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Dave Zeltserman
La trilogia nera
Piccoli crimini
Traduzione dall’inglese di Olivia Crosio
La vera storia di Kyle Nevin
Traduzione dall’inglese di Olivia Crosio
Killer
Traduzione dall’inglese di Marta Milani
Prima edizione di La trilogia nera: giugno 2012
Titolo originale: Small Crimes
Prima edizione: gennaio 2010
© 2008 by Dave Zeltserman
© 2012 by Fanucci Editore
Titolo originale: Pariah
© 2009 by Dave Zeltserman
© 2012 by Fanucci Editore
Titolo originale: Killer
© 2010 by Dave Zeltserman
© 2012 by Fanucci Editore
via delle Fornaci, 66 – 00165 Roma
tel. 06.39366384 – email: [email protected]
Indirizzo internet: www.fanucci.it
Proprietà letteraria e artistica riservata
Stampato in Italia – Printed in Italy
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: Grafica Effe
Dave Zeltserman
La trilogia nera
Piccoli crimini
La vera storia di Kyle Nevin
Killer
Dave Zeltserman
Piccoli crimini
Ad Alan Luedeking
1
Sarebbe stata la nostra ultima partita a dama. Di solito giocavamo nella mia cella, ma questa volta eravamo nell’ufficio
di Morris. Negli ultimi sette anni ne avevamo giocate decine di migliaia, di queste partite. Io ne vincevo una ogni quattro o cinque, le altre le lasciavo vincere a lui.
Morris Smith era il direttore del carcere di contea, qui a
Bradley. Era un omone sulla sessantina, con un faccione tondo e morbido e una pelata incorniciata da pochi capelli. Mi
piaceva, o perlomeno non mi dispiaceva più di altri. Avrebbe potuto rendermeli difficili, quegli ultimi sette anni, invece mi trattava meglio che poteva.
Studiai per qualche secondo la damiera e vidi che potevo
portarmi in vantaggio e ottenere una vittoria sicura, oppure
espormi a una tripla presa da parte sua. Mi finsi immerso in
profonda riflessione per un paio di minuti, poi feci la mossa che
gli avrebbe permesso la tripla presa.
Morris sedeva in silenzio, gli occhietti che dardeggiavano
da una pedina all’altra. Gli vidi un momentaneo scintillio nello sguardo quando riconobbe la combinazione che portava
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Dave Zeltserman
alla tripla presa, e osservai divertito come cercava di reprimere un sorriso. Spostò in avanti la sua pedina con la grossa mano che tremava.
«Mi sa che hai fatto la mossa sbagliata, giovanotto» mi disse compiaciuto con voce gutturale.
Rimasi immobile per qualche istante, poi imprecai fingendo di capire solo allora il mio sbaglio. Pronunciando un’ultima bestemmia, feci l’unica mossa possibile e guardai Morris avventarsi con un triplo salto sulle mie pedine.
«Mi sa che ti ho fregato» decretò.
Restavano poche mosse da fare. Sapevo che a Morris dava enorme soddisfazione togliere l’ultima pedina dalla damiera. Quando la partita fu finita, mi fece un sorrisetto e mi
offrì la mano per una stretta conciliatoria.
«È stata una bella partita» disse. «Peccato per quell’errore.»
«Cosa vuoi che ti dica. Sono sette anni che me lo metti in quel
posto. Devo ammettere che sei stato un degno avversario.»
Morris gongolò, poi guardò l’orologio. «I tuoi documenti
sono pronti. Sei un uomo libero. Ma se vuoi ordino qualcosa da mangiare e ci facciamo un’ultima partita.»
«Mi piacerebbe, ma è da sette anni che muoio dalla voglia
di un cheeseburger e un paio di birre.»
«Posso farteli portare qui.»
«Sì, certo.» Esitai. «Ma potresti passare dei guai, Morris, e
non avrebbero lo stesso sapore, qui dentro. Senza offesa.»
Lui annuì, ma la sua faccia tonda sembrava delusa. «Joe,
mi sono affezionato a te, in questi sette anni. Non credevo che
sarebbe successo, dopo quello che hai combinato per finire in
galera. Posso darti un consiglio da amico?»
«Certo.»
«Perché non ti rifai una vita da un’altra parte? In Florida,
magari? Io fra tre anni, quando andrò in pensione, mi trasfe-
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La trilogia nera
rirò a Sarasota. Non so che farmene, di questi maledetti inverni del New England.»
«È un buon consiglio, ma una delle condizioni della mia
libertà vigilata è che rimanga a Bradley.»
«Puoi chiedere un cambio di indirizzo.»
«Sì, naturale. Potrei, ma i miei stanno invecchiando e mi
piacerebbe recuperare il tempo perduto.»
Morris si strinse nelle spalle. «Pensaci, almeno. Non credo che Bradley sia un buon posto per te. Non più.»
«Apprezzo il consiglio, ma non ho molta scelta. Non subito.»
Ci alzammo e ci stringemmo la mano. Io mi girai per prendere la mia sacca da viaggio e Morris mi chiese se volevo
chiamare i miei perché mi venissero a prendere. Gli risposi
che sarei andato in taxi. Feci una rapida telefonata, firmai i
documenti e Morris mi accompagnò fuori. Il taxi mi stava
già aspettando, ma c’era un tipo chino davanti al finestrino,
che parlava con il conducente. Il taxi ripartì e quando l’uomo
si raddrizzò lo riconobbi all’istante. Per forza: quella faccia
devastata e quel naso amputato potevano appartenere solo a
lui. Era stato un bell’uomo, prima di beccarsi tredici stilettate
in pieno viso.
Morris appariva a disagio. «Bene, ehm... è stato un piacere averti nostro ospite, giovanotto. Se ti viene voglia di passare per una lezione sulla teoria della dama, fai pure.» Poi aggiunse, in tono serio: «Cerca di tenerti fuori dai guai.»
Mi diede una pacca sulla schiena e salutò con la mano l’altro tizio, poi tornò dentro. L’altro tizio sorrideva, ma il sorriso non comprendeva gli occhi. Era come guardare un serpente a sonagli con la bocca aperta.
Gli feci un cenno con la testa. «Non voglio guai, Phil» dissi.
Phil Coakley continuò a sorridere e i suoi occhi a restare di
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Dave Zeltserman
vetro. Era il procuratore distrettuale della nostra contea. Sapevo che si era preso tredici stilettate in faccia perché mi aveva detto che lo avevo colpito esattamente quel numero di volte. Era in buona parte per questo motivo che avevo trascorso
gli ultimi sette anni al fresco.
«Mi dispiace per come sono andate le cose» gli dissi, tenendomi a distanza.
Lui mi fece cenno di avvicinarmi. Il suo sorriso era intatto,
ma nei suoi occhi ancora niente. «Nemmeno io voglio guai, Joe.
Per quanto mi riguarda hai pagato il tuo debito alla società, e
quel che è fatto è fatto. Voglio solo fare piazza pulita dei vecchi rancori. Vieni qui, parliamo un attimo.»
Non mi andava, ma non mi sembrava di avere molta scelta. Quando gli fui più vicino vidi meglio le cicatrici, e dovetti farmi forza per non abbassare gli occhi. Il danno era molto
peggiore, visto da vicino. Sembrava quasi che qualcuno avesse giocato a tris sul suo viso, come se lui fosse la grottesca caricatura di una striscia di Dick Tracy. La sua faccia era un insieme di parti che non combaciavano. E quel pezzo di naso
che mancava, dio santo. Per quanto fosse dura, continuai a
fissarlo.
«Spero che non ti dispiaccia, Joe, ma ho chiesto al tuo taxi
di tornare fra un po’, per poter scambiare due parole con te.»
«Certo, hai fatto benissimo.»
«Ho aspettato qui per quasi un’ora. I tuoi documenti dovevano essere pronti a mezzogiorno.»
«Sai com’è Morris. La fa sempre lunga.»
Phil annuì lentamente. «Ma guardati, Joe. La galera ti ha fatto bene. Non hai più la pancia. Accidenti, erano anni che non
ti vedevo così in forma! Ma tu non potrai dire lo stesso di me.»
«Se potessi tornare indietro e cambiare quello che ho fatto...»
«Sì, lo so, non ti preoccupare di questo. Ormai è andata.» Ta-
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La trilogia nera
cque per un momento, sempre con quel sorriso duro. «Ogni
tanto mi chiedo come tu sia riuscito a scontare la tua pena in
una prigione di contea. Incendio doloso, tentato omicidio, mutilazione di un procuratore distrettuale, e sei finito qui. Sono
sette anni che cerco di farti trasferire in un carcere di massima
sicurezza, ma sei nato sotto una buona stella. Anche l’assegnazione di Craig Simpson come funzionario di sorveglianza.»
Non risposi. Lui scrollò le spalle, sempre sorridendo. «Ma
è acqua passata» disse. «Hai pagato il tuo debito, anche se sette anni non mi sembrano abbastanza. Qual era in origine la
sentenza? Ventiquattro?»
«Da sedici a ventiquattro.»
«Da sedici a ventiquattro.» Phil emise un breve fischio. «A
me sembra così poco per quello che hai fatto. E ne hai scontati solo sette, in una prigione di contea, servito e riverito ogni
momento da Morris Smith.»
«Non è stato facile. Mia moglie ha chiesto il divorzio...»
«Sì, lo so. Anche la mia. Credo che facesse fatica a guardarmi in faccia.»
Phil non sorrideva più. Lo fissai, lui e le cicatrici di cui ero
responsabile. Dopo un po’ gli chiesi che cosa voleva.
«Fare piazza pulita» rispose. «Essere sicuro che non ci sia
del rancore tra noi. Voglio anche parlare con te di certe faccende che riguardano la polizia. Dopotutto sei stato un agente qui
da noi per dodici anni. Hai saputo che Manny Vassey sta morendo di cancro?»
«Sì, ne ho sentito parlare.»
Phil s’incollò di nuovo il suo sorriso e scosse leggermente
la testa. «Solo cinquantasei anni, e un cancro allo stomaco. È
sempre stato un duro, Manny. In condizioni normali non sarei mai riuscito a fregarlo ma, vedi, a volte un uomo in punto di morte sente il bisogno di liberarsi la coscienza. E io so-
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Dave Zeltserman
no convinto che ogni dollaro derivante dalla droga, dal gioco e dalla prostituzione qui nel Vermont finisse nelle sue mani. Hai presente Billy Ferguson? Devi aver indagato sul suo
omicidio.»
«Sì, me lo ricordo.»
«Per forza. Non è che abbiamo molti omicidi, dalle nostre
parti, e comunque non ne abbiamo mai avuto un altro così brutale. Quanti anni fa è successo?»
«Non saprei. Una decina?»
Phil ci pensò, poi scosse la testa. «Secondo me, meno di otto anni e mezzo fa. Solo pochi mesi prima che tu mi conciassi così. Quello è stato un omicidio dannatamente brutale, Joe,
te lo dico io. Non ho mai visto nessuno pestato com’era pestato Ferguson.»
Aspettò che io dicessi qualcosa, ma continuai a fissarlo in silenzio. Dopo un po’lui rinunciò e riprese a parlare.
«Billy Ferguson era pieno fin sopra i capelli di debiti di gioco. Per quanto ne so, doveva a Manny trentamila dollari. Ho
idea che Manny abbia mandato qualcuno dei suoi scagnozzi
a riscuotere e che la situazione sia degenerata. Ricordi qualcosa della tua indagine?»
«È passato molto tempo. Ma ricordo che ci ritrovammo in
un vicolo cieco. Niente impronte, niente testimoni, niente.»
