la capacità di dare un sapore straordinario. Un po’ come l’estratto di brodo liebig che mio padre si mangiava a cucchiaiate o spalmava sul pane. Cotizza di mele La cotizza era uno dei piatti tradizionali del venerdì sera di magro. La faccio e la rifaccio ormai in continuità modificando ingredienti e cottura nell’inutile ricerca del tempo perduto. Forse anche qui uno dei problemi sta nella quantità: mia madre la faceva con una ventina di uova. Ma ci metteva anche un po’ di farina? E le mele erano tante? Lo zucchero 12 era nell’impasto o quando si girava? E la cannella, è un mio ricordo o una mia aggiunta? Non c’è più la Ina a cui chiedere la ricetta originaria. Ricordarsi tanta scorza di limone. Resta il fatto che anche a me viene bene e i miei amici l’apprezzano per la sorpresa di una torta salata ma dolce, tenerissima ma anche molto saporita. Piace anche a mio figlio e la considero una delle mie armi strategiche, forse quella che unisce di più i ricordi di ieri alla realtà dell’oggi. Panettone farcito Mia madre nelle feste di fine anno tagliava la testa di un panettone, scavava l’interno e lo mischiava con abbondante panna montata. Poi lo serviva ovviamente freddo ma non gelato. Tutto qui. Spaghetti pancetta e cipolla Questo primo piatto entrò tardi nelle preparazioni del week end e ci restò per sempre, con riedizioni di Ina ed Elvira. Mi ricordo la cipolla scura e poco digeribile perché soffritta a fuoco troppo alto; ma l’insieme era molto buono. Bologna di Peck Quando ero piccolo spesso Peck aveva un’enorme bologna quasi in vetrina che veniva tagliata a mano in fette enormi che poi mia madre distribuiva a dadini. Normalmente detestavo la bologna perché servita a scuola in fette trasparenti, mentre così diventava, come è giusto che sia, un mangiare da re. Paté del Bezza Il Bezza era il nostro salumiere che stava all’angolo di Giangiacomo Mora e Cesare Correnti. Ci si comprava di tutto, come adesso all’Esselunga. A Natale ci riforniva di tre diversi tipi di paté, in quantità industriali. Sono andato dal Bezza anche dopo sposato perché procurava i prosciutti affumicati da bollire a Natale, ma l’ultima volta gli ho contestato il fatto che dei tre paté non ci aveva dato quello più buono, quello d’oca. Si offese, ma avevo ragione io. Ci si comprava la parte finale e più buona del prosciutto che mia madre tagliava a mano per poi metter quello che restava in qualche minestra. Il Bezza mi porta ad un 13 piccolo ricordo personale. Avevamo ormai quasi concluso il trasloco da Via Pio IV e non so perché l’ultimo a restare per una notte a dormire sono stato io. La casa vuota e una cena solitaria con un pollo intero e patatine, neanche tanto buono, del Bezza. Ma era la prima notte che dormivo da solo e l’ultima nella grande casa dell’infanzia. Biancomangiare: riso e latte, polenta e latte Anche noi avevamo il nostro biancomangiare depurativo e quaresimale. Per chi non lo sa, sono state trovate più di 300 ricette medioevali di biancomangiare dove il colore assumeva una funzione di purificazione. A casa nostra, prima che in età adulta scoprissi il mio fantastico e acclamato biancomangiare alla siciliana (budino con cannella, scorza di limone e pinoli), ci si limitava al riso e latte, di cui ho un ricordo di amore – odio. Buono ma anche stucchevole quando era troppo dolce. La polenta e latte non è vero biancomangiare ma era per noi la stessa cosa e penso di averla mangiata centinaia di volte. Oro Saiwa e burro, caffelatte con tuorlo d’uovo Spalmare gli Oro Saiwa di burro e zucchero e farne più strati. Tutto qui. Ci sono ricordi che riesci a far affiorare e restano sotto pelle, come quello del caffè (o caffelatte?) con il tuorlo d’uovo sbattuto. Mi dicono che non si chiamava anche resumada. Domenica sera, toast La domenica sera mia madre si riposava, si fa per dire. Non si mangiava a tavola ma davanti alla televisione per il secondo tempo della partita di calcio mangiando toast. Pesche al forno e amarene cotte Delle pesche non ho un ricordo chiaro, ma solo di bontà. Vino o limone? Quelle con gli amaretti sono arrivate dopo. Più chiaro il ricordo delle amarene cotte con zucchero e limone, buone loro e soprattutto il sugo che restava. 14 Gammon e Apple noodle La Ina tornò da Londra con un gammon nel beautycase e dalla Germania portò la ricetta delle Apple noodle, penso si scriva così, una cosa che vorrei scovare perché buonissima: mi sembra che facesse cuocere le mele al forno su uno strato di sale. Una volta mi fece una spuma di mele e quando l’avevo finita mi disse che era stata fatta con due chili di frutta. Non è facile ricordare Ina attraverso il cibo, non ci provo nemmeno, ma era grandissima, non tanto nel cucinare, quanto nel costruire il convivio, nel tenere insieme le persone attraverso lo stare insieme a tavola, proprio come mia madre e, in qualche modo, anche come me. 15 Ricordi sul pesce “Sciura la veur i pess”, così a Casasco il venerdì mattina si presentava sul cancello la signora che saliva dal lago con una cesta piatta di vimini con foglie di fico e dentro pesci, soprattutto trote – me ne ricordo una di un paio di chili e più – e persic. A proposito di pesce persico, lo zio Carlo quando era al mare chiedeva pesce che assomigliasse a quello di lago. Filetti di sogliola del salumiere con il prezzemolo: questo è un ricordo da ammalato. Era uno dei tipici piatti in bianco che ci faceva, anzi li si comprava già fatti, quando eravamo ammalati. Baccalà fritto o bianco della friggitoria di Porta Ticinese: più che mio è un ricordo del Chino. Era in Porta Ticinese o era in Giangiacomo Mora? Quella di Porta Ticinese aveva fatto venire l’ulcera al Carlino quando lavorava alla RAS e non mangiava da noi. Poi diventò un ospite fisso. Pesci in cagnone della nonna Virginia: non ho molti ricordi di piatti della nonna Virginia, forse perché li ho rimossi in quanto legati a quando venivo spedito a Como per settimane che mi sembravano mesi perché ammalato (due volte la broncopolmonite) o perché erano gli altri ad esserlo (la scarlattina dell’Angelo). Si mangiava da vecchi, anche se la Caterina faceva un’ottima omelette con la marmellata. Dai ricordi, non miei spontanei però, emerge il pesce di lago in cagnone, cioè penso in carpione. Ho voluto approfondire il problema della mancanza di ricordi sulle ricette della nonna chiedendo ai cugini e il risultato è stato sconfortante: si ricordano il caffelatte. Da dove viene allora la nostra cultura alimentare superiore? Dai Maglia? Dalla necessità di dar da mangiare a un marito esigente (ci si ricordi la citazione dell’inizio sulle minestre) e ai figli affamati? 16 Vino e ricordi Sono tanti i ricordi più o meno lontani legati al vino. Certamente era una parte importante della nostra vita e della nostra cultura. Si raccontava, ad esempio, che i miei cugini più anziani rubavano alla Carolina la chiave della cantina dei vini per andare a rubare le bottiglie. Mio padre quando ero piccolo e mi mandava a prendere il vino in cantina mi diceva di mettere il dito nel cu della bottiglia: il vino buono era in quelle dove il dito entrava molto, forse perché erano quelle soffiate, cioè vecchissime. Si beveva sempre e solo vino rosso, mai vino bianco, anche quando c’era il pesce. E il nostro era un vino rosso da 14 gradi (Dolcetto o Barbera sempre comprato dallo stesso commerciante, Zingari) aspro e non certo da pesce. Ma questa è la dimostrazione che il vino come il mangiare è cultura. Oltre al fatto che non era facile imbottigliare il vino bianco e il vino in bottiglia era solo quello che veniva regalato a Natale. Non mi ricordo quando sia entrato in casa il vino bianco, anzi non mi ricordo mio padre bere vino bianco. Il vino si andava prenderlo ad Asti e il Chino tornò una volta con una brenta, cioè 15 damigiane (un volta tra San Fedele e Casasco ebbe un incidente e ruppe una o più damigiane…). Mio padre diceva che prima lo comprava anche per quelli del paese perché era il più buono. Non sempre ma certe volte lo era veramente, al di là dei ricordi. Come avrebbe detto Giorgio Bocca, sembrava un colpo di cannone. Solo l’Orcia Rosso di Ranuccio mi fa ricordare il nostro vino rosso. Costava, di più rispetto agli altri vini in damigiana, ben 350 lire; il Brachetto quando l’abbiamo comprato in bottiglia sempre nello stesso posto era già a 900 lire. La cantina dei vini prima era separata dal resto della cantina perché una parte di questa durante la guerra era stata adibita a pollaio (nella porta c’è ancora il passaggio delle galline) per cui per entrarci si doveva passare da una parte nascosta e scura e questo mi ha riempito i sogni giovanili, prima con sogni di terrore e poi con cantine dove c’erano tantissime mie bottiglie. Fondamentale a Casasco era il momento all’ultimo dell’anno in cui veniva a suonare la banda di cui mia madre e mia sorella (e ora l’Elvira) sono state madrine. Anche se faceva freddissimo si serviva vino rosso; era una delle prime fermate per cui suonavano ancora bene… C’era sempre un pezzo che si chiamava Settebello. 17 Barolo del 38 a Casasco e Barbaresco del 42 a Milano, entrambi Zingari, sono un piccolo mistero: perché ci sono rimasti solo queste annate (me le sono tenute io quelle di Milano)? Erano le uniche comprate (insieme ad uno scialbo Barolo del 60) o erano rimaste in quanto lascito della guerra? E perché così tante? Solo una, di Barbaresco presa dalla cantina della Ditta, bevuta negli anni Settanta era buona, le altre hanno sempre avuto una camicia spessa e un colore quasi inesistente come il sapore. Ma sono le nostre radici nel medioevo e mio padre diceva che quel vino scaldava le orecchie (lo diceva in dialetto, anche se non lo parlava spesso, ma si poteva esser sicuri che lo parlasse quando entrava da Bardelli). Mio padre metteva il vino dovunque: ovviamente nel brodo ma anche nel risotto e nel caffè. Il profumo del caffè caldo e del vino è delizioso. Ci vuole quello della napoletana e ovviamente il vino rosso delle nostre damigiane, ma vale la pena di provarci anche con un altro vino. D’estate il vino lo metteva, e ce lo faceva mettere, sulla pesca tagliata a pezzetti con il limone. I ricordi di vino non si fermano alla famiglia e al passato lontano. Ad esempio lo Spanna del 64 che mi ha introdotto alla cultura del vino, lo Chateau Neuf du Pape comprato alla cooperativa di San Fedele, bevuto con i Giannetto e che mi ha sempre fatto riflettere sul fatto che il vino non valga in funzione del prezzo e della qualità ma vale per i ricordi e il momento in cui lo hai bevuto: quello era il mio primo vino francese e mi sembrò fantastico. Ogni volta che l’ho bevuto dopo è stata una delusione. Il Moulin à Vent bevuto a Ginevra dove ci eravamo scatenati di ritorno da Taizè dove avevamo fatto la fame. Il Brunello Santa Restituita del 64 bevuto a Sueglio a fine pasto da Mario, offerto dal padre. Una bottiglia intera a fine pranzo senza problemi tanto era buono. Ce ne regalò una a me e una a Carlo (si concordò di berle insieme al primo figlio, ma poi non ci frequentammo molto e quando ho aperto la mia bottiglia era passé). La cantina De Piccoli era fantastica e io praticamente ero l’unico ad aiutare il padre a consumarla. Tante bottiglie eccezionali, soprattutto di grandi vini piemontesi dei Marchesi di Barolo, una grande bottiglia di Sassella Negri e un bel regalo di una mezza bottiglia di Brachetto che ho ancora (ne aveva molte perché con tre figlie beveva solo lui per cui comprava grandi vini in mezze bottiglie). Anche dai Rudelli si beveva bene: soprattutto i bianchi friulani della Cantina Felluga con in etichetta le mappe medioevali e il Cartizze Ruggeri con cui abbiamo brindato nel pranzo del matrimonio con gli amici. La mia cena dei 18 anni ha un preciso ricordo legato al vino; doveva essere la mia consacrazione gastronomica e di conseguenza con il Chino andammo da un suo vecchio fornitore. Mi negò il Barbaresco perché “il parroco non glielo dava più” (per questo motivo 18 la prima bottiglia di Barbaresco fu quella straordinaria del Parroco di Neive che ho poi comprato con Franca) e mi consigliò due vini francesi, lo Chateau Olivier (bordeau bianco di straordinario spessore, almeno per me allora) e un Saint’Estephe. Mi ricordo i prezzi che allora mi sembravano altissimi: 1800 e 1350 lire. Il menu che richiesi a mia madre partiva con una montagna di carne secca dei Grigioni di Peck, una vera montagna perché era secchissima come ora non lo è più. Poi, petto di pollo alla panna con i tartufi. Oltre a noi c’erano i Giannetto e Andrea e Margherita che mi fecero assaggiare per la prima volta le paste di mandorle del Galli. Dal vino alla birra: il Chino ne aveva portato dalla Germania alcune lattine che aveva nascosto, insieme ad un libro di fotografie porno, ovviamente in tedesco, nel grandissimo armadio che riempiva la nostra camera. Per prenderle si doveva passare dal posto per la luce interna, ma quando le ho scoperte erano ovviamente andate male. Dalla Germania aveva portato centinaia di sottobicchieri che per anni hanno riempito il controsoffitto della mansarda. Lascio alle mie memorie che scriverò tra 40 anni i ricordi successivi, perché di vino è pieno il recente passato. Devo, però, almeno riportare alcuni ricordi. Come la scoperta dei bar à vin francesi (Le pain et le vin, vicino alla Arco di Trionfo) che ha portato al disastro dell’avventura BVS, nata proprio a Casasco per studiare come farne uno a Milano. Come quello di Giorgio Grai con cui ho fatto la prima degustazione (un bicchiere lo aveva accompagnato per tutto il tempo: uno dei primi Sassicaia che aveva assaggiato solo alla fine per fargli prendere aria; a un certo punto disse ad un produttore che nessuno se ne sarebbe accorto ma quella bottiglia sapeva di tappo ed era vero). Come le tre magnum di Sassicaia 83 (60 mila lire l’una, un grande investimento), la doppia magnum di Tignanello 83, le 12 bottiglie di Sauternes Chateau Filhot, le visite dalla Ronchi quando era ancora in San Maurilio. La bottiglia bevuta nel ristorantino di Cavaglià (una stella Michelin, eravamo solo in due clienti) prima di arrivare a Gressoney da Campadese. Le damigiane di Nebbiolo di Carema (88, 89 e 90) vendute con vino invecchiato nelle grandi botti per 5 anni. Il prezzo era alto (7mila lire), ma si è mai visto vendere in damigiana un vino così? Ruggero ha fatto a tempo ad aiutarmi a mettere le etichette e per qualche felice anno a Casasco da me si beveva solo quello. Un discorso a parte merita Cigliuti, grande produttore di Barbaresco e Barbera a Bricco di Neive. Ogni volta che sono andato da lui ha saputo sorprendermi. La prima volta con Gianni e Patrizia c’ero andato dopo aver assaggiato l’82 del Pino (poi negli anni ho scoperto che quell’annata è stata insuperabile per bontà e durata; l’ultima bottiglia 19 dell’82 è stata una magnum di Barolo offerta ad Alessandro e Chiara a Bobbio nel 2001). Quando venne fuori (aveva giornalisti tedeschi perché era diventato famoso vincendo in una degustazione cieca sui principali cru francesi proprio con un Barbaresco 82) ci disse che di vino non ne aveva più, ma poi rientrò e riuscì con una bottiglia di Barbaresco 85 dicendo “non ho bottiglie da vendere ma una da regalare sì”. Un amore a prima vista, mai deluso anche se il prezzo del suo Barbaresco è cresciuto troppo e mi ha fatto spostare sulle sue splendide Barbere. Come quando un paio di anni dopo l’ho convinto a fare le sue prime magnum (io sono un patito delle magnum, soprattutto come regalo, perché mi sembra che valgano molto di più di due bottiglie). Nel momento di fare il prezzo, ci pensa su e poi scrive 18mila lire, cioè lo stesso prezzo di una bottiglia normale! Erano di Barbaresco 88, i fiorentini ne sanno qualcosa… O come quando ci sono andato con Pier e le sue donne di Acqui: chiamò la moglie per far portare il salame e aprì tante bottiglie, ovviamente regalandocene una e obbligandoci a finire quella aperta di Barbaresco. 