Vittorio Maglia
Ricordi e ricette
Aprile 2012
In copertina: “Una mela spaccata in due”, Casasco circa 1955
Si ringrazia l’Istituto Professionale Pavoniano Artigianelli di Milano in particolare Luigi Corno per
aver reso possibile questa pubblicazione
Chi ricorda vive due volte
(Gabriel Garcia Marques)
Noi non ci sediamo a tavola per mangiare ma per mangiare insieme
(Plutarco)
Indice
Prima parte
Introduzione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 7
Ricordi di pranzi e ricette. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »9
Ricordi sul pesce. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »16
Vino e ricordi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »17
Casasco, il luogo dei ricordi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »21
La presenza dei parenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »26
Ricordi di mio padre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »28
Mamma e cibo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »30
Le ricette degli amici. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »32
Le mie ricette . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »55
Consigli per la lettura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 65
I menu di Vittorio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »69
Seconda parte
Altre ricette di Casa Maglia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »83
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Introduzione
Mio padre una volta mi raccontò che sua madre gli diceva che in casa sua non si mangiava
la stessa minestra due volte l’anno. Basterebbe questo a spiegare tutto, l’importanza per la
mia famiglia del cibo, della tavola, ma soprattutto del convivio, proprio nel senso che gli
dà Massimo Montanari come momento fondante la nostra cultura. Per questo mi sono
innamorato a prima vista della citazione di Plutarco (noi non ci invitiamo l’un l’altro per
mangiare e bere semplicemente, ma per mangiare e bere insieme) e so quanto sia difficile
sedersi a tavola da solo. Tanto mi piace cucinare, quanto poco poi mangiare da solo, come
se fosse fatica sprecata, occasione perduta, destino e punizione per una vita sprecata.
Non sono ancora entrato nell’età per cui quello che scrive Gabriel Garcia Marques
è una condanna senza ritorno, ma, spero, un modo per cercare sé stessi e, attraverso la
socializzazione dei ricordi, stare insieme agli altri. I ricordi, infatti, servono a stare insieme, con un po’ nostalgia ma con ancora voglia di costruire. Mi è stato detto che devono
essere stimolati, allenati; non tutti, infatti, emergono naturalmente e il modo migliore è
farli emergere insieme ad altri. Un lungo periodo della mia vita è quasi senza ricordi, forse
rimossi; chissà se attraverso il cibo non li possa recuperare un po’. Resta il fatto che per ora
sono scarsi anche quelli lì.
Ho scritto queste note soprattutto per me, per chi non c’è più e per chi viene dopo.
Per tutti gli altri, e in particolare per chi non può condividere questi ricordi, essi possono
avere senso per “leggersi”, per ritrovare situazioni, profumi e piatti dell’infanzia, in particolare per quelli della mia età che “hanno i piedi nel medioevo”. Questa è una citazione
dal libro “La generazione fortunata” di Serena Zoli ma che io usavo ben prima di averla
letta lì; in ogni caso è un libro che consiglio, da leggere ma soprattutto per leggersi, per
stimolare ricordi.
Siamo l’ultima generazione che può ricordare i tempi lenti nei cambiamenti, dove si
può pensare che i nostri ricordi siano simili a quelli dei nostri genitori e vanno facilmente
indietro nel tempo. Ovviamente ci sono state prima di noi decine di generazioni come la
nostra, ma noi siamo l’ultima di un certo tipo: nello stesso tempo abbiamo i piedi nel medioevo e la testa nel duemila. Ogni generazione ha la sua caratteristica: questa è la nostra. È
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bello e vero chiamarla “generazione fortunata”, senza guerre, senza dittature, senza troppi e
oggettivi problemi nel lavoro, con le nuove medicine e le nuove tecnologie, senza però aver
perso il legame con il passato e le tradizioni. Anche se, forse, ciò ci porta ad essere meno
pronti ad affrontare le difficoltà di oggi, sia della crisi in atto, sia dell’invecchiare.
Ricordi che vengono prima del boom economico, quando c’era la messa in latino,
la bronchite veniva curata con le polentine sul petto e il Chino faceva i fumenti stando
sopra una pentola usata solo per questo e coperto da un asciugamani, quando d’inverno si
avevano i geloni e la prima corsa del 15 ci svegliava facendo la esse per scendere dal sagrato
dopo esser passato davanti alle Colonne di San Lorenzo.
I primi ricordi sono legati al cibo (scontato pensare al latte materno); ad esempio penso che il primo o uno dei primi sia legato a una visita alla Rosa a Civenna (essendo mancata
nel 56 avevo al massimo 4 anni) e al suo regalo di una grande scatola di Biscotti Doria.
La condanna di chi per lavoro scrive per gli altri è di far fatica a scrivere per sé. Tutto
ciò che sai far bene per lavoro non serve quando sei tu a parlare o scrivere, le parole escono
con difficoltà, le idee restano nella penna. Ci vorrebbe sempre una bottiglia di Gewurstraminer di Gianni, quella che nell’unico esame scritto casalingo mi ha permesso di essere il
migliore, semplicemente perché un po’ brillo mi ero lasciato andare a pensieri laterali ed
ero stato meno scontato degli altri.
Dopo questa lunga premessa è tempo di presentare la struttura del libretto. Nella
prima parte il capitolo più importante è quello dedicato ai ricordi soprattutto dell’infanzia
e prima adolescenza, il secondo è dedicato agli amici, che rendo immortali avendo chiesto
ad alcuni di loro di scrivere una ricetta lasciandoli liberi di eventualmente contestualizzarla, seguono le mie ricette più praticate e spero apprezzate e i consigli per la lettura, si finisce
con alcuni menu dei miei convivi degli ultimi 10 anni.
La seconda parte è dedicata alle “Altre ricette di Casa Maglia” ed è il seguito dell’ormai
esaurito libretto che avevo preparato nel lontano 1988, quello che dedicavo agli amici
scrivendo “In Casa Maglia si è sempre mangiato bene. In queste ricette (di mia nonna e di
mia bisnonna con significative integrazioni di mia madre) c’è un po’ della mia cultura, un
po’ del mio cuore e… troppo della mia pancia”.
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Ricordi di pranzi e ricette
Un capitolo sul roast beef
Ci vorrebbe un intero capitolo dedicato al roast beef di mia madre. Un po’ perché era il
piatto forte di tanti pranzi domenicali, ma soprattutto perché era veramente buono. Rifacendolo tante volte mi domandavo perché non riuscivamo a farlo così buono. E sia ben
chiaro che lo facevamo buonissimo anche noi, cercando la carne giusta, quella picchiettata
dentro di bianco, dove il grasso è soffuso e poi si scioglie, e con una cottura sempre a regola
d’arte, sul fuoco, non al forno e con burro, non olio. Poi, col tempo, ho trovato la risposta,
una risposta ovvia, ma che spiega tante cose. Il peso medio del pezzo di carne era sopra i
due chili, ma spesso anche i tre, per sfamare una dozzina di persone – quante erano spesso a
tavola la domenica – tenendo conto che era buono anche freddo. Quando mai ho preparato un roast beef per così tanta gente? Solo così, però, si riesce a farlo croccante fuori e quasi
crudo dentro con tutte le sfumature di cottura della carne.
Questa è la fortuna di chi ha tante persone da sfamare. Il resto della bontà non si spiega se
non con la dolcezza dei ricordi.
Nei pranzi domenicali era quasi sempre accompagnato dalle patatine fritte, quelle
vere; mia madre non ha usato mai nessun olio di semi e, per sostenere che non erano pesanti, diceva che il litro d’olio che usava per friggerle rimaneva tutto lì.
Pollo in guazzetto
Il pollo in guazzetto è un tipico piatto Mascetti (cioè della famiglia di mia madre), almeno
così penso. E questo sì rifatto tante volte con successi alterni ma spesso con grande soddisfazione: piace anche a Ruggero. Guazzetto o sguazzetto, il nome viene dal fatto che il
pollo a pezzi piccoli dopo la tostatura finisce per essere immerso nel liquido di cottura e
nell’abbondante vino bianco, tanto limone e tantissimo prezzemolo. Un arrosto molto bagnato, anzi un non arrosto. Ho deciso di non infarinare più, ma forse mi sbaglio e dipende
dalla mia incapacità di infarinare e tostare a regola d’arte. Non è una ricetta particolare, ma
è semplice e riesce facilmente.
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Carré di maiale affumicato
Non so perché il carré di maiale affumicato sia entrato nella nostra consuetudine alimentare. Non entrò tanto presto e la prima volta fu forse per un pranzo importante con un
parente lontano, che poi non arrivò (il Leone Maglia?) e veniva chiamato con il termine
tedesco Kaiserfleish (carne dell’imperatore). Mia madre lo preparava spesso in padella perché lo trovava a fette dal Bezza (cfr. poi). Il vero piatto che ho ereditato ed esaltato è quello
semplicemente bollito, leggermente segato sull’osso per facilitarne il taglio. Alcune volte
veniva, ma in epoca tarda, sostituito dal prosciutto di maiale affumicato, come quella volta
a Natale quando fu incaricato dell’acquisto il Chino che ne comprò due da Peck. Anche
allora era costoso oltre il dovuto e si prese una specie di esaurimento nervoso.
Per me il carré di maiale affumicato è diventato un piatto sacro, che i miei amici hanno imparato ad amare, a volte pensando che sia complesso da preparare. È solo difficile
da trovare, anche se ho un paio di posti basic per evitare esborsi innaturali. In famiglia lo
si mangiava con la senape, così come i wurstel che il Chino e solo lui mangiava bianchi.
Risotto con prosciutto e borlotti
Per mia madre una regola aurea era quella che il risotto non si faceva bene per più di sei
persone. Penso per la difficoltà a garantire una cottura omogenea a fuoco lento. Questa
verità, però, non evitava la preparazione di un maestoso risotto con osso di prosciutto e
borlotti, di cui mi ricordo almeno una volta completamente piena la pentola di rame di
Casasco. Più di tre chili, per una cena affollata in giardino alla quale c’erano anche Etta
e Luigi. Se c’erano loro vuol dire che era una delle ultime con mia madre.
Arrosto con l’uovo e uccellini scappati in gelatina
I due piatti sono uniti dal fatto che la loro versione estiva era prevista servita fredda in gelatina. Ma per gli uccellini scappati il tempo era sempre giusto, caldi o freddi, in gelatina,
ma sempre teneri e buonissimi con la foglia di salvia, il prosciutto e lo stuzzicadenti a tener
il tutto insieme. Adesso si comprano fatti e non mi viene in mente di prepararli io, meglio
così perché distruggerei la dolcezza di un ricordo.
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Cervella fritta e Quinto Quarto
Ho letto che una delle cose con più colesterolo è la cervella e mia madre, poi, di certo eccedeva con il burro. Ma non è qualcosa che si mangia spesso... Egoisticamente sono quasi
convinto che mia madre la preparasse espressamente per me, croccante fuori e tenerissima
dentro. Questa sì era una ricetta che volevo fare, anche se avevo paura di non sapere da
dove incominciare, a partire da dove comprarla. Avevo soprattutto paura di non ritrovare
la stessa sensazione, ma questa paura è di tutte le cose che non assaggio da tanto tempo. Poi
mi sono fatto coraggio, l’ho trovata al mercato e l’ho preparata secondo le indicazioni della
Grande Enciclopedia della Gastronomia: breve lessatura prima della frittura, infarinatura
e non impanatura. Straordinario ritorno al passato, sensazioni identiche.
La cervella di vitello fritta la sento come una cosa mia e da proporre in un mitico
convivio sul Quinto Quarto. Solo per gli amici veri. Il Quinto Quarto è per me come la
passeggiata al Generoso per il Chino, per stroncare sul nascere le relazioni deboli. Quinto
Quarto che, oltre ai miei piatti preferiti di oggi (lingua brasata alle verdure o affumicata,
savoiarda di salame di testa con la materia prima di Brarda da Cavour, durelli d’oca in
carpione o in umido da Gioacchino di Mortara, testina lessa di manzo piemontese da accompagnare alla minestra di ceci) deve prevedere anche un risotto con le animelle. Difficile
trovare qualche donna a cui piaccia un pranzo di questo tipo, ma la speranza è l’ultima a
morire. In ogni caso per mettere a punto la ricetta penso di fare un test con i De Vecchi,
figli compresi.
Frittura dolce
Non so se la frittura dolce fosse fatta in casa o comprata nel mitico negozio di pasta fresca
di Via Orazio prima del Manzoni, dove sono andato fino a non troppo tempo fa. Bancone
in marmo sulla sinistra dove venivano preparate le paste e dolci vecchie signore, sempre le
stesse, a servirti. Quando sostenni di essere entrato per la prima volta nella pancia di mia
madre mi dissero che era impossibile perché erano lì solo dal ’54, per poi dirmi che avevano visto mio padre pochi giorni prima. Peccato che fosse morto da più di 10 anni, forse
avevano visto il Chino. La frittura dolce era ovviamente buonissima.
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Risotto giallo ossibuchi e gremolata
Tutti noi lombardi abbiamo un po’ del nostro passato negli ossibuchi con risotto giallo e
gremolata. Per me significa due cose: la speciale posata che avevamo a Casasco per estrarre
il midollo, a dimostrazione di quanto fosse stato comune nei tempi andati, e soprattutto il
laghetto che facevo nel risotto per ospitare la gremolata che così non finiva sugli ossibuchi
e che un po’ mi nauseava ma che mi divertiva tanto.
Bollito con salsa bianca rosso verde
Anche il bollito è un ricordo comune e non mio in modo particolare, anzi mi è stato ricordato da un mio fratello. Mi serve per ricordare enormi bolliti a Casasco, preparati, ad
esempio, dalla Carolina quando si arrivava con il freddo. Bolliti alla Lombarda o dei tre cu,
gallina, manzo e vitello. Il più buono lo ricordo come se fosse oggi, mangiato in Casetta
dopo il funerale di mia madre, in un giorno freddo per tanti motivi, mentre Rita parlava
con mio padre. Ovviamente nel brodo bisogna mettere un po’ di vino rosso. Il brodo che
mio padre andava a prendere in frigorifero e beveva freddo dopo aver tolto il grasso. Il
secondo giorno si mangiava freddo e poi a fette con le cipolle e se ne restava ancora finiva
in polpette.
Grass d’arost e polentina o semolino
In frigorifero finiva anche il grass d’arost che rimaneva e ce n’era sempre un po’ sia per la
quantità di arrosto che si preparava, sia per l’eccesso di burro. Quando il contenitore – un
bicchiere – era pieno si usava per condire la polentina o il semolino. E questo è veramente
qualcosa di unico e di mitico, di indescrivibile per la capacità di dare un sapore straordinario. Un po’ come l’estratto di brodo liebig che mio padre si mangiava a cucchiaiate o
spalmava sul pane.
Cotizza di mele
La cotizza era uno dei piatti tradizionali del venerdì sera di magro. La faccio e la rifaccio
ormai in continuità modificando ingredienti e cottura nell’inutile ricerca del tempo perduto. Forse anche qui uno dei problemi sta nella quantità: mia madre la faceva con una
ventina di uova. Ma ci metteva anche un po’ di farina? E le mele erano tante? Lo zucchero
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era nell’impasto o quando si girava? E la cannella, è un mio ricordo o una mia aggiunta?
Non c’è più la Ina a cui chiedere la ricetta originaria. Ricordarsi tanta scorza di limone.
Resta il fatto che anche a me viene bene e i miei amici l’apprezzano per la sorpresa di una
torta salata ma dolce, tenerissima ma anche molto saporita. Piace anche a mio figlio e la
considero una delle mie armi strategiche, forse quella che unisce di più i ricordi di ieri alla
realtà dell’oggi.
Panettone farcito
Mia madre nelle feste di fine anno tagliava la testa di un panettone, scavava l’interno e
lo mischiava con abbondante panna montata. Poi lo serviva ovviamente freddo ma non
gelato. Tutto qui.
Spaghetti pancetta e cipolla
Questo primo piatto entrò tardi nelle preparazioni del week end e ci restò per sempre, con
riedizioni di Ina ed Elvira. Mi ricordo la cipolla scura e poco digeribile perché soffritta a
fuoco troppo alto; ma l’insieme era molto buono.
Bologna di Peck
Quando ero piccolo spesso Peck aveva un’enorme bologna quasi in vetrina che veniva
tagliata a mano in fette enormi che poi mia madre distribuiva a dadini. Normalmente detestavo la bologna perché servita a scuola in fette trasparenti, mentre così diventava, come
è giusto che sia, un mangiare da re.
Paté del Bezza
Il Bezza era il nostro salumiere che stava all’angolo di Giangiacomo Mora e Cesare Correnti. Ci si comprava di tutto, come adesso all’Esselunga. A Natale ci riforniva di tre diversi
tipi di paté, in quantità industriali. Sono andato dal Bezza anche dopo sposato perché
procurava i prosciutti affumicati da bollire a Natale, ma l’ultima volta gli ho contestato il
fatto che dei tre paté non ci aveva dato quello più buono, quello d’oca. Si offese, ma avevo
ragione io. Ci si comprava la parte finale e più buona del prosciutto che mia madre tagliava a mano per poi metter quello che restava in qualche minestra. Il Bezza mi porta ad un
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piccolo ricordo personale. Avevamo ormai quasi concluso il trasloco da Via Pio IV e non
so perché l’ultimo a restare per una notte a dormire sono stato io. La casa vuota e una cena
solitaria con un pollo intero e patatine, neanche tanto buono, del Bezza. Ma era la prima
notte che dormivo da solo e l’ultima nella grande casa dell’infanzia.
Biancomangiare: riso e latte, polenta e latte
Anche noi avevamo il nostro biancomangiare depurativo e quaresimale. Per chi non lo sa,
sono state trovate più di 300 ricette medioevali di biancomangiare dove il colore assumeva
una funzione di purificazione. A casa nostra, prima che in età adulta scoprissi il mio fantastico e acclamato biancomangiare alla siciliana (budino con cannella, scorza di limone e
pinoli), ci si limitava al riso e latte, di cui ho un ricordo di amore – odio. Buono ma anche
stucchevole quando era troppo dolce. La polenta e latte non è vero biancomangiare ma era
per noi la stessa cosa e penso di averla mangiata centinaia di volte.
Oro Saiwa e burro, caffelatte con tuorlo d’uovo
Spalmare gli Oro Saiwa di burro e zucchero e farne più strati. Tutto qui. Ci sono ricordi
che riesci a far affiorare e restano sotto pelle, come quello del caffè (o caffelatte?) con il
tuorlo d’uovo sbattuto. Mi dicono che non si chiamava anche resumada.
Domenica sera, toast
La domenica sera mia madre si riposava, si fa per dire. Non si mangiava a tavola ma davanti
alla televisione per il secondo tempo della partita di calcio mangiando toast.
Pesche al forno e amarene cotte
Delle pesche non ho un ricordo chiaro, ma solo di bontà. Vino o limone? Quelle con gli
amaretti sono arrivate dopo. Più chiaro il ricordo delle amarene cotte con zucchero e limone, buone loro e soprattutto il sugo che restava.