«Be’, io non mi sono arreso. Aiuto Manny a trovare la fede.»
Phil rise, ma il suo sorriso si era spento da un pezzo. «Gli leggo la Bibbia, ogni giorno. Credo che cominci a vedere la luce.
Con un briciolo di fortuna entro breve otterrò una confessione,
e chiarirò l’omicidio Ferguson e qualche altro delitto che mi tormenta da allora.»
Preferii non dire niente. Stava sprecando il suo tempo, ma
se ne sarebbe reso conto da solo. Manny Vassey era il gemello siamese del diavolo, e non c’era la minima possibilità che
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La trilogia nera
trovasse Dio o confessasse alcunché. Arrivò il mio taxi. Prima che potessi dire qualcosa, Phil mi prese di mano la sacca
da viaggio e la buttò nel bagagliaio del taxi. «Ci vediamo,
Joe» disse, e se ne andò.
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2
Seduto nel taxi, tirai fuori di tasca una foto consumata e
spiegazzata delle mie due figlie. Era stata scattata il giorno del
primo compleanno di Courtney. Melissa a quel tempo aveva
poco più di tre anni ed erano l’una accanto all’altra, Melissa
che teneva la mano a Courtney per aiutarla a reggersi in piedi. Portavano due abitini gialli uguali e avevano nastri rosa
nei lunghi capelli biondi. Erano tutte e due cicciottelle, Courtney più di Melissa. Vedere il piccolo, timido sorriso sul visetto di Melissa e la totale confusione su quello di Courtney mi
diede una stretta al cuore. Ricordavo bene il resto della giornata. Courtney aveva finito per imbrattarsi il faccino di cioccolato e più tardi Melissa l’aveva abbracciata come se fosse
stata una bambola. E tutte e due mi erano saltate sulle ginocchia ridendo come matte. Avevo pochi altri ricordi delle mie
bambine, o almeno erano pochi quelli a cui tenevo.
Dopo un po’ misi la foto nel portafoglio. Poi chiusi gli occhi e pensai a come avevo fatto a finire in quel modo.
Nove anni prima ero sommerso dai debiti di gioco. Stavo
peggio, molto peggio di quanto non fosse mai stato Billy Fer18
La trilogia nera
guson. Avevo completamente perso il controllo. Non ero di
quelli sempre in crisi di astinenza da droga, ma mi facevo
troppo, e bevevo troppo, e scommettevo troppo. Soprattutto questo. Sul football. Ero convinto che mi sarei arricchito
più in fretta puntando soldi che guadagnandomeli. C’erano
settimane in cui non facevo nemmeno un dollaro, ma è proprio questo il guaio, con gli scommettitori incalliti: sono sempre convinti di potersi rifare di tutto con una bella vincita. Ovviamente a me non accadde mai. Riuscii soltanto a indebitarmi
sempre di più.
Dovevo un sacco di soldi a Manny. Lo ripagavo come potevo, ma non era mai abbastanza e lui mi teneva sotto pressione. Quando minacciò di fare del male a mia moglie e alle
bambine, capii di non avere scelta e accettai di lavorare per
lui. All’inizio erano lavori piccoli, cosette di nessun peso, poi
Manny cominciò ad alzare il tiro. Dovevo a tutti i costi svincolarmi, e mi misi a scommettere cifre sempre più alte con
quello che rubavo nel deposito reperti della polizia. Lo sceriffo della contea di Bradley, Dan Pleasant, il poliziotto più corrotto che avessi mai conosciuto, venne a sapere che Phil aveva scoperto alcuni documenti contraffatti da me e stava
costruendo un caso per portarmi in tribunale. Ringraziai Dan
per l’informazione e gli assicurai che avrei sistemato tutto.
Ero fatto niente male, la notte in cui entrai nell’ufficio di Phil.
Trovai subito il documento che mi comprometteva. Stavo versando benzina dappertutto quando arrivò lui. Era mezzanotte passata e non aveva nessun diritto di capitare lì a quell’ora,
ma lo fece. Ci guardammo in faccia. Lui sapeva cosa avevo in
mente, avrebbe dovuto darsela a gambe e chiamare qualcuno.
Invece cercò di fermarmi. Phil è un omone. Al liceo era un difensore di tutto rispetto e aveva giocato anche al college, ma io
combattevo per la vita. Forse ero anche fuori di testa per via
della coca e dell’adrenalina.
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Dave Zeltserman
Riuscii in qualche modo ad atterrarlo e presi un tagliacarte
dalla scrivania. Devo averlo colpito con quello. Aessere sincero di questa parte ho in mente solo immagini confuse. Ricordo che però a un certo punto Phil aveva smesso di muoversi.
Gli smontai di dosso, accesi un fiammifero e aspettai che
il fuoco si propagasse, poi me ne andai.
La cosa assurda è che Phil mi era simpatico. Lo avevo sempre considerato una persona concreta, un buon padre di famiglia, insomma un ottimo essere umano in generale. Se avessi
avuto un vero coltello, per esempio da pesca o da caccia, lo avrei ucciso. Il tagliacarte non era abbastanza affilato. Feci dei
danni – eccome se ne feci – ma lui non morì.
Quando appiccai il fuoco, Phil doveva aver fatto scattare
un allarme antincendio silenzioso. Non glielo vidi fare, ma
doveva esserci riuscito. La polizia e i pompieri arrivarono
mentre uscivo dall’edificio. Gli andai praticamente incontro.
Mio padre era pompiere, all’epoca, e c’era anche lui. Merda,
dovevo avere ancora in mano quell’accidenti di tagliacarte.
Venni subito arrestato. Vidi la delusione negli occhi dei miei
colleghi poliziotti, ma vidi anche una certa ansia. Se avessi parlato, molti di loro sarebbero finiti dentro. Il sindacato assoldò
per me Harold Grayson, probabilmente uno dei migliori avvocati della zona. Voleva che mi dichiarassi innocente, sostenendo che non ero nel pieno possesso delle mie facoltà a causa dell’abuso di cocaina. Mi rifiutai, e mi dichiarai colpevole. Mi
sembrava che fosse arrivato il momento di prendere la mia medicina. E mantenni il silenzio su tutto quello che sapevo. Feci
anche un accordo con Manny: non avrei denunciato nemmeno lui, purché cancellasse il mio debito. Nessun altro venne
coinvolto.
Negli ultimi sette anni, quando non facevo svagare Morris
con la dama, mi tenevo occupato cercando di capire come ave-
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La trilogia nera
vo fatto a prendere quella piega. Non doveva andare così.
Niente nel mio passato lasciava presagire che sarei diventato
un poliziotto corrotto, un cocainomane e uno scommettitore
incallito. Avevo avuto un’infanzia normale. Ero nato a Bradley e lì avevo trascorso tutta la mia vita, facendo il quarterback nella squadra del liceo e sposando la ragazza di cui ero
innamorato fin da ragazzino. Ero uscito dalla contea solo poche volte, allontanandomi al massimo a quattro ore d’auto.
Che diavolo, avevo avuto un’esistenza perfettamente normale!
Da bambino guardavo Adam-12 e Dragnet e sognavo già di
diventare un poliziotto. Dopo il diploma sono entrato nel dipartimento di polizia locale. Non ho mai cercato di guadagnarci di nascosto, ma gli altri facevano di tutto per darmi dei
soldi e io li ho presi. Nei bar mi offrivano cinquanta dollari per
guardare dall’altra parte il venerdì e il sabato sera, quando i
clienti si mettevano quasi tutti al volante ubriachi. A un certo
punto ho cominciato a percepire uno stipendio settimanale
per ignorare quello che accadeva da Kelley’s, lo strip club. E
c’erano anche altre cose, come spartirci i soldi che sparivano
dal deposito reperti e servirci dalle tasche dell’ubriacone di
turno. Erano piccoli crimini, niente di grave, ma sono stati
quelli a portarmi alle scommesse e alla cocaina. Le mance e i
furti mi facevano sentire sporco, e volevo sbarazzarmi di quei
soldi il più in fretta possibile. È stato quello a farmi cominciare, ne sono sicuro.
I crimini gravi ebbero inizio una sera d’estate una dozzina
di anni fa. Erano le tre del mattino e non riuscivo a dormire.
Presi l’auto di pattuglia e stavo girando per la città quando notai la porta di una gioielleria scassinata con un piede di porco.
Come sempre avevo con me il mio revolver di servizio e,
quando entrai per indagare, trovai Dan Pleasant e altri nostri
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Dave Zeltserman
ragazzi che saccheggiavano il negozio. Potevo scegliere: denunciare il nostro sceriffo e i suoi agenti, oppure chiedere la
mia quota. L’idea di denunciare uno sceriffo mi faceva sentire a disagio, soprattutto perché io stesso non ero del tutto pulito, così decisi per la quota. Dan lavorava con un ricettatore
nello stato di New York e la mia quota fu di quindicimila dollari, che scialacquai in fretta come li avevo avuti. Dopo quella
rapina partecipai ad altre, e conobbi Manny.
Quando penso a tutte le cose che ho fatto, mi sembra così
impossibile. Ma mi basta guardare in faccia Phil Coakley per
essere sicuro di averle fatte davvero. Così ora ero un ex agente di polizia, un criminale e un divorziato. Non avevo notizie
di mia moglie e delle mie figlie dal giorno dell’arresto. A parte Morris, per sette anni non avevo avuto né visite né compagnia, neppure da parte dei miei genitori. Se pensavo a quanto mi erano costati quei soldi che non volevo neppure, quasi
non riuscivo a crederci.
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La contea di Bradley è composta da una mezza dozzina di
piccole città e sta in una valle alle pendici delle Green Mountains. Ai tempi in cui ero poliziotto la popolazione totale della
contea, escludendo gli ottomila studenti iscritti ai due college
di Belle arti di Eastfield, era di circa settantaduemila abitanti.
Bradley, la città più grande, ne conta da sola ventiquattromila.
Quando ero bambino, bastava andare a dieci chilometri dal
centro per non vedere altro che campi, pascoli e boschi. Venticinque anni fa circa arrivò un’industria che lavorava per la
Difesa, comprò ottanta ettari di terreno agricolo e ci costruì
uno stabilimento per la produzione industriale. All’epoca del
mio arresto, i campi e i pascoli trasformati in strade e centri
commerciali erano sempre di più.
Nonostante la perdita di terreni coltivabili, i posti di lavoro nella contea di Bradley erano equamente suddivisi tra agricoltura, industria casearia, industria manifatturiera e turismo,
con turisti occasionali o genitori degli studenti di Eastfield.
Per la maggior parte dei suoi abitanti Bradley era un po-
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Dave Zeltserman
sto senza avvenimenti, la tipica cittadina bucolica del New
England abitata dalla classe media. Ma solo per la maggior
parte.
Il taxi mi lasciò davanti alla casa dei miei genitori, un piccolo ranch con tre stanze da letto in Maple Street, a meno di
due chilometri dal centro. Papà lo aveva comprato quarantacinque anni prima per seimila dollari ma, per quanto l’interno non superasse i centoquindici metri quadri, ora ne valeva perlomeno duecentomila. Joe Sr, mio padre, era cresciuto
a Bradley, come pure suo padre prima di lui. I Denton abitavano qui da quasi cent’anni. Morris mi aveva detto che pochi mesi dopo il mio arresto papà si era ritirato dal corpo dei
vigili del fuoco, ma durante le cinque o sei conversazioni telefoniche che avevo avuto con lui nei sette anni di detenzione il mio vecchio non me ne aveva mai parlato.