20 Casasco, il luogo dei ricordi A Casasco ci passavamo tantissimo tempo, in particolare in estate. D’inverno si iniziò ad andarci dopo la mia nascita quando misero i caloriferi che di notte si spegnevano (e l’Angelo andava ad accenderli) così che la mattina c’erano meno di dieci gradi. Le vacanze casaschesi partivano da fine giugno, dopo le due settimane alla Pensione Mia di Miramare (pensione completa meno di 2000 lire, con mia madre che preparava i panini con burro e marmellata da portare in spiaggia; tante di quelle lasagne che non ne ho più mangiate per anni). Si stava su fino a San Maurizio, festa del paese, a fine settembre con la nebbia e il tour nelle osterie a mangiare la trippa: una sola volta sono riuscito a seguire mio padre mangiandola anch’io. Il tour era rigorosamente fatto di mattina e le scodelle di trippa almeno quattro: dal Bergolini, al Bar Italia, all’Unione e in Piazza Pané (dove pochi sanno c’era un gufo reale cacciato dal proprietario insieme a mio nonno). Perché i ricordi alimentari di Casasco sono così tanti? Forse perché è il posto dove più facilmente si riscoprono le radici medioevali e di conseguenza i ricordi affiorano più facilmente. Come il passaggio la mattina e la sera delle vacche per le strade del paese o le Sante Quarant’ore con il Te Deum finale che il fratello di Breccia dello zio Marzorati aveva introdotto opportunamente dopo i supposti bagordi di fine anno dei casaschesi. Il luogo gastronomico simbolo di Casasco era l’Albergo Unione: un ristorante veramente d’alto livello con una cantina ricca di grandi vini (ho amato la Barbera Scarpa invecchiata, ma c’erano anche vini francesi). La sala da pranzo era molto grande e l’Unione era una sorta di club dove si passava tutto il giorno. Da casa nostra si sentiva di sera il cozzare delle bocce. Durante la guerra su consiglio di mio padre ci aveva passato la prima notte di matrimonio un professore della Bocconi (Pivato padre, quello che gli aveva fatto comprare le azioni della Popolare di Novara su cui ci siamo fatti tutti la casa); peccato che a Casasco era di stanza la Decima Mas e in piena notte gli fecero un piccolo scherzo lanciando bombe a mano sotto la finestra… La Decima Mas stava nella villa ora dei Gelpi e dove prima stavano i Marzorati: mia madre mi diceva che vedeva passare nella stradina bassa vassoi di dolci per loro. Una parentesi non gastronomica: nella casa di fianco alla nostra era sfollata la famiglia di Bettino 21 Craxi che andava a scuola con i paesani e i miei cugini. Quando divenne Presidente del Consiglio, l’Espresso scrisse che durante la guerra a capo di una banda di ragazzini faceva scherzi alla Decima Mas: fonti autorevoli (l’Umberto) danno una versione leggermente diversa, quella che loro avevano costituito l’Undicesima Mas e che Craxi non ne era il capo… Su Craxi l’altro aneddoto è che la madre usciva di casa con sulla testa una mutanda con nodi agli angoli e lo chiamava “Beto” prolungando la e. L’Unione era qualità della vita per chi viveva in paese e per noi. Qualità che si è persa quando il Giovanni Cattivo l’ha lasciato perché la figlia doveva andare a scuola a Como, così come prima aveva lasciato la Capanna Bruno (spaghetti con ragù con il panettino di burro sopra e la valdostana). Solo che la Capanna Bruno è rimasta e per molto tempo ancora accogliente. Al funerale di mio padre c’era una corona di fiori di quelli della Capanna, dove mio padre andava sempre e forse l’ultima volta che me lo ricordo là aveva mangiato le lumache con lo zio Vittorio, dopo tre infarti e un arresto cardiaco. Fondamentale il diario della Capanna dal quale emergeva che in un certo periodo Ricky, Popo e Pucio ci andavano, ovviamente a piedi, praticamente ogni giorno. Il posto fondamentale a casa nostra era la vecchia cucina che ora è la sala della Casetta. Me la ricordo enorme con dentro di tutto: i due tavoli di cui uno di marmo per lavorarci su e la caldaia del riscaldamento che garantiva un bel caldo. Il camino, dove ci aveva fatto dei disegni lo zio Chino, cari a mio padre dopo la sua morte in guerra, cancellati dal marito della Carolina con grande disperazione di mio padre. D’altro canto anche lui con l’enfasi per il modernismo ne ha fatte di belle, come quando salvai (non tutti) i pezzi del trenino che con il Toni Barbé stava gettando nella neve dalla finestrella del solaio. Dalla cucina un montacarichi (i cui pezzi in ferro sono posti a mo’ di scultura in giardino) portava le vivande alla sala che stava di sopra. Ai tempi in valle c’erano tantissimi funghi. Non che io ne abbia presi molti, solo quelli che mi faceva prendere il fratello della Carolina, ma mia madre ci raccontava che ne aveva trovato uno con una vipera attorcigliata al gambo e che la nonna ne aveva trovati 33 in un prato; il Piero ne trovò uno da quasi tre chili al Cristé. Costavano poco: 800 lire e il più rinomato e indiscusso cercatore era il Bandelin. Sopra di noi c’è la Villa Marelli, amici di sempre dei miei. Prima della guerra avevano il cuoco e mia madre una volta lo vide sputare sulla carne… Casasco a 800 metri non si presta a coltivazioni di frutta. Avevamo un vecchio prugno vicino a dove si stendevano le lenzuola in fondo al giardino che prima di morire ci permise di fare una decina di chili di pessima marmellata. Più buone le susine che stavano lì di fianco. Tanti, invece, i mirtilli da mangiare con zucchero e vino. Uno dei primi ricordi è 22 delle piccole piante in fondo al giardino cariche di pere (Kaiser?) che poi maturavano sopra l’armadio in Casetta. Mitico era lo Stracotto del Giuanin Macelar, che, morto a 85 anni, si diceva avesse macellato 5000 maiali e che faceva un ottimo salame. Mia madre, che poi lo ha inserito nei piatti fondamentali della nostra cucina (e io proseguo), mi raccontava che nasceva dai ritagli non vendibili che lui buttava in un otre piena di vino e aromi. Così quando si cucinava era un po’ come un salmì di cacciagione. È divertente il fatto che, quando nel 75 sono stato un mese in Indiana (prima di partire mia madre mi ricordò che sono meglio “moglie e buoi dei paesi tuoi”), il padre Quackenbush, proprietario della R Street Grocery Fine beef in town, faceva la stessa cosa (non usando il vino ma con lo stesso risultato). Bello aver scoperto che nei suoi ricordi scritti (insieme allo sbarco in Normandia) c’è anche quello legato a me e al fatto che per lui era stata un’estate indimenticabile. Lo è stata anche per me. Il pranzo più importante era quello del Primo dell’anno con un tacchino che mi sembrava ogni volta sempre più grande. Volevo la coscia ma era difficile finirne una da solo. Uno dei primi ricordi è proprio legato a questo pranzo con due tavoli paralleli nella parte opposta a quella dove adesso c’è il tavolo da pranzo. Il Natale a pranzo, fin che viveva la nonna, era festeggiato in grandi ristoranti sul lago (il Caramazza, ad esempio) con penso fino a 100 persone, tutti parenti. Non ho bei ricordi perché ci andavo vestito per la festa, e cioè in modo triste. Un golf di cammello con i bottoni solo in fondo, una camicia da grande con il colletto rigorosamente chiuso e i pantaloni grigi corti ben sopra il ginocchio (quelli all’inglese sono arrivati troppo tardi e a lungo invidiati nei compagni sancarlini dell’alta borghesia milanese), per giunta vestiti uguali io e Giorgio. Un secondo motivo d’insoddisfazione che mi ha seguito sempre era l’estranietà al gruppo dei cugini, prima per un problema di età che faceva sì che pochi erano quelli nati dopo il 50, in seguito per sostanziale indifferenza. Di fatto, in un parentado dove brillano ben tre membri nella Gladio e un busto di Mussolini sopra l’armadio, uno che era stato anche solo sfiorato dal 68 assumeva il ruolo del diverso da correggere. Fatto sta che i matrimoni dei cugini li ho vissuti tutti dall’esterno (grazie, Virginia e Flavio di essere l’eccezione), come quello della Mimma per cui la Carolina ci fece scrivere questo telegramma: “Oggi profumo di fiori, domani sorriso di bimbi”. Questo è il mio problema: vivere ai bordi interni delle cose, dentro ma quasi fuori, sufficientemente dentro per non cercare sbocchi all’esterno sui quali costruire, troppo poco dentro perché ne rimanga qualcosa di duraturo che ti serva nel lungo periodo. 23 Più simpatica la cena di Natale a Casasco, fino a poco tempo fa sostanzialmente uguale: solo tè e tartine di salmone, salami, formaggi. A Pasqua c’era ovviamente il capretto e la sera prima si mangiavano tutte le interiora fritte nel burro, tranne il Chino che era una delle poche cose che non mangiava. Un ruolo importante era svolto dal vassoio dello Zio Cesare (zio di mia madre e mai conosciuto) quello che si era rotto una gamba infilandosi i pantaloni, vassoio che veniva dall’albergo che aveva gestito. Nosei è la fontana dove si andava sempre a prendere l’acqua prima di pranzo e cena. Era riconosciuta come buonissima prima che sopra sulla montagna ci costruissero tante villette senza rete fognaria. La zia Emma, gravemente ammalata, si faceva portare a Como dallo zio l’acqua di Nosei. Una cosa che fa vivere i ricordi è il formaggio (assolutamente da leggere il libro di Montanari sul proverbio dei contadini e il formaggio): quando si andava a prenderlo con il latte in fondo al paese, quando lo si vinceva alle aste della festa nel teatro e poi lo si lasciava fuori sulla finestra e praticamente si metteva a camminare dai vermi. Il formaggio del Balbi non è un ricordo d’infanzia ma resta ben impresso per la sua unicità. Ruggero è riuscito a conoscerlo (quando l’oca rincorse il nonno Leone dopo averlo beccato sul sedere e quando ci ha fatto vedere come faceva il formaggio). La penultima forma di formaggio l’ha data a me, ben stagionata. Con Angelo, Elvira, Walter e suo figlio abbiamo fatto un ultimo dell’anno con lui e quelli della Croce Verde. Aveva un padrone del Vallese che veniva con l’elicottero a prendergli i maiali e gli dava un buonissimo Fendant che il Balbi ci offriva sempre dato che lui preferiva lo Squinzano. Di sua moglie una buona ricetta per la grappa al basilico (25 foglie di basilico e mezzo chilo di zucchero, per un mese agitare ogni giorno e poi si filtra). Il mito della Svizzera era forte e oltre alle sigarette si compravano le banane, quelle grandi come le mangiamo adesso, perché in Italia erano un prodotto da monopolio, le somaline, quelle che adesso costano una fortuna. Un appuntamento fisso era quello per la Polenta uncia alla Giulia verso Pian d’Alpi. Nei miei ricordi era l’unica cosa che si mangiava lì, con formaggio magro, tanto burro e l’aglio talmente bruciato che non lo si digeriva per un bel po’. Ci sono due proverbi che mia madre ricordava spesso e che tuttora divulgo. Il primo recita che se ci sono più di sette persone a tavola si può iniziare a mangiare anche senza aspettare che tutti siano serviti. Il secondo riguarda il pollo e la possibilità di mangiarlo con le mani solo sopra i 900 metri, cioè in montagna. Per entrambi solo 24 da poco mi sono reso conto che c’era, forse, sotto un trucco: noi eravamo in sette e Casasco è a 822 metri. A Casasco il caffè dopo averlo usato la prima volta con la napoletana, quella enorme che ha dato il via alla mia collezione, veniva fatto asciugare sul giornale e serviva per il caffelatte del giorno dopo con l’aggiunta della Miscela Leone per dare colore e sapore. Chi nato dopo il 60 può avere questi ricordi? 25 La presenza dei parenti I parenti sono un condimento necessario e insostituibile dei ricordi d’infanzia e, ovviamente, molti di questi si legano al cibo. Per noi tutti in ogni caso era un valore la famiglia aperta. Li avevamo (io e Rita) divisi tra di serie A e serie B. E i ricordi si legano alla tavola, direi al convivio. Ad esempio i pranzi con lo zio Riccardo che a tavola gridava più di tutti quando si discuteva del Garage Franchini, cioè sempre. Da Como ci portava uno straordinario gelato al mirtillo dalla gelateria sul lungolago di cui non ricordo il nome. Il lunedì a pranzo c’era sempre qualche cugino, il Piero ad esempio, mentre per l’Umberto mia madre aveva un’attenzione particolare, a lui dava la bistecca perché debole di stomaco. Un’altra presenza fissa era il Carlo. Mi è rimasto sempre sul gozzo il fatto che quando ho raggiunto l’età per essere portato a tavola senza problemi sono finite le cene tradizionali che mia madre offriva ai cugini prima da fidanzati e poi da sposati. I cugini erano decine e di conseguenza di cene ce ne sono state molte. Io le vivevo nei preparativi (lei si svegliava alle quattro e mezza e io l’ho aiutata a preparare dei fantastici mandarini ripieni della loro polpa gelata, di cui ho trovato la ricetta sul Talismano della felicità) perché poi regolarmente venivo insieme al Giorgio spedito dai Marzorati (dove si mangiavano sempre le Midolline in brodo). Quello che un po’ inquieta sono i tanti ricordi di inviti da noi, mentre pochi quelli di inviti di noi da altri; forse eravamo troppi o forse invitavano solo i grandi, o forse – anzi certamente – la nostra cucina e la nostra ospitalità era la migliore. Oggi come ieri. Sinceramente, quasi ogni ricordo di pranzi da parenti è legato non a un invito ma ad altre ragioni (come malattie o la necessità di liberarsi dei piccoli). Me ne ricordo solo uno dall’Umberto subito dopo la morte di mia madre con uno Clablis vecchissimo ma buono e lo zio Riccardo. C’era, poi, la tradizionale cena per la lepre del Moraschini che stava a frollare e puzzare nel vino per tre giorni in cucina. Era talmente frollata che il parente, in verità indiretto, ci aveva insegnato a mangiarla mettendo in bocca il pezzo e poi semplicemente succhiando e aspirando. Bastava questo per far staccare la carne dalle ossa, stando attenti a non mangiare 26 anche i pallini. A queste cene doveva esserci la più simpatica e intelligente dei parenti: la zia Ilia. Sua madre, la mitica Signora Rossi, a circa 105 anni intervistata da un giornale disse che gli piaceva mangiare il brasato con un buon bicchiere di vino. Rarissimi i pranzi con i parenti Maglia, inesistenti nei primi gradi di parentela. Forse il Leone Maglia era stato invitato al 25esimo di matrimonio ma non si era fatto vivo. Alcune volte veniva invitato il Francesco Maglia che avendo 5 figlie ci aveva lasciato il compito di tramandare il cognome. 27 Ricordi di mio padre Il cibo è naturalmente legato a mia madre ma alcuni dei ricordi più forti sono legati a mio padre, forse proprio perché rari e specifici. Non entrava mai in cucina, solo d’estate a Casasco per fare due cose: i nervetti e il filetto crudo alle sei salse (olio, sale, pepe, salsa d’acciuga, limone, senape), una cosa che resta per sempre, niente a che fare con il carpaccio; la carne a fette sottili cuoce a crudo per otto ore. Ho già ricordato la pesca con il vino rosso, ma c’era anche la mela con lo zucchero oltre al vino. Non so quanti abbiano mangiato le croste di grana fatte sulla fiamma a gas; le voleva fare lui, ma solo quelle del Parmigiano e non quelle del Padano perché c’era qualcosa di chimico… Da approfondire una cosa che forse ho ereditato: non mangiava quasi mai dolci, anche se ricordava che una volta con un cucchiaino aveva schizzato non so chi con la panna montata, ricordo che vale perché era impossibile immaginarlo fare scherzi… Forse il motivo era lo stesso che mi porta a non prevedere quasi mai dolci (o di lasciarli agli invitati) nei miei menu: non arrivo quasi mai con sufficiente appetito per poterli gustare. Muriel Barbery in Estasi culinarie (grazie ad Emanuela di avermelo fatto leggere; se il suo roast beef di 20 anni fa fosse stato più decente ci saremmo frequentati di più con reciproco vantaggio) sui dolci fa dire al suo critico morente che “tutta la loro raffinatezza si coglie solo quando non li mangiamo per placare la fame, solo quando l’orgia di dolcezza zuccherina non soddisfa un bisogno primario, ma ci ricopre il palato di tutta la benevolenza del mondo”. Un episodio spiega cosa voleva dire per lui la tavola: c’era Rita da noi, una delle prime volte, e alla fine del pranzo, abbondante, mio padre esce con “cosa c’è da mangiare stasera?”, lasciando nauseata Rita che era cresciuta a fettine (senza offesa per nessuno…). Pochi i ricordi di pranzi al ristorante, se si escludono quelli di Natale e Pasqua o quelli all’Unione, forse perché portare tutti fuori era, anche allora, troppo costoso. Un ricordo per un ristorante in Cesare Correnti il cui retro dava sul Manzoni, e poi la trattoria da Carmela che diventava la mensa estiva all’inizio di Mulino delle Armi. Su suggerimento del Chino ci aveva portato per i 30 anni di matrimonio da Aimo e Nadia, appena ai loro inizi, niente a che fare con adesso, cioè era un posto fantastico dove ci potevi andare anche 28 da studente o da neolaureato (Enrico, qualificandosi, aveva chiesto la fattura di una cena di una decina di persone…). Arriva la nuova cucina elettrica: una cosa enorme piena di strane, per noi, manopole. Mio padre si sentì nel dovere di avvisarci di stare attenti a non girarle. Un suo compito era quello di preparare l’acqua frizzante che da noi era Idriz; si dovevano mettere due bustine ma stando attenti alla seconda perché l’acqua iniziava subito “busciare” e si doveva essere rapidissimi a chiudere il tappo mettendoci anche la carta per aumentare la tenuta. Quando voleva mangiare leggero la sera spesso si faceva portare il brodo con aglio e patate, qualcuno mi ha ricordato con dentro anche spaghetti grossi. E qualche volta si comprava il brodo di tartaruga. Mi ha insegnato a bere l’uovo facendo due buchi e succhiando, ma la sua specialità erano le uova all’ostrica, cioè fresche su un cucchiaio con il limone. Un piatto fisso per lui, chissà perché lo colloco al giovedì, era il riso in cagnone (per Il Talismano della felicità con la i finale), pilaf o semplicemente bollito, e poi passato in padella con la pasta di acciughe e prezzemolo e servito con una svizzera, cioè un hamburger non condito. 