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Gammon e Apple noodle
La Ina tornò da Londra con un gammon nel beautycase e dalla Germania portò la ricetta
delle Apple noodle, penso si scriva così, una cosa che vorrei scovare perché buonissima:
mi sembra che facesse cuocere le mele al forno su uno strato di sale. Una volta mi fece una
spuma di mele e quando l’avevo finita mi disse che era stata fatta con due chili di frutta.
Non è facile ricordare Ina attraverso il cibo, non
ci provo nemmeno, ma era grandissima, non tanto nel cucinare, quanto nel costruire il convivio,
nel tenere insieme le persone attraverso lo stare
insieme a tavola, proprio come mia madre e, in
qualche modo, anche come me.
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Ricordi sul pesce
“Sciura la veur i pess”, così a Casasco il venerdì mattina si presentava sul cancello la signora
che saliva dal lago con una cesta piatta di vimini con foglie di fico e dentro pesci, soprattutto trote – me ne ricordo una di un paio di chili e più – e persic. A proposito di pesce
persico, lo zio Carlo quando era al mare chiedeva pesce che assomigliasse a quello di lago.
Filetti di sogliola del salumiere con il prezzemolo: questo è un ricordo da ammalato.
Era uno dei tipici piatti in bianco che ci faceva, anzi li si comprava già fatti, quando eravamo ammalati.
Baccalà fritto o bianco della friggitoria di Porta Ticinese: più che mio è un ricordo
del Chino. Era in Porta Ticinese o era in Giangiacomo Mora? Quella di Porta Ticinese
aveva fatto venire l’ulcera al Carlino quando lavorava alla RAS e non mangiava da noi. Poi
diventò un ospite fisso.
Pesci in cagnone della nonna Virginia: non ho molti ricordi di piatti della nonna
Virginia, forse perché li ho rimossi in quanto legati a quando venivo spedito a Como per
settimane che mi sembravano mesi perché ammalato (due volte la broncopolmonite) o
perché erano gli altri ad esserlo (la scarlattina dell’Angelo). Si mangiava da vecchi, anche se
la Caterina faceva un’ottima omelette con la marmellata. Dai ricordi, non miei spontanei
però, emerge il pesce di lago in cagnone, cioè penso in carpione. Ho voluto approfondire
il problema della mancanza di ricordi sulle ricette della nonna chiedendo ai cugini e il
risultato è stato sconfortante: si ricordano il caffelatte.
Da dove viene allora la nostra cultura alimentare superiore? Dai Maglia? Dalla necessità di dar da mangiare a un marito esigente (ci si ricordi la citazione dell’inizio sulle
minestre) e ai figli affamati?
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Vino e ricordi
Sono tanti i ricordi più o meno lontani legati al vino. Certamente era una parte importante
della nostra vita e della nostra cultura. Si raccontava, ad esempio, che i miei cugini più anziani rubavano alla Carolina la chiave della cantina dei vini per andare a rubare le bottiglie.
Mio padre quando ero piccolo e mi mandava a prendere il vino in cantina mi diceva di
mettere il dito nel cu della bottiglia: il vino buono era in quelle dove il dito entrava molto,
forse perché erano quelle soffiate, cioè vecchissime.
Si beveva sempre e solo vino rosso, mai vino bianco, anche quando c’era il pesce. E
il nostro era un vino rosso da 14 gradi (Dolcetto o Barbera sempre comprato dallo stesso
commerciante, Zingari) aspro e non certo da pesce. Ma questa è la dimostrazione che
il vino come il mangiare è cultura. Oltre al fatto che non era facile imbottigliare il vino
bianco e il vino in bottiglia era solo quello che veniva regalato a Natale. Non mi ricordo
quando sia entrato in casa il vino bianco, anzi non mi ricordo mio padre bere vino bianco.
Il vino si andava prenderlo ad Asti e il Chino tornò una volta con una brenta, cioè 15
damigiane (un volta tra San Fedele e Casasco ebbe un incidente e ruppe una o più damigiane…). Mio padre diceva che prima lo comprava anche per quelli del paese perché era il
più buono. Non sempre ma certe volte lo era veramente, al di là dei ricordi. Come avrebbe
detto Giorgio Bocca, sembrava un colpo di cannone. Solo l’Orcia Rosso di Ranuccio mi fa
ricordare il nostro vino rosso. Costava, di più rispetto agli altri vini in damigiana, ben 350
lire; il Brachetto quando l’abbiamo comprato in bottiglia sempre nello stesso posto era già
a 900 lire. La cantina dei vini prima era separata dal resto della cantina perché una parte
di questa durante la guerra era stata adibita a pollaio (nella porta c’è ancora il passaggio
delle galline) per cui per entrarci si doveva passare da una parte nascosta e scura e questo
mi ha riempito i sogni giovanili, prima con sogni di terrore e poi con cantine dove c’erano
tantissime mie bottiglie.
Fondamentale a Casasco era il momento all’ultimo dell’anno in cui veniva a suonare
la banda di cui mia madre e mia sorella (e ora l’Elvira) sono state madrine. Anche se faceva
freddissimo si serviva vino rosso; era una delle prime fermate per cui suonavano ancora
bene… C’era sempre un pezzo che si chiamava Settebello.
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Barolo del 38 a Casasco e Barbaresco del 42 a Milano, entrambi Zingari, sono un piccolo mistero: perché ci sono rimasti solo queste annate (me le sono tenute io quelle di Milano)? Erano le uniche comprate (insieme ad uno scialbo Barolo del 60) o erano rimaste in
quanto lascito della guerra? E perché così tante? Solo una, di Barbaresco presa dalla cantina
della Ditta, bevuta negli anni Settanta era buona, le altre hanno sempre avuto una camicia
spessa e un colore quasi inesistente come il sapore. Ma sono le nostre radici nel medioevo e
mio padre diceva che quel vino scaldava le orecchie (lo diceva in dialetto, anche se non lo
parlava spesso, ma si poteva esser sicuri che lo parlasse quando entrava da Bardelli).
Mio padre metteva il vino dovunque: ovviamente nel brodo ma anche nel risotto e nel
caffè. Il profumo del caffè caldo e del vino è delizioso. Ci vuole quello della napoletana e
ovviamente il vino rosso delle nostre damigiane, ma vale la pena di provarci anche con un
altro vino. D’estate il vino lo metteva, e ce lo faceva mettere, sulla pesca tagliata a pezzetti
con il limone.
I ricordi di vino non si fermano alla famiglia e al passato lontano. Ad esempio lo Spanna del 64 che mi ha introdotto alla cultura del vino, lo Chateau Neuf du Pape comprato
alla cooperativa di San Fedele, bevuto con i Giannetto e che mi ha sempre fatto riflettere
sul fatto che il vino non valga in funzione del prezzo e della qualità ma vale per i ricordi e
il momento in cui lo hai bevuto: quello era il mio primo vino francese e mi sembrò fantastico. Ogni volta che l’ho bevuto dopo è stata una delusione. Il Moulin à Vent bevuto
a Ginevra dove ci eravamo scatenati di ritorno da Taizè dove avevamo fatto la fame. Il
Brunello Santa Restituita del 64 bevuto a Sueglio a fine pasto da Mario, offerto dal padre.
Una bottiglia intera a fine pranzo senza problemi tanto era buono. Ce ne regalò una a me
e una a Carlo (si concordò di berle insieme al primo figlio, ma poi non ci frequentammo
molto e quando ho aperto la mia bottiglia era passé).
La cantina De Piccoli era fantastica e io praticamente ero l’unico ad aiutare il padre a
consumarla. Tante bottiglie eccezionali, soprattutto di grandi vini piemontesi dei Marchesi
di Barolo, una grande bottiglia di Sassella Negri e un bel regalo di una mezza bottiglia di
Brachetto che ho ancora (ne aveva molte perché con tre figlie beveva solo lui per cui comprava grandi vini in mezze bottiglie).
Anche dai Rudelli si beveva bene: soprattutto i bianchi friulani della Cantina Felluga
con in etichetta le mappe medioevali e il Cartizze Ruggeri con cui abbiamo brindato nel
pranzo del matrimonio con gli amici.
La mia cena dei 18 anni ha un preciso ricordo legato al vino; doveva essere la mia
consacrazione gastronomica e di conseguenza con il Chino andammo da un suo vecchio
fornitore. Mi negò il Barbaresco perché “il parroco non glielo dava più” (per questo motivo
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la prima bottiglia di Barbaresco fu quella straordinaria del Parroco di Neive che ho poi
comprato con Franca) e mi consigliò due vini francesi, lo Chateau Olivier (bordeau bianco
di straordinario spessore, almeno per me allora) e un Saint’Estephe. Mi ricordo i prezzi
che allora mi sembravano altissimi: 1800 e 1350 lire. Il menu che richiesi a mia madre
partiva con una montagna di carne secca dei Grigioni di Peck, una vera montagna perché
era secchissima come ora non lo è più. Poi, petto di pollo alla panna con i tartufi. Oltre a
noi c’erano i Giannetto e Andrea e Margherita che mi fecero assaggiare per la prima volta
le paste di mandorle del Galli.
Dal vino alla birra: il Chino ne aveva portato dalla Germania alcune lattine che aveva
nascosto, insieme ad un libro di fotografie porno, ovviamente in tedesco, nel grandissimo
armadio che riempiva la nostra camera. Per prenderle si doveva passare dal posto per la
luce interna, ma quando le ho scoperte erano ovviamente andate male. Dalla Germania
aveva portato centinaia di sottobicchieri che per anni hanno riempito il controsoffitto della
mansarda.
Lascio alle mie memorie che scriverò tra 40 anni i ricordi successivi, perché di vino è
pieno il recente passato. Devo, però, almeno riportare alcuni ricordi. Come la scoperta dei
bar à vin francesi (Le pain et le vin, vicino alla Arco di Trionfo) che ha portato al disastro
dell’avventura BVS, nata proprio a Casasco per studiare come farne uno a Milano.
Come quello di Giorgio Grai con cui ho fatto la prima degustazione (un bicchiere lo
aveva accompagnato per tutto il tempo: uno dei primi Sassicaia che aveva assaggiato solo
alla fine per fargli prendere aria; a un certo punto disse ad un produttore che nessuno se ne
sarebbe accorto ma quella bottiglia sapeva di tappo ed era vero).
Come le tre magnum di Sassicaia 83 (60 mila lire l’una, un grande investimento), la
doppia magnum di Tignanello 83, le 12 bottiglie di Sauternes Chateau Filhot, le visite
dalla Ronchi quando era ancora in San Maurilio.
La bottiglia bevuta nel ristorantino di Cavaglià (una stella Michelin, eravamo solo in
due clienti) prima di arrivare a Gressoney da Campadese.
Le damigiane di Nebbiolo di Carema (88, 89 e 90) vendute con vino invecchiato
nelle grandi botti per 5 anni. Il prezzo era alto (7mila lire), ma si è mai visto vendere in
damigiana un vino così? Ruggero ha fatto a tempo ad aiutarmi a mettere le etichette e per
qualche felice anno a Casasco da me si beveva solo quello.
Un discorso a parte merita Cigliuti, grande produttore di Barbaresco e Barbera a
Bricco di Neive. Ogni volta che sono andato da lui ha saputo sorprendermi. La prima
volta con Gianni e Patrizia c’ero andato dopo aver assaggiato l’82 del Pino (poi negli anni
ho scoperto che quell’annata è stata insuperabile per bontà e durata; l’ultima bottiglia
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dell’82 è stata una magnum di Barolo offerta ad Alessandro e Chiara a Bobbio nel 2001).
Quando venne fuori (aveva giornalisti tedeschi perché era diventato famoso vincendo in
una degustazione cieca sui principali cru francesi proprio con un Barbaresco 82) ci disse
che di vino non ne aveva più, ma poi rientrò e riuscì con una bottiglia di Barbaresco 85
dicendo “non ho bottiglie da vendere ma una da regalare sì”. Un amore a prima vista, mai
deluso anche se il prezzo del suo Barbaresco è cresciuto troppo e mi ha fatto spostare sulle
sue splendide Barbere.
Come quando un paio di anni dopo l’ho convinto a fare le sue prime magnum (io
sono un patito delle magnum, soprattutto come regalo, perché mi sembra che valgano
molto di più di due bottiglie). Nel momento di fare il prezzo, ci pensa su e poi scrive
18mila lire, cioè lo stesso prezzo di una bottiglia normale! Erano di Barbaresco 88, i fiorentini ne sanno qualcosa… O come quando ci sono andato con Pier e le sue donne di Acqui:
chiamò la moglie per far portare il salame e aprì tante bottiglie, ovviamente regalandocene
una e obbligandoci a finire quella aperta di Barbaresco.
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Casasco, il luogo dei ricordi
A Casasco ci passavamo tantissimo tempo, in particolare in estate. D’inverno si iniziò
ad andarci dopo la mia nascita quando misero i caloriferi che di notte si spegnevano (e
l’Angelo andava ad accenderli) così che la mattina c’erano meno di dieci gradi. Le vacanze
casaschesi partivano da fine giugno, dopo le due settimane alla Pensione Mia di Miramare
(pensione completa meno di 2000 lire, con mia madre che preparava i panini con burro
e marmellata da portare in spiaggia; tante di quelle lasagne che non ne ho più mangiate
per anni). Si stava su fino a San Maurizio, festa del paese, a fine settembre con la nebbia e
il tour nelle osterie a mangiare la trippa: una sola volta sono riuscito a seguire mio padre
mangiandola anch’io. Il tour era rigorosamente fatto di mattina e le scodelle di trippa
almeno quattro: dal Bergolini, al Bar Italia, all’Unione e in Piazza Pané (dove pochi sanno
c’era un gufo reale cacciato dal proprietario insieme a mio nonno).
Perché i ricordi alimentari di Casasco sono così tanti? Forse perché è il posto dove
più facilmente si riscoprono le radici medioevali e di conseguenza i ricordi affiorano più
facilmente. Come il passaggio la mattina e la sera delle vacche per le strade del paese o le
Sante Quarant’ore con il Te Deum finale che il fratello di Breccia dello zio Marzorati aveva
introdotto opportunamente dopo i supposti bagordi di fine anno dei casaschesi.
Il luogo gastronomico simbolo di Casasco era l’Albergo Unione: un ristorante veramente d’alto livello con una cantina ricca di grandi vini (ho amato la Barbera Scarpa invecchiata, ma c’erano anche vini francesi). La sala da pranzo era molto grande e l’Unione era
una sorta di club dove si passava tutto il giorno. Da casa nostra si sentiva di sera il cozzare
delle bocce. Durante la guerra su consiglio di mio padre ci aveva passato la prima notte di
matrimonio un professore della Bocconi (Pivato padre, quello che gli aveva fatto comprare
le azioni della Popolare di Novara su cui ci siamo fatti tutti la casa); peccato che a Casasco
era di stanza la Decima Mas e in piena notte gli fecero un piccolo scherzo lanciando bombe
a mano sotto la finestra…
La Decima Mas stava nella villa ora dei Gelpi e dove prima stavano i Marzorati: mia
madre mi diceva che vedeva passare nella stradina bassa vassoi di dolci per loro. Una parentesi non gastronomica: nella casa di fianco alla nostra era sfollata la famiglia di Bettino
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Craxi che andava a scuola con i paesani e i miei cugini. Quando divenne Presidente del
Consiglio, l’Espresso scrisse che durante la guerra a capo di una banda di ragazzini faceva
scherzi alla Decima Mas: fonti autorevoli (l’Umberto) danno una versione leggermente
diversa, quella che loro avevano costituito l’Undicesima Mas e che Craxi non ne era il
capo… Su Craxi l’altro aneddoto è che la madre usciva di casa con sulla testa una mutanda
con nodi agli angoli e lo chiamava “Beto” prolungando la e.
L’Unione era qualità della vita per chi viveva in paese e per noi. Qualità che si è persa
quando il Giovanni Cattivo l’ha lasciato perché la figlia doveva andare a scuola a Como,
così come prima aveva lasciato la Capanna Bruno (spaghetti con ragù con il panettino di
burro sopra e la valdostana). Solo che la Capanna Bruno è rimasta e per molto tempo ancora accogliente. Al funerale di mio padre c’era una corona di fiori di quelli della Capanna,
dove mio padre andava sempre e forse l’ultima volta che me lo ricordo là aveva mangiato le
lumache con lo zio Vittorio, dopo tre infarti e un arresto cardiaco. Fondamentale il diario
della Capanna dal quale emergeva che in un certo periodo Ricky, Popo e Pucio ci andavano, ovviamente a piedi, praticamente ogni giorno.
Il posto fondamentale a casa nostra era la vecchia cucina che ora è la sala della Casetta.
Me la ricordo enorme con dentro di tutto: i due tavoli di cui uno di marmo per lavorarci
su e la caldaia del riscaldamento che garantiva un bel caldo. Il camino, dove ci aveva fatto
dei disegni lo zio Chino, cari a mio padre dopo la sua morte in guerra, cancellati dal marito
della Carolina con grande disperazione di mio padre. D’altro canto anche lui con l’enfasi
per il modernismo ne ha fatte di belle, come quando salvai (non tutti) i pezzi del trenino
che con il Toni Barbé stava gettando nella neve dalla finestrella del solaio. Dalla cucina
un montacarichi (i cui pezzi in ferro sono posti a mo’ di scultura in giardino) portava le
vivande alla sala che stava di sopra.
Ai tempi in valle c’erano tantissimi funghi. Non che io ne abbia presi molti, solo quelli
che mi faceva prendere il fratello della Carolina, ma mia madre ci raccontava che ne aveva
trovato uno con una vipera attorcigliata al gambo e che la nonna ne aveva trovati 33 in un
prato; il Piero ne trovò uno da quasi tre chili al Cristé. Costavano poco: 800 lire e il più
rinomato e indiscusso cercatore era il Bandelin.
Sopra di noi c’è la Villa Marelli, amici di sempre dei miei. Prima della guerra avevano
il cuoco e mia madre una volta lo vide sputare sulla carne…
Casasco a 800 metri non si presta a coltivazioni di frutta. Avevamo un vecchio prugno
vicino a dove si stendevano le lenzuola in fondo al giardino che prima di morire ci permise
di fare una decina di chili di pessima marmellata. Più buone le susine che stavano lì di
fianco. Tanti, invece, i mirtilli da mangiare con zucchero e vino. Uno dei primi ricordi è
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delle piccole piante in fondo al giardino cariche di pere (Kaiser?) che poi maturavano sopra
l’armadio in Casetta.
Mitico era lo Stracotto del Giuanin Macelar, che, morto a 85 anni, si diceva avesse
macellato 5000 maiali e che faceva un ottimo salame. Mia madre, che poi lo ha inserito
nei piatti fondamentali della nostra cucina (e io proseguo), mi raccontava che nasceva dai
ritagli non vendibili che lui buttava in un otre piena di vino e aromi. Così quando si cucinava era un po’ come un salmì di cacciagione.
È divertente il fatto che, quando nel 75 sono stato un mese in Indiana (prima di
partire mia madre mi ricordò che sono meglio “moglie e buoi dei paesi tuoi”), il padre
Quackenbush, proprietario della R Street Grocery Fine beef in town, faceva la stessa cosa
(non usando il vino ma con lo stesso risultato). Bello aver scoperto che nei suoi ricordi
scritti (insieme allo sbarco in Normandia) c’è anche quello legato a me e al fatto che per lui
era stata un’estate indimenticabile. Lo è stata anche per me.