Mi fermai un momento a guardare il giardino. L’erba era
tagliata di fresco e le aiuole pulite e ordinate. La vernice si stava scrostando qua e là, ma a parte questo la casa appariva in
ottime condizioni. Portai la mia sacca fino alla porta e suonai
il campanello.
Tre settimane prima, quando avevo scoperto che la mia domanda per la libertà vigilata era stata accolta, avevo subito telefonato ai miei per avvisarli che avrei abitato con loro finché
non fossi stato in grado di mantenermi da solo. Il mio arrivo
quindi non doveva essere una sorpresa, ma ci volle un po’prima che papà venisse ad aprirmi. Aveva una strana espressione, che si trasformò poco a poco in un sorriso addolorato.
«Joey, per poco non ti riconoscevo» disse. «Vieni, ti preparo qualcosa da mangiare.»
Mi fece entrare in casa. Arrivato in cucina si voltò e mi squadrò nervosamente, poi riprese a chiacchierare e mi chiese se
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La trilogia nera
preferivo le uova o un hot dog con fagioli. Gli risposi che pensavo di andare a mangiare qualcosa fuori.
«Ma figurati. Dimmi cosa vuoi e te lo preparo io.»
Capii che discutere sarebbe stato inutile. «D’accordo. Hai
del salame?»
«Sì. Posso farti un tramezzino di pane bianco con salame
e maionese. Che ne dici?»
«Ottimo.»
Lo seguii in cucina. Sembrava a disagio mentre preparava il tramezzino. Sembrava anche parecchio invecchiato, come se fossero trascorsi più di sette anni da quando lo avevo
visto l’ultima volta. Stava curvo, con le spalle più cadenti di
come le ricordavo, e le guance più cascanti. Sette anni prima
aveva i capelli neri con qualche filo grigio. Ora ne aveva molti di meno, e quei pochi erano bianchi. Aveva solo sessantacinque anni, ma ne dimostrava ottanta.
«Dov’è la mamma?»
«È il suo giorno di volontariato in biblioteca.»
«Pensavo che sarebbe rimasta a casa per darmi il benvenuto.»
Papà mi guardò imbarazzato. «Il venerdì è il suo giorno.
Arriverà più tardi.» Tagliò a metà il tramezzino e me lo porse. «Ti faccio un caffè.»
«Come ve la siete passata in questi anni? Non mi raccontavi molto, durante le tue telefonate.»
«Siamo stati bene, Joey. Ho la pressione alta e prendo delle medicine, ma a parte questo e l’artrite sono sano come un
pesce. Tua madre adesso passa un sacco di tempo a fare volontariato.» Tacque per un momento. «Non so se te l’hanno
detto, ma mi sono ritirato dal corpo dei vigili del fuoco.»
«Sì, mi hanno detto qualcosa.»
Fuori dalla finestra della cucina, due scoiattoli si rincorre-
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Dave Zeltserman
vano in giardino. Quando furono usciti dalla mia visuale
chiesi se aveva notizie della mia ex moglie.
Lui scosse la testa. «No, figliolo, più nessuna notizia dal giorno in cui sei entrato in prigione.»
«Cosa?»
«Hai sentito bene, figliolo.»
«Sono sette anni che non sapete nulla di Elaine?»
«Già.»
«Non vi fa parlare con le vostre nipoti?»
«No.»
«Non vi manda nemmeno qualche foto?»
Papà mi rivolse un sorriso triste e imbarazzato. «Ha la piena custodia delle bambine. Non è costretta a mantenere i contatti. Credo che abbia deciso di tagliare di netto. Lo sai che poco dopo la sentenza si è trasferita. Ma non ci ha mai mandato
il nuovo indirizzo. Non sappiamo dove sia.»
L’idea che i miei venissero tenuti lontano dalle mie figlie
mi fece infuriare. «Mi sorprende» dissi. «Tu e mamma piacevate molto a Elaine. Ero sicuro che avrebbe continuato volentieri a frequentarvi. Pensavo anche che avrebbe voluto far
vedere i nonni alle bambine.»
«Cosa vuoi che ti dica, figliolo.»
Addentai il tramezzino e lo masticai lentamente, cercando
di elaborare quello che mi stava dicendo. «Non è giusto» decretai dopo un po’. «Adesso che sono fuori andrò da un avvocato e cercherò di cambiare le cose.»
«Non so... Pensaci bene, Joey. Andare in tribunale può essere molto costoso e noi non abbiamo i mezzi per aiutarti.»
Lo fissai finché non distolse gli occhi. Non gli credevo. Lui
e mamma erano sempre andati pazzi per le bambine ed ero
sicuro che avrebbero fatto qualunque cosa per ristabilire i
contatti. Ovviamente lui sapeva che io ero al verde. Non ave-
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La trilogia nera
vo più la casa ed Elaine si era presa quanto restava dei nostri
risparmi. Avevo soltanto i duecento dollari che mi avevano
trovato in tasca la notte dell’arresto, e la macchina. O meglio
speravo di averla ancora. Papà aveva accettato di occuparsene mentre ero al fresco.
«Quasi dimenticavo» disse, sforzandosi di sorridere. «Hai
ricevuto una telefonata. Ho preso nota per te.»
Sfilò di tasca un foglietto e me lo porse. Aveva chiamato
Dan Pleasant, che voleva essere richiamato.
«La mia macchina è in garage, papà?»
«È nel garage di Ron Hardacher, in fondo alla strada. Spostare ogni volta la mia e poi la tua era diventato complicato,
così lui si è offerto di tenerla. Ci ho fatto un giretto ogni due
settimane come ti avevo promesso e ho cambiato l’olio ogni
sei mesi. Aspetta, ti do le chiavi.»
Andò a rovistare in un cassetto della cucina e tirò fuori un
mazzo di chiavi. Gli chiesi se poteva darmi anche quelle di
casa.
«Non ti servono. Lo sai che non chiudiamo mai a chiave.
Joey, non è che non vogliamo averti con noi, ma è solo una
soluzione temporanea, giusto?»
«Certo, solo finché non avrò trovato un lavoro e non mi
sarò sistemato. Grazie per esserti preso cura della mia auto
e grazie per l’ospitalità.»
Il caffè era pronto e lui me ne versò una tazza. Nel porgermela aveva l’aria di volermi chiedere qualcosa. Esitò a lungo, la bocca che formava un piccolo cerchio. Poi borbottò che
era stanco, mi voltò le spalle e si diresse verso la stanza da
letto.
Portai il resto del tramezzino e il caffè fino al telefono. Mangiai senza fretta e, quando ebbi finito, telefonai a Dan Pleasant.
Non c’era, ma lasciai un messaggio e aspettai che mi richia-
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Dave Zeltserman
masse. Dopo cinque minuti l’apparecchio squillò. Sollevai la
cornetta e sentii la voce di Dan.
«Sei tu, Joe?»
«Ciao, Dan.»
Lo sentii ridacchiare. «Come ti va, Joe? Cristo, ne è passato di tempo!»
«Non era necessario che ne passasse così tanto. Sono rimasto rinchiuso nel vostro carcere per sette anni. Potevi venirmi a trovare quando volevi.»
«Non sarebbe stata una mossa intelligente. Ma dobbiamo
parlare. Perché non vieni in Mills Farm Road, a Chesterville? Ci vediamo lì tra mezz’ora.»
«Non so, Dan. Mi sentirei più a mio agio se parlassimo in
mezzo alla gente. Cosa ne dici della Zeke’s Tavern?»
Lo sentii di nuovo ridacchiare. «Non sarebbe una gran furbata, Joe. Non credo che tu e io vogliamo farci pubblicità. E non
sarebbe una furbata neppure far vedere la tua faccia da Zeke’s.
Ci vediamo a Chesterville tra mezz’ora.»
Riappese.
Andai due case più in là, da Ron Hardacher, e tirai fuori dal
garage la mia Mustang decappottabile. Dan mi avrebbe preferito morto, ma incontrarlo in una strada isolata in mezzo alla
campagna non mi preoccupava più di tanto. Se avesse pensato di potermi ammazzare e farla franca, avrebbe provveduto
anni prima.
Abbassai la capote e mi diressi verso Chesterville. A otto
chilometri da Bradley vidi che le strade e i centri commerciali si erano espansi a macchia d’olio in quella che un tempo era
stata campagna. Alla fine me li lasciai alle spalle, e così pure
i semafori. La strada divenne meno trafficata e più panoramica, con colline tondeggianti e mucche al pascolo. Era una tie-
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La trilogia nera
pida giornata autunnale e la sensazione del vento in faccia era
stupenda. Ogni tanto superavo i centocinquanta chilometri
all’ora, poi rallentavo. Provai un senso di pace come non mi
succedeva da anni. Fu sorprendente rendermi conto di quanto tempo fosse passato dall’ultima volta.
Svoltai in Mills Farm Road e percorsi lo sterrato finché non
vidi Dan appoggiato al suo pick-up. Era alto e dinoccolato, con
la testa grossa e un cespuglio di capelli castani, e non era per
niente cambiato. Il suo cognome, Pleasant, gli si addiceva: aveva sempre un affabile sorriso sulle labbra. Mi fermai dietro al
pick-up e scesi per salutarlo.
I suoi occhi fissarono ottusamente per qualche secondo la
Mustang, poi ricomparve l’affabile sorriso. Dan non era mai
stato contento dell’acquisto della decappottabile. Teneva sempre il guinzaglio corto ai suoi vice, esortandoli a usare i soldi extra per un fondo pensionistico. Niente acquisti vistosi.
Niente auto di lusso, niente barche, niente che potesse attirare l’attenzione. Io mi ero comprato solo quella macchina. Gli
altri soldi li avevo persi. Eppure, dopo tanti anni, sentivo che
Dan ce l’aveva ancora con me per la Mustang.
Fece un passo verso di me e ci stringemmo calorosamente
la mano, poi lui mi piazzò la sua sulla spalla. «È bello rivederti, Joe.» Se non lo avessi conosciuto meglio, gli avrei creduto.
«Non so come tu faccia a essere ancora sceriffo» commentai.
Lui rise. «Finché mi votano... Quanto tempo è che non bevi una birra?»
«Lo sai già.»
«Era una domanda retorica, Joe. Ma credo di avere pronta la soluzione.» Aprì la portiera del pick-up e prese due bottiglie da un frigorifero portatile. Me ne porse una.
«Ti trovo in forma, Joe. Morris ti ha trattato bene?»
«Non mi posso lamentare.»
29
Dave Zeltserman
«Ho dovuto farmi un culo così, per evitarti il trasferimento. Il nostro amico procuratore distrettuale si è battuto come
un demonio per spedirti in un carcere di massima sicurezza.»
«Lo so. Me l’ha detto.»
«Te l’ha detto, eh?» Dan sorrise. «Ti ha detto anche di aver
usato ogni mezzo a sua disposizione per farti mandare a Danamora, fuori dal nostro Stato? Ce l’aveva quasi fatta e, credimi, là non ti saresti divertito così, amico mio. Ho dovuto
manovrare un sacco di gente per tenerti qui a Bradley.»
«Erano i patti.»
Dan rise e scosse la testa. «Sono andato ben oltre i patti,
Joe. Mi è costato parecchi soldi farti uscire così presto, soprattutto dopo la dichiarazione strappalacrime di Coakley alla
commissione per la libertà vigilata. Ha commosso persino
me. Ma anche ungendo mezza contea, se all’inizio non ti fossi preso la responsabilità e non ti fossi dichiarato colpevole
non credo che adesso saresti fuori. Alla lunga quella mossa
ti ha giovato.»