29 Mamma e cibo Non ci sarebbe bisogno di dedicare un capitolo a mia madre perché tutti o quasi i ricordi sono legati a lei. Ce ne sono alcuni però intimi. Come quando mi portava in centro in Galleria davanti al Savini (era il Biffi?) dove c’era un vero e proprio ristorante americano con snack bar sotto e un misterioso per me posto di sopra che altro non era che un self service. Niente a che vedere con oggi. Il piatto più buono e che prendevo sempre era il Mamaburger, a tre strati difficilissimo da mangiare, mentre il Papaburger era più basso. Mi ricordo anche un filetto all’hawaiana con bacon attorno, ananas e uvette. Era dolcissimo andarci con lei. Chissà se altri ci sono stati, era fantastico perché esotico come adesso sarebbe un ristorante esquimese. Chissà, ma forse proprio come in Estasi culinarie sarebbe questo il ricordo che mi verrebbe in mente alla fine di tutto. E non a caso assomiglia un po’ a quello del libro. Le passeggiate in centro e alla Rinascente prevedevano una sosta all’Alemagna all’angolo tra Via Torino e il Cordusio, bevendo sempre la loro aranciata in un bicchiere bellissimo e mangiando il toast (135 lire semplice, 155 farcito). A proposito di prezzi, andando ad Urbino con lei rimasi scioccato dal costo di una Coca Cola: 160 lire. A parte il sottoscritto, gli altri lasciavano resti nel piatto e lei li mangiava tutti, perché “San Giorgio è sceso da cavallo per un chicco di riso”. Lo stesso ho sempre fatto anch’io. Sono sempre stato criticato perché ero l’unico che chiosava su quello che veniva portato a tavola. Lo facevo, ma mangiavo tutto, mentre gli altri – pecoroni – stavano zitti e rifiutavano molte cose. L’Angelo mangiava mai l’insalata? Il minestrone, per farlo mangiare a lui e al Giorgio, veniva frullato (non passato e così restava sopra una schifosa schiumina). Ma non bastava, e lo mangiavano chiudendosi il naso (mia madre ridendo diceva di chiudersi anche le orecchie). Un piatto raffinato era l’Aspic di pollo, di cui c’è una ricetta complicatissima nel libro delle nonne, con le verdure e la gelatina. Lo faccio anch’io con un pollo arrosto molto bagnato o con la gallina o cappone e poi disossato e messo in gelatina con le sue verdure di cottura e altre. La cultura del risparmio era forte: “chi più spende, meno spende” portava a preferire il prosciutto crudo apparentemente più costoso di quello cotto, che però mi 30 ricordo comprato più spesso dell’altro, bagnato tanto era grasso e per questo buonissimo. La mattina ci spediva a scuola con un panino: scamorza affumicata e pane nero. Il numero delle fette che costituivano il panino dipendeva dall’età, da due a quattro. Riso bollito, corada e prezzemolo: non buono ma impresso nella mente. Buona, invece, la crema di pomodoro servita con un cucchiaio di panna al centro. Prima la faceva lei, poi ha scoperto le zuppe Campbell, questa e quella di fagioli. Chiedo spesso agli amici se qualcuno fosse invitato, quando c’era una primizia, a “cagna l’asen”, nel senso che si doveva almeno provare una cosa nuova. Perché si dovesse morsicare l’asino non è chiaro. Prima di morire mi diceva ancora di mangiare perché “altrimenti ti scende il rene”. Il percorso da casa alla Ditta implicava la fermata alla pasticceria Vecchia Milano di Giangiacomo Mora e quella da Cucchi. L’attuale proprietario dovrebbe avere della riconoscenza nei nostri confronti perché quando era piccolo, visto che non si chiudeva mai ad agosto, fu portato in vacanza a Casasco da mio padre. C’era un cassetto con dentro le figurine Liebig, ma ancor di più mi ricordo le fascette dei Pelati Cirio. Spesso si facevano le cotolette impanate e restava sempre un po’ d’impanatura che (sono certo e nessuno mi può contraddire) veniva fatta a pallina allungata e destinata solo a me. Finisco qui perché è giusto così, sul ricordo più tenero. 31 Le ricette degli amici Alcuni amici si sono prestati al gioco di partecipare a questo capitolo con una loro ricetta. Altri non hanno voluto o soprattutto non hanno potuto farlo. Non devono preoccuparsi: continueranno ad essere invitati alle mie cene. Devo ringraziare di cuore, però, tutti quelli che si sono impegnati e come si vedrà con grande serietà: hanno capito quanto fosse importante per me e mi hanno aiutato. Prima di passare alle loro ricette voglio con un paio di esempi tornare alla cultura e alla capacità del cibo di scatenare ricordi sopiti. Franca ha tanti motivi per entrare nei miei ricordi, alcuni di questi sono anche culinari e ne ho già scritto nella prima parte. Ricordo ancora la crema di porri di sua madre, di una dolcezza infinita. Qui voglio soltanto parlare di un fatto che trovo incredibilmente significativo. Si andava spesso con suo padre, fantastico gourmand, per trattorie; ad esempio alla Buca di San Vincenzo dove si mangiava in tavolate uniche e con 800 lire si gustava anche l’anatra cotta in una cucina di dimensioni ridottissime. Un paio di volte siamo andati la domenica a Zibello e si mangiava in un modo veramente fantastico, soprattutto i primi. Poi, per molti anni, mi sono ricordato di Zibello e dei piatti, ma non il nome della trattoria se non il fatto che la padrona si chiamava Zecca Zaira. Dopo 20 anni una sera, cena aziendale dopo un convegno a Parma: fantastico tris di primi e al pasticcio in crosta dolce mi viene un chiaro messaggio dal passato: io qui ci son già stato, ma nulla del posto mi ricordava qualcosa se non quello che stavo mangiando. Blocco la padrona e le chiedo: “Lei conosce la signora Zecca Zaira?” e la risposta: “Certo, era mia zia!”. Il posto era lo stesso e l’avevo ricordato solo attraverso i sapori. Per chi ci va, salti il fantastico culatello, si fermi ai primi o al massimo si conceda una lingua stufata per lasciare spazio alla bavarese con 36 uova per chilo. Un altro “caso” completamente diverso mi permette di inserire anche Emanuela in questo capitolo (avendo Ugo non ha bisogno di far da mangiare). Eravamo ad Erba per il falò di Sant’Antonio e Alessandro ci aveva comandato in cucina per preparare l’insalata o il formaggio. Da come era maldestra mi viene da dirle una di quelle cose che dimostrano la mia ironia ma anche il mio tatto d’elefante. “Ma tu hai mai fatto da mangiare?”. Lei mi guarda e mi dice (non ricordo le parole precise): “Vent’anni fa eri stato invitato a casa mia 32 ed ero stata obbligata a preparare da mangiare e di fronte al mio roast beef mi avevi detto una cosa simile (del tipo: e questo sarebbe un roast beef?)”. Ci vedevamo da alcuni anni ma non avevamo mai pensato di esserci visti prima! E di colpo emergeva il ricordo di una cena con una persona mai più vista per i venti anni successivi. Alberto e Valeria Iniziare da loro è un dovere. Mi sopportano con ironia da anni e sento per loro tanto affetto e tanta riconoscenza. Ho passato ore ad aspettare Alberto perennemente troppo occupato, ho sopportato le angherie dei loro figli insensibili ai miei utili consigli, mi sono affamato con le cozze di Valeria, ma vorrei ancora continuare così per decenni… La loro tavola è spontaneamente quella che io faccio fatica a costruire, anzi ci manca quel tocco (non le verdure di Piossasco, ma anche quelle), che forse non avrò mai. La vita, la morte, il bene, il male. La ricetta è proposta da Alberto ed è di fatto l’unica cosa che sa fare. Il resto è tutto nelle mani di Valeria (per fortuna) che ha scelto di essere ricordata qui con il seguente messaggio. “Caro Vittorio, l’imbarazzo è grande, trattandosi di “olimpo”, dal momento che come tu ben sai io faccio il risotto con la pentola a pressione e il dado, faccio da tempo solo puree Knorr e crema pasticcera Cameo, uso bechamel pronta e pasta frolla Buitoni, bevo esclusivamente vino regalato, e mi rifiuto categoricamente di assaggiare tanto le animelle che i duroni d’oca, rivelando così la mia scarsa preparazione in fatto di tradizioni culinarie. Potrei dire qualcosa sulla cioccolata, che mangerei dalla mattina alla sera e che mi sento di giudicare, ma non si tratta certo di ricette! Quindi penso che non ti resterà che ricordarmi solo per come carico la lavapiatti..Eh vabbé, vabbé, vabbé.” Come condire l’insalata Il proverbio dice che ci vogliono: un prodigo per oliarla, un parco per acetarla, un pazzo per mescolarla. Io dico che non è tanto vero o che, quantomeno, è un modo ‘milanese’ di trattare un alimento: efficace ma un po’ rozzo. Per condire bene un’insalata per 4/5 persone occorre in primo luogo una grande insalatiera da cui le verdi (o rosse o bianche) foglie non emergano dal bordo ma se ne stiano ben al di sotto, almeno tre dita. Se le foglie sono grandi meglio ridurle, anche a mano ma senza ‘ciancicarle’. Mettere in un cucchiaio da cucina una presa di sale né piccola né eccessiva, quindi riempire il cucchiaio stesso di aceto fino a raggiungere lo stato di massima tensione superficiale: con i rebbi della forchetta mescolare quindi il sale nell’aceto con piccoli colpi secchi e rotatori, contemporaneamente spargere qua e là sulle foglie l’aceto ‘salato’ che progressivamente uscirà dal cucchiaio in seguito al 33 lavoro eseguito dalla forchetta e alla lieve inclinazione in cui si dovrà tenere il cucchiaio durante l’operazione. L’aceto dovrà essere di vino (meglio rosso) oppure di mele purché di buon vigore; assolutamente da respingere gli aceti balsamici o aromatici, anche se autentici. A questo punto con le due posate fin qui usate si darà una prima breve rimescolata. Si versano poi tre cucchiai abbondanti di olio extravergine di oliva (meglio quattro, specie se si tratta di un tipo d’insalata a forte assorbimento). Si depongono ora le posate da cucina (di solito sono di metallo, a bordo sottile) e s’impugnano due posate ‘da insalata’, intendendo quindi le classiche posatone, a manico lungo, di legno o di plastica; possono anche essere metalliche purché a bordo spesso e arrotondato. E ora, per mescolare, il ‘pazzo’ proprio non ci vuole: l’operazione richiede pazienza e razionalità, armonia dei movimenti e della psiche, senso musicale e percezione degli spazi e dei volumi; le posate devono penetrare tra le foglie con delicatezza e decisione insieme, con movimento rotatorio dall’alto verso il basso all’andata e dal basso verso l’alto al ritorno; ogni tanto si interrompa tale movimento con intermezzi di brevi ‘sollevamenti’ dalle parti basse dell’insalatiera delle porzioni che si presentano più lubrificate per redistribuirle tra le altre ancora asciutte e scabre. Al termine di questa attività, che è gradevole e rilassante (se ben interpretata) oltre che utile e necessaria al buon esito dell’insalata ‘condita’, non resta che mangiarla subito. Diffidare da coloro che dicono che l’insalata va lasciata riposare perché il condimento possa meglio penetrarla: ciò vale solo per il cicorino tagliato fine (al quale andrà aggiunto uno spicchio d’aglio intero); tutte le altre, se ben condite, non hanno bisogno ma anzi temono l’attesa. Variante salutista (ma anche buona): al condimento come sopra descritto aggiungere un cucchiaio da dessert di lievito di birra in scaglie (acido folico in natura) oppure di lecitina di soja in grani (abbassa il colesterolo); conseguentemente occorre aumentare, ma solo lievemente, le quantità d’olio e d’aceto. Ulteriore suggerimento: con gli stessi criteri, d’inverno, si può (anzi si deve) condire la verza cruda tagliata fine; al condimento sopra descritto si aggiungerà un trito di filetti di acciuga e di capperi previamente sciacquati e asciugati oppure, più sbrigativamente ma con esito quasi altrettanto soddisfacente, una quantità a piacere di pasta d’acciuga. Etta e Luigi Etta e Luigi hanno avuto purtroppo per troppo poco tempo un posto fondamentale nella mia (nostra considerando Rita) vita. Ma quel tempo è il più importante. Basti pensare che siamo 34 stati reciprocamente testimoni di nozze e che San Maurilio c’è grazie a loro. Poi ci sono tante altre cose della giovinezza piena e matura. Tutto iniziò, o almeno io fisso lì l’inizio, con la prima invernale al Generoso col Chino e il Carlo, quando una seicento (quella venduta al barista della Bocconi con un buco nel pianale che ci vedevi la strada) saliva verso Orimento con dentro il meglio dei Lanzichenecchi. La sera a Lanzo con Rita e Etta e poi via! Ma non è questo il luogo di questi ricordi, anche se ci si dovrebbe allenare, partendo dalla Carnata casaschese con Alfredo, gli stage a Fié, la notte a Cecina nell’Hotel Settebello. Lancio a loro e ad altri la proposta di un momento scritto condiviso con brevi ricordi comuni: io ti ricordo il mio e tu uno che avevo perso. Poi una grande cena per condividerli. Per entrare nell’argomento che ci è proprio, posso ricordare quando Etta prendeva il filetto per fare il bollito o quando si mangiava insieme in San Maurilio per il Teanner domenicale, incrocio tra tè e cena, con quello che c’era. Ecco la ricetta che propone Etta (Luigi non l’ho mai visto far da mangiare). La Tacolenta, impeccabile rimedio a qualsiasi momento giù di morale Oramai lontana dall’Italia da venticinque anni, i ricordi dei luoghi italiani, degli amici italiani e di come avrebbe potuto essere la mia vita in Italia mi lasciano sempre un filo di nostalgia. Da mia nonna ho ereditato questa ricetta a base di cioccolato che solo con la permanenza all’estero ho perfezionato e iniziato a servire regolarmente con ottimi risultati sul morale mio e dei commensali! Ingredienti per otto persone con appetito normalissimo, per sei con una penchant al dolce, per quattro extragolosi: 200 g di cioccolata amara con almeno 70-80% di cacao, 70 (se volete essere più dietetici) o 100 g di burro, 200 g di zucchero bianco, 3 uova, 3 cucchiai rasi di farina (meglio se autolievitante), burro e pan grattato per la tortiera, o carta cerata per foderare la tortiera una confezione piccola di panna liquida. Preriscaldare il forno a 250 gradi. Imburrare una tortiera del diametro di circa 20 cm oppure foderarla con la carta cerata appena inumidita. Fare sciogliere a bagnomaria la cioccolata a pezzetti, aggiungere il burro e amalgamare bene. Montare gli albumi a neve separatamente. Sbattere i tuorli con lo zucchero, aggiungervi la farina, la cioccolata e il burro fusi, gli albumi. Amalgamare bene gli ingredienti tra loro. Versare il tutto nello stampo. Mettere in forno a 250 gradi per 5 minuti, poi abbassare a 100 gradi e cuocere per altri 1215 minuti. Sfornare, lasciare raffreddare un po’, ma per un vero effetto tirami-su la torta va servita ancora appena appena tiepida con un po’ di panna liquida che ogni commensale verserà sulla propria fetta. Un trionfo del palato, un fallimento per gli psicanalisti. 