Il pranzo più importante era quello del Primo dell’anno con un tacchino che mi sembrava ogni volta sempre più grande. Volevo la coscia ma era difficile finirne una da solo.
Uno dei primi ricordi è proprio legato a questo pranzo con due tavoli paralleli nella parte
opposta a quella dove adesso c’è il tavolo da pranzo.
Il Natale a pranzo, fin che viveva la nonna, era festeggiato in grandi ristoranti sul
lago (il Caramazza, ad esempio) con penso fino a 100 persone, tutti parenti. Non ho bei
ricordi perché ci andavo vestito per la festa, e cioè in modo triste. Un golf di cammello
con i bottoni solo in fondo, una camicia da grande con il colletto rigorosamente chiuso e
i pantaloni grigi corti ben sopra il ginocchio (quelli all’inglese sono arrivati troppo tardi e
a lungo invidiati nei compagni sancarlini dell’alta borghesia milanese), per giunta vestiti
uguali io e Giorgio.
Un secondo motivo d’insoddisfazione che mi ha seguito sempre era l’estranietà al
gruppo dei cugini, prima per un problema di età che faceva sì che pochi erano quelli nati
dopo il 50, in seguito per sostanziale indifferenza.
Di fatto, in un parentado dove brillano ben tre membri nella Gladio e un busto di
Mussolini sopra l’armadio, uno che era stato anche solo sfiorato dal 68 assumeva il ruolo
del diverso da correggere. Fatto sta che i matrimoni dei cugini li ho vissuti tutti dall’esterno (grazie, Virginia e Flavio di essere l’eccezione), come quello della Mimma per cui la
Carolina ci fece scrivere questo telegramma: “Oggi profumo di fiori, domani sorriso di
bimbi”. Questo è il mio problema: vivere ai bordi interni delle cose, dentro ma quasi fuori,
sufficientemente dentro per non cercare sbocchi all’esterno sui quali costruire, troppo poco
dentro perché ne rimanga qualcosa di duraturo che ti serva nel lungo periodo.
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Più simpatica la cena di Natale a Casasco, fino a poco tempo fa sostanzialmente uguale: solo tè e tartine di salmone, salami, formaggi. A Pasqua c’era ovviamente il capretto e
la sera prima si mangiavano tutte le interiora fritte nel burro, tranne il Chino che era una
delle poche cose che non mangiava.
Un ruolo importante era svolto dal vassoio dello Zio Cesare (zio di mia madre e mai
conosciuto) quello che si era rotto una gamba infilandosi i pantaloni, vassoio che veniva
dall’albergo che aveva gestito.
Nosei è la fontana dove si andava sempre a prendere l’acqua prima di pranzo e cena.
Era riconosciuta come buonissima prima che sopra sulla montagna ci costruissero tante
villette senza rete fognaria. La zia Emma, gravemente ammalata, si faceva portare a Como
dallo zio l’acqua di Nosei.
Una cosa che fa vivere i ricordi è il formaggio (assolutamente da leggere il libro di
Montanari sul proverbio dei contadini e il formaggio): quando si andava a prenderlo con il
latte in fondo al paese, quando lo si vinceva alle aste della festa nel teatro e poi lo si lasciava
fuori sulla finestra e praticamente si metteva a camminare dai vermi. Il formaggio del Balbi
non è un ricordo d’infanzia ma resta ben impresso per la sua unicità. Ruggero è riuscito a
conoscerlo (quando l’oca rincorse il nonno Leone dopo averlo beccato sul sedere e quando
ci ha fatto vedere come faceva il formaggio). La penultima forma di formaggio l’ha data
a me, ben stagionata. Con Angelo, Elvira, Walter e suo figlio abbiamo fatto un ultimo
dell’anno con lui e quelli della Croce Verde. Aveva un padrone del Vallese che veniva con
l’elicottero a prendergli i maiali e gli dava un buonissimo Fendant che il Balbi ci offriva
sempre dato che lui preferiva lo Squinzano. Di sua moglie una buona ricetta per la grappa
al basilico (25 foglie di basilico e mezzo chilo di zucchero, per un mese agitare ogni giorno
e poi si filtra).
Il mito della Svizzera era forte e oltre alle sigarette si compravano le banane, quelle
grandi come le mangiamo adesso, perché in Italia erano un prodotto da monopolio, le
somaline, quelle che adesso costano una fortuna. Un appuntamento fisso era quello per la
Polenta uncia alla Giulia verso Pian d’Alpi. Nei miei ricordi era l’unica cosa che si mangiava lì, con formaggio magro, tanto burro e l’aglio talmente bruciato che non lo si digeriva
per un bel po’.
Ci sono due proverbi che mia madre ricordava spesso e che tuttora divulgo. Il
primo recita che se ci sono più di sette persone a tavola si può iniziare a mangiare
anche senza aspettare che tutti siano serviti. Il secondo riguarda il pollo e la possibilità
di mangiarlo con le mani solo sopra i 900 metri, cioè in montagna. Per entrambi solo
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da poco mi sono reso conto che c’era, forse, sotto un trucco: noi eravamo in sette e
Casasco è a 822 metri.
A Casasco il caffè dopo averlo usato la prima volta con la napoletana, quella enorme
che ha dato il via alla mia collezione, veniva fatto asciugare sul giornale e serviva per il
caffelatte del giorno dopo con l’aggiunta della Miscela Leone per dare colore e sapore. Chi
nato dopo il 60 può avere questi ricordi?
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La presenza dei parenti
I parenti sono un condimento necessario e insostituibile dei ricordi d’infanzia e, ovviamente, molti di questi si legano al cibo. Per noi tutti in ogni caso era un valore la famiglia
aperta. Li avevamo (io e Rita) divisi tra di serie A e serie B.
E i ricordi si legano alla tavola, direi al convivio. Ad esempio i pranzi con lo zio Riccardo
che a tavola gridava più di tutti quando si discuteva del Garage Franchini, cioè sempre.
Da Como ci portava uno straordinario gelato al mirtillo dalla gelateria sul lungolago di cui
non ricordo il nome.
Il lunedì a pranzo c’era sempre qualche cugino, il Piero ad esempio, mentre per l’Umberto mia madre aveva un’attenzione particolare, a lui dava la bistecca perché debole di
stomaco. Un’altra presenza fissa era il Carlo. Mi è rimasto sempre sul gozzo il fatto che
quando ho raggiunto l’età per essere portato a tavola senza problemi sono finite le cene tradizionali che mia madre offriva ai cugini prima da fidanzati e poi da sposati. I cugini erano
decine e di conseguenza di cene ce ne sono state molte. Io le vivevo nei preparativi (lei si
svegliava alle quattro e mezza e io l’ho aiutata a preparare dei fantastici mandarini ripieni
della loro polpa gelata, di cui ho trovato la ricetta sul Talismano della felicità) perché poi
regolarmente venivo insieme al Giorgio spedito dai Marzorati (dove si mangiavano sempre
le Midolline in brodo).
Quello che un po’ inquieta sono i tanti ricordi di inviti da noi, mentre pochi quelli
di inviti di noi da altri; forse eravamo troppi o forse invitavano solo i grandi, o forse –
anzi certamente – la nostra cucina e la nostra ospitalità era la migliore. Oggi come ieri.
Sinceramente, quasi ogni ricordo di pranzi da parenti è legato non a un invito ma ad
altre ragioni (come malattie o la necessità di liberarsi dei piccoli). Me ne ricordo solo uno
dall’Umberto subito dopo la morte di mia madre con uno Clablis vecchissimo ma buono
e lo zio Riccardo.
C’era, poi, la tradizionale cena per la lepre del Moraschini che stava a frollare e puzzare
nel vino per tre giorni in cucina. Era talmente frollata che il parente, in verità indiretto, ci
aveva insegnato a mangiarla mettendo in bocca il pezzo e poi semplicemente succhiando e
aspirando. Bastava questo per far staccare la carne dalle ossa, stando attenti a non mangiare
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anche i pallini. A queste cene doveva esserci la più simpatica e intelligente dei parenti: la zia
Ilia. Sua madre, la mitica Signora Rossi, a circa 105 anni intervistata da un giornale disse
che gli piaceva mangiare il brasato con un buon bicchiere di vino.
Rarissimi i pranzi con i parenti Maglia, inesistenti nei primi gradi di parentela. Forse il
Leone Maglia era stato invitato al 25esimo di matrimonio ma non si era fatto vivo. Alcune
volte veniva invitato il Francesco Maglia che avendo 5 figlie ci aveva lasciato il compito di
tramandare il cognome.
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Ricordi di mio padre
Il cibo è naturalmente legato a mia madre ma alcuni dei ricordi più forti sono legati a mio
padre, forse proprio perché rari e specifici. Non entrava mai in cucina, solo d’estate a Casasco per fare due cose: i nervetti e il filetto crudo alle sei salse (olio, sale, pepe, salsa d’acciuga, limone, senape), una cosa che resta per sempre, niente a che fare con il carpaccio; la
carne a fette sottili cuoce a crudo per otto ore. Ho già ricordato la pesca con il vino rosso,
ma c’era anche la mela con lo zucchero oltre al vino. Non so quanti abbiano mangiato le
croste di grana fatte sulla fiamma a gas; le voleva fare lui, ma solo quelle del Parmigiano e
non quelle del Padano perché c’era qualcosa di chimico…
Da approfondire una cosa che forse ho ereditato: non mangiava quasi mai dolci, anche
se ricordava che una volta con un cucchiaino aveva schizzato non so chi con la panna montata, ricordo che vale perché era impossibile immaginarlo fare scherzi… Forse il motivo era
lo stesso che mi porta a non prevedere quasi mai dolci (o di lasciarli agli invitati) nei miei
menu: non arrivo quasi mai con sufficiente appetito per poterli gustare.
Muriel Barbery in Estasi culinarie (grazie ad Emanuela di avermelo fatto leggere; se
il suo roast beef di 20 anni fa fosse stato più decente ci saremmo frequentati di più con
reciproco vantaggio) sui dolci fa dire al suo critico morente che “tutta la loro raffinatezza
si coglie solo quando non li mangiamo per placare la fame, solo quando l’orgia di dolcezza
zuccherina non soddisfa un bisogno primario, ma ci ricopre il palato di tutta la benevolenza del mondo”.
Un episodio spiega cosa voleva dire per lui la tavola: c’era Rita da noi, una delle prime
volte, e alla fine del pranzo, abbondante, mio padre esce con “cosa c’è da mangiare stasera?”, lasciando nauseata Rita che era cresciuta a fettine (senza offesa per nessuno…).
Pochi i ricordi di pranzi al ristorante, se si escludono quelli di Natale e Pasqua o quelli
all’Unione, forse perché portare tutti fuori era, anche allora, troppo costoso. Un ricordo
per un ristorante in Cesare Correnti il cui retro dava sul Manzoni, e poi la trattoria da
Carmela che diventava la mensa estiva all’inizio di Mulino delle Armi. Su suggerimento
del Chino ci aveva portato per i 30 anni di matrimonio da Aimo e Nadia, appena ai loro
inizi, niente a che fare con adesso, cioè era un posto fantastico dove ci potevi andare anche
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da studente o da neolaureato (Enrico, qualificandosi, aveva chiesto la fattura di una cena
di una decina di persone…).
Arriva la nuova cucina elettrica: una cosa enorme piena di strane, per noi, manopole.
Mio padre si sentì nel dovere di avvisarci di stare attenti a non girarle. Un suo compito era
quello di preparare l’acqua frizzante che da noi era Idriz; si dovevano mettere due bustine
ma stando attenti alla seconda perché l’acqua iniziava subito “busciare” e si doveva essere
rapidissimi a chiudere il tappo mettendoci anche la carta per aumentare la tenuta.
Quando voleva mangiare leggero la sera spesso si faceva portare il brodo con aglio
e patate, qualcuno mi ha ricordato con dentro anche spaghetti grossi. E qualche volta si
comprava il brodo di tartaruga. Mi ha insegnato a bere l’uovo facendo due buchi e succhiando, ma la sua specialità erano le uova all’ostrica, cioè fresche su un cucchiaio con il
limone. Un piatto fisso per lui, chissà perché lo colloco al giovedì, era il riso in cagnone
(per Il Talismano della felicità con la i finale), pilaf o semplicemente bollito, e poi passato
in padella con la pasta di acciughe e prezzemolo e servito con una svizzera, cioè un hamburger non condito.
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Mamma e cibo
Non ci sarebbe bisogno di dedicare un capitolo a mia madre perché tutti o quasi i ricordi
sono legati a lei. Ce ne sono alcuni però intimi. Come quando mi portava in centro in
Galleria davanti al Savini (era il Biffi?) dove c’era un vero e proprio ristorante americano
con snack bar sotto e un misterioso per me posto di sopra che altro non era che un self
service. Niente a che vedere con oggi. Il piatto più buono e che prendevo sempre era il
Mamaburger, a tre strati difficilissimo da mangiare, mentre il Papaburger era più basso.
Mi ricordo anche un filetto all’hawaiana con bacon attorno, ananas e uvette. Era dolcissimo andarci con lei. Chissà se altri ci sono stati, era fantastico perché esotico come adesso
sarebbe un ristorante esquimese. Chissà, ma forse proprio come in Estasi culinarie sarebbe
questo il ricordo che mi verrebbe in mente alla fine di tutto. E non a caso assomiglia un
po’ a quello del libro.
Le passeggiate in centro e alla Rinascente prevedevano una sosta all’Alemagna all’angolo tra Via Torino e il Cordusio, bevendo sempre la loro aranciata in un bicchiere bellissimo e mangiando il toast (135 lire semplice, 155 farcito). A proposito di prezzi, andando
ad Urbino con lei rimasi scioccato dal costo di una Coca Cola: 160 lire.
A parte il sottoscritto, gli altri lasciavano resti nel piatto e lei li mangiava tutti, perché
“San Giorgio è sceso da cavallo per un chicco di riso”. Lo stesso ho sempre fatto anch’io.
Sono sempre stato criticato perché ero l’unico che chiosava su quello che veniva portato a
tavola. Lo facevo, ma mangiavo tutto, mentre gli altri – pecoroni – stavano zitti e rifiutavano molte cose. L’Angelo mangiava mai l’insalata? Il minestrone, per farlo mangiare a lui
e al Giorgio, veniva frullato (non passato e così restava sopra una schifosa schiumina). Ma
non bastava, e lo mangiavano chiudendosi il naso (mia madre ridendo diceva di chiudersi
anche le orecchie).
Un piatto raffinato era l’Aspic di pollo, di cui c’è una ricetta complicatissima nel libro
delle nonne, con le verdure e la gelatina. Lo faccio anch’io con un pollo arrosto molto
bagnato o con la gallina o cappone e poi disossato e messo in gelatina con le sue verdure di
cottura e altre. La cultura del risparmio era forte: “chi più spende, meno spende” portava
a preferire il prosciutto crudo apparentemente più costoso di quello cotto, che però mi
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ricordo comprato più spesso dell’altro, bagnato tanto era grasso e per questo buonissimo.
La mattina ci spediva a scuola con un panino: scamorza affumicata e pane nero. Il numero
delle fette che costituivano il panino dipendeva dall’età, da due a quattro.
Riso bollito, corada e prezzemolo: non buono ma impresso nella mente. Buona, invece, la crema di pomodoro servita con un cucchiaio di panna al centro. Prima la faceva lei,
poi ha scoperto le zuppe Campbell, questa e quella di fagioli. Chiedo spesso agli amici se
qualcuno fosse invitato, quando c’era una primizia, a “cagna l’asen”, nel senso che si doveva
almeno provare una cosa nuova. Perché si dovesse morsicare l’asino non è chiaro. Prima di
morire mi diceva ancora di mangiare perché “altrimenti ti scende il rene”. Il percorso da
casa alla Ditta implicava la fermata alla pasticceria Vecchia Milano di Giangiacomo Mora
e quella da Cucchi. L’attuale proprietario dovrebbe avere della riconoscenza nei nostri
confronti perché quando era piccolo, visto che non si chiudeva mai ad agosto, fu portato
in vacanza a Casasco da mio padre.
C’era un cassetto con dentro le figurine Liebig, ma ancor di più mi ricordo le fascette
dei Pelati Cirio. Spesso si facevano le cotolette impanate e restava sempre un po’ d’impanatura che (sono certo e nessuno mi può contraddire) veniva fatta a pallina allungata e
destinata solo a me. Finisco qui perché è giusto così, sul ricordo più tenero.
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Le ricette degli amici
Alcuni amici si sono prestati al gioco di partecipare a questo capitolo con una loro ricetta.
Altri non hanno voluto o soprattutto non hanno potuto farlo. Non devono preoccuparsi:
continueranno ad essere invitati alle mie cene. Devo ringraziare di cuore, però, tutti quelli
che si sono impegnati e come si vedrà con grande serietà: hanno capito quanto fosse importante per me e mi hanno aiutato.
Prima di passare alle loro ricette voglio con un paio di esempi tornare alla cultura e
alla capacità del cibo di scatenare ricordi sopiti. Franca ha tanti motivi per entrare nei miei
ricordi, alcuni di questi sono anche culinari e ne ho già scritto nella prima parte. Ricordo
ancora la crema di porri di sua madre, di una dolcezza infinita. Qui voglio soltanto parlare
di un fatto che trovo incredibilmente significativo. Si andava spesso con suo padre, fantastico gourmand, per trattorie; ad esempio alla Buca di San Vincenzo dove si mangiava in
tavolate uniche e con 800 lire si gustava anche l’anatra cotta in una cucina di dimensioni
ridottissime. Un paio di volte siamo andati la domenica a Zibello e si mangiava in un
modo veramente fantastico, soprattutto i primi. Poi, per molti anni, mi sono ricordato
di Zibello e dei piatti, ma non il nome della trattoria se non il fatto che la padrona si
chiamava Zecca Zaira. Dopo 20 anni una sera, cena aziendale dopo un convegno a Parma: fantastico tris di primi e al pasticcio in crosta dolce mi viene un chiaro messaggio dal
passato: io qui ci son già stato, ma nulla del posto mi ricordava qualcosa se non quello che
stavo mangiando. Blocco la padrona e le chiedo: “Lei conosce la signora Zecca Zaira?” e
la risposta: “Certo, era mia zia!”. Il posto era lo stesso e l’avevo ricordato solo attraverso i
sapori. Per chi ci va, salti il fantastico culatello, si fermi ai primi o al massimo si conceda
una lingua stufata per lasciare spazio alla bavarese con 36 uova per chilo.