«Non è per questo che mi sono dichiarato colpevole.»
«Sì, lo so. L’ho capito subito, che non te la sentivi di deporre.
Una mossa intelligente. Chissà che altro avrebbe tirato fuori il
nostro amico procuratore.»
«Non l’ho fatto nemmeno per questo.»
Dan aspettò che mi spiegassi meglio, ma io tacqui. Tanto
non avrebbe capito. Non era nel suo carattere capire una cosa
tanto semplice, e cioè che, dopo quello che gli avevo fatto, non
mi sembrava giusto costringere Phil ad affrontare un processo. Ma stranamente Phil era parso risentito dalla mia confessione. Come se lo avessi derubato del suo giorno di gloria in
tribunale. Se me ne fossi reso conto subito, glielo avrei lasciato e avrei permesso a Grayson di sostenere la mia momentanea incapacità di intendere e di volere.
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La trilogia nera
Dopo un po’, Dan comprese che non gli avrei fornito spiegazioni. Bevve una lunga sorsata di birra e si mise a ridacchiare. «Sempre il solito vecchio Joe, eh?» disse ammiccando. «Comunque ho dei regali per te.»
Prese due buste dalla tasca interna del giubbotto e me le
consegnò. La prima era zeppa di bigliettoni da cento dollari. Ne contai sessantacinque. Nella seconda c’erano dei moduli. Dan mi spiegò che erano per la pensione.
«Firmali, metti la data e al resto penso io» disse.
«Stai scherzando.»
«Nossignore. È già tutto sistemato. Ufficialmente, ti ritiri
dopo vent’anni di servizio. Ti daranno 3460 dollari al mese.
Più l’assicurazione medica e dentistica.»
«Come ci sei riuscito?»
Altro sorrisetto. «È stato un gioco da ragazzi. E in fondo è
vero che sei entrato in polizia vent’anni fa. Se qualcuno si è
scordato di controllare e non ha visto che hai passato gli ultimi sette in galera per incendio doloso e tentato omicidio, be’,
cavoli loro.» I suoi occhi s’indurirono leggermente. «Ora, Joe,
per quanto mi riguarda con questo siamo pari. Io e i ragazzi
abbiamo apprezzato il fatto che tu ci abbia tenuto fuori, ma
sei stato un idiota a uscire da quell’edificio con Coakley ancora vivo. Da allora non è più la stessa cosa.»
«In che senso?»
Dan finì la birra prima di rispondermi, con un vago disprezzo negli occhi. «Grazie a te ci tengono d’occhio più da vicino. Sono tempi duri, c’è molto meno da guadagnare. Ci sono intere settimane in cui vivo solo del mio stipendio. Ma il
vero problema è Coakley. Lo hai cambiato.» Dan lanciò la bottiglia vuota nel prato e si prese un’altra birra. Dopo un bel sorso salutare, scosse tristemente la testa. «Il nostro procuratore
era un uomo probo. Non c’è mai stato modo di coinvolgerlo
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Dave Zeltserman
in qualche affare, ma d’altra parte era un tipo onesto, professionale, e non ha mai voluto fregare nessuno. Tu l’hai trasformato in un figlio di puttana vendicativo. È assetato di sangue,
Joe, pronto a inchiodarti con qualunque mezzo, e temo che
possa trascinare dentro anche me e i miei ragazzi. Lo sai che
Manny sta morendo di cancro?»
«Me l’hanno detto.»
«E sai anche che Coakley se lo lavora ogni santo giorno? Si
siede di fianco al suo letto di morte e gli legge la Bibbia. Sta
cercando di inculcargli il timore di Dio, e ho paura che ci riuscirà.»
«Lo escludo» dissi. «Manny è un testardo e Phil sta perdendo il suo tempo.»
«Non ne sarei tanto sicuro. Manny non è lo stesso di sette
anni fa. È cambiato. Sono andato a trovarlo, qualche settimana fa, e non sono stato contento di quello che ho visto. È spaventato, Joe. Gliel’ho letto negli occhi. Esita, e se confessa finiremo tutti al fresco, ma tu ci finirai per omicidio. E la pena
per un omicidio di primo grado non si sconta in una prigione di contea.»
«Non so di che parli.»
«Dài, non penserai di farmela!»
«Continuo a non sapere di che parli.»
«Fa’il finto tonto finché ti pare. Le cose non cambiano.» Dan
fece un sospiro. «Ricordi Billy Ferguson? Aquell’epoca riscuotevi per conto di Manny, me lo ricordo bene, e secondo me lo
sospetta anche Coakley. Ma quello che sia io che Coakley sappiamo di sicuro, è che il giorno in cui venne picchiato a morte,
Ferguson aveva ritirato trentamila dollari dal suo fondo pensione. E io so anche che la settimana dopo tu scommettesti trentamila bigliettoni con un allibratore di South Boston. E come al
solito perdesti fino all’ultimo centesimo.»
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La trilogia nera
«Chiunque te lo abbia detto, ti ha preso per il culo.»
«E dài, Joe. Come ti ho detto prima, non penserai di farmela!»
«No, Dan, non me lo sogno neppure. Ma non ho niente a
che vedere con Ferguson. Se la soffiata ti è arrivata da un allibratore, qualcuno lo ha pagato.»
Dan sorrise allegramente e finse di pensarci su. «Può darsi.
Non ha importanza. Se in punto di morte Manny confessa che
sei stato tu a uccidere Ferguson, finirai dentro per omicidio. E
anche se non lo farà, c’è lo stesso quanto basta per rispedirti al
fresco fino a chissà quando. Quindi, come vedi, abbiamo un
problemino. Ed è meglio risolverlo subito. O Manny o Coakley, scegli tu.»
«Non capisco di che parli.»
Dan perse il suo sorriso e si fece terribilmente serio. «Senti,
Joe, sei stato tu a metterci nei guai e adesso ci devi togliere. Il
piano A dice che devi sbarazzarti di uno dei due, non importa quale. Se crepa Manny, Coakley può raccontare quello che
vuole ma non arriverà da nessuna parte. Se crepa Coakley,
Manny non avrà più nessuno che tenta di estorcergli una confessione e potrà morire in pace durante la notte.»
«Scordatelo. Io non lo faccio.»
«Che cosa non fai, Joe?»
«Non ammazzo nessuno.»
«No, eh? Non fare il difficile con me. Manny sta morendo
di cancro, Cristo santo. Ammazzarlo adesso sarebbe fargli
un favore.»
«Come dovrei fare secondo te ad ammazzarlo, visto che
sta in ospedale?»
«Sei un ragazzo in gamba. Trova un modo. E se non ci riesci, finisci il lavoro che hai iniziato col tuo amico procuratore.
Faresti un favore anche lui, dopo il modo in cui gli hai con-
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Dave Zeltserman
ciato la faccia. Uno o l’altro, Joe. Scegli tu.» Dan si grattò dietro l’orecchio. «Ti do un paio di giorni, tre al massimo. E se
non avrai agito passerò al piano B. Te lo dico subito, Joe. Il piano B non mi piace nemmeno la metà del piano A, e ti assicuro che non piacerà nemmeno a te.»
Finì la birra e buttò via anche quella bottiglia. Quando tornò a guardarmi, l’affabile sorriso era di nuovo al suo posto.
«Esegui il lavoro e non avremo problemi. Potremo vivere
tutti quanti per sempre felici e contenti.»
«Cosa avresti fatto se non mi avessero rilasciato?»
«Non avrei avuto scelta, sarei passato al piano B. Tra l’altro,
Joe, quando avrai finito sarebbe meglio per te andartene da
Bradley. Potresti considerare l’idea di trasferirti ad Albany per
stare vicino alle tue bambine.»
Il mio cuore sussultò. «Come fai a sapere che Elaine è ad
Albany?» gli chiesi, cercando di non suonare stridulo.
«So tante cose, Joe. La tua ex ha cambiato nome. Secondo
me non vuole che la rintracci. Ora si chiama Elise Mathews.»
«Si è risposata?»
«Non l’ultima volta che ho controllato.»
«Sai come stanno le mie figlie?»
Fece una faccia come a dire: ‘Come cazzo faccio a saperlo?’
Ci fissammo per un lungo momento. Alla fine Dan ruppe il silenzio. «Hai tre giorni. Cerca di chiudere con questo casino più
rapidamente che puoi, Joe. Ma soprattutto chiudi. Non vorrei
proprio dover passare al piano B.»
Mi tese la mano e mi salutò con un cenno della testa, il suo
sorriso amichevole stampato in faccia. Restai a guardare mentre faceva inversione con il pick-up e ripartiva.
Nel tornare a casa dei miei riflettei sulla situazione. Ero sicuro che Dan stesse esagerando. Il Manny Vassey che conoscevo avrebbe sputato in faccia a Phil prima ancora di par-
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La trilogia nera
largli. Non mi sembrava possibile che fosse così cambiato.
Eppure il pensiero di Manny che accettava visite quotidiane
da Phil e se ne stava lì buono ad ascoltare mentre gli leggeva la Bibbia, be’, mi turbava. Secondo me Manny lo prendeva in giro. Sì, si divertiva alle sue spalle.
Non avevo chiesto a Dan del piano B perché immaginavo
quale fosse. Dan era convinto che, se fossi morto, Phil avrebbe perso interesse in Manny e gli avrebbe lasciato portare i
suoi segreti con sé nella tomba. Anni prima mi ero nascosto
in tasca un registratore e avevo registrato una conversazione tra me e Dan a proposito di un negozio di numismatica al
quale avevamo fatto visita. Era stato uno scambio accalorato, nel quale fingevo di non essere soddisfatto della mia quota e Dan, per calmarmi, mi spiegava per filo e per segno quello che avevamo preso e quanto era riuscito a ricavarne il suo
ricettatore nello Stato di New York. Avevo depositato quel
nastro e un diario che avevo tenuto dei crimini commessi insieme a lui in una cassetta di sicurezza, e avevo dato ordine
che, nel caso fossi morto, il contenuto venisse recapitato al
procuratore generale del Vermont. Poi ne avevo parlato a Dan.
Lui non aveva fatto salti di gioia, ma aveva cominciato a rispettarmi di più. Se aveva preso in considerazione il piano B
era perché o pensava che stessi bluffando, oppure pensava
di poter liquidare le mie prove come testimonianze indirette.
Oppure Manny aveva su di lui cose ancora più gravi delle
mie. Ma s’illudeva. Se quel nastro e quel diario fossero venuti fuori, si sarebbe preso almeno vent’anni.
Mi fermai davanti casa dei miei genitori e ripensai daccapo a tutta la questione. Non avrei ucciso né Phil né Manny.
Avevo già fatto abbastanza danni per tutta una vita. Invece
sarei andato a trovare Manny, avrei scoperto a che gioco giocava, poi avrei preso Dan e lo avrei fatto ragionare.
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Trovai la mamma che preparava la cena in cucina. Nel vedermi mi fece un sorriso ansioso ed esitò un istante prima di
venirmi a baciare sulle guance. Come papà, anche lei sembrava invecchiata in modo esagerato in quegli ultimi sette anni.
Si era rimpicciolita, e i capelli, un tempo biondi con qualche
spruzzata di grigio, adesso erano completamente bianchi. Mi
si mise davanti e cercò di sorridermi, gli occhi piccolissimi nel
viso raggrinzito come un’uvetta.
«Mi sembri stanco, Joey» disse, poi tornò a mescolare la
salsa sul fuoco.