35 Giacomo e Stefania Giacomo è nato il 23 aprile, esattamente un anno dopo di me. Questo non è l’unico motivo per cui è speciale. Per lui la lontananza non vale. E ultimamente mi rifugio a Basilea portandoci, oltre che la bici per i miei giri solitari, i miei problemi e lì mi faccio coccolare. Nel tema di questo libro, poi, Stefania entra dalla porta principale con il suo prossimo Blog “Stefania suggests” per chiunque voglia prendere un attrezzo da cucina o comprare un ingrediente speciale. Queste ricette e ricordi sono stati raccolti proprio a Basilea a Capodanno 2012. Lascio la parola a Giacomo. La famiglia Di Nepi fu fortunata. Il regime di Mussolini stava volgendo al peggio. Molte famiglie ebree purtroppo continuavano a pensare che il fascismo fosse diverso dal nazismo. Non mio nonno, che rapidamente capì che non era così. Scapparono per le vie dei contrabbandieri sopra al Lago di Como e si rifugiarono in Svizzera. Anche se per un periodo andarono in campo di lavoro a raccogliere patate, fu una grande fortuna, tutta la famiglia si salvò (la storia in un altro capitolo). Quando tornarono ripresero la loro vita, cercando di ricostruirla da dove la avevano lasciata. Papà si iscrisse a legge – e cercò anche di rientrare nella vita di giovin signore romano, dopo le durezze del campo di lavoro in Svizzera. Un pomeriggio, adocchiò due piacenti ragazzotte. Uno sguardo d’intesa con il ragazzo alto e bello che gli era vicino, e che non conosceva. Immediatamente, partirono all’attacco e cominciarono a portarle per una passeggiata a Roma, affabulando – metà verità e metà invenzione- le bellezze della città. Arrivati a Villa Balestra, una delle due – belloccia ma un po’ burina – gli chiese “ Ma che, ce l’hai un cortellino?”. Papà – che aveva orrore di qualsiasi arma e ovviamente non l’aveva - gli chiese perché’. E lei, romantica, “Pe’ taija’ du’ roselline…. una pe’ mme, una pe’ tte!”. Il seguito non è noto – ma non difficile da immaginare. Ma l’incontro fu importante, perché’ l’altro ragazzo era mio zio Lino (Nicola). Divennero amici. Nel clima di riappacificazione poco contò che suo padre (morto in guerra) e suo fratello (ahimè morto anche lui) fossero stati fascisti – come peraltro tanti italiani. Molto più interessante era che papà capì che mio zio aveva una sorella carina, e che teneva rigidamente nascosta. Conobbe così mia mamma. Si fidanzarono, e nel frattempo mio zio fece lo stesso con un’altra ragazza, che sarebbe diventata mia zia. Spesso facevano assieme delle scampagnate fuori Roma. Talvolta andavano a Fregene e la mitica Amalia, la cuoca emiliana di casa, preparava un piatto semplice, che si poteva mangiare sia freddo che caldo, tagliandolo a fette, e accompagnandolo con un buon bicchiere di vino. Il grande pasticcio di maccheroni. Che poi entrò nella tradizione di famiglia, chissà perché, come piatto di Natale. 36 Il grande pasticcio di maccheroni Non è difficile da fare (per 6 persone). Foderare uno stampo con apertura a molla con pasta frolla dolce o semidolce – più o meno spessa a seconda del gusto (un po’ spessa a me piace di più… e consente di portare il pasticcio a Fregene, o dove volete). 2 rotoli sono il minimo, il blocco di frolla è meglio. Se volete dare un tocco di classe, usate uno stampo (con apertura a molla, beninteso) col buco, è anche funzionale (vedete dopo). Fare delle piccole polpette, con pane bagnato nel latte e strizzato (o più semplicemente col pangrattato), parmigiano, abbondante noce moscata, prezzemolo, 1-2 uova, 200g circa carne trita di manzo e anche un po’ di salsiccia (la mia famiglia non fu mai molto osservante) o mortadella o prosciutto cotto. Quello che avete in casa va bene -fatele a vostro gusto. Passarle in padella con un po’ di burro. Quando rosolate, aggiungere abbondantissima passata di pomodoro o pomodoro a pezzettoni. Cuocere per un po’. Se volete una versione “rinforzata” fate invece un ragù, cui aggiungerete, ad abundantiam, le polpette. Nel frattempo sbollentare appena (2-3’) i maccheroni. Unire i maccheroni alle polpette con sugo. Aggiustate di sale e pepe. Aggiungere una manciata di piselli surgelati e qualche fungo secco precedentemente ammorbidito nell’ acqua e ripassato in padella, dei pezzetti di scamorza. In realtà potete metterci dentro quello che vi pare. Mescolare tutto bene e versare nello stampo ricoperto di sfoglia aggiungendo per sorpresa un paio di uova sode (ovviamente sbucciate). Chiudere con altra pasta frolla e mettere in forno a 200 gradi per 20-30’ – o finché la pasta frolla è dorata. Versate sul piatto di portata (e se c’è il buco nella forma in mezzo ci mettete altri piselli, del sugo di pomodoro… Si può mangiare caldo o a temperatura ambiente. Buonissimo! Cranberry sauce In famiglia festeggiamo di tutto. S. Patrick’s (Claire, la nanny, nonché la seconda mamma di Costanza, è irlandese), Halloween, S. Valentino, la festa delle mamme (Stefania, Claire e io – la terza), il mezzo compleanno (6 mesi dal compleanno) di Costanza, oltre che le feste comandate. Tornati dagli USA, mantenemmo anche Thanksgiving. Di cui uno dei componenti fondamentali è la cranberry sauce (che usiamo fino e oltre Natale, e che va benissimo non solo sul tacchino, ma sul formaggio, su ogni tipo di carne – lessi, arrosti, prosciutto cotto a fettoni…). Sciacquare in acqua corrente e fredda 1 kg di cranberry, metterli in una pentola con il succo di 2 arance, le scorzette delle arance tagliate finemente, 2 stecche di cannella, un pizzichino di sale, ½ bottiglia (1 bicchiere)di sciroppo d’acero, 2 cucchiai di zucchero di canna (adattare a seconda della maturazione del cranberry). Cuoce- 37 re a fuoco medio fino a che tutte le bacche non siano scoppiate e il composto sia diventato simile ad una marmellata (nel frattempo, assaggiate e aggiustate la dolcezza con sciroppo di acero o zucchero). Se avanza, congelare (anche in monoporzioni). Gianni e Patrizia Negli anni 70 Gianni scriveva sulla sua agendina tutti i giorni che mi vedeva. Poi è scomparso in Argentina, ma per fortuna ci siamo rivisti. Patrizia è scomparsa in Messico, ma mi piace riunirli in questo capitolo in ricordo soprattutto di Pieve di Soligo, le ombre, Four Winds, Refrontolo, Collalto, la signora Reginato, una cena mitica con l’amico dei formaggi (il Principe) e la tirasesso. Patrizia faceva spesso un piatto semplice ma gustosissimo che le ho chiesto di mandarmi dal Messico. Patate con cipolle al curry Cipollotti affettati e soffritti con un po’ di burro, olio e pepe. Aggiungi il curry sciolto nell’acqua e fai cuocere 10 minuti. Versa il tutto in una pirofila, aggiungi uno strato di yogurt e copri con patate bollite tagliate a striscioline o grattuggiate. In forno a gratinare ed è pronto! Annibale Scoperto tardi in un modo che spiega tutto: Gressoney, dopocena, ci sediamo vicino e io mormoro una parola “bici”: una valanga, una cascata e una bell’amicizia e tante cose fatte insieme e che faremo. Soprattutto, una delle poche persone che mi fa parlare. Ovviamente tanti ricordi di mangiate insieme. Mi piace ricordargli le cene da me con i suoi meravigliosi genitori o quelle con Marco a Gressoney o a casa mia. Spalla di maiale in umido Partiamo dalla spalla fresca di maiale che troviamo all’Esselunga. Un pezzo di almeno 7/8 etti, ma anche di più, che tagliamo a pezzi grossolani. In una casseruola, preferibilmente di ghisa, mettiamo a soffriggere due porri tagliati alla julienne, fino a che siano imbionditi, senza bruciarli. Quando i porri sono a punto li leviamo dalla casseruola e mettiamo il maiale a rosolare a fuoco allegro. Quando è ben rosolato saliamo e aggiungiamo mezzo bicchier di vino rosso. Intanto – la sera prima - avevamo messo in ammollo un paio di etti di fagioli borlotti, che 38 ora aggiungiamo al maiale, con i porri, la scorza di limone ed un piccolo peperoncino. A questo punto facciamo cuocere per un’ora e mezza, fino a che la carne sia tenera e quasi sfatta. Pere cotte Sbucciamo e tagliamo in quarti sei pere kaiser. In una padella con il bordo alto e – perché no – in ghisa facciamo scogliere una noce di burro, in cui rosoliamo bene le pere sui due lati. Rosolate che sono, aggiungiamo una micro presa di sale, mezzo bicchiere di vino rosso, la scorza di limone, lo zucchero (diciamo tre cucchiai da minestra colmi di zucchero di canna) e copriamo. C’è chi aggiungerebbe cannella e/o chiodi di garofano, ma io non sarei così convinto. Il tempo di cottura dipende dal grado di maturazione delle pere: se le avete comprate all’Esselunga sarà necessaria non meno di mezz’ora. Se le avete comprate al mercato potrebbero bastare venti minuti. Potrete servirle con una noce di panna acida accanto o di yogurt Total non magro. Polpettone In una ciotola uniamo: mezzo chilo di macinato di ottima qualità, due etti e mezzo di mortadella di bologna tritata, tre etti di pane in cassetta – privato della crosta – ammollato nel latte e ben strizzato, un etto e mezzo di parmigiano grattato, due spicchi di aglio tritato. Impastiamo fino a che il composto acquisti una consistenza omogenea e aggiungiamo un uovo intero sbattuto. Sul tagliere o meglio sul piano di marmo, diamo forma al polpettone e lo passiamo nel pane grattato. In una padella a bordo alto avremo messo abbondante olio di oliva, quando è caldo rosoliamo il polpettone su tutti i lati, in modo da fargli una bella crosticina color nocciola. Quindi aggiungiamo un bicchiere di acqua calda e completiamo la cottura, senza essere frettolosi, diciamo quaranta minuti? Zuppa di cardi e baccalà Puliamo i cardi senza tirchieria: eliminiamo i gambi esterni duri e rovinati, asportiamo i filamenti più ostinati e mettiamo a bagno in acqua acidulata con il limone. Quindi lessiamo i cardi in abbondante acqua salata per un’ora e mezza o giù di lì. Intanto mettiamo a rosolare il baccalà infarinato, in un battuto di scalogno (ammollato e dissalato adeguatamente). Il baccalà cede parecchia acqua, di conseguenza non è necessario levare il battuto per evitare che bruci, ma fate voi. Leviamo i pezzi più belli del baccalà dalla casseruola e aggiungiamo i cardi - tagliati a pezzi di dieci centimetri circa - con il loro brodo di cottura, le uvette e i pinoli, l’immancabile scorza di limone e un pizzico di peperoncino. Cuociamo 39 per mezz’ora, anche quaranta minuti e poi aggiungiamo i pezzi di baccalà messi da parte. Una variante più raffinata può essere quella di fare polpettine di baccalà, friggerle e poi aggiungerle ai cardi, uvette e pinoli. In questo caso, stuferemmo il baccalà, lo setacciamo, lo impastiamo con un uovo intero, lo passiamo nella farina e lo friggiamo in olio abbondante. Poniamo le polpettine, della grandezza di una noce, sulla carta assorbente e poi uniamo alla zuppa, magari completando con una spruzzata di parmigiano. Cristina e Fabio Milano per me è diventata meno bella quando loro se ne sono andati. Per fortuna riusciamo a vederci quando io vado a Firenze e cerco di dormire nella loro dépandance e quando loro vengono soprattutto a Natale a Milano. Per ora siamo sempre riusciti ad organizzare un bel pranzo. Mi ha commosso il messaggio ricevuto da entrambi quasi uguale: “Il bue grasso di Carrù era un mito! Il vero pranzo di Natale per noi è quello da te.” Per uno come me non ci può essere un complimento migliore e soprattutto una dichiarazione di affetto così dolce. Hanno solo un difetto: sostanzialmente ignoranti sul vino; e pensare che avevano ricevuto una delle mie magnum Barbaresco 88 di Cigliuti: le perle ai porci… Fegatini alla toscana (dosi a piacere) Prendere circa mezzo chilo di fegatini di pollo, facendo attenzione ad eliminare i cuori (se ci fossero!) e i sacchettini di bile (idem). Mettere a rosolare con un trito di cipolla e qualche foglia di salvia. Far cuocere per un pochino (qualche minuto) e poi irrorare con due dita di Marsala. Far evaporare. Cuocere quanto basta (un quarto d’ora circa). Passare al passaverdure, eventualmente aggiungendo capperi. Spalmare il composto su fette di pane toscano lievemente abbrustolito e leggermente bagnato con un po’ di brodo. Alessandro Dopo aver fatto il San Carlo insieme, dalle medie fino al 97 non ci siamo mai più né visti, né frequentati; poi, grazie a Donato, ci siamo ritrovati in una per me mitica Corsica, la mia prima volta, la sua centesima. Da lì è nato molto, penso non solo per me; ho dati di fatto che dimostrano che da lì è nato un gruppo di ciclisti e compagni di vita che senza di me forse non ci sarebbe stato, non così per lo meno. Alessandro, per fortuna per lui, è molto diverso da me, ma è la persona che più identifico (oltre a me) con la cultura del convivio, in lui esaltata dal disporre di un luogo 40 ideale dove praticarla, Erba. Anche lui non è un grandissimo cuoco, ma è insuperabile (con un’eccezione…) nel mettere insieme le persone attorno al cibo. E alla bici, essendo il nostro unico presidente. Crema di cachi al caramello Ingredienti: 2 kg di cachi, 400 g di zucchero, cannella in polvere, rhum. Separate la polpa dei cachi dalla loro buccia e dagli eventuali semi, raccogliendola in una terrina. Frullate la polpa in un frullatore per qualche secondo e lasciatela riposare. Nel frattempo metterete al fuoco lo zucchero e 2 cucchiai di acqua in una pentola dal fondo spesso portandolo ad ebollizione e facendolo poi caramellare, molto lentamente e a fuoco basso. Nel frattempo avrete separato circa un terzo della polpa di cachi e lo metterete al fuoco a bagnomaria rigirandolo continuamente e riscaldandolo fino quasi al primo bollore. Non appena lo zucchero sarà completamente caramellato e privo di grumi toglietelo dal fuoco (attenzione a non abbrustolire lo zucchero subito dopo aver raggiunto lo stato di caramello), unite mescolando velocemente la polpa di cachi riscaldata allo zucchero che reagirà violentemente sprigionando bolle, schizzi e vapori (occhio a non scottarvi!). Rigirate il composto velocemente cercando di evitare la formazione di grumi di caramello e così facendo noterete che il bollore diminuirà man mano che la temperatura scenderà. Se sarete fortunati riuscirete ad ottenere una buona miscelazione dei due componenti, senza grumi di caramello. Fate raffreddare fino a temperatura ambiente il composto così ottenuto e solo a questo punto unirete i restanti 2/3 della polpa di cachi, 2 o 3 cucchiaini di cannella, mezzo bicchiere di rhum (o, in alternativa, di marsala). Mescolate dolcemente il tutto e la crema di cachi è pronta. Servitela in coppette, aggiungendo un cucchiaio di panna liquida. E i vostri commensali non vi dimenticheranno più! Il segreto (e la sola difficoltà) della ricetta sta tutto nel miscelare la crema allo zucchero caramellato: l’unione di questi due ingredienti, per via dell’altissima temperatura dello zucchero, è assai problematica. Per questo occorre riscaldare parte della polpa, così da ridurre la differenza della temperatura al momento della miscelazione. Non è così facile come sembra: la polpa di cachi, se si riscalda troppo si addensa in modo anomalo e cambia sapore; se invece resta troppo fredda quando tocca lo zucchero incandescente diventa una colata da altoforno e lo zucchero si compatta in blocchi. Soltanto dopo diversi tentativi andati male sono riuscito a trovare il giusto equilibrio per ottenere il risultato. Nel descrivere questa ricetta ho cercato di trasmettere l’esperienza fatta. Ora tocca a voi. Auguri ! 