Un altro “caso” completamente diverso mi permette di inserire anche Emanuela in
questo capitolo (avendo Ugo non ha bisogno di far da mangiare). Eravamo ad Erba per il
falò di Sant’Antonio e Alessandro ci aveva comandato in cucina per preparare l’insalata o
il formaggio. Da come era maldestra mi viene da dirle una di quelle cose che dimostrano
la mia ironia ma anche il mio tatto d’elefante. “Ma tu hai mai fatto da mangiare?”. Lei mi
guarda e mi dice (non ricordo le parole precise): “Vent’anni fa eri stato invitato a casa mia
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ed ero stata obbligata a preparare da mangiare e di fronte al mio roast beef mi avevi detto
una cosa simile (del tipo: e questo sarebbe un roast beef?)”. Ci vedevamo da alcuni anni
ma non avevamo mai pensato di esserci visti prima! E di colpo emergeva il ricordo di una
cena con una persona mai più vista per i venti anni successivi.
Alberto e Valeria
Iniziare da loro è un dovere. Mi sopportano con ironia da anni e sento per loro tanto affetto e
tanta riconoscenza. Ho passato ore ad aspettare Alberto perennemente troppo occupato, ho sopportato le angherie dei loro figli insensibili ai miei utili consigli, mi sono affamato con le cozze
di Valeria, ma vorrei ancora continuare così per decenni… La loro tavola è spontaneamente
quella che io faccio fatica a costruire, anzi ci manca quel tocco (non le verdure di Piossasco, ma
anche quelle), che forse non avrò mai. La vita, la morte, il bene, il male. La ricetta è proposta
da Alberto ed è di fatto l’unica cosa che sa fare. Il resto è tutto nelle mani di Valeria (per fortuna) che ha scelto di essere ricordata qui con il seguente messaggio.
“Caro Vittorio, l’imbarazzo è grande, trattandosi di “olimpo”, dal momento che come tu ben
sai io faccio il risotto con la pentola a pressione e il dado, faccio da tempo solo puree Knorr
e crema pasticcera Cameo, uso bechamel pronta e pasta frolla Buitoni, bevo esclusivamente
vino regalato, e mi rifiuto categoricamente di assaggiare tanto le animelle che i duroni d’oca,
rivelando così la mia scarsa preparazione in fatto di tradizioni culinarie. Potrei dire qualcosa
sulla cioccolata, che mangerei dalla mattina alla sera e che mi sento di giudicare, ma non si
tratta certo di ricette! Quindi penso che non ti resterà che ricordarmi solo per come carico la
lavapiatti..Eh vabbé, vabbé, vabbé.”
Come condire l’insalata
Il proverbio dice che ci vogliono: un prodigo per oliarla, un parco per acetarla, un pazzo
per mescolarla. Io dico che non è tanto vero o che, quantomeno, è un modo ‘milanese’ di
trattare un alimento: efficace ma un po’ rozzo. Per condire bene un’insalata per 4/5 persone
occorre in primo luogo una grande insalatiera da cui le verdi (o rosse o bianche) foglie non
emergano dal bordo ma se ne stiano ben al di sotto, almeno tre dita. Se le foglie sono grandi meglio ridurle, anche a mano ma senza ‘ciancicarle’. Mettere in un cucchiaio da cucina
una presa di sale né piccola né eccessiva, quindi riempire il cucchiaio stesso di aceto fino a
raggiungere lo stato di massima tensione superficiale: con i rebbi della forchetta mescolare
quindi il sale nell’aceto con piccoli colpi secchi e rotatori, contemporaneamente spargere
qua e là sulle foglie l’aceto ‘salato’ che progressivamente uscirà dal cucchiaio in seguito al
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lavoro eseguito dalla forchetta e alla lieve inclinazione in cui si dovrà tenere il cucchiaio
durante l’operazione.
L’aceto dovrà essere di vino (meglio rosso) oppure di mele purché di buon vigore;
assolutamente da respingere gli aceti balsamici o aromatici, anche se autentici. A questo
punto con le due posate fin qui usate si darà una prima breve rimescolata. Si versano poi
tre cucchiai abbondanti di olio extravergine di oliva (meglio quattro, specie se si tratta di
un tipo d’insalata a forte assorbimento). Si depongono ora le posate da cucina (di solito
sono di metallo, a bordo sottile) e s’impugnano due posate ‘da insalata’, intendendo quindi
le classiche posatone, a manico lungo, di legno o di plastica; possono anche essere metalliche purché a bordo spesso e arrotondato.
E ora, per mescolare, il ‘pazzo’ proprio non ci vuole: l’operazione richiede pazienza e
razionalità, armonia dei movimenti e della psiche, senso musicale e percezione degli spazi e
dei volumi; le posate devono penetrare tra le foglie con delicatezza e decisione insieme, con
movimento rotatorio dall’alto verso il basso all’andata e dal basso verso l’alto al ritorno;
ogni tanto si interrompa tale movimento con intermezzi di brevi ‘sollevamenti’ dalle parti
basse dell’insalatiera delle porzioni che si presentano più lubrificate per redistribuirle tra le
altre ancora asciutte e scabre. Al termine di questa attività, che è gradevole e rilassante (se
ben interpretata) oltre che utile e necessaria al buon esito dell’insalata ‘condita’, non resta
che mangiarla subito.
Diffidare da coloro che dicono che l’insalata va lasciata riposare perché il condimento
possa meglio penetrarla: ciò vale solo per il cicorino tagliato fine (al quale andrà aggiunto
uno spicchio d’aglio intero); tutte le altre, se ben condite, non hanno bisogno ma anzi
temono l’attesa. Variante salutista (ma anche buona): al condimento come sopra descritto
aggiungere un cucchiaio da dessert di lievito di birra in scaglie (acido folico in natura) oppure di lecitina di soja in grani (abbassa il colesterolo); conseguentemente occorre aumentare, ma solo lievemente, le quantità d’olio e d’aceto. Ulteriore suggerimento: con gli stessi
criteri, d’inverno, si può (anzi si deve) condire la verza cruda tagliata fine; al condimento
sopra descritto si aggiungerà un trito di filetti di acciuga e di capperi previamente sciacquati e asciugati oppure, più sbrigativamente ma con esito quasi altrettanto soddisfacente,
una quantità a piacere di pasta d’acciuga.
Etta e Luigi
Etta e Luigi hanno avuto purtroppo per troppo poco tempo un posto fondamentale nella mia
(nostra considerando Rita) vita. Ma quel tempo è il più importante. Basti pensare che siamo
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stati reciprocamente testimoni di nozze e che San Maurilio c’è grazie a loro. Poi ci sono tante
altre cose della giovinezza piena e matura. Tutto iniziò, o almeno io fisso lì l’inizio, con la prima invernale al Generoso col Chino e il Carlo, quando una seicento (quella venduta al barista
della Bocconi con un buco nel pianale che ci vedevi la strada) saliva verso Orimento con dentro
il meglio dei Lanzichenecchi. La sera a Lanzo con Rita e Etta e poi via!
Ma non è questo il luogo di questi ricordi, anche se ci si dovrebbe allenare, partendo dalla
Carnata casaschese con Alfredo, gli stage a Fié, la notte a Cecina nell’Hotel Settebello. Lancio
a loro e ad altri la proposta di un momento scritto condiviso con brevi ricordi comuni: io ti
ricordo il mio e tu uno che avevo perso. Poi una grande cena per condividerli. Per entrare
nell’argomento che ci è proprio, posso ricordare quando Etta prendeva il filetto per fare il bollito
o quando si mangiava insieme in San Maurilio per il Teanner domenicale, incrocio tra tè e
cena, con quello che c’era.
Ecco la ricetta che propone Etta (Luigi non l’ho mai visto far da mangiare).
La Tacolenta, impeccabile rimedio a qualsiasi momento giù di morale
Oramai lontana dall’Italia da venticinque anni, i ricordi dei luoghi italiani, degli amici
italiani e di come avrebbe potuto essere la mia vita in Italia mi lasciano sempre un filo di
nostalgia. Da mia nonna ho ereditato questa ricetta a base di cioccolato che solo con la
permanenza all’estero ho perfezionato e iniziato a servire regolarmente con ottimi risultati
sul morale mio e dei commensali!
Ingredienti per otto persone con appetito normalissimo, per sei con una penchant al
dolce, per quattro extragolosi: 200 g di cioccolata amara con almeno 70-80% di cacao,
70 (se volete essere più dietetici) o 100 g di burro, 200 g di zucchero bianco, 3 uova, 3
cucchiai rasi di farina (meglio se autolievitante), burro e pan grattato per la tortiera, o carta
cerata per foderare la tortiera una confezione piccola di panna liquida.
Preriscaldare il forno a 250 gradi. Imburrare una tortiera del diametro di circa 20
cm oppure foderarla con la carta cerata appena inumidita. Fare sciogliere a bagnomaria la
cioccolata a pezzetti, aggiungere il burro e amalgamare bene. Montare gli albumi a neve separatamente. Sbattere i tuorli con lo zucchero, aggiungervi la farina, la cioccolata e il burro
fusi, gli albumi. Amalgamare bene gli ingredienti tra loro. Versare il tutto nello stampo.
Mettere in forno a 250 gradi per 5 minuti, poi abbassare a 100 gradi e cuocere per altri 1215 minuti. Sfornare, lasciare raffreddare un po’, ma per un vero effetto tirami-su la torta
va servita ancora appena appena tiepida con un po’ di panna liquida che ogni commensale
verserà sulla propria fetta.
Un trionfo del palato, un fallimento per gli psicanalisti.
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Giacomo e Stefania
Giacomo è nato il 23 aprile, esattamente un anno dopo di me. Questo non è l’unico motivo per
cui è speciale. Per lui la lontananza non vale. E ultimamente mi rifugio a Basilea portandoci,
oltre che la bici per i miei giri solitari, i miei problemi e lì mi faccio coccolare. Nel tema di
questo libro, poi, Stefania entra dalla porta principale con il suo prossimo Blog “Stefania suggests” per chiunque voglia prendere un attrezzo da cucina o comprare un ingrediente speciale.
Queste ricette e ricordi sono stati raccolti proprio a Basilea a Capodanno 2012. Lascio la parola
a Giacomo.
La famiglia Di Nepi fu fortunata. Il regime di Mussolini stava volgendo al peggio.
Molte famiglie ebree purtroppo continuavano a pensare che il fascismo fosse diverso dal
nazismo. Non mio nonno, che rapidamente capì che non era così. Scapparono per le vie
dei contrabbandieri sopra al Lago di Como e si rifugiarono in Svizzera. Anche se per un
periodo andarono in campo di lavoro a raccogliere patate, fu una grande fortuna, tutta la
famiglia si salvò (la storia in un altro capitolo).
Quando tornarono ripresero la loro vita, cercando di ricostruirla da dove la avevano
lasciata. Papà si iscrisse a legge – e cercò anche di rientrare nella vita di giovin signore
romano, dopo le durezze del campo di lavoro in Svizzera. Un pomeriggio, adocchiò due
piacenti ragazzotte. Uno sguardo d’intesa con il ragazzo alto e bello che gli era vicino, e che
non conosceva. Immediatamente, partirono all’attacco e cominciarono a portarle per una
passeggiata a Roma, affabulando – metà verità e metà invenzione- le bellezze della città.
Arrivati a Villa Balestra, una delle due – belloccia ma un po’ burina – gli chiese “ Ma che,
ce l’hai un cortellino?”. Papà – che aveva orrore di qualsiasi arma e ovviamente non l’aveva
- gli chiese perché’. E lei, romantica, “Pe’ taija’ du’ roselline…. una pe’ mme, una pe’ tte!”.
Il seguito non è noto – ma non difficile da immaginare.
Ma l’incontro fu importante, perché’ l’altro ragazzo era mio zio Lino (Nicola). Divennero amici. Nel clima di riappacificazione poco contò che suo padre (morto in guerra) e suo
fratello (ahimè morto anche lui) fossero stati fascisti – come peraltro tanti italiani. Molto
più interessante era che papà capì che mio zio aveva una sorella carina, e che teneva rigidamente nascosta. Conobbe così mia mamma. Si fidanzarono, e nel frattempo mio zio fece
lo stesso con un’altra ragazza, che sarebbe diventata mia zia. Spesso facevano assieme delle
scampagnate fuori Roma. Talvolta andavano a Fregene e la mitica Amalia, la cuoca emiliana
di casa, preparava un piatto semplice, che si poteva mangiare sia freddo che caldo, tagliandolo a fette, e accompagnandolo con un buon bicchiere di vino. Il grande pasticcio di maccheroni. Che poi entrò nella tradizione di famiglia, chissà perché, come piatto di Natale.
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Il grande pasticcio di maccheroni
Non è difficile da fare (per 6 persone). Foderare uno stampo con apertura a molla con
pasta frolla dolce o semidolce – più o meno spessa a seconda del gusto (un po’ spessa a me
piace di più… e consente di portare il pasticcio a Fregene, o dove volete). 2 rotoli sono il
minimo, il blocco di frolla è meglio. Se volete dare un tocco di classe, usate uno stampo
(con apertura a molla, beninteso) col buco, è anche funzionale (vedete dopo).
Fare delle piccole polpette, con pane bagnato nel latte e strizzato (o più semplicemente
col pangrattato), parmigiano, abbondante noce moscata, prezzemolo, 1-2 uova, 200g circa
carne trita di manzo e anche un po’ di salsiccia (la mia famiglia non fu mai molto osservante) o mortadella o prosciutto cotto. Quello che avete in casa va bene -fatele a vostro gusto.
Passarle in padella con un po’ di burro. Quando rosolate, aggiungere abbondantissima
passata di pomodoro o pomodoro a pezzettoni. Cuocere per un po’. Se volete una versione
“rinforzata” fate invece un ragù, cui aggiungerete, ad abundantiam, le polpette.
Nel frattempo sbollentare appena (2-3’) i maccheroni. Unire i maccheroni alle polpette con sugo. Aggiustate di sale e pepe. Aggiungere una manciata di piselli surgelati e
qualche fungo secco precedentemente ammorbidito nell’ acqua e ripassato in padella, dei
pezzetti di scamorza. In realtà potete metterci dentro quello che vi pare. Mescolare tutto
bene e versare nello stampo ricoperto di sfoglia aggiungendo per sorpresa un paio di uova
sode (ovviamente sbucciate). Chiudere con altra pasta frolla e mettere in forno a 200 gradi
per 20-30’ – o finché la pasta frolla è dorata. Versate sul piatto di portata (e se c’è il buco
nella forma in mezzo ci mettete altri piselli, del sugo di pomodoro… Si può mangiare
caldo o a temperatura ambiente. Buonissimo!
Cranberry sauce
In famiglia festeggiamo di tutto. S. Patrick’s (Claire, la nanny, nonché la seconda mamma
di Costanza, è irlandese), Halloween, S. Valentino, la festa delle mamme (Stefania, Claire
e io – la terza), il mezzo compleanno (6 mesi dal compleanno) di Costanza, oltre che le
feste comandate. Tornati dagli USA, mantenemmo anche Thanksgiving. Di cui uno dei
componenti fondamentali è la cranberry sauce (che usiamo fino e oltre Natale, e che va
benissimo non solo sul tacchino, ma sul formaggio, su ogni tipo di carne – lessi, arrosti,
prosciutto cotto a fettoni…). Sciacquare in acqua corrente e fredda 1 kg di cranberry, metterli in una pentola con il succo di 2 arance, le scorzette delle arance tagliate finemente, 2
stecche di cannella, un pizzichino di sale, ½ bottiglia (1 bicchiere)di sciroppo d’acero, 2
cucchiai di zucchero di canna (adattare a seconda della maturazione del cranberry). Cuoce-
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re a fuoco medio fino a che tutte le bacche non siano scoppiate e il composto sia diventato
simile ad una marmellata (nel frattempo, assaggiate e aggiustate la dolcezza con sciroppo
di acero o zucchero). Se avanza, congelare (anche in monoporzioni).
Gianni e Patrizia
Negli anni 70 Gianni scriveva sulla sua agendina tutti i giorni che mi vedeva. Poi è scomparso
in Argentina, ma per fortuna ci siamo rivisti. Patrizia è scomparsa in Messico, ma mi piace
riunirli in questo capitolo in ricordo soprattutto di Pieve di Soligo, le ombre, Four Winds,
Refrontolo, Collalto, la signora Reginato, una cena mitica con l’amico dei formaggi (il Principe) e la tirasesso. Patrizia faceva spesso un piatto semplice ma gustosissimo che le ho chiesto di
mandarmi dal Messico.
Patate con cipolle al curry
Cipollotti affettati e soffritti con un po’ di burro, olio e pepe. Aggiungi il curry sciolto
nell’acqua e fai cuocere 10 minuti.
Versa il tutto in una pirofila, aggiungi uno strato di yogurt e copri con patate bollite
tagliate a striscioline o grattuggiate. In forno a gratinare ed è pronto!
Annibale
Scoperto tardi in un modo che spiega tutto: Gressoney, dopocena, ci sediamo vicino e io mormoro una parola “bici”: una valanga, una cascata e una bell’amicizia e tante cose fatte insieme e
che faremo. Soprattutto, una delle poche persone che mi fa parlare. Ovviamente tanti ricordi di
mangiate insieme. Mi piace ricordargli le cene da me con i suoi meravigliosi genitori o quelle
con Marco a Gressoney o a casa mia.
Spalla di maiale in umido
Partiamo dalla spalla fresca di maiale che troviamo all’Esselunga. Un pezzo di almeno 7/8
etti, ma anche di più, che tagliamo a pezzi grossolani. In una casseruola, preferibilmente
di ghisa, mettiamo a soffriggere due porri tagliati alla julienne, fino a che siano imbionditi,
senza bruciarli.
Quando i porri sono a punto li leviamo dalla casseruola e mettiamo il maiale a rosolare a
fuoco allegro. Quando è ben rosolato saliamo e aggiungiamo mezzo bicchier di vino rosso.
Intanto – la sera prima - avevamo messo in ammollo un paio di etti di fagioli borlotti, che
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ora aggiungiamo al maiale, con i porri, la scorza di limone ed un piccolo peperoncino. A
questo punto facciamo cuocere per un’ora e mezza, fino a che la carne sia tenera e quasi
sfatta.
Pere cotte
Sbucciamo e tagliamo in quarti sei pere kaiser. In una padella con il bordo alto e – perché
no – in ghisa facciamo scogliere una noce di burro, in cui rosoliamo bene le pere sui due
lati. Rosolate che sono, aggiungiamo una micro presa di sale, mezzo bicchiere di vino
rosso, la scorza di limone, lo zucchero (diciamo tre cucchiai da minestra colmi di zucchero
di canna) e copriamo. C’è chi aggiungerebbe cannella e/o chiodi di garofano, ma io non
sarei così convinto. Il tempo di cottura dipende dal grado di maturazione delle pere: se le
avete comprate all’Esselunga sarà necessaria non meno di mezz’ora. Se le avete comprate
al mercato potrebbero bastare venti minuti. Potrete servirle con una noce di panna acida
accanto o di yogurt Total non magro.
Polpettone
In una ciotola uniamo: mezzo chilo di macinato di ottima qualità, due etti e mezzo di
mortadella di bologna tritata, tre etti di pane in cassetta – privato della crosta – ammollato
nel latte e ben strizzato, un etto e mezzo di parmigiano grattato, due spicchi di aglio tritato.