Mi misi a ridere, non potei farne a meno. «Dopo sette anni è questa la prima cosa che mi dici? Oh, a proposito: mi sei
mancata, mamma.»
«Certo che mi sei mancato» replicò, la voce leggermente
tremula. «Ma hai l’aria stanca. Ti davano abbastanza da mangiare?»
«Ho mangiato benissimo. Mamma, il carcere della contea è
a soli venti minuti di macchina. Tu e papà potevate venire a
trovarmi, almeno una volta.»
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La trilogia nera
«Ci saremmo sentiti a disagio» rispose in un soffio. Fece
per aggiungere qualcosa, ma le morì in gola.
La guardai continuare a mescolare la salsa, il corpo teso,
gli occhi e la bocca fissi.
Le chiesi dove fosse papà.
«Non si sentiva bene, così si è messo un momento a letto.»
Esitò. «Vado a vedere se si è alzato.»
La seguii con lo sguardo mentre andava fino alla camera
da letto. Si chiuse dietro la porta. Cercarono di parlare a bassa voce, ma i muri erano sottili e sentii quasi tutto.
«È tornato tuo figlio. È in cucina.»
«Potresti abbassare la voce? Non vorrai mica che Joey ti
senta.»
«Ho chiuso la porta, non ci sentirà. Voglio che tu venga in
cucina con me.»
«Sono stanco. Lasciami riposare ancora un po’.»
«No, per niente! Tu adesso vieni di là con me.»
«Santo cielo, Irma, è tuo figlio! Non ti morderà.»
«Voglio che tu venga in cucina con me. Sei stato tu a insistere per farlo dormire qui.»
«Va bene, va bene.»
Lo sentii alzarsi dal letto. La porta si aprì e ne uscì la mamma, con lui dietro. Papà mi guardò con un debole sorriso, poi
andò al lavello a riempire il bollitore. La mamma riprese a mescolare la salsa. Dopo un minuto dissi loro che stavo uscendo.
«Non ceni con noi?» chiese lei, sinceramente sorpresa.
«Non credo. Tornerò più tardi.»
«Perché non mangi con noi? Sto preparando gli ziti con le
polpette.»
«Preferisco evitare, soprattutto visto come vi vergognate
di me.»
«Non essere così» scattò lei. «Come dovremmo sentirci,
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Dave Zeltserman
dopo quello che hai fatto?» Papà alzò gli occhi dalla teiera,
ma non intervenne.
Dovevo andarmene, sentivo un tremito nelle mani. Stavo
per uscire quando lei mi chiamò per nome.
«Resta a cena» disse. «È meglio che tu non esca, stasera. Oggi il giornale locale ha pubblicato un articolo sul tuo rilascio e
sul motivo per cui sei finito in carcere. Hanno messo la tua foto in prima pagina. Non ti conviene farti vedere in giro.»
Li fissai per un lungo istante, quasi incapace di riconoscerli. Poi me ne andai da lì più veloce che potevo.
Quando arrivai alla macchina, non mi tremavano solo le
mani. Dovetti fare una dozzina di bei respiri per calmarmi. È
buffo, ma dopo tutto quello che avevo perduto mi ero aggrappato all’idea di non essere completamente isolato. Pensavo di
poter ricostruire il rapporto con i miei genitori e di usarlo come punto di partenza per rifarmi una vita. La sera in cella mi
sdraiavo sulla mia branda e fantasticavo su come sarebbe stato fuori. Pensavo che mi avrebbero perdonato dal profondo
del cuore e che sarebbero stati sinceramente contenti di aiutarmi a ricominciare. Ma mi ero illuso. Non era mai stato così
neanche prima, con loro, e adesso erano soltanto due vecchi
disposti a ospitarmi in casa per qualche settimana.
Al diavolo tutti e tutto.
Restai seduto in auto per un lungo momento prima di
sentirmi in grado di guidare.
A quel punto andai da Zeke’s.
La Zeke’s Tavern è a pochi isolati dal centro di Bradley. Esiste dai primi del Novecento ed è il ritrovo di poliziotti e gente del posto. Nel locale, scuro e cavernoso, aleggia sempre un
forte odore di fumo e birra. Dentro ci sono un paio di tavoli
da biliardo, un bersaglio per le freccette, un juke-box, qual-
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La trilogia nera
che tavolino scalcinato e un lungo bancone di mogano sbeccato e macchiato. Nella cucina retrostante preparano hamburger e altri piatti classici da tavola calda.
Al banco quella sera erano seduti Bill Wright e Tony Flauria. Stavano scherzando tra loro, ma nel vedermi si zittirono.
Li salutai con un cenno della testa, ma in cambio ricevetti solo sguardi vacui. Andai all’estremità opposta del bancone,
feci segno al barista di avvicinarsi e ordinai un cheeseburger
e una pinta della birra scura locale.
Il barista mi stava mettendo davanti il boccale quando Flauria scese dal suo sgabello e venne verso di me. Dietro c’era Bill
Wright, visibilmente a disagio. Erano tutti e due poliziotti. Flauria, per quanto ne sapevo, era sempre stato pulito.
Mi si fermò davanti e mi guardò con astio.
«Come va, Tony?» gli dissi.
Lui annusò l’aria. «Mi è sembrato di sentire un odore di
merda che veniva da qui.»
«Io sto bene. Grazie per avermelo chiesto» ribattei.
Flauria continuò a fissarmi. «Hai sfigurato qualcun altro ultimamente, brutto pezzo di merda?» domandò a labbra strette.
«Non ancora, ma la notte è giovane.»
«Sei uno sporco mucchio di merda» dichiarò, il viso carnoso rosso di cattiveria.
«Joe, che cazzo ci fai qui?» domandò Bill Wright. «Ti conviene levare il culo da Bradley e considerarti fortunato a esserne uscito vivo.»
«Parole grosse, dette da te. Pensavo che mi avresti offerto
volentieri una birra per aver tenuto il becco chiuso per tutti
questi anni, Bill.»
«Non so di che cazzo stai parlando» rispose, ma non sembrava molto convinto. Il suo colorito impallidì di colpo. Flauria, invece, aveva una gran voglia di menare le mani.
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Dave Zeltserman
«Perché tu e io non usciamo?» propose.
«No, Tony. Non ho nulla contro di te e non ho motivo per
farti del male.»
«Non hai motivo per farmi del male?» domandò lui, esterrefatto. «Dopo quello che hai combinato ti senti in diritto di
entrare qui dentro e fingere di essere uno di noi?»
Sentii il suo corpaccione irrigidirsi. Restai seduto in silenzio a bere la mia birra, gli occhi fissi davanti a me. Bill disse
a Flauria qualcosa tipo ‘Non ne vale la pena’. Lo vedevo nello specchio del bar: stava trattenendo a forza Flauria, e Flauria era abbastanza saggio da lasciarsi trattenere.
«Andiamo fuori» disse Flauria. «Qui c’è troppa puzza di
cesso.» Prima di uscire, mi puntò addosso un dito massiccio
e mi consigliò di non tornare. «Non sei benvenuto, qui.»
Il bar era quasi vuoto, ma i pochi avventori mi stavano guardando. Una biondina sui venticinque anni venne a sedersi sullo sgabello accanto al mio. Era entrata più o meno nel momento in cui Flauria veniva trattenuto a forza.
«Però, che roba» disse.
Io non risposi. Non ci riuscii.
Anche lei annusò l’aria. «Non so. A me pare che tu abbia
un buon profumo.»
Mi voltai e vidi che sorrideva. Era magra, forse un po’troppo, ma niente male da guardare. Portava degli occhialoni scuri da vecchietta, strani in un posto come Zeke’s. Pensai che doveva essere drogata. Il suo sorriso si addolcì. «Sei anche carino.
Te l’ha mai detto nessuno che assomigli un sacco a Bruce Willis quando aveva i capelli?»
«Immagino di doverti ringraziare.»
«A me dicono che assomiglio a Meg Ryan da ragazza. Tu
che ne pensi?»
Era difficile dire a chi assomigliasse, con quegli occhialo-
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La trilogia nera
ni neri, ma era bionda e sottile e la sua bocca aveva qualcosa
di Meg Ryan.
«Tu sei molto meglio» ribattei.
«Allora perché non mi offri da bere? Un Cosmo, magari?»
«Non so cosa sia, ma se lo vuoi te lo offro volentieri.» Feci
segno al barista, che aveva assunto nei miei confronti un atteggiamento più cupo, e ordinai un Cosmo. Gli vidi versare
vodka, Triple Sec e succo di mirtillo rosso in uno shaker e mi
chiesi come si potesse bere un intruglio del genere. Quando
il barista lo versò in un bicchiere da Martini, lei me lo fece assaggiare. Era troppo dolce per i miei gusti.
«Spiegami. Cosa è successo qui poco fa?»
La guardai. Con quei capelli biondi e lisci e quel sorriso incollato, mi ricordava un poco Elaine prima che inacidisse. Mi
resi conto che il suo corpo, più che magro, era atletico, le braccia e il viso piacevolmente abbronzati. Dovetti compiere uno
sforzo per distogliere gli occhi.
«Vecchi attriti, niente di cui abbia voglia di parlare.»
Avvertivo che mi stava fissando. Mi fece un certo effetto,
sentirmi addosso il suo sguardo.
«Dài» disse dopo un po’. «Raccontami il tuo segreto e io ti
racconterò il mio.»
«Scusa, ma non sono dell’umore adatto.»
«D’accordo, allora ti dico il mio.» Si sporse in avanti e mi sussurrò all’orecchio. «Sono mesi che non faccio una bella scopata.»
La guardai e vidi quel suo sorriso incollato. Gli occhi erano
nascosti dietro le lenti scure ma il sorriso era lì, ben visibile. Come se solo lei avesse capito la battuta.
«Offrimi un altro drink.» L’accontentai. Quando arrivò il
mio cheeseburger ne offrii uno anche a lei. Finito di mangiare,
lei disse che aveva voglia di fare un giro in macchina. «Dài, an-
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Dave Zeltserman
diamo» disse, prendendomi per mano, e io mi lasciai condurre fuori dal bar.
Quando fummo nel parcheggio mi disse che avremmo preso la sua auto. «Conosco un posto dove non ci disturberà nessuno» mi sussurrò all’orecchio. «E ti farò cose che non dimenticherai mai.»
Aveva una Taurus verde ultimo modello. «Guido io» annunciò. Era diventato buio. Salii e rimasi seduto in silenzio a
guardare le ombre che sfilavano accanto a noi. Dopo qualche
minuto eravamo fuori città, diretti verso Eastfield. Nessuno
dei due aveva voglia di chiacchierare. Ogni tanto vedevo la
sua faccia illuminata dalla luna e la sua espressione intensa e
bruciante.
Ci volle un po’ per arrivare. Svoltammo in diverse stradine di campagna, finché raggiungemmo uno sterrato. Lo seguimmo per alcuni chilometri, poi alla fine lei si fermò.
Si girò sul sedile e appoggiò la schiena alla portiera. Adesso la luna la illuminava in pieno. La sua pelle sembrava ardere. Feci per avvicinarmi, ma lei allungò un braccio per tenermi lontano.
«Aspetta. Prima voglio sentire il tuo segreto.»
Sentivo un ronzio nelle orecchie. Erano quasi otto anni che
non stavo con una donna. Riuscivo a malapena a parlare. «Ho
fatto una cosa per niente bella, ma è passato molto tempo.»
«Coraggio, devi dirmi tutto.» Per provocarmi cominciò a
sfilarsi la camicetta, mostrando un ventre leggermente rotondo e la parte bassa dei seni.