41 Macedonia di frutta cotta sciroppata Più che una ricetta questa è una passione. E, quando si tratta di frutta prodotta dall’orto di casa, in un certo senso, è anche una necessità. Nell’orto infatti, specie se di tipo casalingo, è un po’ come per il maiale: non si butta via niente. In realtà non è proprio così: le parti più malandate della frutta, cioè per lo più quelle marcite per l’intervento di un insetto o perché ammaccate dalla grandine o comunque difettose e non “sane” sono da scartare (ma non da buttare se si ha la buona abitudine di smaltirle nel contenitore di compostaggio casalingo). Le altre parti, anche se non perfette, sono adattissime ad essere utilizzate per questa ricetta semplicissima. E se poi la produzione, come spesso capita, è abbondante e concentrata nel tempo, questo è un ottimo modo per utilizzare le eccedenze produttive e al tempo stesso per fare un po’ di scorta per l’inverno. Ingredienti: 1 kg di frutta fresca di vario tipo (mele, pesche, albicocche, ciliegie, amarene, prugne, pere, fichi, ecc.) meglio se dell’orto di casa, possibilmente non trattata con anticrittogamici o fertilizzanti chimici, 400 g zucchero, meglio se di canna, 2 bicchieri di vino rosso o bianco, spezie (cannella, chiodi di garofano, zenzero), 1 limone non trattato in superficie, uvetta appassita e prugne secche denocciolate, pinoli. Quando l’orto produce in abbondanza (o il vostro fruttivendolo di fiducia è in vena di saldi) utilizzate la frutta matura, lavatela, asciugatela e spezzettatela grossolanamente conservando la buccia (sì anche quella dei fichi, se di fichi vi state occupando) lasciando eventualmente anche il nocciolo (nei casi in cui toglierlo sarebbe una fatica improba, come ad es. per le ciliege e amarene, o anche per le prugnette selvatiche). Mettete la frutta in una grossa padella (ad es. di diametro 25 cm) dai bordi un po’ alti e cospargetela con lo zucchero e bagnatela col vino bianco o rosso; aggiungete un po’ di cannella, 6-7 chiodi di garofano, eventualmente un pizzico di zenzero, la scorza di mezzo limone tagliata a scagliette. Accendete il fornello con fuoco vivace fino a raggiungere il primo bollore e proseguite la cottura per 3-5 minuti e non di più a fuoco moderato coprendo la padella. Alla frutta così “sbollentata” potrete aggiungere un po’ di prugne secche denocciolate e una manciata di uvetta sultanina e con questo mix riempite dei barattoli Bormioli (meglio quelli non troppo grandi) che chiuderete col loro tappo a vite. Mettete poi i barattoli in un’ ampia pentola piena d’acqua sul fondo della quale avrete avuto l’accortezza di posare uno straccio per far sì che il vetro non venga a contatto diretto col calore della fiamma e non si spacchi. L’acqua arriverà al limite dei coperchi dei barattoli. Fate bollire a fuoco medio per 30 minuti e fate raffreddare i barattoli nell’acqua senza toglierli dalla pentola. A completo raffreddamento estraete i barattoli dall’acqua, asciugateli, applicate – se volete – un’etichetta riportando il tipo di frutta e la data di preparazione e riponete i barattoli in un luogo asciutto, fresco e possibilmente al buio. 42 La frutta preparata così si conserva in dispensa anche per 2-3 anni. Potrete preparare in questo modo sia barattoli con frutta di un solo tipo ma anche barattoli con frutta mista (ad es. pesche e prugne, mele e fichi, pere e mele) “arricchendoli” eventualmente con un po’ di prugne secche o uvetta. All’occorrenza aprirete i barattoli per servire la frutta aggiungendo un po’ di panna liquida o un po’ di yogourth oppure anche una cucchiaiata di gelato alla crema. Miscelando più barattoli di frutta di vario tipo e aggiungendo una manciata di pinoli avrete un’ottima macedonia di frutta cotta, da prepararsi all’ istante. Una piacevole variante potrebbe anche essere quella di sbriciolarvi sopra qualche amaretto. In ogni caso ricordatevi però di avvisare i vostri ospiti dell’eventuale presenza di noccioli nella macedonia! È importante! Valeria La ricetta proposta da Valeria scatena una marea di ricordi recenti, come quando a Jadrija una simpatica vecchietta ci faceva trovare un’enorme quantità di cozze che mangiavamo a due metri dal mare. Una volta avevamo invitato un po’ di Maglia ed essendo in otto la mattina presto sono andato nella pescheria davanti a Peck a comprare otto chili di cozze. Il commesso mi guarda e mi domanda “ma lei ha un ristorante?”, mandandomi ovviamente in un brodo di giuggiole. Le cozze sono diventate una mia passione grazie a Valeria e a Milano consiglio a tutti di andare a mangiarle a Le Vent du Nord vicino a Piazza Lodi. Cozze alla buzara Ci vogliono: cozze fresche pulite (1 kg per persona), olio di oliva, aglio (e a chi piace cipolla), pane grattugiato, vino bianco, prezzemolo. Far dorare nell’olio di oliva l’aglio (e la cipolla) tagliati sottilissimi, quindi aggiungere il pangrattato che serve a far addensare il sugo. Quando il pangrattato si è dorato aggiungere le cozze e il vino bianco e coprire la pentola. Di tanto in tanto girare le cozze per farle aprire tutte. Quando tutte le cozze saranno aperte aggiungere il prezzemolo tritato e se piace pepe. Buono servito con crostini. Andrea e Anna Mentre sto scrivendo sono reduce da una spedizione organizzata dai Galimberti a Romagnano Sesia per una full immersion nella bagna cauda. E questo può essere sufficiente a spiegare perché ho aspettato il loro contributo prima di chiudere le bozze. E poi c’è il caffè delle 8: per anni ci si salutava quando per varie ragioni passavo all’incrocio Santa Marta – San Maurilio, 43 nulla di più. Un giorno Andrea m’invita a fermarmi e da quel momento il caffè è diventata una droga, un modo per affrontare meglio la giornata scambiando due chiacchere. La gente cambia ma Andrea c’è sempre. Per me vuol dire anche Slowbikers, lenti solo nelle partenze tardive, ma poi fortissimi sia nella velocità, sia nella voracità. E, in ultimo, un’ospitalità rara, fatta di cultura e spontaneità. Ad esempio in occasione di una bella cena a Bonassola da cui è nata la richiesta ad Anna di questa ricetta che sembra fatta apposta per il convivio, cioè per il mangiare insieme. Ricetta dalla mia versione (italiana, anzi lombarda) di fideuà Occorrente (dosi per 6 persone, considerate che io di solito faccio ad occhio): 1 tavolo rotondo sufficientemente grande, tegame grande (quasi da ristorante, se siete in più di 3), pasta tipo capellini (es. capellini Barilla da 3 minuti di cottura) 400 grammi, cipolla 1 grande, 1-2 spicchi di aglio, peperone verde (1 grande o 2 peperoncini dolci), peperoncino piccante, origano rigorosamente fresco, prezzemolo, passata o polpa di pomodoro ( 2 confezioni da 750 gr), pesce. Il tipo di pesce può variare, a seconda di quello che si trova, ma io uso 3-4 tipi: molluschi, ad esempio seppie, totani, moscardini, ma anche seppioline, in quantità variabile, non meno di 600 Gr, cozze (almeno 1 kg), se ci sono anche delle vongole, scampi (o mezzancolle, 3-4 a testa), un pesce bianco, ad esempio nasello, ma anche branzino, rombo ecc 700-800 Gr, sfilettato. Il tegame grande è importante, con due manici, io di solito servo direttamente nel tegame di cottura. Soffriggere nell’olio sia uno spicchio d’aglio (che leverete), sia la cipolla tagliata a velo, senza farla bruciacchiare o friggere eccessivamente; aggiungere il peperone tagliato a filetti o piccoli pezzi. Versare le 2 confezioni di passata o polpa di pomodoro, salare e lasciare cuocere per circa 20-30’. A piacere aggiungere peperoncino piccante e un nonnulla (ma davvero poco) di origano, solo se lo avete a disposizione fresco. Aggiungete quindi i molluschi tagliati a pezzi o striscioline (o interi, se sono seppioline molto piccole) e lasciate cuocere per qualche minuto. Nel frattempo avrete fatto aprire le cozze in una pentola con un po’ di olio e uno spicchio di aglio; solitamente queste lasciano un po’ di acqua, che utilizzerete successivamente. In un’altra padella fate saltare con un pochino di olio gli scampi, in parte sgusciati. Spezzate i capellini in 3-4 pezzi e metteteli direttamente nel sugo di pomodoro, insieme con i filetti di pesce bianco tagliato a pezzi; ci vorrà un pochino più di 3’ per cuocere la pasta; durante la cottura, allungate il sugo con l’acqua lasciata dai mitili e naturalmente aggiustate di sale. Poco prima della fine della cottura della pasta, aggiungete nel tegame scampi e cozze (queste ultime in parte sgusciate e in parte no). 44 Prima di servire cospargete con abbondante prezzemolo tritato. Mettete il tegame direttamente al centro del tavolo rotondo. Secondo il Maglia è meglio il giorno dopo (riscaldata il giorno dopo, in modo che tutto si insaporisca). Le dosi sono ad occhio, l’importante è avere un tavolo rotondo. Linda Linda mi ha regalato una straordinaria Bagna cauda in una serata magica di fine dicembre con una nevicata a larghe falde che rendeva Milano una città d’altri tempi (Hemingway avrebbe detto che sembrava la Milano di Stendhal). Ora che Linda non c’è più la ricordo così, con la sua capacità di far stare insieme piacevolmente senza imbarazzi persone che non si conoscono. Più di tutti aveva colto lo spirito con cui avevo chiesto di contribuire a questo libro. Bagna cauda Ho imparato a fare la “Bagna cauda” (letteralmente: “Salsa calda”) da mio padre. Da noi in Piemonte usava così, era l’uomo di casa che cucinava la bagna cauda, non la padrona. La si faceva un paio di volte l’anno, d’inverno ovviamente, sia perché è piatto molto calorico e sostanzioso, sia perché è in inverno che si trovano le verdure giuste (un maître direbbe “le cruditées”) da intingervi dentro. La “Bagna cauda” è piatto unico, quindi niente antipasti (che taglierebbero l’appetito, oltre a sovrapporsi per ingredienti e sapori), men che meno secondi. Al più, dopo, un pezzo di formaggio dal gusto deciso, bene per chiudere un dolce (con i suoi zuccheri), magari un bel “Monte bianco” o una torta di nocciole che più langhetta non si può. Le verdure da intingere, dicevo: sono importanti almeno quanto la “bagna” in sé. Strettamente di origine sabauda, meglio se da qualche cascina che ancora coltiva biologico (o quasi); ortaggi dell’inverno: finocchi profumati, sedani (quelli piccoli rosati), cardi gobbi di Nizza Monferrato, peperoni “della rapa” (conservati nel mosto), topinambur, insalata se volete (scarola o indivia, niente radicchio che è austroungarico e amarognolo), bene la verza, niente carciofo (amarognolo pure quello). E poi, pane, ma quello “di campagna” o casereccio, fettone di micche spesse e con la mollica compatta, insomma, che aiutano a non sbrodolare il boccone e sono ottime per fare scarpetta (da noi si dice “pucciare”). La ricetta (finalmente!): aglio, a gò-gò, calcolate una testa ogni due commensali. Assolutamente non tritato, va affettato sottilissimo e fatto cuocere a fuoco bassissimo in olio extravergine di oliva nel fujòt (tegame di coccio). Anche di olio abbondate, non è un fondo di cottura ma componente di base, calcolate tre dita (o un bicchiere ogni testa d’aglio). 45 Dopo l’aglio nell’olio che sobbolle piano aggiungete le acciughe conservate sottosale, diliscate e risciacquate; se siete in sei, va bene 3 hg. La salsa deve cuocere un’oretta, rimestando ogni tanto, finché le acciughe si siano sciolte nell’olio e l’aglio sia bello ammorbidito ma mai brunito (altrimenti diventa amaro). Alla fine aggiungete la panna (molti libri dicono che non c’è nella ricetta originale, io ho imparato così), 3 etti circa anche quella per 6 commensali. Appena la salsa ha ripreso a sobbollire, e quindi è ben calda, portate in tavola. La “bagna cauda” è piatto corale, quindi ognuno si prepara le verdure pulite e a tocchetti nel piatto, poi infilzate sulla forchetta le si intinge nel fujòt a centro tavola. Da qui il ruolo strategico della fettona di pane. Riportate sul fuoco appena si intiepidisce, deve essere sempre bollente. Non spaventatevi della rusticità del piatto: io l’ho cucinata una volta ad amici e conoscenti a casa mia a Milano, sicura che le eleganti signore mai e poi mai avrebbero accettato l’aglio, e che i distinti intellettuali convenuti avrebbero rimpianto pasta o risotti: macché, le une e gli altri a fare scarpetta nella parte spessa e a chiedere ancora pane che faceva impressione. Certo, fuori nella notte si era messo a nevicare, fra le rare nevicate ambrosiane di inizio inverno. Testimoniano di rientri a casa a piedi nella bianca coltre per smaltire, e il giorno dopo nessuno a lamentarsi dell’alito pesante o di notti insonni. Pare sia rimasta una bagna cauda memorabile. PS: dimenticavo (orribili visu per una albese), il vino deve essere corposo ma non troppo vecchio (con il sapore forte della bagna cauda, inutile sprecare un Barolo): Dolcetto di Dogliani o di Diano d’Alba va bene, Nebbiolo anche meglio, a mio parere. Paola Non solo Paola è la migliore delle mie Conigliette ciclistiche, ma è anche una fantasiosa cuoca oltre che un’ospite di grande sensibilità, aiutata da Villalta, luogo ideale per partenze ciclistiche ma anche per dolci convivi. Le voglio bene anche perché mi fa parlare e sono pochi quelli che ci riescono. La ricetta che ci propone è la prima che ho assaggiato da lei alla fine di una ciclata (o forse no, ma è lo stesso). Le polpette di Villalta Caro cuoco se vuoi una buona riuscita per le tue polpette, in primo luogo devi fare una bella gita in Val d’Aosta e procurarti la trita scelta di Lucio, in piazza a Champoluc. Amalgama la trita con uovo fresco, grana gratuggiato, sale, una grattata di pepe. Aggiungi una manciata di foglioline di spinaci appena appena appassite in padella con aglio schiaccia- 46 to, olio extravergine siciliano e due cucchiai di acqua fredda. Forma delle piccole palle e passale nel pangrattato. Affetta una cipolla bionda sottile, falla stufare in una padella con poco olio, aggiungi una spruzzata di vino bianco e acqua a necessità. Grattuggia con lama media due mele verdi e dolci, aggiungile alle cipolle, fai amalgamare per qualche minuto, eventualmente irrorando con uno spruzzo di vino bianco. Ora aggiungi le polpette che dovranno cuocere lentamente, aggiungi curry in abbondanza, due bacche di ginepro, due foglie di alloro, regola di sale in modo leggero, lasciando dominare il gusto un po’ aspro della mela. Mantieni un buon livello di umidità con poco vino bianco, uno spruzzo di marsala e acqua q b. Servi con insalata di carciofi, accompagna con vino rosso. Pierangelo Se riguardo i miei percorsi ciclistici di inizio anni 2000 e i menu delle mie cene, Pierangelo è una presenza forte. Adesso meno, domani si spera di più. La sua spropositata riservatezza lo porta a non far conoscere le sue arti culinarie che invece sono notevoli. Mi ha proposto due primi veloci dai quali emerge il suo amore per l’aglio. Pasta ceci ed erbette Mondate e scottate le erbette. In una larga padella scaldate spicchi di aglio che poi toglierete e un po’ di peperoncino; passate velocemente le erbette alle quali aggiungerete i ceci (vanno bene in scatola di buona marca, meglio se avete tempo lessarli da voi.) A questo punto sarà cotta la pasta corta che avrete avviato per tempo: aggiungetela, passate sul fuoco e servite. NB. questa è la ricetta che servo agli ospiti. Se la cucino per me, taglio numerosi spicchi di aglio a fettine e li lascio in padella, senza farli dorare; al posto delle erbette uso la catalogna, dal sapore deciso; se ne ho voglia, prima dell’aglio faccio sciogliere una acciuga o due nell’olio. Pasta lenticchie e gamberetti Avviate a fuoco dolce in una larga padella del burro, un po’ di olio, alcune foglie di alloro. Quando l’alloro profuma, alzate la fiamma, buttate i gamberetti surgelati e fate restringere molto velocemente. A piacimento aggiungete mezzo bicchiere di vino bianco (ottimo il Vermentino) o un bicchierino di brandy e fate nuovamente restringere. Sarà nel frattempo 47 pronta la pasta che butterete in padella assieme alle lenticchie che avrete precedentemente tratto e scolato da una scatola di buona marca (se avete tempo preparatele da voi lessandole in acqua con carota, sedano, alloro e aglio, ricordandovi di salare solo alla fine). Una macinata di pepe completerà la preparazione, da servire subito. Marco Ci vediamo sempre più spesso. Ha una volontà ciclistica di ferro, e ci vuole per portare i suoi “100 chili sullo Stelvio”. Posso dire di averlo allevato dopo la prima uscita sul San Marco e ormai sono tantissime le salite fatte insieme. Il ricordo del bel giro da Chiavenna a Merano è forte. E chissà quante altre cose faremo insieme oltre a guardare l’Inter vincere. Gastronomicamente è un disastro ma si avvale (e la sua pancia ne è il risultato) di una cuoca eccellente che ci ha stregato con una cena pugliese con i piatti che seguono. Involtini Farsi tagliare delle fette di manzo sottili. Preparare delle fettine della grandezza di una mano (eventualmente tagliando le fette in due), preparando due involtini per commensale. Salare e pepare la carne. Al centro di ogni fetta disporre una fetta sottile di pancetta arrotolata, due o tre scaglie sottili di parmigiano (o pecorino), tre fettine sottili di aglio e un paio di foglie di prezzemolo. Arrotolare e chiudere con stuzzicadenti. Preparare un soffritto di cipolla dorata in una casseruola. Appena inizia ad imbiondire aggiungere gli involtini e rosolarli. Quando sono rosolati aggiungere un bicchiere di (buon) vino bianco. Quando il vino è evaporato aggiungere abbondanti pelati e cuocere per un’ora circa. Se il sugo è abbondante può essere in parte utilizzato per condire delle orecchiette. Se si vuole fare la pasta si calcolino 100g di pelati ogni involtino, altrimenti ne basta la metà. Pasta con il cavolfiore Tagliare il cavolfiore (bianco o verde) a pezzettini (“a fiori”, di altezza di 4-5 cm), scartando la parte bianca dura centrale. Nell’acqua bollente salata buttare i pezzettini di cavolfiore e dopo un minuto aggiungere la pasta (penne lisce, mezzi ziti, orecchiette; 50g a testa). In un pentolino scaldare dell’olio e aggiungere del pane vecchio grattugiato (non quello comprato al supermercato!), facendolo odorare. Scolare quando la pasta è ancora al dente. Aggiungere la “mollìca sfritta” e pepe bianco. 