Impastiamo fino a che il composto acquisti una consistenza omogenea e aggiungiamo un
uovo intero sbattuto. Sul tagliere o meglio sul piano di marmo, diamo forma al polpettone
e lo passiamo nel pane grattato. In una padella a bordo alto avremo messo abbondante olio
di oliva, quando è caldo rosoliamo il polpettone su tutti i lati, in modo da fargli una bella
crosticina color nocciola. Quindi aggiungiamo un bicchiere di acqua calda e completiamo
la cottura, senza essere frettolosi, diciamo quaranta minuti?
Zuppa di cardi e baccalà
Puliamo i cardi senza tirchieria: eliminiamo i gambi esterni duri e rovinati, asportiamo i
filamenti più ostinati e mettiamo a bagno in acqua acidulata con il limone. Quindi lessiamo i cardi in abbondante acqua salata per un’ora e mezza o giù di lì. Intanto mettiamo a
rosolare il baccalà infarinato, in un battuto di scalogno (ammollato e dissalato adeguatamente). Il baccalà cede parecchia acqua, di conseguenza non è necessario levare il battuto
per evitare che bruci, ma fate voi. Leviamo i pezzi più belli del baccalà dalla casseruola e
aggiungiamo i cardi - tagliati a pezzi di dieci centimetri circa - con il loro brodo di cottura,
le uvette e i pinoli, l’immancabile scorza di limone e un pizzico di peperoncino. Cuociamo
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per mezz’ora, anche quaranta minuti e poi aggiungiamo i pezzi di baccalà messi da parte.
Una variante più raffinata può essere quella di fare polpettine di baccalà, friggerle e poi aggiungerle ai cardi, uvette e pinoli. In questo caso, stuferemmo il baccalà, lo setacciamo, lo
impastiamo con un uovo intero, lo passiamo nella farina e lo friggiamo in olio abbondante. Poniamo le polpettine, della grandezza di una noce, sulla carta assorbente e poi uniamo
alla zuppa, magari completando con una spruzzata di parmigiano.
Cristina e Fabio
Milano per me è diventata meno bella quando loro se ne sono andati. Per fortuna riusciamo
a vederci quando io vado a Firenze e cerco di dormire nella loro dépandance e quando loro
vengono soprattutto a Natale a Milano. Per ora siamo sempre riusciti ad organizzare un bel
pranzo. Mi ha commosso il messaggio ricevuto da entrambi quasi uguale: “Il bue grasso di
Carrù era un mito! Il vero pranzo di Natale per noi è quello da te.” Per uno come me non ci
può essere un complimento migliore e soprattutto una dichiarazione di affetto così dolce. Hanno
solo un difetto: sostanzialmente ignoranti sul vino; e pensare che avevano ricevuto una delle mie
magnum Barbaresco 88 di Cigliuti: le perle ai porci…
Fegatini alla toscana (dosi a piacere)
Prendere circa mezzo chilo di fegatini di pollo, facendo attenzione ad eliminare i cuori (se
ci fossero!) e i sacchettini di bile (idem). Mettere a rosolare con un trito di cipolla e qualche
foglia di salvia. Far cuocere per un pochino (qualche minuto) e poi irrorare con due dita di
Marsala. Far evaporare. Cuocere quanto basta (un quarto d’ora circa). Passare al passaverdure, eventualmente aggiungendo capperi. Spalmare il composto su fette di pane toscano
lievemente abbrustolito e leggermente bagnato con un po’ di brodo. Alessandro
Dopo aver fatto il San Carlo insieme, dalle medie fino al 97 non ci siamo mai più né visti,
né frequentati; poi, grazie a Donato, ci siamo ritrovati in una per me mitica Corsica, la mia
prima volta, la sua centesima.
Da lì è nato molto, penso non solo per me; ho dati di fatto che dimostrano che da lì è nato
un gruppo di ciclisti e compagni di vita che senza di me forse non ci sarebbe stato, non così
per lo meno. Alessandro, per fortuna per lui, è molto diverso da me, ma è la persona che più
identifico (oltre a me) con la cultura del convivio, in lui esaltata dal disporre di un luogo
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ideale dove praticarla, Erba. Anche lui non è un grandissimo cuoco, ma è insuperabile (con
un’eccezione…) nel mettere insieme le persone attorno al cibo. E alla bici, essendo il nostro
unico presidente.
Crema di cachi al caramello
Ingredienti: 2 kg di cachi, 400 g di zucchero, cannella in polvere, rhum. Separate la polpa
dei cachi dalla loro buccia e dagli eventuali semi, raccogliendola in una terrina. Frullate la
polpa in un frullatore per qualche secondo e lasciatela riposare. Nel frattempo metterete
al fuoco lo zucchero e 2 cucchiai di acqua in una pentola dal fondo spesso portandolo ad
ebollizione e facendolo poi caramellare, molto lentamente e a fuoco basso.
Nel frattempo avrete separato circa un terzo della polpa di cachi e lo metterete al fuoco a bagnomaria rigirandolo continuamente e riscaldandolo fino quasi al primo bollore.
Non appena lo zucchero sarà completamente caramellato e privo di grumi toglietelo dal
fuoco (attenzione a non abbrustolire lo zucchero subito dopo aver raggiunto lo stato di
caramello), unite mescolando velocemente la polpa di cachi riscaldata allo zucchero che
reagirà violentemente sprigionando bolle, schizzi e vapori (occhio a non scottarvi!). Rigirate il composto velocemente cercando di evitare la formazione di grumi di caramello e
così facendo noterete che il bollore diminuirà man mano che la temperatura scenderà. Se
sarete fortunati riuscirete ad ottenere una buona miscelazione dei due componenti, senza
grumi di caramello.
Fate raffreddare fino a temperatura ambiente il composto così ottenuto e solo a questo
punto unirete i restanti 2/3 della polpa di cachi, 2 o 3 cucchiaini di cannella, mezzo bicchiere di rhum (o, in alternativa, di marsala). Mescolate dolcemente il tutto e la crema di
cachi è pronta. Servitela in coppette, aggiungendo un cucchiaio di panna liquida. E i vostri
commensali non vi dimenticheranno più! Il segreto (e la sola difficoltà) della ricetta sta
tutto nel miscelare la crema allo zucchero caramellato: l’unione di questi due ingredienti,
per via dell’altissima temperatura dello zucchero, è assai problematica. Per questo occorre
riscaldare parte della polpa, così da ridurre la differenza della temperatura al momento
della miscelazione.
Non è così facile come sembra: la polpa di cachi, se si riscalda troppo si addensa in
modo anomalo e cambia sapore; se invece resta troppo fredda quando tocca lo zucchero incandescente diventa una colata da altoforno e lo zucchero si compatta in blocchi. Soltanto
dopo diversi tentativi andati male sono riuscito a trovare il giusto equilibrio per ottenere
il risultato. Nel descrivere questa ricetta ho cercato di trasmettere l’esperienza fatta. Ora
tocca a voi. Auguri !
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Macedonia di frutta cotta sciroppata
Più che una ricetta questa è una passione. E, quando si tratta di frutta prodotta dall’orto di
casa, in un certo senso, è anche una necessità. Nell’orto infatti, specie se di tipo casalingo, è
un po’ come per il maiale: non si butta via niente. In realtà non è proprio così: le parti più
malandate della frutta, cioè per lo più quelle marcite per l’intervento di un insetto o perché
ammaccate dalla grandine o comunque difettose e non “sane” sono da scartare (ma non da
buttare se si ha la buona abitudine di smaltirle nel contenitore di compostaggio casalingo).
Le altre parti, anche se non perfette, sono adattissime ad essere utilizzate per questa ricetta
semplicissima. E se poi la produzione, come spesso capita, è abbondante e concentrata nel
tempo, questo è un ottimo modo per utilizzare le eccedenze produttive e al tempo stesso
per fare un po’ di scorta per l’inverno.
Ingredienti: 1 kg di frutta fresca di vario tipo (mele, pesche, albicocche, ciliegie, amarene, prugne, pere, fichi, ecc.) meglio se dell’orto di casa, possibilmente non trattata con
anticrittogamici o fertilizzanti chimici, 400 g zucchero, meglio se di canna, 2 bicchieri di
vino rosso o bianco, spezie (cannella, chiodi di garofano, zenzero), 1 limone non trattato
in superficie, uvetta appassita e prugne secche denocciolate, pinoli. Quando l’orto produce in abbondanza (o il vostro fruttivendolo di fiducia è in vena di saldi) utilizzate la
frutta matura, lavatela, asciugatela e spezzettatela grossolanamente conservando la buccia
(sì anche quella dei fichi, se di fichi vi state occupando) lasciando eventualmente anche il
nocciolo (nei casi in cui toglierlo sarebbe una fatica improba, come ad es. per le ciliege e
amarene, o anche per le prugnette selvatiche). Mettete la frutta in una grossa padella (ad
es. di diametro 25 cm) dai bordi un po’ alti e cospargetela con lo zucchero e bagnatela col
vino bianco o rosso; aggiungete un po’ di cannella, 6-7 chiodi di garofano, eventualmente
un pizzico di zenzero, la scorza di mezzo limone tagliata a scagliette.
Accendete il fornello con fuoco vivace fino a raggiungere il primo bollore e proseguite
la cottura per 3-5 minuti e non di più a fuoco moderato coprendo la padella. Alla frutta così
“sbollentata” potrete aggiungere un po’ di prugne secche denocciolate e una manciata di
uvetta sultanina e con questo mix riempite dei barattoli Bormioli (meglio quelli non troppo
grandi) che chiuderete col loro tappo a vite. Mettete poi i barattoli in un’ ampia pentola piena d’acqua sul fondo della quale avrete avuto l’accortezza di posare uno straccio per far sì che
il vetro non venga a contatto diretto col calore della fiamma e non si spacchi. L’acqua arriverà
al limite dei coperchi dei barattoli. Fate bollire a fuoco medio per 30 minuti e fate raffreddare
i barattoli nell’acqua senza toglierli dalla pentola. A completo raffreddamento estraete i barattoli dall’acqua, asciugateli, applicate – se volete – un’etichetta riportando il tipo di frutta e la
data di preparazione e riponete i barattoli in un luogo asciutto, fresco e possibilmente al buio.
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La frutta preparata così si conserva in dispensa anche per 2-3 anni. Potrete preparare
in questo modo sia barattoli con frutta di un solo tipo ma anche barattoli con frutta mista (ad es. pesche e prugne, mele e fichi, pere e mele) “arricchendoli” eventualmente con
un po’ di prugne secche o uvetta. All’occorrenza aprirete i barattoli per servire la frutta
aggiungendo un po’ di panna liquida o un po’ di yogourth oppure anche una cucchiaiata
di gelato alla crema. Miscelando più barattoli di frutta di vario tipo e aggiungendo una
manciata di pinoli avrete un’ottima macedonia di frutta cotta, da prepararsi all’ istante.
Una piacevole variante potrebbe anche essere quella di sbriciolarvi sopra qualche amaretto.
In ogni caso ricordatevi però di avvisare i vostri ospiti dell’eventuale presenza di noccioli
nella macedonia! È importante!
Valeria
La ricetta proposta da Valeria scatena una marea di ricordi recenti, come quando a Jadrija
una simpatica vecchietta ci faceva trovare un’enorme quantità di cozze che mangiavamo a due
metri dal mare. Una volta avevamo invitato un po’ di Maglia ed essendo in otto la mattina
presto sono andato nella pescheria davanti a Peck a comprare otto chili di cozze. Il commesso
mi guarda e mi domanda “ma lei ha un ristorante?”, mandandomi ovviamente in un brodo di
giuggiole. Le cozze sono diventate una mia passione grazie a Valeria e a Milano consiglio a tutti
di andare a mangiarle a Le Vent du Nord vicino a Piazza Lodi.
Cozze alla buzara
Ci vogliono: cozze fresche pulite (1 kg per persona), olio di oliva, aglio (e a chi piace
cipolla), pane grattugiato, vino bianco, prezzemolo. Far dorare nell’olio di oliva l’aglio (e
la cipolla) tagliati sottilissimi, quindi aggiungere il pangrattato che serve a far addensare
il sugo. Quando il pangrattato si è dorato aggiungere le cozze e il vino bianco e coprire
la pentola. Di tanto in tanto girare le cozze per farle aprire tutte. Quando tutte le cozze
saranno aperte aggiungere il prezzemolo tritato e se piace pepe. Buono servito con crostini.
Andrea e Anna
Mentre sto scrivendo sono reduce da una spedizione organizzata dai Galimberti a Romagnano Sesia per una full immersion nella bagna cauda. E questo può essere sufficiente a spiegare
perché ho aspettato il loro contributo prima di chiudere le bozze. E poi c’è il caffè delle 8: per
anni ci si salutava quando per varie ragioni passavo all’incrocio Santa Marta – San Maurilio,
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nulla di più. Un giorno Andrea m’invita a fermarmi e da quel momento il caffè è diventata
una droga, un modo per affrontare meglio la giornata scambiando due chiacchere. La gente
cambia ma Andrea c’è sempre. Per me vuol dire anche Slowbikers, lenti solo nelle partenze
tardive, ma poi fortissimi sia nella velocità, sia nella voracità. E, in ultimo, un’ospitalità rara,
fatta di cultura e spontaneità. Ad esempio in occasione di una bella cena a Bonassola da cui è
nata la richiesta ad Anna di questa ricetta che sembra fatta apposta per il convivio, cioè per il
mangiare insieme.
Ricetta dalla mia versione (italiana, anzi lombarda) di fideuà
Occorrente (dosi per 6 persone, considerate che io di solito faccio ad occhio): 1 tavolo
rotondo sufficientemente grande, tegame grande (quasi da ristorante, se siete in più di
3), pasta tipo capellini (es. capellini Barilla da 3 minuti di cottura) 400 grammi, cipolla 1
grande, 1-2 spicchi di aglio, peperone verde (1 grande o 2 peperoncini dolci), peperoncino
piccante, origano rigorosamente fresco, prezzemolo, passata o polpa di pomodoro ( 2 confezioni da 750 gr), pesce. Il tipo di pesce può variare, a seconda di quello che si trova, ma
io uso 3-4 tipi: molluschi, ad esempio seppie, totani, moscardini, ma anche seppioline, in
quantità variabile, non meno di 600 Gr, cozze (almeno 1 kg), se ci sono anche delle vongole, scampi (o mezzancolle, 3-4 a testa), un pesce bianco, ad esempio nasello, ma anche
branzino, rombo ecc 700-800 Gr, sfilettato.
Il tegame grande è importante, con due manici, io di solito servo direttamente nel
tegame di cottura. Soffriggere nell’olio sia uno spicchio d’aglio (che leverete), sia la cipolla
tagliata a velo, senza farla bruciacchiare o friggere eccessivamente; aggiungere il peperone
tagliato a filetti o piccoli pezzi. Versare le 2 confezioni di passata o polpa di pomodoro,
salare e lasciare cuocere per circa 20-30’. A piacere aggiungere peperoncino piccante e un
nonnulla (ma davvero poco) di origano, solo se lo avete a disposizione fresco. Aggiungete
quindi i molluschi tagliati a pezzi o striscioline (o interi, se sono seppioline molto piccole)
e lasciate cuocere per qualche minuto.
Nel frattempo avrete fatto aprire le cozze in una pentola con un po’ di olio e uno
spicchio di aglio; solitamente queste lasciano un po’ di acqua, che utilizzerete successivamente. In un’altra padella fate saltare con un pochino di olio gli scampi, in parte sgusciati.
Spezzate i capellini in 3-4 pezzi e metteteli direttamente nel sugo di pomodoro, insieme
con i filetti di pesce bianco tagliato a pezzi; ci vorrà un pochino più di 3’ per cuocere la
pasta; durante la cottura, allungate il sugo con l’acqua lasciata dai mitili e naturalmente
aggiustate di sale. Poco prima della fine della cottura della pasta, aggiungete nel tegame
scampi e cozze (queste ultime in parte sgusciate e in parte no).
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Prima di servire cospargete con abbondante prezzemolo tritato. Mettete il tegame
direttamente al centro del tavolo rotondo. Secondo il Maglia è meglio il giorno dopo
(riscaldata il giorno dopo, in modo che tutto si insaporisca). Le dosi sono ad occhio, l’importante è avere un tavolo rotondo.
Linda
Linda mi ha regalato una straordinaria Bagna cauda in una serata magica di fine dicembre
con una nevicata a larghe falde che rendeva Milano una città d’altri tempi (Hemingway avrebbe detto che sembrava la Milano di Stendhal). Ora che Linda non c’è più la ricordo così, con la
sua capacità di far stare insieme piacevolmente senza imbarazzi persone che non si conoscono.
Più di tutti aveva colto lo spirito con cui avevo chiesto di contribuire a questo libro.
Bagna cauda
Ho imparato a fare la “Bagna cauda” (letteralmente: “Salsa calda”) da mio padre. Da noi in
Piemonte usava così, era l’uomo di casa che cucinava la bagna cauda, non la padrona. La si
faceva un paio di volte l’anno, d’inverno ovviamente, sia perché è piatto molto calorico e
sostanzioso, sia perché è in inverno che si trovano le verdure giuste (un maître direbbe “le
cruditées”) da intingervi dentro. La “Bagna cauda” è piatto unico, quindi niente antipasti
(che taglierebbero l’appetito, oltre a sovrapporsi per ingredienti e sapori), men che meno
secondi. Al più, dopo, un pezzo di formaggio dal gusto deciso, bene per chiudere un dolce
(con i suoi zuccheri), magari un bel “Monte bianco” o una torta di nocciole che più langhetta non si può.
Le verdure da intingere, dicevo: sono importanti almeno quanto la “bagna” in sé.
Strettamente di origine sabauda, meglio se da qualche cascina che ancora coltiva biologico
(o quasi); ortaggi dell’inverno: finocchi profumati, sedani (quelli piccoli rosati), cardi gobbi di Nizza Monferrato, peperoni “della rapa” (conservati nel mosto), topinambur, insalata
se volete (scarola o indivia, niente radicchio che è austroungarico e amarognolo), bene la
verza, niente carciofo (amarognolo pure quello). E poi, pane, ma quello “di campagna” o
casereccio, fettone di micche spesse e con la mollica compatta, insomma, che aiutano a
non sbrodolare il boccone e sono ottime per fare scarpetta (da noi si dice “pucciare”).
La ricetta (finalmente!): aglio, a gò-gò, calcolate una testa ogni due commensali. Assolutamente non tritato, va affettato sottilissimo e fatto cuocere a fuoco bassissimo in olio
extravergine di oliva nel fujòt (tegame di coccio). Anche di olio abbondate, non è un fondo
di cottura ma componente di base, calcolate tre dita (o un bicchiere ogni testa d’aglio).
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Dopo l’aglio nell’olio che sobbolle piano aggiungete le acciughe conservate sottosale, diliscate e risciacquate; se siete in sei, va bene 3 hg. La salsa deve cuocere un’oretta, rimestando
ogni tanto, finché le acciughe si siano sciolte nell’olio e l’aglio sia bello ammorbidito ma
mai brunito (altrimenti diventa amaro). Alla fine aggiungete la panna (molti libri dicono
che non c’è nella ricetta originale, io ho imparato così), 3 etti circa anche quella per 6
commensali. Appena la salsa ha ripreso a sobbollire, e quindi è ben calda, portate in tavola.