«Lasciamo perdere, dài. Ho fatto una brutta cosa.»
«Non è giusto!» protestò lei. «Io il mio segreto te l’ho raccontato.» Tirò ancora un po’più su la camicetta mostrandomi per
qualche secondo i seni, poi la riabbassò quanto bastava per
coprirli.
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La trilogia nera
Scossi la testa. Pensai che doveva essere una di quelle a cui
piacciono i ragazzacci e la violenza, ma non sarei stato al suo
gioco. Anche se erano passati otto lunghissimi anni dal giorno del mio arresto, non sarei stato al suo gioco. La desideravo tantissimo – in quel momento avrei desiderato tantissimo
chiunque – ma stavo per dirle che con me non attaccava quando lei esclamò: «Oh, mio dio! Eri sul giornale di oggi! Ecco
perché avevi un aspetto familiare. Sei quello che ha pugnalato il procuratore distrettuale! Merda!»
La fissai, e lei mi sorrise in modo un po’ folle.
«Com’è pugnalare in faccia qualcuno?»
«Perché lo vuoi sapere?»
«Dev’essere stato uno sballo!»
«No, per niente. Darei qualunque cosa per non averlo
fatto.»
Sembrò sconcertata dalle mie parole, almeno per qualche
secondo. Poi tornò a sorridere in quel modo folle. La camicetta aveva un piccolo strappo in alto. Lei afferrò i due lembi e finì di strapparla. Adesso i piccoli seni tondi erano completamente nudi. Era una situazione assurda, lei era assurda.
«Strappami i calzoncini» disse, contorcendosi davanti a me.
«Non sai neppure come mi chiamo. Clara.»
Avevo già le mani su di lei, ma qualcosa scattò nella mia
testa. Di solito osservo tutto quello che ho intorno. Anche se
non ne sono consapevole, noto le cose e le archivio nella mente. Ora vedevo la Taurus verde parcheggiata poco lontano da
casa dei miei genitori, e la vedevo staccarsi dal marciapiede
quando ero uscito per andare da Zeke’s. Le strappai gli occhiali neri e vidi odio puro ribollirle negli occhi. Aveva ancora quel sorriso da folle stampato in faccia, ma gli occhi erano
due buchi neri pieni di odio e veleno. Allora sì che notai la somiglianza. Avrei potuto accorgermene prima, ma facevo fa-
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Dave Zeltserman
tica a ricordare com’era Phil prima di quella notte. Ricordavo
che aveva una figlia di nome Clara.
Allora lei cominciò a strillare. Strillava con tutto il fiato che
aveva in corpo, così forte che, pensai, le sarebbe sicuramente
scoppiato qualche vaso sanguigno. Ti passano per la testa strane cose, in quei momenti. Per una frazione di secondo trovai
interessante soffermarmi su quanto mi ero sbagliato, su quello che in lei avevo scambiato per desiderio, e invece era un’emozione del tutto diversa e molto più violenta. Poi realizzai
che dovevo andarmene di lì.
Quando feci per aprire la portiera, lei mi saltò addosso.
Con una mano mi graffiava la faccia, con l’altra mi tratteneva
cingendomi il petto. E intanto chiamava aiuto. Fu allora che
li vidi avvicinarsi. Due uomini che correvano verso l’auto.
Cercai di staccarmela di dosso, ma continuava a graffiarmi
e a gridare. Fui costretto a usare il gomito. Lei emise un gemito e la sua stretta si allentò quanto bastava perché potessi liberarmi. Smontai e vidi i due tizi correre nella mia direzione.
Erano a meno di trenta metri e tutti e due giganteschi, probabilmente ex attaccanti della squadra di football del loro liceo. Quello davanti aveva in mano un cric. La mia reazione
li sorprese: gli corsi incontro.
Il tipo con il cric ebbe un’esitazione — non se lo aspettava.
Quando cercò di colpirmi perse l’equilibrio e mi prese a un
braccio. Sentii dolore, ma non avevo subìto danni gravi. In
compenso il mio pugno fu ben mirato. Ci misi tutto il mio
peso e lo colpii in pieno alla mandibola. La sua bocca esplose in una schiuma rosata e lui svenne prima di toccare terra.
Mi girai per affrontare il suo socio. Si era fermato a due passi da me e vidi che aveva paura: ero più di quello per cui era
stato pagato. Forse credevano che il lavoro sarebbe consistito semplicemente nel trascinarmi fuori dall’auto e tramortir-
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La trilogia nera
mi di botte. Fece un passo esitante nella mia direzione e parve sul punto di sferrarmi un bel cazzotto alla testa. Feci una
finta a sinistra e lo colpii con forza di destro allo stomaco, poi
di taglio alla tempia. L’ultimo cartone gli fece perdere l’equilibrio e prima che potesse riprenderlo gli spazzai via i piedi
da sotto il corpo con un calcio. Quando fu a terra gli afferrai
un braccio, glielo piegai dietro la schiena e glielo spezzai con
una pedata. Lui urlò, poi credo che sia svenuto. In ogni caso
smise di muoversi ed emettere suoni.
Vidi una jeep parcheggiata in lontananza. Il ragazzo a terra non aveva più di ventidue anni. Mi dispiaceva di avergli
rotto il braccio – non sarebbe mai più riuscito a usarlo come
prima – ma dovevo metterlo fuori combattimento il più rapidamente possibile. Era una dura lezione quella che aveva
dovuto imparare. Gli frugai in tasca, ma non trovai le chiavi
dell’auto.
Andai dall’altro ragazzo, quello con la mandibola rotta. Non
aveva ancora ripreso conoscenza. Come il suo amico, era anche lui poco più che ventenne. Nelle sue tasche trovai le chiavi della jeep. Mentre mi rialzavo qualcuno mi spinse con forza da dietro e per poco non caddi a terra. Clara mi era balzata
sulla schiena e stava strillando le volgarità più oscene che
avessi mai sentito in vita mia. Mi stava anche graffiando la
faccia, cercando di ferirmi agli occhi. Mi buttai all’indietro e
atterrai con un tonfo. Il colpo le tolse il respiro. Sembrava un
po’ stordita, ma era ancora in sé. Mi alzai e mi misi a correre
verso la jeep.
Quando fui a bordo mi guardai nello specchietto e vidi
che mi aveva graffiato per bene sotto lo zigomo, mancando
l’occhio per un pelo. Mi portai la mano alla guancia e sentii
qualcosa di caldo e appiccicoso. Il sangue stava cominciando a colare. Misi in moto, feci inversione e ripercorsi lo ster-
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Dave Zeltserman
rato. Per un attimo i fari illuminarono Clara e i suoi due complici. Lei era seduta con il viso tra le mani, le spalle magre scosse dai singhiozzi. I due ragazzi erano ancora sdraiati a terra
come morti. Anche se avevano cercato di incastrarmi per stupro e forse avevano anche intenzione di ammazzarmi di botte, provai una stretta al cuore al pensiero di quello che era successo a quei tre.
Riuscivo a capire l’odio che aveva spinto Clara a progettare quell’assurdo piano. Un piano folle, puerile e mal congegnato. Non ho idea di come pensasse di spiegare la presenza su quello sterrato dei suoi due amici, provvidenzialmente
lì a salvarla dal mio presunto tentativo di stupro. Ma capivo
l’odio che l’aveva spinta a cercare di incastrarmi. Da otto anni ogni giorno vedeva la faccia di suo padre, e ogni giorno mi
odiava un po’ di più. La sua rabbia doveva essere montata
ulteriormente nel venire a sapere che dopo soli sette anni ero
già fuori in libertà vigilata. Probabilmente si era convinta che
avrebbe semplicemente corretto un grossolano errore giudiziario, che era giusto farmi rinchiudere per altri vent’anni,
magari in un carcere più duro di quello di contea. Per mia fortuna non si era procurata una pistola, altrimenti me l’avrebbe spianata davanti al naso da Zeke’s. E non avrei potuto darle torto.
In quel momento decisi di lasciare Bradley. Mi ero preso
in giro abbastanza a lungo. Ci sono crimini che non possono
essere perdonati.
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Andai alla stazione di polizia di Bradley e raccontai tutto
al sergente di servizio, Frank Schilling. Frank e io ci conoscevamo da un sacco di tempo. Aveva un anno più di me e da
bambini giocavamo a baseball e a football insieme. In passato eravamo stati molto amici, e ognuno era presente al matrimonio dell’altro. Ora però lui non sembrava felicissimo di
vedermi, e di sicuro non credette alla mia versione.
«Bisogna che te lo dica, Denton. Questa non è la Clara che
conosco. Da ragazzina faceva da baby-sitter ai miei figli. È
una brava figliola e non credo che abbia messo in piedi una
farsa del genere. A me sembra tutta una palla.»
«Te lo giuro, Frank, è andata proprio così.»
Quando lo chiamai ‘Frank’ lui fece una smorfia come se
avesse avuto sotto il naso un formaggio puzzolente. «Per te
sono il sergente Schilling.»
«Stai scherzando?»
Mi guardò freddamente. «Hai bevuto questa sera, Denton?»
«Due birre da Zeke’s.»
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«Manderò qualcuno a controllare. Non hai assunto altre sostanze?»
Scossi la testa. «Sono fuori solo da otto ore. Non avrei avuto nemmeno il tempo di procurarmele.»
«Però hai avuto tutto il tempo per metterti nei casini.»
Feci per dire qualcosa, poi decisi di tenere la bocca chiusa.
Lui emise un lungo sospiro lamentoso, poi mi chiese se ero
disposto a sottopormi a un test antidroga. Gli dissi che non avevo nessun problema.
Lui rilesse i suoi appunti. «E non sai chi siano quei due che
ti sei lavorato?»
«No, non erano facce note. Ma è da un po’ che non bazzico nei dintorni. La loro jeep è parcheggiata qui fuori. Puoi
provare a vedere se dentro c’è il libretto.»
«Li hai malmenati e poi li hai abbandonati là in mezzo alla campagna» disse lui, disgustato.
«Te l’ho detto, volevano incastrarmi per stupro...»
«Sì, questa è la tua versione. Resterai chiuso nella stanza
degli interrogatori finché non avremo chiarito tutto.»
La stazione di polizia di Bradley ha una sola stanza per gli
interrogatori, che non viene quasi mai usata. Nei miei dodici
anni di servizio, io non l’avevo mai usata. La prima volta che
mi ci ero seduto era stata la notte in cui mi avevano arrestato
dopo l’incendio doloso e il tentato omicidio. Frank mi ci accompagnò e mi fece sedere. Due ore dopo si aprì la porta ed
entrò Phil. La sua pelle era di un pallore malato, come se la sua
faccia fosse stata intinta nella cera.
Mi si sedette davanti e mi disse di raccontargli la mia versione.
«Tua figlia mi ha seguito da casa dei miei fino a Zeke’s. Al
bar mi ha adescato, mi ha portato su una stradina sterrata dalle parti di Cumberland Road a Eastfield e ha simulato uno
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La trilogia nera
stupro per incastrarmi. Là c’erano due suoi amici ad aspettarci, uno con un cric. Forse avevano intenzione di ammazzarmi di botte.»
Lui mi guardò con aria inespressiva per alcuni minuti. Per
quanto difficile, sostenni il suo sguardo. Cercai di non fissare la mappa stradale di cicatrici sulla sua faccia. Alla fine mi
chiese di quando Clara mi aveva seguito da casa dei miei.