48 Spaghettini con le zucchine Tagliare tre zucchine ogni due commensali in quattro per il lungo e affettarle, fino ad avere quarti di fetta altri un paio di millimetri. Buttare le zucchine nell’acqua bollente e un minuto dopo aggiungeregli spaghettini (calcolare 60g a testa). Scolare al dente! e aggiungere ottimo olio extravergine e pecorino (o parmigiano). Mirio e Serena La prima volta che ho visto Mirio in bici è stata alla Biciclettata Azzurra di Turbolento sui Navigli; non era riuscito a starci dietro e aveva perso la strada. Adesso non lo ferma più nessuno e finalmente si è dotato di bici seria. Ma il motivo per onorare qui i Monti non è la bici, ma la loro disponibilità e gentilezza. La loro tavola, grazie soprattutto a Serena (sua ovviamente la ricetta), è accogliente e di gran livello e ospita spesso me e Ruggero. Cosciotto di maiale alle pere Prendo un bel cosciotto di maiale con la sua cotenna e lo metto in una teglia grande abbastanza perché ci possa entrare comodamente - io uso la teglia di ferro spagnola - lo cospargo abbondantemente di buon olio di oliva extravergine, sale, pepe, ginepro e lo circondo di cipolle tagliate a metà e pere (decana di solito) sempre tagliate a metà e poco mature; aggiungo qualche spicchio di aglio (2/3). Metto in forno per c.a. 3 ore, facendo dorare l’esterno col grill a fine cottura. Guido e Silvia Ho riaperto le bozze molto volentieri per accogliere Guido e Silvia attraverso la ricetta che dà vita al “Cassoeula Day”. Quest’anno siamo stati “comandati” per un giro in Brianza che ci preparasse all’evento dal Presidente forever (ciclistico e non), che prontamente ha colto l’occasione per andare al ristorante a mangiarsi anche lui la cassoeula. Sono sempre più le avventure che mi legano a Guido, in particolare quelle della domenica mattina con la Mapei, con gli spuntini finali a base di dolci preparati al mattino prestissimo dal mitico panettiere ciclista, il salame e il formaggio bergamaschi. Amicizia tardiva come tante delle mie ma spero con un lungo futuro fatto di bici, cene e tanto altro. 49 La ricetta del Cassoeula Day Ingredienti (10 persone): 2,5 kg. puntine e costine di maiale, 10 verzini (salamini da verze),pPiedino e orecchia del maiale (pulitissime!!), 2-3 verze, 4 carote, 4 gambe di sedano, 1 cipolla, concentrato di pomodoro (mezzo tubetto), sale, pepe, vino bianco. Far sbollentare le verze e tenerle da parte. Bollire (un’ora) piedino e orecchia e tenere da parte. Soffriggere con poco olio la cipolla tagliata sottile, aggiungere puntine e costine, sale, pepe e far rosolare bene e sfumare con il vino: quindi togliere dalla padella e tenere da parte. Tagliare carote e sedano (a rondelle un po’ spesse) e far rosolare nella padella da cui si è tolta la carne. Aggiungere le verze, le costine e le puntine, unire il concetrato di pomodoro sciolto in una tazza d’acqua. Far cuocere per mezz’ora quindi unire i salamini e completare la cottura per un’altra ora abbondante. Servire (molto caldo), accanto a piedino e orecchia con l’accompagnamento di una polenta fumante. Nicoletta La domanda che ci facciamo tutti è come faccia a fare tutte le cose che fa. E sorridere sempre. È arrivata quasi fuori tempo massimo con la ricetta dei suoi buonissimi grissini, ma ce la fatta. Facendoli con la pasta madre sono fuori della portata di quasi tutti, ma questo non è un libro di ricette, è un modo per sentirci vicini. Grissini con pasta madre Ingredienti: 200 gr pasta madre, 250 gr. farina Spadoni, 12 gr sale pesteda (rosmarino, ginepro, pepe, salvia), 32gr olio, acqua quanto basta per ottenere un impasto morbido ma non appiccicoso, rosmarino fresco tritato. Si impasta e si lavora per 15m, poi si stende con matarello in forma rettangolare, dell’altezza poco inferiore al diaametro del grissino cotto. Si taglia una striscia per volta e la si torce per dargli la forma di una vite filettata. Si dispone nella teglia e si lascia a lievitare almeno 3 ore, coperta con un canovaccio. Si cuoce in forno caldo a 200°C per 15›. Maria e Paolo Loro sono il futuro di San Maurilio, perché sono giovani e Pietro ed Emma fanno quello che faceva Ruggero ormai più di 15 anni fa: riempire di gioia la casa. Se lo meritano, anche per accettare sempre di mangiare con noi e per avermi permesso di continuare l’avventura di San Maurilio. 50 Spaghetti alla chitarra con gamberoni e zucchini Ingredienti per 4 persone: 2 spicchi d’aglio, 1 bicchiere di vino bianco, olio di oliva, prezzemolo, 4 zucchini, 12 gamberoni (indicativamente 3 a testa o di più secondo il gusto), 500 g di spaghetti alla chitarra (sono indicati a spaghetti e linguine). Preparare un trito di aglio, far cuocere gli zucchini tagliati a rondelle o alla julienne per alcuni minuti sino a raggiungere una media cottura; aggiungere le code dei gamberoni sgusciati e spremere le teste raccogliendone il liquido nel sugo. Completare dunque la cottura sfumando con il vino bianco. Portare ad ebollizione l’acqua per la cottura degli spaghetti. Una volta scolati, far saltare gli spaghetti con il sugo e servire. Un’abbondante spolverata di prezzemolo tritato prima di servire e peperoncino in una fase di cottura del sugo. Giuliana Giuliana si merita un posto se non altro perché la sua zucca è sempre la prima che finisce quando c’è una cena dove tutti portano qualcosa. E poi perché la sua cucina ebraico – libanese è così strana ma così buona… Mi ha fatto scoprire il kummel che è il cumino europeo diverso da quello che tutti conoscono. Salse di zucca della tradizione ebraico – libica Le due “pietanze” con la zucca che hai mangiato da me sono diverse nella preparazione anche se hanno ingredienti in comune. Entrambe sono essenzialmente salse che si servono fredde di accompagnamento a uova sode, carni e /o riso e sono di consistenza media mai sotto forma liquida... La prima, che ti era piaciuta tanto con il kummel, si fa così: tagli la zucca a fette larghe e spesse non più di un dito e le passi in padella con olio in modo da soffriggerle fino a che il tutto si spappola, aggiungi aglio schiacciato, paprika piccante, kummel e aceto (qualunque, ovvio che balsamico è più buono) fai andare tutto insieme e dosa a piacere gli ingredienti, tieni conto che più fai andare con il fuoco più la consistenza si inspessisce e viene più saporito. La seconda salsa invece si fa cuocendo patate e zucca prima, o bollendo o a vapore oppure la zucca al forno con la buccia e le patate bollite da sole. Poi prendi la polpa della zucca e la schiacci bene bene con la forchetta, aggiungi aglio schiacciato (se non la vuoi forte puoi far cuocere l’aglio e spappolarlo dopo ma è più buono con aglio crudo) paprika in polvere, cumino polvere (o anche kummel) limone spremuto. Mescola tutto questo bene bene, tutto ciò è a freddo non sul fuoco! Avrai una bella crema a cui aggiungere le patate a quadretti e alla fine una generosa gettata di olio d’oliva. Ed è pronta così. 51 Donato Purtroppo non ho avuto un “maestro di vita”, ma se dovessi indicarne uno penserei a Donato. La differenza di età certamente conta, ma è proprio la sua capacità di non invecchiare che lo fa diventare maestro di vita. E poi due delle cose che mi stanno accompagnando, il flauto e la bici, sono legate molto a lui. Suoniamo insieme da più di 20 anni ormai ed è stato Donato a trascinarmi in Corsica nel 97, dove ho ritrovato Alessandro e dove mi sono innamorato perso dei giri in bici. Prima era un’attività solitaria, con lui è diventata un’attività sociale, una specie di convivio. Infatti, come mi disse il medico della Mapei Sport “Io so perché lei ha paura di sentirsi dire che non può più andare in bicicletta, perché dovrebbe smettere di bere e mangiare”. Raramente mi sono sentito dire una cosa più vera. Nella prima uscita che abbiamo fatto insieme, arrivati a Casasco si mangiò un peperone crudo. Non posso, di conseguenza, ricordarlo molto per gli aspetti legati al cibo, ma non ce n’è bisogno, anche se sa fare un’ottima granita. Insalata di avocado per quattro palati raffinati Ho gustato questo piatto in casa di amici e mi ha conquistato, non so se ha un nome. Fa parte di quelle ricette che amo perché permettono di sperimentare molte varianti o di adattarsi agli ingredienti che hai in casa e non deludono mai. Si preparano in pochi minuti, non si sporcano pentole; serve solo un ampio tagliere, un avocado maturo ma non troppo, 2 uova ben sode, qualche acciuga, olive nere, una manciatina di capperi, un limone, cipolla cruda, se piace, tagliata finissima. Sminuzzare tutto con il coltello sul tagliere, senza esagerare, condire con olio extravergine, sale e abbondante limone. Tutto qui, il successo è assicurato. Umuna Dico sempre che Umuna è una fortuna e mi ha preparato piatti buonissimi in occasioni importanti come in giorni normali. Il suo zighinì e le sue verdure sono ormai un piatto fisso almeno un paio di volte l’anno. Ricordo la prima, d’estate, così piccante e con tanto caldo che abbiamo fatto fuori una decina di bottiglie di Tocai come niente fosse. Zighinì Si fa con l’agnello, il pollo e il manzo, tenuti separati. Cipolla, olio, sale, pepe, spezia piccante eritrea, uova sode, pelati. Si serve sulla focaccia eritrea. Si mangia con un buonissimo piatto di verdure. Cuocere con olio cipolle, carote, sedano e poi si mettono i pelati. Aggiungere patate e cavolfiori (però io non li digerisco e li evito anche se danno quel dolce che caratterizza il piatto), fagiolini bolliti un po’ prima, erbette, sale, aglio e cuocere co- 52 perto senza acqua. E chi pensava che andassi nei dettagli, si sbagliava. Deve venire da me a mangiare lo zighinì di Umuna. Le ricette dei Mascetti grazie all’Umberto Nella prima parte ho scritto quanto poco c’è nei miei ricordi di pranzi e cene dai Mascetti e di specifici piatti. D’altro canto i Mascetti vivono di tanti altri miti (“Non fo’ per dire, sette figli, sette gioielli e tutti dopo sposati, lo Stradivarius, il viaggio a Roma nel 1908, la galleria del Sempione, la bandiera dell’Italia come mutanda dell’infermiera dello zio Riccardo; si potrebbe andare avanti ma lascio ad altri il compito di tramandare le storie Mascetti prima che sia troppo tardi). Ho trovato alla fine la persona giusta per lasciare una traccia anche di ricette Mascetti: l’Umberto – chi se non lui? – si è dato da fare, lo ringrazio per questo, me ne ha proposte alcune. Noce di vitello alla duchessa A freddo KG. 1,200 di noce di vitello, un cucchiaio di olio, gr. 40 di burro, due fette di prosciutto crudomisto tagliato a listelle. Far rosolare, salare spruzzando di tanto in tanto con 3/4 bicchiere di marsala. Preparazione della besciamella a parte: un pezzetto di burro, unire un cucchiaio colmo di farina, far rosolare fino a color biondo, ritirare la pentola dal fuoco e bagnare con 1/4 di latte caldo, un pizzico di pepe, mescolare bene e poi sul fuoco, quando bolle versarla sulla carne coprendola bene e cuocere per due ore facendo attenzione che non attacchi, in caso aggiungere un po’ d’acqua. Tagliare la carne. Unire al sugo 50 gr. di panna fresca amalgamandola con sveltezza e versarla sulla carne affettata. La ricetta completa dice di preparare una purea con un Kg. di patate sbucciate, scolate e ben asciutte. Unire un pezzetto di burro, un rosso d’uovo (se si vuole un po’ di noce moscata). Fare sul piatto di portata un montagnetta di purea a forma di parallelepipedo e adagiarvi sopra e ai lati le fette di carne e versare sopra il sugo. Stufato Mascetti In una pentola non troppo larga mettere 1,2 kg (o anche di più) di scamone o codone di manzo. Rosolare con burro e olio molto lentamente, salare e pepare. Spruzzare con due cucchiai di farina bianca, rosolare e bagnare con un bicchiere e mezzo di buon barbera. Far rapprendere e poi aggiungere acqua fino a coprire la carne ma non completamente. Mettere due chiodi di garofano, uno spicchio d’aglio, una cipolla media, una battuta di pancetta (50 gr.). Cuocere per tre ore. Se il sugo è troppo liquido, verso la fine aggiungere un cucchiaio di farina gialla. Si mangia con purea o polenta. 53 Carciofi ripieni Si fanno cuocere in carciofi nell’olio dopo averli prima svuotati all’ interno. A metà cottura bagnarli con vino bianco. A parte cuocere i piselli, aggiungere dadini di prosciutto cotto e riempire i carciofi. Minestra di riso e coratella Prendete un pezzo di coratella (polmone) di vitello (calcolare 25 gr. per persona). Lavarla bene in acqua fresca indi farla bollire nell’acqua o nel brodo per circa un quarto d’ora. Toglietela e a freddo tagliatela a piccoli dadolini; mettete sul fuoco un tegame con un pezzetto di burro, fatelo imbiondire, unire subito la coratella, farla rosolare un poco nel condimento; indi versatela nella pentola precedentemente preparata con acqua o brodo. Lasciatela bollire circa un quarto d’ora, salare il giusto e, se avete messo solo acqua, aggiungete dell’estratto di carne o dadi. Unite allora il riso calcolando un grosso pugno per persona; mischiate tosto, e fate bollire a fuoco allegro. A metà cottura una spolverata di prezzemolo fresco ben pulito e triturato. La cottura varia dai 14 ai 18 minuti, a seconda della qualità del riso. Qualche minuto prima di levarla dal fuoco unite un pezzo di burro crudo e una manciata di buon formaggio. (Nota dell’Umberto: ricetta semplice; è una minestra che io ricordo di aver mangiato dalla nonna negli anni quaranta). Arrosto È preferibile il recipiente di rame. Si mette sul fondo un poco di olio d’oliva, qualche fetta di lardo e burro, in giusta dose rispetto alla quantità di carne. Mettere la carne sul fuoco piuttosto ardente e fare arrostire voltando sovente (senza punzecchiare con forchette) in modo che abbia a formare una leggera crosta onde raffermare internamente il sugo della carne. Salare giusto, unire un mazzetto di salvia e rosmarino, e, acciocchè non abbia da bruciare troppo sul fondo del recipiente, bagnare di tanto in tanto con poca acqua fresca (mai con brodo, per evitare l’odore del sego). Durante la cottura è ottima una spruzzatina di sugo di limone o aceto bianco. Al momento giusto togliere la carne, scolare il grasso in un recipiente comune di terra, e conservarlo perché ottimo condimento specie per patate e verdure. Bagnate il sugo con qualche mescoletto di acqua o brodo lungo, lasciate bollire finchè il tutto si sia distaccato dal recipiente e passarlo allo staccio. Tenere il sugo al caldo sino a quando viene servito l’arrosto. 