La “bagna cauda” è piatto corale, quindi ognuno si prepara le verdure pulite e a tocchetti nel piatto, poi infilzate sulla forchetta le si intinge nel fujòt a centro tavola. Da qui
il ruolo strategico della fettona di pane. Riportate sul fuoco appena si intiepidisce, deve
essere sempre bollente. Non spaventatevi della rusticità del piatto: io l’ho cucinata una
volta ad amici e conoscenti a casa mia a Milano, sicura che le eleganti signore mai e poi
mai avrebbero accettato l’aglio, e che i distinti intellettuali convenuti avrebbero rimpianto
pasta o risotti: macché, le une e gli altri a fare scarpetta nella parte spessa e a chiedere ancora pane che faceva impressione.
Certo, fuori nella notte si era messo a nevicare, fra le rare nevicate ambrosiane di inizio
inverno. Testimoniano di rientri a casa a piedi nella bianca coltre per smaltire, e il giorno
dopo nessuno a lamentarsi dell’alito pesante o di notti insonni. Pare sia rimasta una bagna
cauda memorabile.
PS: dimenticavo (orribili visu per una albese), il vino deve essere corposo ma non
troppo vecchio (con il sapore forte della bagna cauda, inutile sprecare un Barolo): Dolcetto
di Dogliani o di Diano d’Alba va bene, Nebbiolo anche meglio, a mio parere.
Paola
Non solo Paola è la migliore delle mie Conigliette ciclistiche, ma è anche una fantasiosa cuoca
oltre che un’ospite di grande sensibilità, aiutata da Villalta, luogo ideale per partenze ciclistiche
ma anche per dolci convivi. Le voglio bene anche perché mi fa parlare e sono pochi quelli che
ci riescono. La ricetta che ci propone è la prima che ho assaggiato da lei alla fine di una ciclata
(o forse no, ma è lo stesso).
Le polpette di Villalta
Caro cuoco se vuoi una buona riuscita per le tue polpette, in primo luogo devi fare una
bella gita in Val d’Aosta e procurarti la trita scelta di Lucio, in piazza a Champoluc. Amalgama la trita con uovo fresco, grana gratuggiato, sale, una grattata di pepe. Aggiungi una
manciata di foglioline di spinaci appena appena appassite in padella con aglio schiaccia-
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to, olio extravergine siciliano e due cucchiai di acqua fredda. Forma delle piccole palle e
passale nel pangrattato. Affetta una cipolla bionda sottile, falla stufare in una padella con
poco olio, aggiungi una spruzzata di vino bianco e acqua a necessità. Grattuggia con lama
media due mele verdi e dolci, aggiungile alle cipolle, fai amalgamare per qualche minuto,
eventualmente irrorando con uno spruzzo di vino bianco.
Ora aggiungi le polpette che dovranno cuocere lentamente, aggiungi curry in abbondanza, due bacche di ginepro, due foglie di alloro, regola di sale in modo leggero, lasciando
dominare il gusto un po’ aspro della mela. Mantieni un buon livello di umidità con poco
vino bianco, uno spruzzo di marsala e acqua q b. Servi con insalata di carciofi, accompagna
con vino rosso.
Pierangelo
Se riguardo i miei percorsi ciclistici di inizio anni 2000 e i menu delle mie cene, Pierangelo
è una presenza forte. Adesso meno, domani si spera di più. La sua spropositata riservatezza lo
porta a non far conoscere le sue arti culinarie che invece sono notevoli. Mi ha proposto due primi
veloci dai quali emerge il suo amore per l’aglio.
Pasta ceci ed erbette
Mondate e scottate le erbette. In una larga padella scaldate spicchi di aglio che poi toglierete e un po’ di peperoncino; passate velocemente le erbette alle quali aggiungerete i ceci
(vanno bene in scatola di buona marca, meglio se avete tempo lessarli da voi.) A questo
punto sarà cotta la pasta corta che avrete avviato per tempo: aggiungetela, passate sul fuoco
e servite.
NB. questa è la ricetta che servo agli ospiti. Se la cucino per me, taglio numerosi spicchi
di aglio a fettine e li lascio in padella, senza farli dorare; al posto delle erbette uso la catalogna, dal sapore deciso; se ne ho voglia, prima dell’aglio faccio sciogliere una acciuga o
due nell’olio.
Pasta lenticchie e gamberetti
Avviate a fuoco dolce in una larga padella del burro, un po’ di olio, alcune foglie di alloro.
Quando l’alloro profuma, alzate la fiamma, buttate i gamberetti surgelati e fate restringere
molto velocemente. A piacimento aggiungete mezzo bicchiere di vino bianco (ottimo il
Vermentino) o un bicchierino di brandy e fate nuovamente restringere. Sarà nel frattempo
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pronta la pasta che butterete in padella assieme alle lenticchie che avrete precedentemente
tratto e scolato da una scatola di buona marca (se avete tempo preparatele da voi lessandole in acqua con carota, sedano, alloro e aglio, ricordandovi di salare solo alla fine). Una
macinata di pepe completerà la preparazione, da servire subito.
Marco
Ci vediamo sempre più spesso. Ha una volontà ciclistica di ferro, e ci vuole per portare i suoi
“100 chili sullo Stelvio”. Posso dire di averlo allevato dopo la prima uscita sul San Marco e ormai sono tantissime le salite fatte insieme. Il ricordo del bel giro da Chiavenna a Merano è forte.
E chissà quante altre cose faremo insieme oltre a guardare l’Inter vincere. Gastronomicamente
è un disastro ma si avvale (e la sua pancia ne è il risultato) di una cuoca eccellente che ci ha
stregato con una cena pugliese con i piatti che seguono.
Involtini
Farsi tagliare delle fette di manzo sottili. Preparare delle fettine della grandezza di una
mano (eventualmente tagliando le fette in due), preparando due involtini per commensale.
Salare e pepare la carne. Al centro di ogni fetta disporre una fetta sottile di pancetta
arrotolata, due o tre scaglie sottili di parmigiano (o pecorino), tre fettine sottili di aglio
e un paio di foglie di prezzemolo. Arrotolare e chiudere con stuzzicadenti. Preparare un
soffritto di cipolla dorata in una casseruola. Appena inizia ad imbiondire aggiungere gli
involtini e rosolarli. Quando sono rosolati aggiungere un bicchiere di (buon) vino bianco.
Quando il vino è evaporato aggiungere abbondanti pelati e cuocere per un’ora circa. Se il
sugo è abbondante può essere in parte utilizzato per condire delle orecchiette. Se si vuole
fare la pasta si calcolino 100g di pelati ogni involtino, altrimenti ne basta la metà.
Pasta con il cavolfiore
Tagliare il cavolfiore (bianco o verde) a pezzettini (“a fiori”, di altezza di 4-5 cm), scartando
la parte bianca dura centrale. Nell’acqua bollente salata buttare i pezzettini di cavolfiore
e dopo un minuto aggiungere la pasta (penne lisce, mezzi ziti, orecchiette; 50g a testa).
In un pentolino scaldare dell’olio e aggiungere del pane vecchio grattugiato (non quello
comprato al supermercato!), facendolo odorare. Scolare quando la pasta è ancora al dente.
Aggiungere la “mollìca sfritta” e pepe bianco.
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Spaghettini con le zucchine
Tagliare tre zucchine ogni due commensali in quattro per il lungo e affettarle, fino ad avere
quarti di fetta altri un paio di millimetri. Buttare le zucchine nell’acqua bollente e un minuto dopo aggiungeregli spaghettini (calcolare 60g a testa). Scolare al dente! e aggiungere
ottimo olio extravergine e pecorino (o parmigiano).
Mirio e Serena
La prima volta che ho visto Mirio in bici è stata alla Biciclettata Azzurra di Turbolento sui
Navigli; non era riuscito a starci dietro e aveva perso la strada. Adesso non lo ferma più nessuno
e finalmente si è dotato di bici seria. Ma il motivo per onorare qui i Monti non è la bici, ma
la loro disponibilità e gentilezza. La loro tavola, grazie soprattutto a Serena (sua ovviamente la
ricetta), è accogliente e di gran livello e ospita spesso me e Ruggero.
Cosciotto di maiale alle pere
Prendo un bel cosciotto di maiale con la sua cotenna e lo metto in una teglia grande
abbastanza perché ci possa entrare comodamente - io uso la teglia di ferro spagnola - lo
cospargo abbondantemente di buon olio di oliva extravergine, sale, pepe, ginepro e lo
circondo di cipolle tagliate a metà e pere (decana di solito) sempre tagliate a metà e poco
mature; aggiungo qualche spicchio di aglio (2/3). Metto in forno per c.a. 3 ore, facendo
dorare l’esterno col grill a fine cottura.
Guido e Silvia
Ho riaperto le bozze molto volentieri per accogliere Guido e Silvia attraverso la ricetta che dà vita al “Cassoeula Day”. Quest’anno siamo stati “comandati” per un giro
in Brianza che ci preparasse all’evento dal Presidente forever (ciclistico e non), che
prontamente ha colto l’occasione per andare al ristorante a mangiarsi anche lui la
cassoeula. Sono sempre più le avventure che mi legano a Guido, in particolare quelle
della domenica mattina con la Mapei, con gli spuntini finali a base di dolci preparati
al mattino prestissimo dal mitico panettiere ciclista, il salame e il formaggio bergamaschi. Amicizia tardiva come tante delle mie ma spero con un lungo futuro fatto di
bici, cene e tanto altro.
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La ricetta del Cassoeula Day
Ingredienti (10 persone): 2,5 kg. puntine e costine di maiale, 10 verzini (salamini
da verze),pPiedino e orecchia del maiale (pulitissime!!), 2-3 verze, 4 carote, 4
gambe di sedano, 1 cipolla, concentrato di pomodoro (mezzo tubetto), sale, pepe,
vino bianco. Far sbollentare le verze e tenerle da parte. Bollire (un’ora) piedino
e orecchia e tenere da parte. Soffriggere con poco olio la cipolla tagliata sottile,
aggiungere puntine e costine, sale, pepe e far rosolare bene e sfumare con il vino:
quindi togliere dalla padella e tenere da parte. Tagliare carote e sedano (a rondelle
un po’ spesse) e far rosolare nella padella da cui si è tolta la carne. Aggiungere le
verze, le costine e le puntine, unire il concetrato di pomodoro sciolto in una tazza
d’acqua. Far cuocere per mezz’ora quindi unire i salamini e completare la cottura
per un’altra ora abbondante. Servire (molto caldo), accanto a piedino e orecchia
con l’accompagnamento di una polenta fumante.
Nicoletta
La domanda che ci facciamo tutti è come faccia a fare tutte le cose che fa. E sorridere sempre. È
arrivata quasi fuori tempo massimo con la ricetta dei suoi buonissimi grissini, ma ce la fatta.
Facendoli con la pasta madre sono fuori della portata di quasi tutti, ma questo non è un libro
di ricette, è un modo per sentirci vicini.
Grissini con pasta madre
Ingredienti: 200 gr pasta madre, 250 gr. farina Spadoni, 12 gr sale pesteda (rosmarino,
ginepro, pepe, salvia), 32gr olio, acqua quanto basta per ottenere un impasto morbido ma
non appiccicoso, rosmarino fresco tritato. Si impasta e si lavora per 15m, poi si stende con
matarello in forma rettangolare, dell’altezza poco inferiore al diaametro del grissino cotto.
Si taglia una striscia per volta e la si torce per dargli la forma di una vite filettata. Si dispone
nella teglia e si lascia a lievitare almeno 3 ore, coperta con un canovaccio. Si cuoce in forno
caldo a 200°C per 15›.
Maria e Paolo
Loro sono il futuro di San Maurilio, perché sono giovani e Pietro ed Emma fanno quello che faceva Ruggero ormai più di 15 anni fa: riempire di gioia la casa. Se lo meritano, anche per accettare
sempre di mangiare con noi e per avermi permesso di continuare l’avventura di San Maurilio.
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Spaghetti alla chitarra con gamberoni e zucchini
Ingredienti per 4 persone: 2 spicchi d’aglio, 1 bicchiere di vino bianco, olio di oliva, prezzemolo, 4 zucchini, 12 gamberoni (indicativamente 3 a testa o di più secondo il gusto),
500 g di spaghetti alla chitarra (sono indicati a spaghetti e linguine). Preparare un trito
di aglio, far cuocere gli zucchini tagliati a rondelle o alla julienne per alcuni minuti sino a
raggiungere una media cottura; aggiungere le code dei gamberoni sgusciati e spremere le
teste raccogliendone il liquido nel sugo. Completare dunque la cottura sfumando con il
vino bianco. Portare ad ebollizione l’acqua per la cottura degli spaghetti.
Una volta scolati, far saltare gli spaghetti con il sugo e servire. Un’abbondante spolverata di
prezzemolo tritato prima di servire e peperoncino in una fase di cottura del sugo.
Giuliana
Giuliana si merita un posto se non altro perché la sua zucca è sempre la prima che finisce
quando c’è una cena dove tutti portano qualcosa. E poi perché la sua cucina ebraico – libanese
è così strana ma così buona… Mi ha fatto scoprire il kummel che è il cumino europeo diverso
da quello che tutti conoscono.
Salse di zucca della tradizione ebraico – libica
Le due “pietanze” con la zucca che hai mangiato da me sono diverse nella preparazione
anche se hanno ingredienti in comune. Entrambe sono essenzialmente salse che si servono
fredde di accompagnamento a uova sode, carni e /o riso e sono di consistenza media mai
sotto forma liquida...
La prima, che ti era piaciuta tanto con il kummel, si fa così: tagli la zucca a fette larghe e spesse non più di un dito e le passi in padella con olio in modo da soffriggerle fino
a che il tutto si spappola, aggiungi aglio schiacciato, paprika piccante, kummel e aceto
(qualunque, ovvio che balsamico è più buono) fai andare tutto insieme e dosa a piacere gli
ingredienti, tieni conto che più fai andare con il fuoco più la consistenza si inspessisce e
viene più saporito. La seconda salsa invece si fa cuocendo patate e zucca prima, o bollendo
o a vapore oppure la zucca al forno con la buccia e le patate bollite da sole. Poi prendi la
polpa della zucca e la schiacci bene bene con la forchetta, aggiungi aglio schiacciato (se non
la vuoi forte puoi far cuocere l’aglio e spappolarlo dopo ma è più buono con aglio crudo)
paprika in polvere, cumino polvere (o anche kummel) limone spremuto. Mescola tutto
questo bene bene, tutto ciò è a freddo non sul fuoco! Avrai una bella crema a cui aggiungere le patate a quadretti e alla fine una generosa gettata di olio d’oliva. Ed è pronta così.
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Donato
Purtroppo non ho avuto un “maestro di vita”, ma se dovessi indicarne uno penserei a Donato.
La differenza di età certamente conta, ma è proprio la sua capacità di non invecchiare che lo
fa diventare maestro di vita. E poi due delle cose che mi stanno accompagnando, il flauto e la
bici, sono legate molto a lui. Suoniamo insieme da più di 20 anni ormai ed è stato Donato a
trascinarmi in Corsica nel 97, dove ho ritrovato Alessandro e dove mi sono innamorato perso
dei giri in bici. Prima era un’attività solitaria, con lui è diventata un’attività sociale, una specie
di convivio. Infatti, come mi disse il medico della Mapei Sport “Io so perché lei ha paura di
sentirsi dire che non può più andare in bicicletta, perché dovrebbe smettere di bere e mangiare”. Raramente mi sono sentito dire una cosa più vera. Nella prima uscita che abbiamo fatto
insieme, arrivati a Casasco si mangiò un peperone crudo. Non posso, di conseguenza, ricordarlo
molto per gli aspetti legati al cibo, ma non ce n’è bisogno, anche se sa fare un’ottima granita.
Insalata di avocado per quattro palati raffinati
Ho gustato questo piatto in casa di amici e mi ha conquistato, non so se ha un nome. Fa parte di quelle ricette che amo perché permettono di sperimentare molte varianti o di adattarsi agli ingredienti che hai in casa e non deludono mai. Si preparano in pochi minuti, non si
sporcano pentole; serve solo un ampio tagliere, un avocado maturo ma non troppo, 2 uova
ben sode, qualche acciuga, olive nere, una manciatina di capperi, un limone, cipolla cruda,
se piace, tagliata finissima. Sminuzzare tutto con il coltello sul tagliere, senza esagerare,
condire con olio extravergine, sale e abbondante limone. Tutto qui, il successo è assicurato.
Umuna
Dico sempre che Umuna è una fortuna e mi ha preparato piatti buonissimi in occasioni importanti come in giorni normali. Il suo zighinì e le sue verdure sono ormai un piatto fisso almeno
un paio di volte l’anno. Ricordo la prima, d’estate, così piccante e con tanto caldo che abbiamo
fatto fuori una decina di bottiglie di Tocai come niente fosse.
Zighinì
Si fa con l’agnello, il pollo e il manzo, tenuti separati. Cipolla, olio, sale, pepe, spezia
piccante eritrea, uova sode, pelati. Si serve sulla focaccia eritrea. Si mangia con un buonissimo piatto di verdure. Cuocere con olio cipolle, carote, sedano e poi si mettono i pelati.
Aggiungere patate e cavolfiori (però io non li digerisco e li evito anche se danno quel dolce
che caratterizza il piatto), fagiolini bolliti un po’ prima, erbette, sale, aglio e cuocere co-
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perto senza acqua. E chi pensava che andassi nei dettagli, si sbagliava. Deve venire da me
a mangiare lo zighinì di Umuna.
Le ricette dei Mascetti grazie all’Umberto
Nella prima parte ho scritto quanto poco c’è nei miei ricordi di pranzi e cene dai Mascetti e di
specifici piatti. D’altro canto i Mascetti vivono di tanti altri miti (“Non fo’ per dire, sette figli,
sette gioielli e tutti dopo sposati, lo Stradivarius, il viaggio a Roma nel 1908, la galleria del
Sempione, la bandiera dell’Italia come mutanda dell’infermiera dello zio Riccardo; si potrebbe
andare avanti ma lascio ad altri il compito di tramandare le storie Mascetti prima che sia troppo
tardi). Ho trovato alla fine la persona giusta per lasciare una traccia anche di ricette Mascetti:
l’Umberto – chi se non lui? – si è dato da fare, lo ringrazio per questo, me ne ha proposte alcune.
Noce di vitello alla duchessa
A freddo KG. 1,200 di noce di vitello, un cucchiaio di olio, gr. 40 di burro, due fette di
prosciutto crudomisto tagliato a listelle. Far rosolare, salare spruzzando di tanto in tanto
con 3/4 bicchiere di marsala. Preparazione della besciamella a parte: un pezzetto di burro,
unire un cucchiaio colmo di farina, far rosolare fino a color biondo, ritirare la pentola dal
fuoco e bagnare con 1/4 di latte caldo, un pizzico di pepe, mescolare bene e poi sul fuoco,
quando bolle versarla sulla carne coprendola bene e cuocere per due ore facendo attenzione
che non attacchi, in caso aggiungere un po’ d’acqua.