«Sei un uomo intelligente, Joe» disse. «Se sapevi che mia figlia ti stava seguendo, perché sei salito in macchina con lei?»
«Al momento non mi ero reso conto che era lei quella che
mi aveva seguito fino al bar.» Esitai. «Ero appena uscito da
casa dei miei genitori. Ero sconvolto. Ma a livello inconscio
ricordavo quell’auto. La lampadina però mi si è accesa troppo tardi.»
«E non avevi riconosciuto mia figlia?»
«No. Erano otto anni che non la vedevo, e allora era una
bambina. E poi portava enormi occhiali da sole.»
Lui si appoggiò allo schienale della sedia e continuò con
il duello di sguardi. Nessuno dei due si mosse, nessuno dei
due fiatò. Dopo cinque minuti buoni lui mi disse che i due
ragazzi erano in ospedale.
«Quello che hai colpito in faccia ha la mandibola spaccata
e non potrà parlare per mesi. All’altro hai spezzato il braccio
in tre punti. Il chirurgo ha dovuto mettergli dei chiodi nell’osso. Dovrà fare riabilitazione e probabilmente non riacquisterà mai del tutto l’uso dell’arto. Li conosco tutti e due, vengono
da ottime famiglie. Se orgoglioso di te, Joe?»
«Non avevo scelta. Tu che cosa avresti fatto?»
«Non quello che hai fatto tu, Joe.»
«Ho fatto quello che dovevo.» Rimasi in silenzio, poi gli
domandai come stava sua figlia.
Per la prima volta il suo sguardo parve animarsi, e temet-
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ti che stesse per mollarmi un pugno. «È sotto shock» sussurrò. «Aveva la camicetta strappata, un occhio nero e lividi su
tutto il corpo. Perché la camicetta era strappata?»
«Se l’è strappata lei.»
«E i lividi? Si è procurata da sola anche quelli?»
«Quando ho capito cosa stava succedendo, ho cercato di
togliermela di dosso. Poi ho visto arrivare i suoi amici e ci ho
messo un po’più di energia. Ma non avevo intenzione di farle del male.»
«Molto gentile da parte tua. Quei graffi sulla tua faccia però sembrano proprio un tentativo di difesa da parte di una
vittima di stupro. Esattamente come i lividi di mia figlia sono riconducibili a un tentativo di stupro.»
«Phil, tu non vuoi fare questo. Non vuoi farlo né a te stesso né a tua figlia.»
«Le prove sembrano indicare questa ipotesi, Joe.»
«Senti, Phil, una giuria d’accusa non se la berrebbe mai. Finiresti per ritrovarti in grave imbarazzo, e immagina quanto
sarebbe dura per tua figlia. Come pensi di spiegare i due amici che si trovavano provvidenzialmente proprio lì, in mezzo
alla campagna, nel momento in cui lei aveva bisogno di essere salvata?»
«Prima di tutto non c’è più niente che possa causarmi imbarazzo. Quanto alla presenza dei due ragazzi lungo quello
sterrato, è stata una pura coincidenza. Niente di più e niente
di meno. Sono sicuro che Clara e i suoi amici ogni tanto frequentano quel posto. I due ragazzi probabilmente ci erano andati per bere o andare a sparare.»
«Non c’erano né fucili né alcol nella jeep.»
«Allora si vede che avevano appuntamento con degli amici. Ce lo diranno appena saranno in grado.»
Mi misi a ridere. Era tutto così ridicolo. «Phil,» gli dissi «co-
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me farai a spiegare il fatto che tua figlia mi ha seguito e poi
mi ha adescato da Zeke’s?»
«Non ti ricordi nemmeno con esattezza di lei davanti alla
casa dei tuoi genitori. Lo hai detto tu stesso, che è stata un’impressione inconscia. Quanto a Clara che ti adesca...»
Per un attimo lo vidi perso. Aprì la bocca e la richiuse. Poi
si alzò e uscì.
Aquel punto non potei evitare di provare una certa ansia.
Quello che mi preoccupava non erano le accuse di aggressione sessuale e pestaggio. Per quanto felice di potermi rinchiudere, Phil non lo avrebbe mai fatto usando l’inganno. Avrebbe
aspettato di avere un vero crimine. Inoltre, se avesse tentato
di accusarmi, l’intero castello di carta gli sarebbe crollato addosso. A preoccuparmi era l’ostilità che mi circondava. Avevo tutte le ragioni del mondo di aspettarmela da Phil e da
sua figlia, ma da Frank Schilling e Tony Flauria? E dai miei
genitori? La loro era una forma più passiva, ma si trattava pur
sempre di ostilità. Il mondo è pieno di poliziotti disonesti che
finiscono in carcere, eppure continua lo stesso a girare. Non
ero il primo e non sarei stato l’ultimo. Che diamine, Dan Pleasant era molto più disonesto di me e aveva le mani molto più
sporche di sangue delle mie. Negli anni sono stati in diversi
a morire mentre si trovavano sotto la sua custodia. Erano feccia e di loro non importava niente a nessuno, ma per un verso o per l’altro quelle morti facevano tutte comodo a Dan. Eppure la gente per strada lo saluta e gli sorride e lo riconferma
a ogni elezione.
È assurdo, ma non sarebbe così se quella notte Phil fosse
morto. Il ricordo della mia brutta impresa sarebbe sbiadito e
i cattivi sentimenti si sarebbero esauriti. Il vero problema è che
Phil è lì ben visibile ogni giorno. Ogni giorno tutti provano di
nuovo repulsione per il mio crimine. Per colpa mia, in sua pre-
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senza si sentono in imbarazzo e devono sforzarsi di fingere
che non sia un fenomeno da baraccone. Non esiste perdono
per un delitto del genere.
Phil non tornò nella stanza degli interrogatori fino alle due
del mattino. Sembrava più cupo, quando mi si sedette di fronte, e non riusciva a guardarmi in faccia.
«È stato qui il tuo amico Dan Pleasant» disse. «Ha letto il
mio rapporto e gli è venuto in mente che uno dei suoi vice ha
l’incarico di controllare periodicamente casa dei tuoi per assicurarsi che non abbiano problemi. Non mi sorprende che il
suo vice dichiari di aver visto l’auto di Clara parcheggiata nei
pressi di casa loro.» Ebbe una lunga esitazione. «Ho anche
parlato con mia figlia, e ha ammesso tutto. Se vuoi denunciare lei e i due ragazzi che hai mandato in ospedale, fammelo
sapere.»
«Te l’ho già detto, non m’interessa denunciare nessuno.
Voglio soltanto essere lasciato in pace. E tua figlia non ha alcuna colpa.»
Aquel punto mi guardò negli occhi. «No, non ne ha. L’unica persona con delle colpe sei tu, Joe. Perché non te ne vai di
qui?»
Mi alzai e uscii senza voltarmi.
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Non andai a letto prima delle tre e trascorsi una notte agitata. Ogni tanto nella mia mente si rincorrevano immagini del
passato, cose che credevo di aver dimenticato. In altri momenti assomigliavano più ad allucinazioni. Non ero del tutto sveglio, ma non ero nemmeno del tutto addormentato.
Le cose che mi passarono per la testa... erano ricordi che sarebbe stato meglio lasciare sepolti. In principio furono solo
inezie, piccoli crimini, ma comunque cose che non avrei voluto rivangare.
Quando aveva tre anni e mezzo, cioè un paio di mesi dopo
il compleanno di Courtney, mia figlia maggiore Melissa si era
tagliata un dito con un vetro rotto. Era un taglio superficiale,
al massimo avrebbe avuto bisogno di qualche punto, ma c’era
sangue dappertutto. Elaine era isterica e in quel momento io
ero strafatto di coca e stavo cercando di piazzare una scommessa con il mio allibratore. Avevo la possibilità di scommettere a due e cinquanta sui Miami Dolphins contro i Buffalo
Bills. La settimana prima a San Diego i Dolphins non avevano lasciato segnare nemmeno un punto agli avversari, quindi
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come facevo a immaginare che Dan Marino avrebbe fatto
schifo e la squadra avrebbe perso di diciannove punti? Ad
ogni modo, Melissa strilla come un’ossessa, Elaine è isterica e
urla che dobbiamo andare subito al pronto soccorso, e io non
riesco quasi a sentire il mio allibratore al telefono. E sono fatto fin sopra le orecchie. Così tiro fuori la pistola e gliela punto
addosso, dicendo loro di lasciarmi piazzare in santa pace la
mia fottuta scommessa. Mai e poi mai avrei usato quella pistola. Avevo soltanto bisogno che chiudessero il becco per non
lasciarmi sfuggire l’ennesima occasione di perdere soldi.
Altri ricordi mi passarono per la mente. Erano cose che mi
parevano successe davvero, ma non ci avrei potuto giurare.
Forse stavo confondendo avvenimenti diversi, mescolandoli in un unico ricordo. Oppure me li ero inventati di sana
pianta. So soltanto che al momento mi parvero reali.
Una notte ero entrato con Dan e i suoi ragazzi in un negozio di ferramenta. Avevano una cassaforte che Dan era convinto di poter aprire, invece gli diede problemi e così finimmo per portarla fuori e caricarla sul cassone del suo pick-up.
Ora sono a bordo con Dan e forse non abbiamo assicurato a
dovere la cassaforte, perché quella rotola giù dal cassone e finisce sulla carreggiata. Ci eravamo dovuti mettere in cinque
per sollevarla, e adesso siamo solo Dan e io. Lui chiama via
radio i ragazzi che erano con noi dal ferramenta e ci piazziamo in mezzo alla strada in attesa di rinforzi. Dan è calmissimo, chiacchiera del più e del meno, ma io sono fuori di testa
per la preoccupazione. Vorrei che ripartissimo lasciando la
cassaforte lì dov’è, ma lui insiste per aspettare. Arrivano i ragazzi e ci aiutano a ricaricarla sul pick-up, ma io sudo come
un porco per tutto il tempo e il cuore mi batte come se volesse schizzarmi fuori dal petto.
Poi c’era stata quella volta in cui uno che passava di lì per
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La trilogia nera
caso mise la testa nel negozio di liquori che stavamo saccheggiando. Dan e i ragazzi lo presero e lo caricarono su una delle auto. Non ho mai saputo cosa gli sia successo. Dan aveva
sparato qualche battuta sulla fossa che il tipo si era scavato
da solo, ma non ho mai sentito dire altro.
Altri ricordi entravano e uscivano dal mio dormiveglia. Prima di svegliarmi del tutto ebbi una spaventosa allucinazione.
Ero di nuovo in auto con Clara. Le avevo strappato gli occhiali da sole e mi ero appena reso conto di quello che stava succedendo. Lei mi aveva aggredito, ma non riuscivo a scrollarmela di dosso. La prendevo a pugni e gomitate fino a ridurle
la faccia in poltiglia, ma lei non mollava. Non avevo scelta.
Prendevo le chiavi della macchina dal cruscotto e le usavo per
pugnalarla al viso. Dovevo averla colpita almeno una trentina di volte, ma lei continuava a non mollare. Poi mi accorgevo che le mancava un pezzetto di naso, e che con quel che restava della sua faccia si sarebbe potuto giocare a tris, e quanto
assomigliava a suo padre adesso...
Saltai seduto sul letto in un bagno di sudore. Anche le lenzuola erano inzuppate. Erano le sei e mezza del mattino. Sentivo un dolore sordo alle tempie, così mi alzai e andai in bagno. Avevo un aspetto orribile, peggio che dopo una brutta
sbornia. Gli occhi erano infossati e la pelle cerea. Intorno agli
zigomi, dov’ero stato graffiato, ero tutto gonfio. Presi un’aspirina e mi spruzzai acqua fredda sulla faccia finché non mi
sentii meglio, poi tornai in camera, mi vestii e mi trascinai fino in cucina.