54 Le mie ricette Saper gestire convivi non significa essere un grande cuoco. Nonostante gli apprezzamenti di molti, io di certo non lo sono e conosco amici che sono molto più bravi di me e hanno esperienza e quotidianità che non avrò mai. Visto, però, che spesso dopo l’assaggio mi viene richiesta la ricetta, mi sembra giusto rischiare e dedicarci un capitolo anche se quasi sempre non sono mie ma di altri, a volte modificate. Ho imparato per lavoro che vale la regola del “make or buy”, tutto è un problema di allocazione di risorse scarse a fini alternativi: non sempre, anche se in Italia in cucina siamo molto sul tutto in casa, si deve cucinare ma bisogna anche saper comprare. E questa sì che è una mia specialità o forse mania. Basti citare quanto mi è successo da Tamburini, il posto a Bologna dove, in attesa del treno nella Ravenna Trieste ciclistica, portai tutti a mangiare culatello e tortellini alle 11,30, in alternativa alla squallida proposta di Pier e Mirio (loro sono andati al ristorante cinese a Zibello...) di stare in stazione, e dove, beccato da un giornalista, mentre usciva con una mortadella sotto braccio, a Prodi fu accoppiato il famoso soprannome. Ci vado quando posso prima o dopo i meeting di Prometeia e ci ho fatto dei grandi acquisti, grandi anche in termini di costo: una volta prima di Natale il cassiere dopo avermi fatto il conto mi disse, ovviamente in bolognese stretto: “Ma si è giocata la tredicesima!”. Una riflessione profonda e centrale per me. Da uno sguardo rapido ai miei menu e ricette emergono poche cose della tradizione familiare. Molte invenzioni e contaminazioni. Perché? Mi sono anche domandato da dove venissero le ricette di mia madre, certamente dai ricettari che ripropongo che erano molto utilizzati. Ma non solo da lì. In verità il cibo è cultura per cui vale la tradizione, i ricordi, la continuità, ma proprio perché cultura valgono forse ancor di più i contesti, le amicizie, gli stimoli, i ricordi recenti, la voglia di sperimentare e di stupire, i consigli dei verdurai di via Osoppo, e via dicendo. Quello che, però, rimane è la cultura familiare, l’attenzione al cibo e soprattutto al convivio, allo stare insieme. Questo te lo porti dietro e speri di tramandarlo. 55 Antipasti di verdure Insalata di sedano di Verona e grana Semplice e gustosa, ma poco conosciuta per cui sorprende. Tagliate a fette sottilissime (io uso l’affettatrice) il sedano di Verona (sedano rapa) e il grana/parmigiano e poi sminuzzate; olio e aceto balsamico e basta. Il sedano di Verona ha una bella caratteristica: dura tantissimo. Insalata di sedano, frutta secca e melograno Prendete il sedano verde e tagliatelo a pezzetti piccoli, uniteci tanti pinoli, uvette e pistacchi, condite con olio, sale e prezzemolo. Una volta ci ho messo anche i chicci di melograno. Molto apprezzato soprattutto d’estate e facilissimo da fare. Zucchine in agrodolce Imparata dal Chino e richiestami a gran voce da tanti. Buonissima d’estate. Tagliate a fette non sottili le zucchine, meglio se quelle “trombette” liguri costose ma buonissime e che pochi sanno essere le uniche zucchine precolombiane. Uniteci alcune rondelle sottili di cipolla, foglie di alloro, mezzo bicchiere di olio, mezzo di aceto, un cucchiaio grosso di sale e uno di zucchero mescolati insieme ai liquidi. Ci si potrebbero aggiungere anche le uvette, ma dopo la cottura. Fate cuocere a fuoco altissimo senza aggiungere acqua per non più di quattro minuti in pentola coperta e poi fate riposare per almeno un giorno. Si mangiano fredde. Lampascioni in insalata Non mi sono mai piaciuti fino a quando la vigilia del mio compleanno del 2004 (quello festeggiato a Casasco con Giacomo) ero in un ristorante di Bari e li avevo assaggiati come antipasto. Fantastici per cui chiedo lumi al proprietario che si propone per comprarmeli e pulirmi (proprio come può succedere a Milano…). Da questa bella esperienza i lampascioni sono entrati nei miei menu; non piacciono a tutti perché amari, sono difficili da trovare e oggettivamente costosi. Andate al mercato e sceglieteli grossi altrimenti dopo la difficile e faticosa pulitura non vi resterà niente. Bolliteli in acqua salata per mezz’ora, scolateli, conditeli con tanto prezzemolo e olio, serviteli freddi e fregatevene di chi arriccia il naso. Un simpatico barese (Bozzo) mi ha proposto un po’ di ricette ma non le ho ancora provate; non c’è tempo per tutto. 56 Antipasti di pesce Cocktail di polpa di granchio e mandarini Fatta la prima volta tanto tempo fa. Basta unire la polpa di granchio agli spicchi di mandarino (in origine pompelmi) opportunamente pelati (questo è il difficile) e spezzettati; condire con olio, sale e pepe. Salmone alla svedese “maison” Suggeritami da Vissani è diventata un cavallo di battaglia tanto da essermi copiata anche dalla Ina. Farsi aprire “a libro” la parte centrale di un salmone non piccolo (vanno anche bene i tranci, ma non le scaloppe, del supermercato) e, meglio, farsi togliere la pelle. Mettere sotto tanto sale e tanto zucchero per almeno due giorni: il salmone deve essere interamente coperto. Lavare molto, asciugare e tagliare fette sottili che poi cospargete con tanto aneto secco. Fiorentina di tonno su un letto di cicorino con salsa alla menta e basilico Forse la ricetta di mia invenzione più famosa. Sia ben chiaro che non ha niente a che vedere con il tonno scottato dei ristoranti giapponesi e che l’ho fatta per la prima volta almeno 25 anni fa. E mi ricordo per chi: Ina e Pino. Ho incominciato a usare il termine fiorentina quanto l’ho proposta al Nostro facendogliela passare come di carne (lui odia il grasso) e c’ero riuscito. Adesso, anche in funzione del pezzo che uso la chiamo anche filetto o insalata di tonno. Per questo la metto tra gli antipasti anche se è un grande secondo. Prendete un trancio o un pezzo di filetto molto alto (deve essere alto, chiedete se se ne può avere una metà del trancio) e cuocetelo in una bistecchiera a fuoco forte dopo averla cosparsa di sale grosso e senza olio. Come una fiorentina deve essere ben cotta fuori e cruda dentro, per questo deve essere di almeno tre dita. E non deve essere solo scottata. Fatela raffreddare e poi tagliatela a fette sottili e ponetela su letto di cicorino (ci stanno bene anche i pomodorini) condendola con una salsa di basilico, menta e olio. Antipasti di terra Quelli d’oca di Mortara Vorrei togliermi dalla sudditanza di Gioacchino Palestro, e a volte ci riesco, ma sono tanti i ricordi di cene e acquisti da ormai trent’anni per cui mi sembra quasi un dovere. Ruggero 57 ci è andato recentemente accompagnando in Chino e quando Gioacchino ha saputo che era mio figlio mi ha chiamato Don Vittorio e gli ha fatto lo sconto (marketing per accalappiarsi la prossima generazione o sincero apprezzamento?). Abbandonato per un problema di costo il fegato grasso, ci compro, oltre al patè di fegato d’oca, soprattutto la mortadella di fegato e il marbré. Ho acquistato anche i durelli d’oca in carpione e la galantina. Buono il sanguinaccio da bollire. Il tutto in un paio di veramente mitiche occasioni (sempre legate al GEI, una di queste con Sapelli) costituiva l’antipasto di una cena tutta dedicata all’oca, con poi il salame e l’oca alle verdure. Da tempo evito il petto d’oca affumicato che trovo grandioso a Biella da Mosca (dove lo chiamano speck d’oca) e altre cose per neofiti. Una volta mi sono fatto fare i quartini d’oca, versione italiana del confit d’oie. Savoiarda di salame di testa all’aceto balsamico La prima volta me l’ha fatta Brarda di Cavour, mitica macelleria dove ci sono andato per la prima volta nel 91 tornando indietro grazie a Federchimica con uno straordinario mezzo filetto di sanato che si scioglieva in bocca. Assolutamente da comprare il suo manzo piemontese fatto a bresaola da condire con poco olio. Ancora oggi ogni volta che passo vicino o sono nella mitica Piossasco cerco di andarci per il salame di testa e per altre piacevolezze. Il suo salame di testa è preparato con l’aceto balsamico e trova il suo trionfo in savoiarda, cioè tagliato a fette sottili e condito con finocchio anche esso a fette sottili, olio e aceto balsamico. Trovo sempre persone schizzinose che si ricredono, grazie soprattutto alla dolcezza che prende in savoiarda. Si può fare con meno poesia con qualsiasi salame di testa (soppressata a Firenze), ad esempio con quello invernale o di cinghiale di Tamburini. È difficile da tagliare anche con l’affettatrice per cui cercate di farvene dare un quarto di fetta così il pezzo è più spesso. Le torte salate Come in altre cose che non ho fatto da giovane, sono arrivato tardi alle torte salate e solo perché compravo agli Orti di Via Osoppo strane verdure dal banchetto pugliese e dovevo poi trovare il modo di farle, oltre che in padella (con aglio e acciughe). Le verdure per me sono normalmente strane (papaverina, borragine, pianta di senape, scarolata, cioè la fantastica catalogna dolce, scarola spigata, sivone) e uso la pasta brisé. Non scendo nei dettagli della preparazione perché lo scopo è stupire con le verdure. Ne ho fatta una buonissima ai porri e carote con ricotta fresca e un po’ di panna, con profumo di 58 curry. Ho avuto successo anche imitando Nicoletta con uno sformato di patate e cornetti cosparso di basilico. La borragine è la base anche di una frittata dove viene messa in grande quantità e a freddo. Torta salata di zucca alla mostarda L’unica di cui propongo la ricetta è questa bella scoperta, ormai rifatta tante volte e di cui mi è stata richiesta la ricetta a gran voce. Recatevi il sabato mattina possibilmente con me al mercato di Via Osoppo e comprate una zucca mantovana di un paio di kg. Scaldate in forno a meno di 100 gradi per poco meno di un’ora la zucca per pelarla meglio. Poi tagliatela a pezzetti e passatela in padella con po’ di olio fino a sfaldarla. Nel frattempo avrete preparato un impasto con 250 gr. di mandorle tritate, 200 gr. di mostarda a pezzettini, scorza grattuggiata e succo di un limone, noce moscata, 3 cucchiai di pane grattuggiato e 4 di grana, 3 uova sbattute. Unite la zucca all’impasto e amalgamate per bene. Aggiungete un po’ di sale. Scegliete se mettere l’impasto in una pasta brisè o se infornarlo tel quel. Prima di farlo, scaldate un po’ di burro con 2 spicchi d›aglio che verserete sopra l›impasto eliminando gli spicchi. Infornate a 200 gradi per 45 minuti. La cotizza della mia mamma Posiziono qui questa ricetta perché io la propongo nelle cene con gli antipasti (in quelle familiari torno al ruolo storico di secondo piatto). È una frittata forse con un cucchiaio di farina e un bel po’ di mele (Renette) tagliate a fette non troppo sottili. Sciogliete la cannella nell’uovo e montate l’albume, unite scorza di limone grattuggiata. Cuocete a fuoco lento e quando girate cospargete con un bel po’ di zucchero. Si mangia tiepida. I primi Zuppa di ceci con testina Per la festa dei miei 50 anni ho preparato una speciale grande zuppa di ceci con un ingrediente particolare di cui parlo nell’introduzione del capitolo sui menu. Ultimamente l’ho fatta un paio di volte per la cronoscalata autunnale (le due pentole ovali enormi di Casasco erano piene), infatti a Milano si mangia ai morti con la tempia. Io preferisco la testina, in particolare quella di sanato comprata da Mosca a Biella che si scioglie come il miele. 59 Un etto di ceci secchi a persona, con carote, sedano e cipolla messi a freddo, alloro e chiodi di garofano. Uniteci il brodo di biancostato e la carne tagliata sottilissima. Idem per la testina. Cuocete tanto ma evitando che i ceci si sciolgano: a me piace sentirli schioccare sotto i denti, ma in ogni caso ben cotti. Olio e prezzemolo. Crema di sedano di Verona e porri con patate e parmigiano Le creme, vellutate o simili mi piacciono perché si possono inventare a seconda delle disponibilità. Se si sta attenti vengono sempre e ci si può divertire con i sapori che si amano di più. Questa unisce due mie passioni come i porri e il sedano di Verona che si contrastano, uno dolce, l’altro un po’ amaro, ma tutti e due forti. Un po’ di patate per amalgamare, un profumo di chiodi di garofano, un po’ di latte e parmigiano in abbondanza. Crema di zucca al kummel ai profumi di gorgonzola e aceto balsamico Forse la sto proponendo troppe volte, ma è così buona e leggermente stana, facile e fa parte del decennio dedicato da me alla zucca. Il punto di partenza è stata un’ottima crema della Francesca con la sorpresa del caprino servito fresco in tavola. Il caprino dopo un paio di anni l’ho sostituito con il gorgonzola sciolto in buona quantità appena prima di servire per il suo contrasto con il kummel che ho aggiunto alla ricetta originaria. Per il resto seguire la prassi tradizionale delle creme (meglio i porri ma vanno bene anche le cipolle) e aggiungere tanto prezzemolo e non dimenticarsi dell’aceto balsamico. Ci vuole balsamico (anzi quello tradizionale) per i contrasti che sono alla base di questa versione, in omaggio alla cultura del convivio medioevale ucciso dall’Artusi con la standardizzazione e unificazione culinaria dell’Italia sotto la bandiera dell’aglio e cipolla, eliminando accuratamente il contrasto dolce-salato e facendolo diventare un’anomalia da tedeschi mentre era una base della tradizione italiana. Pasticcio ferrarese dolce di maccheroni E questa è uno dei pochi casi rimasti nel triangolo Parma – Mantova – Ferrara. Anche qui l’amore nasce da un bell’episodio: a Ferrara con Franco per un convegno del British Council che ricorderò soprattutto per gli aspetti culinari, dal catering ci viene proposto questo piatto che mi sorprende per la pasta dolce che contiene i maccheroni al ragù e besciamella con profumi di cannella. La bella signora cui dichiaro il mio amore (per il pasticcio) mi promette un regalo per il giorno dopo quando si presenta con un pacco con dentro un pasticcio per 8. L’amore diventa eterno e ogni volta che vado a Ferrara lo pre- 60 noto alla pasticceria dell’Hotel Europa (attenzione chiedete la versione dolce). Poi a casa si mette al forno per 20 minuti. Ci potete costruire una fantastica proposta ferrarese con la salama da sugo (quella vera da cuocere per 6 ore sospesa) su un letto di purè. Meglio se di purè ne fate più d’uno mischiando in uno le carote lesse e nell’altro i piselli per farne una versione marmorizzata che sorprende occhio e palato (la mia mamma diceva sempre che anche l’occhio vuole la sua parte). Risotto alla milanese C’è chi dice che il mio sia molto buono e particolare per cui mi permetto di parlarne qui. Uso solo il superfino carnaroli Marca Principe da quando 30 anni fa ogni sei mesi in Ucimu mi telefonava un produttore di macchine per coniare per chiedermi di quanto doveva aumentare i prezzi secondo la mia Formula Revisione Prezzi (richiestami anche da due giovani ricercatori che vennero insieme a trovarmi in ufficio, Mario Draghi e Francesco Giavazzi). Puntualmente mi arrivavano sei chili di riso. La cipolla deve soffriggere separata dal riso e quasi al lume di candela, ovviamente con solo burro. Il riso deve essere tostato tantissimo con un bel po’ di vino. Di zafferano bisogna metterne molto di più di quello che dicono le ricette. Tutta o quasi la bontà sta nel brodo: tenete sempre surgelato un pezzo di biancostato così sarete pronti senza doverlo andare a comprare. E ricordatevi che, come dice Bressanini, è indifferente mettere la carne in acqua fredda o bollente, le nonne sapevano poco di chimica. Lo preparo in una grande pentola bassa perché, come ho già scritto, mia mamma diceva che non si può far bene per più di sei persone perché non tutto il riso cuoce nello stesso modo. Usando una pentola piatta e larga si facilita la cottura uniforme. I secondi Carré di maiale affumicato con salsa di mele e menta Si deve cuocerlo il giusto, cioè 45 minuti, altrimenti diventa secco come nei rifugi altoatesini. Non ricordo da dove è venuta l’idea di accompagnarlo sempre con