Tagliare la carne. Unire al sugo 50 gr. di panna fresca amalgamandola con sveltezza e
versarla sulla carne affettata. La ricetta completa dice di preparare una purea con un Kg. di
patate sbucciate, scolate e ben asciutte. Unire un pezzetto di burro, un rosso d’uovo (se si
vuole un po’ di noce moscata). Fare sul piatto di portata un montagnetta di purea a forma
di parallelepipedo e adagiarvi sopra e ai lati le fette di carne e versare sopra il sugo.
Stufato Mascetti
In una pentola non troppo larga mettere 1,2 kg (o anche di più) di scamone o codone di
manzo. Rosolare con burro e olio molto lentamente, salare e pepare. Spruzzare con due
cucchiai di farina bianca, rosolare e bagnare con un bicchiere e mezzo di buon barbera.
Far rapprendere e poi aggiungere acqua fino a coprire la carne ma non completamente.
Mettere due chiodi di garofano, uno spicchio d’aglio, una cipolla media, una battuta di
pancetta (50 gr.). Cuocere per tre ore. Se il sugo è troppo liquido, verso la fine aggiungere
un cucchiaio di farina gialla. Si mangia con purea o polenta.
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Carciofi ripieni
Si fanno cuocere in carciofi nell’olio dopo averli prima svuotati all’ interno. A metà cottura
bagnarli con vino bianco. A parte cuocere i piselli, aggiungere dadini di prosciutto cotto
e riempire i carciofi.
Minestra di riso e coratella
Prendete un pezzo di coratella (polmone) di vitello (calcolare 25 gr. per persona). Lavarla
bene in acqua fresca indi farla bollire nell’acqua o nel brodo per circa un quarto d’ora.
Toglietela e a freddo tagliatela a piccoli dadolini; mettete sul fuoco un tegame con un
pezzetto di burro, fatelo imbiondire, unire subito la coratella, farla rosolare un poco nel
condimento; indi versatela nella pentola precedentemente preparata con acqua o brodo.
Lasciatela bollire circa un quarto d’ora, salare il giusto e, se avete messo solo acqua, aggiungete dell’estratto di carne o dadi. Unite allora il riso calcolando un grosso pugno per
persona; mischiate tosto, e fate bollire a fuoco allegro. A metà cottura una spolverata di
prezzemolo fresco ben pulito e triturato. La cottura varia dai 14 ai 18 minuti, a seconda
della qualità del riso. Qualche minuto prima di levarla dal fuoco unite un pezzo di burro
crudo e una manciata di buon formaggio. (Nota dell’Umberto: ricetta semplice; è una
minestra che io ricordo di aver mangiato dalla nonna negli anni quaranta).
Arrosto
È preferibile il recipiente di rame. Si mette sul fondo un poco di olio d’oliva, qualche fetta
di lardo e burro, in giusta dose rispetto alla quantità di carne. Mettere la carne sul fuoco
piuttosto ardente e fare arrostire voltando sovente (senza punzecchiare con forchette) in
modo che abbia a formare una leggera crosta onde raffermare internamente il sugo della
carne. Salare giusto, unire un mazzetto di salvia e rosmarino, e, acciocchè non abbia da
bruciare troppo sul fondo del recipiente, bagnare di tanto in tanto con poca acqua fresca
(mai con brodo, per evitare l’odore del sego). Durante la cottura è ottima una spruzzatina
di sugo di limone o aceto bianco. Al momento giusto togliere la carne, scolare il grasso in
un recipiente comune di terra, e conservarlo perché ottimo condimento specie per patate
e verdure. Bagnate il sugo con qualche mescoletto di acqua o brodo lungo, lasciate bollire
finchè il tutto si sia distaccato dal recipiente e passarlo allo staccio. Tenere il sugo al caldo
sino a quando viene servito l’arrosto.
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Le mie ricette
Saper gestire convivi non significa essere un grande cuoco. Nonostante gli apprezzamenti di
molti, io di certo non lo sono e conosco amici che sono molto più bravi di me e hanno esperienza
e quotidianità che non avrò mai. Visto, però, che spesso dopo l’assaggio mi viene richiesta la
ricetta, mi sembra giusto rischiare e dedicarci un capitolo anche se quasi sempre non sono mie
ma di altri, a volte modificate.
Ho imparato per lavoro che vale la regola del “make or buy”, tutto è un problema di allocazione di risorse scarse a fini alternativi: non sempre, anche se in Italia in cucina siamo molto sul
tutto in casa, si deve cucinare ma bisogna anche saper comprare. E questa sì che è una mia specialità o forse mania. Basti citare quanto mi è successo da Tamburini, il posto a Bologna dove,
in attesa del treno nella Ravenna Trieste ciclistica, portai tutti a mangiare culatello e tortellini
alle 11,30, in alternativa alla squallida proposta di Pier e Mirio (loro sono andati al ristorante
cinese a Zibello...) di stare in stazione, e dove, beccato da un giornalista, mentre usciva con una
mortadella sotto braccio, a Prodi fu accoppiato il famoso soprannome. Ci vado quando posso
prima o dopo i meeting di Prometeia e ci ho fatto dei grandi acquisti, grandi anche in termini
di costo: una volta prima di Natale il cassiere dopo avermi fatto il conto mi disse, ovviamente
in bolognese stretto: “Ma si è giocata la tredicesima!”.
Una riflessione profonda e centrale per me. Da uno sguardo rapido ai miei menu e ricette
emergono poche cose della tradizione familiare. Molte invenzioni e contaminazioni. Perché?
Mi sono anche domandato da dove venissero le ricette di mia madre, certamente dai ricettari
che ripropongo che erano molto utilizzati. Ma non solo da lì. In verità il cibo è cultura per cui
vale la tradizione, i ricordi, la continuità, ma proprio perché cultura valgono forse ancor di
più i contesti, le amicizie, gli stimoli, i ricordi recenti, la voglia di sperimentare e di stupire, i
consigli dei verdurai di via Osoppo, e via dicendo. Quello che, però, rimane è la cultura familiare, l’attenzione al cibo e soprattutto al convivio, allo stare insieme. Questo te lo porti dietro
e speri di tramandarlo.
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Antipasti di verdure
Insalata di sedano di Verona e grana
Semplice e gustosa, ma poco conosciuta per cui sorprende. Tagliate a fette sottilissime (io
uso l’affettatrice) il sedano di Verona (sedano rapa) e il grana/parmigiano e poi sminuzzate; olio e aceto balsamico e basta. Il sedano di Verona ha una bella caratteristica: dura
tantissimo.
Insalata di sedano, frutta secca e melograno
Prendete il sedano verde e tagliatelo a pezzetti piccoli, uniteci tanti pinoli, uvette e pistacchi, condite con olio, sale e prezzemolo. Una volta ci ho messo anche i chicci di melograno.
Molto apprezzato soprattutto d’estate e facilissimo da fare.
Zucchine in agrodolce
Imparata dal Chino e richiestami a gran voce da tanti. Buonissima d’estate. Tagliate a
fette non sottili le zucchine, meglio se quelle “trombette” liguri costose ma buonissime e
che pochi sanno essere le uniche zucchine precolombiane. Uniteci alcune rondelle sottili
di cipolla, foglie di alloro, mezzo bicchiere di olio, mezzo di aceto, un cucchiaio grosso
di sale e uno di zucchero mescolati insieme ai liquidi. Ci si potrebbero aggiungere anche
le uvette, ma dopo la cottura. Fate cuocere a fuoco altissimo senza aggiungere acqua per
non più di quattro minuti in pentola coperta e poi fate riposare per almeno un giorno. Si
mangiano fredde.
Lampascioni in insalata
Non mi sono mai piaciuti fino a quando la vigilia del mio compleanno del 2004 (quello
festeggiato a Casasco con Giacomo) ero in un ristorante di Bari e li avevo assaggiati come
antipasto. Fantastici per cui chiedo lumi al proprietario che si propone per comprarmeli e
pulirmi (proprio come può succedere a Milano…). Da questa bella esperienza i lampascioni sono entrati nei miei menu; non piacciono a tutti perché amari, sono difficili da trovare
e oggettivamente costosi. Andate al mercato e sceglieteli grossi altrimenti dopo la difficile
e faticosa pulitura non vi resterà niente.
Bolliteli in acqua salata per mezz’ora, scolateli, conditeli con tanto prezzemolo e olio, serviteli freddi e fregatevene di chi arriccia il naso. Un simpatico barese (Bozzo) mi ha proposto
un po’ di ricette ma non le ho ancora provate; non c’è tempo per tutto.
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Antipasti di pesce
Cocktail di polpa di granchio e mandarini
Fatta la prima volta tanto tempo fa. Basta unire la polpa di granchio agli spicchi di mandarino (in origine pompelmi) opportunamente pelati (questo è il difficile) e spezzettati;
condire con olio, sale e pepe.
Salmone alla svedese “maison”
Suggeritami da Vissani è diventata un cavallo di battaglia tanto da essermi copiata anche
dalla Ina. Farsi aprire “a libro” la parte centrale di un salmone non piccolo (vanno anche bene i tranci, ma non le scaloppe, del supermercato) e, meglio, farsi togliere la pelle.
Mettere sotto tanto sale e tanto zucchero per almeno due giorni: il salmone deve essere
interamente coperto. Lavare molto, asciugare e tagliare fette sottili che poi cospargete con
tanto aneto secco.
Fiorentina di tonno su un letto di cicorino con salsa alla menta e basilico
Forse la ricetta di mia invenzione più famosa. Sia ben chiaro che non ha niente a che vedere con il tonno scottato dei ristoranti giapponesi e che l’ho fatta per la prima volta almeno
25 anni fa. E mi ricordo per chi: Ina e Pino. Ho incominciato a usare il termine fiorentina
quanto l’ho proposta al Nostro facendogliela passare come di carne (lui odia il grasso) e c’ero riuscito. Adesso, anche in funzione del pezzo che uso la chiamo anche filetto o insalata
di tonno. Per questo la metto tra gli antipasti anche se è un grande secondo.
Prendete un trancio o un pezzo di filetto molto alto (deve essere alto, chiedete se se ne
può avere una metà del trancio) e cuocetelo in una bistecchiera a fuoco forte dopo averla
cosparsa di sale grosso e senza olio. Come una fiorentina deve essere ben cotta fuori e cruda
dentro, per questo deve essere di almeno tre dita. E non deve essere solo scottata. Fatela raffreddare e poi tagliatela a fette sottili e ponetela su letto di cicorino (ci stanno bene anche
i pomodorini) condendola con una salsa di basilico, menta e olio.
Antipasti di terra
Quelli d’oca di Mortara
Vorrei togliermi dalla sudditanza di Gioacchino Palestro, e a volte ci riesco, ma sono tanti
i ricordi di cene e acquisti da ormai trent’anni per cui mi sembra quasi un dovere. Ruggero
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ci è andato recentemente accompagnando in Chino e quando Gioacchino ha saputo che
era mio figlio mi ha chiamato Don Vittorio e gli ha fatto lo sconto (marketing per accalappiarsi la prossima generazione o sincero apprezzamento?). Abbandonato per un problema
di costo il fegato grasso, ci compro, oltre al patè di fegato d’oca, soprattutto la mortadella
di fegato e il marbré. Ho acquistato anche i durelli d’oca in carpione e la galantina. Buono
il sanguinaccio da bollire.
Il tutto in un paio di veramente mitiche occasioni (sempre legate al GEI, una di queste
con Sapelli) costituiva l’antipasto di una cena tutta dedicata all’oca, con poi il salame e
l’oca alle verdure. Da tempo evito il petto d’oca affumicato che trovo grandioso a Biella da
Mosca (dove lo chiamano speck d’oca) e altre cose per neofiti. Una volta mi sono fatto fare
i quartini d’oca, versione italiana del confit d’oie.
Savoiarda di salame di testa all’aceto balsamico
La prima volta me l’ha fatta Brarda di Cavour, mitica macelleria dove ci sono andato per la
prima volta nel 91 tornando indietro grazie a Federchimica con uno straordinario mezzo
filetto di sanato che si scioglieva in bocca. Assolutamente da comprare il suo manzo piemontese fatto a bresaola da condire con poco olio. Ancora oggi ogni volta che passo vicino
o sono nella mitica Piossasco cerco di andarci per il salame di testa e per altre piacevolezze.
Il suo salame di testa è preparato con l’aceto balsamico e trova il suo trionfo in savoiarda,
cioè tagliato a fette sottili e condito con finocchio anche esso a fette sottili, olio e aceto balsamico. Trovo sempre persone schizzinose che si ricredono, grazie soprattutto alla dolcezza
che prende in savoiarda.
Si può fare con meno poesia con qualsiasi salame di testa (soppressata a Firenze), ad
esempio con quello invernale o di cinghiale di Tamburini. È difficile da tagliare anche con
l’affettatrice per cui cercate di farvene dare un quarto di fetta così il pezzo è più spesso.
Le torte salate
Come in altre cose che non ho fatto da giovane, sono arrivato tardi alle torte salate e solo
perché compravo agli Orti di Via Osoppo strane verdure dal banchetto pugliese e dovevo
poi trovare il modo di farle, oltre che in padella (con aglio e acciughe).
Le verdure per me sono normalmente strane (papaverina, borragine, pianta di senape,
scarolata, cioè la fantastica catalogna dolce, scarola spigata, sivone) e uso la pasta brisé.
Non scendo nei dettagli della preparazione perché lo scopo è stupire con le verdure. Ne ho
fatta una buonissima ai porri e carote con ricotta fresca e un po’ di panna, con profumo di
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curry. Ho avuto successo anche imitando Nicoletta con uno sformato di patate e cornetti
cosparso di basilico. La borragine è la base anche di una frittata dove viene messa in grande
quantità e a freddo.
Torta salata di zucca alla mostarda
L’unica di cui propongo la ricetta è questa bella scoperta, ormai rifatta tante volte e di cui
mi è stata richiesta la ricetta a gran voce. Recatevi il sabato mattina possibilmente con me
al mercato di Via Osoppo e comprate una zucca mantovana di un paio di kg. Scaldate in
forno a meno di 100 gradi per poco meno di un’ora la zucca per pelarla meglio. Poi tagliatela a pezzetti e passatela in padella con po’ di olio fino a sfaldarla. Nel frattempo avrete
preparato un impasto con 250 gr. di mandorle tritate, 200 gr. di mostarda a pezzettini,
scorza grattuggiata e succo di un limone, noce moscata, 3 cucchiai di pane grattuggiato e
4 di grana, 3 uova sbattute.
Unite la zucca all’impasto e amalgamate per bene. Aggiungete un po’ di sale. Scegliete
se mettere l’impasto in una pasta brisè o se infornarlo tel quel. Prima di farlo, scaldate un
po’ di burro con 2 spicchi d›aglio che verserete sopra l›impasto eliminando gli spicchi.
Infornate a 200 gradi per 45 minuti.
La cotizza della mia mamma
Posiziono qui questa ricetta perché io la propongo nelle cene con gli antipasti (in quelle
familiari torno al ruolo storico di secondo piatto). È una frittata forse con un cucchiaio di
farina e un bel po’ di mele (Renette) tagliate a fette non troppo sottili. Sciogliete la cannella
nell’uovo e montate l’albume, unite scorza di limone grattuggiata. Cuocete a fuoco lento e
quando girate cospargete con un bel po’ di zucchero. Si mangia tiepida.
I primi
Zuppa di ceci con testina
Per la festa dei miei 50 anni ho preparato una speciale grande zuppa di ceci con un ingrediente particolare di cui parlo nell’introduzione del capitolo sui menu.
Ultimamente l’ho fatta un paio di volte per la cronoscalata autunnale (le due pentole
ovali enormi di Casasco erano piene), infatti a Milano si mangia ai morti con la tempia.
Io preferisco la testina, in particolare quella di sanato comprata da Mosca a Biella che si
scioglie come il miele.
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Un etto di ceci secchi a persona, con carote, sedano e cipolla messi a freddo, alloro e
chiodi di garofano. Uniteci il brodo di biancostato e la carne tagliata sottilissima. Idem per
la testina. Cuocete tanto ma evitando che i ceci si sciolgano: a me piace sentirli schioccare
sotto i denti, ma in ogni caso ben cotti. Olio e prezzemolo.
Crema di sedano di Verona e porri con patate e parmigiano
Le creme, vellutate o simili mi piacciono perché si possono inventare a seconda delle disponibilità. Se si sta attenti vengono sempre e ci si può divertire con i sapori che si amano
di più.
Questa unisce due mie passioni come i porri e il sedano di Verona che si contrastano, uno
dolce, l’altro un po’ amaro, ma tutti e due forti. Un po’ di patate per amalgamare, un profumo di chiodi di garofano, un po’ di latte e parmigiano in abbondanza.
Crema di zucca al kummel ai profumi di gorgonzola e aceto balsamico
Forse la sto proponendo troppe volte, ma è così buona e leggermente stana, facile e fa parte
del decennio dedicato da me alla zucca. Il punto di partenza è stata un’ottima crema della
Francesca con la sorpresa del caprino servito fresco in tavola. Il caprino dopo un paio di
anni l’ho sostituito con il gorgonzola sciolto in buona quantità appena prima di servire
per il suo contrasto con il kummel che ho aggiunto alla ricetta originaria. Per il resto seguire la prassi tradizionale delle creme (meglio i porri ma vanno bene anche le cipolle) e
aggiungere tanto prezzemolo e non dimenticarsi dell’aceto balsamico. Ci vuole balsamico
(anzi quello tradizionale) per i contrasti che sono alla base di questa versione, in omaggio
alla cultura del convivio medioevale ucciso dall’Artusi con la standardizzazione e unificazione culinaria dell’Italia sotto la bandiera dell’aglio e cipolla, eliminando accuratamente il
contrasto dolce-salato e facendolo diventare un’anomalia da tedeschi mentre era una base
della tradizione italiana.
Pasticcio ferrarese dolce di maccheroni
E questa è uno dei pochi casi rimasti nel triangolo Parma – Mantova – Ferrara. Anche
qui l’amore nasce da un bell’episodio: a Ferrara con Franco per un convegno del British
Council che ricorderò soprattutto per gli aspetti culinari, dal catering ci viene proposto
questo piatto che mi sorprende per la pasta dolce che contiene i maccheroni al ragù e
besciamella con profumi di cannella. La bella signora cui dichiaro il mio amore (per il
pasticcio) mi promette un regalo per il giorno dopo quando si presenta con un pacco con
dentro un pasticcio per 8. L’amore diventa eterno e ogni volta che vado a Ferrara lo pre-
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noto alla pasticceria dell’Hotel Europa (attenzione chiedete la versione dolce). Poi a casa si
mette al forno per 20 minuti.
Ci potete costruire una fantastica proposta ferrarese con la salama da sugo (quella
vera da cuocere per 6 ore sospesa) su un letto di purè. Meglio se di purè ne fate più d’uno
mischiando in uno le carote lesse e nell’altro i piselli per farne una versione marmorizzata
che sorprende occhio e palato (la mia mamma diceva sempre che anche l’occhio vuole la
sua parte).
Risotto alla milanese
C’è chi dice che il mio sia molto buono e particolare per cui mi permetto di parlarne qui.