la salsa di mela e menta. Di certo dopo aver scoperto l’accoppiamento dolce salato che non è per nulla della mia famiglia (se non per la cotizza), forse dopo averlo assaggiato nell’Indiana con una salsa di cranberry o lamponi. Forse grazie all’economista gallese della Montedison che mi ha anche insegnato a cuocere l’agnello al forno spalmandolo di miele. Le mele si cuociono con pochissima acqua e poi si aggiunge lo zucchero, la menta e il 61 burro, q.b. Si serve tiepida e in abbondanza. La stessa salsa può accompagnare la lingua affumicata o ogni altro pezzo simile. La lingua affumicata è straordinaria ma difficile da trovare se non andando in Svizzera. Lingua brasata con le sue verdure Dolcissima, saporita, poco accettata, degno piatto centrale del menu dedicato al Quinto quarto. Usate la lingua salmistrata perché si scioglie in bocca. La nonna di Gadi, che ringraziai con un prezioso ombrellino di seta, me ne fece avere una fatta da lei dopo la mia prima visita a Ferrara ancora nella casa vecchia medioevale con il camino enorme dove mangiai una ventina di cotelette impanate fritte nell’olio. Bollitela per 20 minuti, preparando nel contempo in un grande tegame le cipolle (o meglio i porri) con le carote in un po’ di olio. Uniteci la lingua e due bicchieri di vino bianco; dopo una mezz’oretta aggiungete i pelati. Dopo un’altra ora e mezza togliete la lingua e passate le verdure che rimetterete sopra la lingua tagliata a fette. La ricetta prevede solo sale e pepe ma secondo me ci stanno bene pochi chiodi di garofano o il timo. Stracotto del Giuanin Macelar di Casasco Fondamentale e già ricordato piatto invernale, anche se mia madre ne fece per l’ultima volta per me circa 4 chili come mio contributo ad una mitica festa a casa di Gianni (quello della Cattolica) nel 75 con Gianni Costantino e tutti gli altri, dove la regola è che poteva venire chiunque a condizione che avesse due legami con noi. Non so quali fossero quelli che portarono lì la banda del Casoretto. La carne da stracotto deve macerare a pezzi nel vino rosso per almeno due giorni così sembra quasi un salmì di cacciagione, insieme alle verdure e ad aromi forti (ginepro, chiodi di garofano, timo, alloro). Poi deve cuocere per quattro ore coperta e a fuoco bassissimo. Nel caso fate asciugare il sugo e servite con vino d’altri tempi, Perché è a questo che serve, ad andare indietro fregandosene se il sapore è un po’ troppo forte. Il boeuf en doube della cucina francese ricordato anche da Virginia Wolf segue lo stesso percorso e giustamente si dice che ci vogliono tre giorni, due per la macerazione, uno per la cottura e si deve mangiarlo il giorno dopo. Arrosto di sottospalla di manzo piemontese La ricetta in questo caso non è importante perché tutto si basa sulla materia prima: il sottospalla di manzo piemontese di Mosca a Biella, forse il più bel negozio che io conosca, sette vetrine e tantissime proposte tra carne, salumi (ottimo lo speck d’oca friulano) e formaggi. 62 Il sottospalla è un taglio che a Milano non c’è, equivalente forse alla reale ma che si presenta come un enorme bisteccone. Prendetelo da almeno un chilo e mezzo e possibilmente grasso, ad esempio quello d’inizio che sembra quasi una fiorentina. L’ho sostituito con successo con un pezzo di bue grasso di Carrù. E una volta con il guancialetto tenerissimo. La mia cottura avviene nella pentola di ghisa con un bicchiere di vino bianco e un po’ di pomodoro, timo e rosmarino per due ore e mezzo. Manzo alla creola Un altro modo per utilizzare il sottospalla (o altra carne da lunga cottura) è il manzo alla creola dove la sorpresa sta nello zafferano aggiunto all’inizio dopo la tostatura insieme a un bicchiere di vino e ai pelati, oltre a qualche aroma. Cottura lenta e far asciugare il sugo. Un consiglio dall’Elvira molto utile: quando il sugo è troppo liquido aggiungete quanto basta di preparato per purè. Aspic di pollo in guazzetto In onore della complessa ricetta per l’aspic presente nel primo volume delle ricette di casa Maglia e di ricordi di come lo faceva mia madre, ho provato a farlo di testa mia cuocendo il pollo in un arrosto molto bagnato con le solite verdure. Spolpato ho usato il suo brodo per la gelatina con l’aggiunta di pistacchi. L’ho rifatto con la gallina e con il cappone. Assaggio di durelli d’oca in salmì Non entro nel dettaglio di che cosa siano i durelli, chi li vuole fare si informi. Me ne ha regalato una volta un bel chilo Giacchino Palestro freschi mentre io ero abituato a quelli in carpione. Messi giù la sera prima con un po’ di soia, gli aromi e le verdure, si cuociono per un paio d’ore come uno stufato. Ci sono anche di pollo ma quelli d’oca sono più grandi e morbidi. Ci vogliono amici coraggiosi ma il successo è garantito. Formaggi Ho una discreta passione per i formaggi e da giovane organizzavo cene di soli formaggi. Per il vino una volta ero andato da Provera (il mondo si divide in chi l’ha conosciuto e in chi è venuto dopo) in Corso Magenta dove dal 35 aveva in vetrina la stessa bottiglia di grappa con dentro una pera. Mi guarda sconsolato e mi dice che purtroppo non ci sono vini per i formaggi. Il perché ora lo so: chi non vuol far capire che il suo vino è scadente lo fa assaggiare con il formaggio. Ma conscio del mio sconcerto mi propone un Rebo, 63 l’Incrocio Manzoni in quel momento appena inventato all’Istituto trentino. Per quelli che sono venuti dopo hanno inventato l’accostamento con i vini dolci, ma aveva ragione lui. Struggente l’ultimo giorno di apertura con una fila continua di gente e io che stupidamente con la mia timidezza non gli ho chiesto una bottiglia di ricordo. Ho una passione per il castelmagno e con il mio Presidente esperto di formaggi al Cheese di Brà ne ho presi tre tipi uno più saporito dell’altro. Ho una teoria: visto che il formaggio fa male bisogna mangiare quello forte che sazia in fretta, ad esempio il pecorino. Per accompagnare i formaggi propongo questa salsa che mi è stata spiegata in verità per accompagnare il fois gras all’Antica Trattoria del Ponte a Cassinetta l’ultima volta che ci sono andato con Rita (adesso sono troppo povero e ho anche paura di distruggere ricordi veramente bellissimi). Salsa di cipolle, scorza d’arancia e miele Cipolle di Tropea soffritte a fuoco dolcissimo con tanto burro e scorza d’arancia. Aggiungete miele e alla fine aceto balsamico tradizionale di Modena. Una volta mi è venuta bene con la marmellata al posto della frutta e del miele. Servita fredda. Fa scappare di vergogna le marmellate di cipolla che si trovano dovunque. Il dolce Ho già scritto che normalmente arrivo sazio al dolce e di solito lo lascio alla discrezione degli amici. Per cui non ho né esperienza, né ricette se non una che propongo perché ha sapori e profumi un po’ medioevali. E una di mia madre che Rita sa fare benissimo che ha scritto per me e che ricorda tante occasioni di felicità. Bianco mangiare alla siciliana Amalgamare 10 grammi di cannella a 70 grammi di maizena e versare in una casseruola insieme ad un litro di latte, 200 grammi di zucchero, la scorza di un limone. Far addensare a fuoco lento, levare la scorza e far raffreddare. Tenere in frigo e al momento di servire cospargete il budino con altri 10 grammi di cannella e 50 grammi di pinoli. Torta di frutta Ingredienti: 3 uova, 5 cucchiai di zucchero, 5 di farina, 3 chiucchiai di latte, 50 g di burro, scorza di limone, lievito e 4 frutti diversi. Preparare l’impasto con tutti gli ingredienti e unire la frutta tagliata a pezzetti. In forno a 180 gradi per 40 minuti, 64 Consigli per la lettura Per uno come me che darebbe consigli a chi non conosce e che incontra per caso per strada, dare consigli sul cibo è una missione. In una notte quasi insonne avevo concepito una sorte di “Trattato sui consigli”. L’idea centrale era ed è che i consigli valgono non per chi li riceve, ma soprattutto per chi li dà. Per cui accettatemi così. Le mie letture impegnate si sono prima concentrate sulla storia economica, poi sulla storia medioevale, poi su storia e cultura dell’alimentazione. Ne è venuta fuori una discreta biblioteca che offro a chi vuole farsi sane letture. Presento un po’ di titoli con pochi miei commenti in corsivo. Massimo Montanari È il migliore e il più intrigante, chi vuole farsi una cultura nell’alimentazione deve leggere qualcosa di suo. Alcuni suoi libri sono semplici, altri molto impegnativi, tutti bellissimi. Il cibo come cultura (Laterza, 2006) Facile e fondamentale La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa (Laterza, 1993) Il mondo in cucina (Laterza, 2002) Il formaggio con le pere. Storia di un proverbio (Laterza, 2008) Un libro su un proverbio, un proverbio non banale che porta prima a fare la storia dei proverbi, poi a quella del formaggio, poi a quella delle pere e, finalmente, alla spiegazione di un proverbio classista. Convivio, Nuovo convivio, Convivio oggi (Laterza, 1989, 1991) Bellissima trilogia basata sull’accoppiamento di una breve introduzione a testi tratti dalla letteratura. Alcuni pezzi fondamentali per me come quello sull’Amarone. Il riposo della polpetta e altre storie intorno al cibo (Laterza, 2009) Alimentazione e cultura nel Medioevo (Laterza, 1988) Campagne medioevali (Einaudi, 1984) J.L. Flandrin, M. Montanari Storia dell’alimentazione (Laterza, 2000) Monumentale opera di difficile lettura ma completa e appassionante. 65 A. Capatti, M. Montanari La cucina italiana. Storia di una cultura (Laterza, 1999) Il sottotitolo spiega tutto. Wolfang Schivellbush Storia dei generi voluttuari. Spezie, caffè, cioccolato, tabacco, alcol e altre droghe (Bruno Mondadori, 2000) Regalato a tanti amici. Marvin Harris Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari (Einaudi, 1992) Forse il più famoso testo di cultura alimentare. Alda Bruno Tacchino farcito (Sellerio, 2001) Comprato in dozzine di copie, straordinaria storia di una famiglia attraverso la ricetta natalizia del tacchino. La casina, la casa, le cose (Sellerio, 2005) Maria Grazia Accorsi Personaggi letterari a tavola e in cucina (Sellerio, 2005), Frittate d’autore (Sellerio, 2007) Due bei libri dove si cerca in famosi riferimenti letterari momenti relativi al cibo e relative ricette. Muriel Barbery Estasi culinarie (E/O, 2000) Un bel regalo di Emanuela. Quale sarà l’estasi culinaria che il grande critico vuole ricordare prima di morire? Piero Camporesi Il padre della cultura alimentare italiana. Il Paese della fame (Garzanti, 2000) Le vie del latte dalla Padania alla steppa (Garzanti, 1993) Clara Sereni Casalinghitudine (Einaudi, 2005) Forse il libro che mi ha fatto venir voglia di scrivere questo. Dove scrive che sua madre le faceva mangiare l’aglio per trovarla di notte senza accendere la luce. 66 Redcliffe N.Salaman Storia sociale della patata. Alimentazione e carestie dall’Aamerica degli Incas all’Europa del Novecento (garzanti, 1989) Più di 400 pagine sulla patata. Marco Guarnaschelli Gotti Grande Enciclopedia della gastronomia (Mondadori, 2007) Molto più di un libro di cucina. Dario Bressanini Pane e Bugie. I pregiudizi, gli interessi, i miti, le paure (Chiare lettere, 2010) Per non essere schiavi degli stereotipi e dell’ambientalismo ideologico. Ariel Toaff Mangiare alla giudia (Il Mulino, 2000) Cristofero da Messinburgo Banchetti, composizioni di vivande e apparecchio generale (Neri Pozza, 1992) Il più famoso manuale di gastronomia del cinquecento. Carlo Ginzburg Il formaggio e i vermi (Einaudi, 1976) Giovanni Rebora La civiltà della Forchetta. Storie di cibi e di cucina (Laterza, 1998) Heinz-Gerhard Haupt (a cura di) Luoghi quotidiani nella storia d’Europa (Laterza, 1993) Glauco Maria Cantarella Medioevo. Un filo di parole (Garzanti, 2002) Una sera dell’anno Mille (Garzanti, ….) Martin Jones Il pranzo della festa. Una storia dell’alimentazione in undici banchetti (Garzanti, 2007) 67 Germano Pontoni Il libro dell’oca. Storia, tradizioni, gastronomia (Istituto per l’enciclopedia del Friuli Venezia Giulia, 1987) Harold Mc Gee Il cibo e la cucina (Franco Muzio ed. 1989) Maguelonne Toussaint-Samat Storia naturale & morale dell’alimentazione (Sansoni, 1991) S.Serventi, F.Sabban La pasta, Storia e cultura di un cibo universale (Laterza, 2000) S, Colonna, F. Gualtieri Cucina e Scienza (Hoepli, 2008) Raffaella Sarti Vita di casa. Abitare, mangiare, vestire nell’Europa moderna (Laterza, 2003) Deborah Lupton L’anima nel piatto (Il Mulino, 1999) Luciano Sterpellone A pranzo con la storia. I nostri cibi dagli Assiri al fast-food (SEI,2008) Gian Carlo Fusco L’Italia al dente (Sellerio, 2002) Klaus Muller Piccola etnologia del mangiare e del bere (Il Mulino, 2005) 68 I menu di Vittorio Negli ultimi anni mi sono divertito a scrivere i miei menu delle occasioni più importanti e stamparli per gli ospiti e per l’eternità. Ne propongo qui alcuni non per una sorta di mia celebrazione (questo libro serve a questo scopo), piuttosto lo faccio perché chi c’era si ritrovi e coltivi i ricordi di quei momenti. Mi sembra giusto, però, fare un’analisi non scientifica dei menu. Avevo inizialmente previsto di pubblicarli tutti, ma sono troppi e avrebbero appesantito questo libretto facendolo diventare un librone. La fantasia è progressivamente venuta meno e con la maturità mi sono concentrato su alcuni piatti, un po’ perché vengono bene, un po’ perché rischio di meno, con vantaggi di tutti, anche se è giusto sottolineare che pochi sono stati i casi negativi. Ultimamente, però, esagero e la ripetitività sta diventando troppa. Il capitolo si apre con i miei 50 anni: fa un po’ senso pensare che molti dei miei amici di oggi non c’erano, semplicemente perché non li conoscevo. C’era tantissima gente, più di sessanta, il giorno prima pioveva ma la domenica è stata fortunata. La preparazione ha comportato circa due mesi di acquisti massicci tra Bologna e Mortara. La zuppa di ceci (cinque chili…) ha una storia particolare: vado da Peck il venerdì per comprare la tempia o testina e il vecchio dolce commesso mi guarda sconsolato e mi dice che non ne hanno. Avevo già scritto il menù e poi che zuppa di ceci è senza tempia o testina? Poi mi domanda: “Ma quanti siete?” e alla mia risposta s’illumina, va nel retro e torna con…un’intera testa di maialino che segata in parte in tanti pezzi fu poi messa nella minestra. Ne facemmo un paio di foto e Ruggi portandole a scuola si beccò una nota perché erano considerate oscene (in effetti erano sanguinolente). Un’altra storia riguarda Giorgio Grai che avevo inseguito per almeno tre mesi perché volevo assolutamente i suoi straordinari e unici vini. Chi lo conosce sa anche la sua inaffidabilità: un mese prima e una settimana prima mi aveva garantito il tutto. Quando il giovedì lo chiamo per sapere perché non erano arrivati, scopro che se n’era dimenticato. Panico. Poi mi fa la stessa domanda del commesso di Peck e mi dice: “Ma tu vuoi dare i miei vini costosi a così tanta gente? Sei matto. Io seleziono i vini per l’Esselunga e fra 5 minuti ti telefono quelli da comprare ora”. E così fu fatto; non solo, ma da quel momento ci sono amici che mi chiamano dall’Esselunga per chiedermi cosa comprare. 69 Non sempre nei menu, anzi quasi mai, sono riportati i partecipanti, peccato perché avrei potuto fare una statistica. Un aspetto che emerge riguarda la quantità: troppa sempre. Un altro è l’indicazione per il dolce: a discrezione degli amici, quasi sempre non per scaricare su di loro l’onere, ma perché sono come mio padre, non amo i dolci, l’unico o quasi mio che appare è il biancomangiare alla siciliana. Mi piace arrivare sazio (e con la quantità di cose che propongo è facile) prima del dolce. Non ci sono gli svuotafrigo e quelli di tante cene organizzate all’ultimo momento o per non stare solo: vorrei veramente che i miei amici si sentissero autorizzati ad autoinvitarsi. Alcuni menù derivano dall’incontinenza che mi coglie quando vado in Via Osoppo: compro, compro, compro e poi mi domando cosa ne faccio e lancio inviti a raffica. Mi fermo qui, perché lo scopo non è far l’analisi dei menù, ma ricordarli insieme. 70