Uso solo il superfino carnaroli Marca Principe da quando 30 anni fa ogni sei mesi in Ucimu mi telefonava un produttore di macchine per coniare per chiedermi di quanto doveva
aumentare i prezzi secondo la mia Formula Revisione Prezzi (richiestami anche da due
giovani ricercatori che vennero insieme a trovarmi in ufficio, Mario Draghi e Francesco
Giavazzi). Puntualmente mi arrivavano sei chili di riso.
La cipolla deve soffriggere separata dal riso e quasi al lume di candela, ovviamente
con solo burro. Il riso deve essere tostato tantissimo con un bel po’ di vino. Di zafferano
bisogna metterne molto di più di quello che dicono le ricette. Tutta o quasi la bontà sta
nel brodo: tenete sempre surgelato un pezzo di biancostato così sarete pronti senza doverlo
andare a comprare. E ricordatevi che, come dice Bressanini, è indifferente mettere la carne
in acqua fredda o bollente, le nonne sapevano poco di chimica. Lo preparo in una grande
pentola bassa perché, come ho già scritto, mia mamma diceva che non si può far bene per
più di sei persone perché non tutto il riso cuoce nello stesso modo. Usando una pentola
piatta e larga si facilita la cottura uniforme.
I secondi
Carré di maiale affumicato con salsa di mele e menta
Si deve cuocerlo il giusto, cioè 45 minuti, altrimenti diventa secco come nei rifugi altoatesini. Non ricordo da dove è venuta l’idea di accompagnarlo sempre con la salsa di mela e
menta. Di certo dopo aver scoperto l’accoppiamento dolce salato che non è per nulla della
mia famiglia (se non per la cotizza), forse dopo averlo assaggiato nell’Indiana con una salsa
di cranberry o lamponi. Forse grazie all’economista gallese della Montedison che mi ha
anche insegnato a cuocere l’agnello al forno spalmandolo di miele.
Le mele si cuociono con pochissima acqua e poi si aggiunge lo zucchero, la menta e il
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burro, q.b. Si serve tiepida e in abbondanza. La stessa salsa può accompagnare la lingua
affumicata o ogni altro pezzo simile. La lingua affumicata è straordinaria ma difficile da
trovare se non andando in Svizzera.
Lingua brasata con le sue verdure
Dolcissima, saporita, poco accettata, degno piatto centrale del menu dedicato al Quinto
quarto. Usate la lingua salmistrata perché si scioglie in bocca. La nonna di Gadi, che
ringraziai con un prezioso ombrellino di seta, me ne fece avere una fatta da lei dopo la
mia prima visita a Ferrara ancora nella casa vecchia medioevale con il camino enorme
dove mangiai una ventina di cotelette impanate fritte nell’olio. Bollitela per 20 minuti,
preparando nel contempo in un grande tegame le cipolle (o meglio i porri) con le carote
in un po’ di olio. Uniteci la lingua e due bicchieri di vino bianco; dopo una mezz’oretta
aggiungete i pelati. Dopo un’altra ora e mezza togliete la lingua e passate le verdure che
rimetterete sopra la lingua tagliata a fette. La ricetta prevede solo sale e pepe ma secondo
me ci stanno bene pochi chiodi di garofano o il timo.
Stracotto del Giuanin Macelar di Casasco
Fondamentale e già ricordato piatto invernale, anche se mia madre ne fece per l’ultima
volta per me circa 4 chili come mio contributo ad una mitica festa a casa di Gianni (quello
della Cattolica) nel 75 con Gianni Costantino e tutti gli altri, dove la regola è che poteva
venire chiunque a condizione che avesse due legami con noi. Non so quali fossero quelli
che portarono lì la banda del Casoretto.
La carne da stracotto deve macerare a pezzi nel vino rosso per almeno due giorni così
sembra quasi un salmì di cacciagione, insieme alle verdure e ad aromi forti (ginepro, chiodi
di garofano, timo, alloro). Poi deve cuocere per quattro ore coperta e a fuoco bassissimo.
Nel caso fate asciugare il sugo e servite con vino d’altri tempi, Perché è a questo che serve,
ad andare indietro fregandosene se il sapore è un po’ troppo forte. Il boeuf en doube della
cucina francese ricordato anche da Virginia Wolf segue lo stesso percorso e giustamente si
dice che ci vogliono tre giorni, due per la macerazione, uno per la cottura e si deve mangiarlo il giorno dopo.
Arrosto di sottospalla di manzo piemontese
La ricetta in questo caso non è importante perché tutto si basa sulla materia prima: il sottospalla di manzo piemontese di Mosca a Biella, forse il più bel negozio che io conosca, sette
vetrine e tantissime proposte tra carne, salumi (ottimo lo speck d’oca friulano) e formaggi.
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Il sottospalla è un taglio che a Milano non c’è, equivalente forse alla reale ma che si presenta come un enorme bisteccone. Prendetelo da almeno un chilo e mezzo e possibilmente
grasso, ad esempio quello d’inizio che sembra quasi una fiorentina. L’ho sostituito con
successo con un pezzo di bue grasso di Carrù. E una volta con il guancialetto tenerissimo.
La mia cottura avviene nella pentola di ghisa con un bicchiere di vino bianco e un po’ di
pomodoro, timo e rosmarino per due ore e mezzo.
Manzo alla creola
Un altro modo per utilizzare il sottospalla (o altra carne da lunga cottura) è il manzo alla
creola dove la sorpresa sta nello zafferano aggiunto all’inizio dopo la tostatura insieme a un
bicchiere di vino e ai pelati, oltre a qualche aroma. Cottura lenta e far asciugare il sugo. Un
consiglio dall’Elvira molto utile: quando il sugo è troppo liquido aggiungete quanto basta
di preparato per purè.
Aspic di pollo in guazzetto
In onore della complessa ricetta per l’aspic presente nel primo volume delle ricette di casa
Maglia e di ricordi di come lo faceva mia madre, ho provato a farlo di testa mia cuocendo
il pollo in un arrosto molto bagnato con le solite verdure. Spolpato ho usato il suo brodo
per la gelatina con l’aggiunta di pistacchi. L’ho rifatto con la gallina e con il cappone.
Assaggio di durelli d’oca in salmì
Non entro nel dettaglio di che cosa siano i durelli, chi li vuole fare si informi. Me ne ha
regalato una volta un bel chilo Giacchino Palestro freschi mentre io ero abituato a quelli in
carpione. Messi giù la sera prima con un po’ di soia, gli aromi e le verdure, si cuociono per
un paio d’ore come uno stufato. Ci sono anche di pollo ma quelli d’oca sono più grandi e
morbidi. Ci vogliono amici coraggiosi ma il successo è garantito.
Formaggi
Ho una discreta passione per i formaggi e da giovane organizzavo cene di soli formaggi.
Per il vino una volta ero andato da Provera (il mondo si divide in chi l’ha conosciuto e in
chi è venuto dopo) in Corso Magenta dove dal 35 aveva in vetrina la stessa bottiglia di
grappa con dentro una pera. Mi guarda sconsolato e mi dice che purtroppo non ci sono
vini per i formaggi. Il perché ora lo so: chi non vuol far capire che il suo vino è scadente
lo fa assaggiare con il formaggio. Ma conscio del mio sconcerto mi propone un Rebo,
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l’Incrocio Manzoni in quel momento appena inventato all’Istituto trentino. Per quelli che
sono venuti dopo hanno inventato l’accostamento con i vini dolci, ma aveva ragione lui.
Struggente l’ultimo giorno di apertura con una fila continua di gente e io che stupidamente con la mia timidezza non gli ho chiesto una bottiglia di ricordo.
Ho una passione per il castelmagno e con il mio Presidente esperto di formaggi al
Cheese di Brà ne ho presi tre tipi uno più saporito dell’altro. Ho una teoria: visto che il
formaggio fa male bisogna mangiare quello forte che sazia in fretta, ad esempio il pecorino.
Per accompagnare i formaggi propongo questa salsa che mi è stata spiegata in verità per
accompagnare il fois gras all’Antica Trattoria del Ponte a Cassinetta l’ultima volta che ci
sono andato con Rita (adesso sono troppo povero e ho anche paura di distruggere ricordi
veramente bellissimi).
Salsa di cipolle, scorza d’arancia e miele
Cipolle di Tropea soffritte a fuoco dolcissimo con tanto burro e scorza d’arancia. Aggiungete miele e alla fine aceto balsamico tradizionale di Modena. Una volta mi è venuta bene
con la marmellata al posto della frutta e del miele. Servita fredda. Fa scappare di vergogna
le marmellate di cipolla che si trovano dovunque.
Il dolce
Ho già scritto che normalmente arrivo sazio al dolce e di solito lo lascio alla discrezione
degli amici. Per cui non ho né esperienza, né ricette se non una che propongo perché ha
sapori e profumi un po’ medioevali. E una di mia madre che Rita sa fare benissimo che ha
scritto per me e che ricorda tante occasioni di felicità.
Bianco mangiare alla siciliana
Amalgamare 10 grammi di cannella a 70 grammi di maizena e versare in una casseruola
insieme ad un litro di latte, 200 grammi di zucchero, la scorza di un limone. Far addensare
a fuoco lento, levare la scorza e far raffreddare. Tenere in frigo e al momento di servire
cospargete il budino con altri 10 grammi di cannella e 50 grammi di pinoli.
Torta di frutta
Ingredienti: 3 uova, 5 cucchiai di zucchero, 5 di farina, 3 chiucchiai di latte, 50 g di burro,
scorza di limone, lievito e 4 frutti diversi. Preparare l’impasto con tutti gli ingredienti e
unire la frutta tagliata a pezzetti. In forno a 180 gradi per 40 minuti,
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Consigli per la lettura
Per uno come me che darebbe consigli a chi non conosce e che incontra per caso per strada, dare consigli sul cibo è una missione. In una notte quasi insonne avevo concepito una
sorte di “Trattato sui consigli”. L’idea centrale era ed è che i consigli valgono non per chi li
riceve, ma soprattutto per chi li dà. Per cui accettatemi così.
Le mie letture impegnate si sono prima concentrate sulla storia economica, poi sulla
storia medioevale, poi su storia e cultura dell’alimentazione. Ne è venuta fuori una discreta
biblioteca che offro a chi vuole farsi sane letture. Presento un po’ di titoli con pochi miei
commenti in corsivo.
Massimo Montanari
È il migliore e il più intrigante, chi vuole farsi una cultura nell’alimentazione deve leggere
qualcosa di suo. Alcuni suoi libri sono semplici, altri molto impegnativi, tutti bellissimi.
Il cibo come cultura (Laterza, 2006) Facile e fondamentale
La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa (Laterza, 1993)
Il mondo in cucina (Laterza, 2002)
Il formaggio con le pere. Storia di un proverbio (Laterza, 2008) Un libro su un proverbio,
un proverbio non banale che porta prima a fare la storia dei proverbi, poi a quella del formaggio, poi a quella delle pere e, finalmente, alla spiegazione di un proverbio classista.
Convivio, Nuovo convivio, Convivio oggi (Laterza, 1989, 1991) Bellissima trilogia basata
sull’accoppiamento di una breve introduzione a testi tratti dalla letteratura. Alcuni pezzi fondamentali per me come quello sull’Amarone.
Il riposo della polpetta e altre storie intorno al cibo (Laterza, 2009)
Alimentazione e cultura nel Medioevo (Laterza, 1988)
Campagne medioevali (Einaudi, 1984)
J.L. Flandrin, M. Montanari
Storia dell’alimentazione (Laterza, 2000) Monumentale opera di difficile lettura ma completa
e appassionante.
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A. Capatti, M. Montanari
La cucina italiana. Storia di una cultura (Laterza, 1999) Il sottotitolo spiega tutto.
Wolfang Schivellbush
Storia dei generi voluttuari. Spezie, caffè, cioccolato, tabacco, alcol e altre droghe (Bruno
Mondadori, 2000) Regalato a tanti amici.
Marvin Harris
Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari (Einaudi, 1992) Forse il
più famoso testo di cultura alimentare.
Alda Bruno
Tacchino farcito (Sellerio, 2001) Comprato in dozzine di copie, straordinaria storia di una
famiglia attraverso la ricetta natalizia del tacchino.
La casina, la casa, le cose (Sellerio, 2005)
Maria Grazia Accorsi
Personaggi letterari a tavola e in cucina (Sellerio, 2005), Frittate d’autore (Sellerio, 2007)
Due bei libri dove si cerca in famosi riferimenti letterari momenti relativi al cibo e relative
ricette.
Muriel Barbery
Estasi culinarie (E/O, 2000) Un bel regalo di Emanuela. Quale sarà l’estasi culinaria che il
grande critico vuole ricordare prima di morire?
Piero Camporesi Il padre della cultura alimentare italiana.
Il Paese della fame (Garzanti, 2000)
Le vie del latte dalla Padania alla steppa (Garzanti, 1993)
Clara Sereni
Casalinghitudine (Einaudi, 2005) Forse il libro che mi ha fatto venir voglia di scrivere questo.
Dove scrive che sua madre le faceva mangiare l’aglio per trovarla di notte senza accendere la
luce.
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Redcliffe N.Salaman
Storia sociale della patata. Alimentazione e carestie dall’Aamerica degli Incas all’Europa del
Novecento (garzanti, 1989) Più di 400 pagine sulla patata.
Marco Guarnaschelli Gotti
Grande Enciclopedia della gastronomia (Mondadori, 2007) Molto più di un libro di cucina.
Dario Bressanini
Pane e Bugie. I pregiudizi, gli interessi, i miti, le paure (Chiare lettere, 2010) Per non essere
schiavi degli stereotipi e dell’ambientalismo ideologico.
Ariel Toaff
Mangiare alla giudia (Il Mulino, 2000)
Cristofero da Messinburgo
Banchetti, composizioni di vivande e apparecchio generale (Neri Pozza, 1992) Il più famoso manuale di gastronomia del cinquecento.
Carlo Ginzburg
Il formaggio e i vermi (Einaudi, 1976)
Giovanni Rebora
La civiltà della Forchetta. Storie di cibi e di cucina (Laterza, 1998)
Heinz-Gerhard Haupt (a cura di)
Luoghi quotidiani nella storia d’Europa (Laterza, 1993)
Glauco Maria Cantarella
Medioevo. Un filo di parole (Garzanti, 2002)
Una sera dell’anno Mille (Garzanti, ….)
Martin Jones
Il pranzo della festa. Una storia dell’alimentazione in undici banchetti (Garzanti, 2007)
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Germano Pontoni
Il libro dell’oca. Storia, tradizioni, gastronomia (Istituto per l’enciclopedia del Friuli Venezia Giulia, 1987)
Harold Mc Gee
Il cibo e la cucina (Franco Muzio ed. 1989)
Maguelonne Toussaint-Samat
Storia naturale & morale dell’alimentazione (Sansoni, 1991)
S.Serventi, F.Sabban
La pasta, Storia e cultura di un cibo universale (Laterza, 2000)
S, Colonna, F. Gualtieri
Cucina e Scienza (Hoepli, 2008)
Raffaella Sarti
Vita di casa. Abitare, mangiare, vestire nell’Europa moderna (Laterza, 2003)
Deborah Lupton
L’anima nel piatto (Il Mulino, 1999)
Luciano Sterpellone
A pranzo con la storia. I nostri cibi dagli Assiri al fast-food (SEI,2008)
Gian Carlo Fusco
L’Italia al dente (Sellerio, 2002)
Klaus Muller
Piccola etnologia del mangiare e del bere (Il Mulino, 2005)
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I menu di Vittorio
Negli ultimi anni mi sono divertito a scrivere i miei menu delle occasioni più importanti
e stamparli per gli ospiti e per l’eternità. Ne propongo qui alcuni non per una sorta di
mia celebrazione (questo libro serve a questo scopo), piuttosto lo faccio perché chi c’era
si ritrovi e coltivi i ricordi di quei momenti. Mi sembra giusto, però, fare un’analisi non
scientifica dei menu. Avevo inizialmente previsto di pubblicarli tutti, ma sono troppi e
avrebbero appesantito questo libretto facendolo diventare un librone.
La fantasia è progressivamente venuta meno e con la maturità mi sono concentrato su
alcuni piatti, un po’ perché vengono bene, un po’ perché rischio di meno, con vantaggi di
tutti, anche se è giusto sottolineare che pochi sono stati i casi negativi. Ultimamente, però,
esagero e la ripetitività sta diventando troppa.
Il capitolo si apre con i miei 50 anni: fa un po’ senso pensare che molti dei miei amici
di oggi non c’erano, semplicemente perché non li conoscevo. C’era tantissima gente, più
di sessanta, il giorno prima pioveva ma la domenica è stata fortunata. La preparazione ha
comportato circa due mesi di acquisti massicci tra Bologna e Mortara. La zuppa di ceci
(cinque chili…) ha una storia particolare: vado da Peck il venerdì per comprare la tempia
o testina e il vecchio dolce commesso mi guarda sconsolato e mi dice che non ne hanno.
Avevo già scritto il menù e poi che zuppa di ceci è senza tempia o testina? Poi mi domanda:
“Ma quanti siete?” e alla mia risposta s’illumina, va nel retro e torna con…un’intera testa
di maialino che segata in parte in tanti pezzi fu poi messa nella minestra. Ne facemmo un
paio di foto e Ruggi portandole a scuola si beccò una nota perché erano considerate oscene
(in effetti erano sanguinolente). Un’altra storia riguarda Giorgio Grai che avevo inseguito
per almeno tre mesi perché volevo assolutamente i suoi straordinari e unici vini. Chi lo conosce sa anche la sua inaffidabilità: un mese prima e una settimana prima mi aveva garantito il tutto. Quando il giovedì lo chiamo per sapere perché non erano arrivati, scopro che
se n’era dimenticato. Panico. Poi mi fa la stessa domanda del commesso di Peck e mi dice:
“Ma tu vuoi dare i miei vini costosi a così tanta gente? Sei matto. Io seleziono i vini per l’Esselunga e fra 5 minuti ti telefono quelli da comprare ora”. E così fu fatto; non solo, ma da
quel momento ci sono amici che mi chiamano dall’Esselunga per chiedermi cosa comprare.
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Non sempre nei menu, anzi quasi mai, sono riportati i partecipanti, peccato perché
avrei potuto fare una statistica. Un aspetto che emerge riguarda la quantità: troppa sempre.
Un altro è l’indicazione per il dolce: a discrezione degli amici, quasi sempre non per scaricare su di loro l’onere, ma perché sono come mio padre, non amo i dolci, l’unico o quasi
mio che appare è il biancomangiare alla siciliana. Mi piace arrivare sazio (e con la quantità
di cose che propongo è facile) prima del dolce. Non ci sono gli svuotafrigo e quelli di tante
cene organizzate all’ultimo momento o per non stare solo: vorrei veramente che i miei
amici si sentissero autorizzati ad autoinvitarsi. Alcuni menù derivano dall’incontinenza
che mi coglie quando vado in Via Osoppo: compro, compro, compro e poi mi domando
cosa ne faccio e lancio inviti a raffica.
Mi fermo qui, perché lo scopo non è far l’analisi dei menù, ma ricordarli insieme.
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Ricordi e ricette