I miei erano già svegli. La mamma stava preparando le uova e papà era seduto al tavolo con il caffè e il giornale. Lei non
si voltò neppure. Mi salutò con un ‘Buongiorno’ molto poco
convinto e continuò a strapazzare le uova. Vidi papà cambiare espressione nel vedere i miei graffi.
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«Sei tornato tardi stanotte» disse.
«Scusate se vi ho svegliato.»
«Ho sentito arrivare la macchina intorno alle due e mezza.»
«Mi dispiace. Ieri sera sono successe delle cose. Non ho potuto evitarle.»
Si era voltata anche la mamma. La sua faccia da uvetta si
raggrinzì ancora di più quando mi vide.
«Te l’avevo detto di non andare in città, ma tu non hai voluto ascoltare» si lamentò con voce vagamente stridula. «Cos’è successo?»
Mi versai del caffè e mi sedetti di fronte a mio padre. «Preferirei non parlarne, adesso. Posso avere qualcosa da mangiare?»
«Ti preparo due uova strapazzate. Il pane puoi tostarlo tu.»
«Chi ti ha graffiato in quel modo?» domandò papà.
Sembrava che stesse per sentirsi male. Io sospirai e risposi che era stata Clara Coakley.
«Gesù» mormorò lui, e per un attimo pensai che fosse sul
punto di mettersi a piangere. «Cosa diavolo ci facevi con lei?»
La mamma assunse un’espressione schifata, come se dovesse sputare qualcosa. «Non ti avevo detto di non andarci, in
città?» borbottò a mezza voce. «Devi sempre fare come se sapessi tutto tu. A volte so quel che dico.»
«Io non ho fatto un bel niente» ribattei. «Quella se n’è uscita con un piano demenziale per farmi rinchiudere di nuovo
in galera per stupro oppure farmi ammazzare di botte, non
so bene quale dei due. In ogni caso ha fallito.»
Sembravano entrambi inorriditi. Papà, rosso in viso, mi domandò se ero andato alla polizia.
«Certo che ci sono andato.»
«E ti hanno creduto?»
«Hanno dovuto credermi. È andata proprio così.»
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«Ma...» Papà esitò brevemente, massaggiandosi la mascella. «Hai sporto denuncia contro Clara?»
Scossi la testa. Da quel momento non parlarono più. Nessuno disse una parola mentre la mamma finiva di cuocere le
uova e le divideva in tre piatti. Mangiammo in silenzio, ma
si capiva che lei aveva in mente qualcosa. A un certo punto
non riuscì più a trattenersi e disse di aver saputo da papà che
avevo chiesto di Elaine e delle bambine.
«Non riesco a credere che Elaine vi abbia completamente
tagliato fuori dalla loro vita» dissi.
«Non possiamo darle torto» ribatté lei.
«Non vuoi rivedere le tue nipotine?»
«Certo che voglio, ma voglio anche quello che è meglio
per loro. Elaine non poteva più stare a Bradley, dopo quello
che avevi fatto. I bambini del vicinato non facevano che insultare Melissa e Courtney. Non dev’essere stato facile per lei
trasferirsi e ricominciare da sola. Oltretutto, negli ultimi sette anni ha dovuto mantenere sé stessa e le figlie senza nessun
aiuto.»
«Come fai a sapere che non ha avuto aiuti?»
«Hai ragione, non lo so» rispose la mamma. «Forse ne ha
avuti. Magari si è risposata. E, Joey, questo è un motivo in più
per lasciarla in pace.»
«Non ti mancano le mie bambine?»
«Sì, moltissimo, ma capisco la decisione di Elaine. E tu dovresti rispettare la sua volontà.»
«Non so di che parli» replicai, sentendo la collera montarmi
al viso. «Credi che non voglia bene alle mie figlie? Stavo pensando di andare da un avvocato per cambiare i termini della
custodia.»
«Perché vuoi fare una cosa simile, Joey?»
«Come cazzo sarebbe perché?»
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Dave Zeltserman
«Non rivolgerti in questo tono a tua madre!» saltò su papà.
«Voglio sapere che cosa intende dire. Crede che io me ne
freghi delle mie bambine?»
«Sii sincero con te stesso» disse la mamma. «Sono sette anni che non le vedi, quasi otto. E anche prima non è che ci avessi molto a che fare. Per loro sarebbe molto meglio se tu le lasciassi in pace.»
Restai lì seduto a fissarli. Restai lì seduto con la faccia che
scottava. Avrei voluto mandarli al diavolo, dire loro che sapevo dove si trovava Elaine e che, per quanto mi riguardava, potevano piangere anche un torrente di lacrime.
«Joey,» cominciò papà «devi pensare a cosa è meglio per
Melissa e Courtney...»
Il resto non lo sentii.
Ero troppo occupato ad andarmene.
Da Bradley ad Albany, nello Stato di New York, c’erano tre
ore di macchina. Decisi che una volta lì in qualche modo avrei
rintracciato Elaine, e partii. Era sabato e avevo buone possibilità di trovare lei e le bambine a casa. Sarei tornato in tempo
per andare da Manny e avere la conferma che Dan si stava
preoccupando inutilmente.
Per quanto turbato fosse stato il mio sonno, le tre ore di
viaggio fino ad Albany furono l’esatto opposto. La mia mente parve ripulirsi da ogni preoccupazione e io pensai solo a godermi il paesaggio. Una delle mie rare escursioni fuori dalla
contea di Bradley era consistita in un fine settimana ad Albany con Elaine. Era stato molti mesi prima che ci sposassimo.
La città non mi aveva fatto nessuna impressione particolare,
ma Elaine aveva apprezzato molto i ristoranti.
Le tre ore trascorsero rapidamente. Lungo il tragitto dovetti cambiare più volte stazione radio, ma riuscii sempre a tro-
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La trilogia nera
vare musica rock decente. Stavo rilassato, ascoltavo le canzoni e mi godevo la strada. Quando arrivai ero tranquillo come
non mi succedeva da anni.
Non fu difficile scovare Elaine. Andai alla centrale di polizia portando con me due tazze di caffè nero e mi identificai come un agente in pensione. Parlai del più e del meno con
il sergente di servizio, e quando arrivai a chiedergli l’indirizzo di Elise Mathews lui mi era già abbastanza amico da mollare tutto per andarmelo a cercare. Non mi domandò nemmeno a cosa mi serviva. Ci stringemmo la mano e quando
uscii mi sentivo proprio bene.
Elaine viveva in una villetta bifamiliare. Il quartiere era da
poveracci e alcuni dei bambini che giocavano per strada mi
guardarono con curiosità. La casa aveva bisogno di manutenzione. Il pavimento di legno del portico era marcio – se avessi pestato un piede con sufficiente forza avrei sfondato i listelli. L’esterno aveva bisogno di essere riverniciato e alcune delle
persiane erano mezze scardinate. Provai la ringhiera e vidi che
ballava. Non mi piaceva che le mie figlie abitassero in una baracca del genere. Avrei dovuto arrabbiarmi per questo, ma
quando arrivai davanti alla porta ero solo molto nervoso, come se avessi le farfalle nello stomaco. Suonai il campanello e
mentre aspettavo le farfalle svolazzarono a più non posso, mandandomi il cuore in gola. Devo ammettere che, per quanta voglia avessi di vedere le mie bambine, il pensiero di trovarle in
casa mi terrorizzava. Dopo qualche minuto Elaine aprì. Mi fissò imbambolata per almeno dieci secondi prima di riconoscermi, o almeno prima di essere disposta a registrare che si
trattava proprio di me. Dalla sua espressione capii subito che
Melissa e Courtney non erano in casa.
«Ti hanno rilasciato prima del previsto, Joe.»
«Sì, in effetti» ammisi. «Lo Stato del Vermont mi conside-
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Dave Zeltserman
ra ravveduto e pronto a essere di nuovo un membro utile della società. Insomma, una gran presa per il culo.»
Elaine si era tinta i capelli di biondo-rossiccio e, come me,
aveva perso i chili in più nel girovita. Sembrava tornata quella del liceo. Non era truccata e aveva la faccia stanca, soprattutto intorno agli occhi, ma era lo stesso molto più carina di
un tempo. Sembrava sul punto di decidere qualcosa.
«Per te è sempre tutto uno scherzo» disse.
«Non cominciare. Stavo solo cercando di rompere il ghiaccio. È da un secolo che non ci vediamo, Elaine.»
«Come hai fatto a trovarmi?»
Feci una smorfia. «Non è importante. Adesso perché non
mi lasci entrare?»
«No.» Scosse la testa, ma non c’era niente nei suoi occhi.
Nessun odio, nessun affetto, nessun sentimento di nessun tipo. Era uno sguardo vuoto e piatto. «Le bambine sono fuori
a giocare. Ma in casa mia non ti voglio, Joe.»
«Mi fai stare qua fuori? Ho fatto tre ore di macchina per
vederti. Perché non parliamo davanti a un caffè?»
«Tu non entri. Se ci provi, chiamo la polizia e ti faccio arrestare.»
Capii che diceva sul serio. Inspirai ed espirai contando fino a tre. «Perché non andiamo a berlo da qualche parte, il caffè?» proposi.
Lei mi fissò a lungo, poi annuì. «Ho solo un quarto d’ora,
però. Vado a prendere la giacca.»
«Puoi prendere anche qualche foto delle bambine?»
Lei sparì dentro casa e quando tornò indossava un giaccone di tessuto liso, qualcosa a cui nemmeno l’esercito della salvezza si sarebbe abbassato. Mi guidò fino a un bar a
pochi isolati da lì, che raggiungemmo senza parlare. Dentro ci sedemmo in un séparé. Io ordinai un panino al tacchi-
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La trilogia nera
no e una fetta di torta di mele, mentre lei si accontentò del
caffè.
«Come ve la cavate tu e le bambine?»
«Abbastanza bene. Io lavoro come centralinista e la sera
vado a scuola per diventare assistente legale. È una battaglia,
ma tiriamo avanti.»
«Mi dispiace. Non potevo fare niente per aiutarvi. Però almeno sono riuscito a lasciarti la casa e i risparmi.»
Lei si mise a ridere. Non era una risata cattiva, solo qualcosa di incontrollabile.
«Cosa c’è di così divertente?»
«Non mi hai lasciato niente, Joe. C’erano solo dodicimila
dollari in banca, e la casa me ne ha resi altri sei. Ma poi è venuto uno dei tuoi soci in affari, tale Manny qualcosa, e si è
fatto dare tutto. Mi ha detto che se non gli avessi dato i soldi
avrebbe fatto del male alle bambine, e io gli ho creduto.»
Per un po’ non riuscii a muovermi. Rimasi lì paralizzato.
«Quello sporco figlio di puttana» dissi. «Avevamo un accordo.
Non doveva nemmeno avvicinarsi a te. Mi dispiace, Elaine.»
«L’ho considerato normale, visto con chi ero sposata.»
«Dài, Elaine, questo è ingiusto.»
«Trovi? Ci hai abbandonate fin dal primo giorno. Quando non sperperavi i nostri soldi in droga ci seppellivi fino al
collo nei tuoi debiti di gioco.»
«Mi dispiace anche per questo, ma sono quasi otto anni che
non tocco più un grammo di coca e non scommetto. E non
intendo riprendere a farlo.»
Lei non commentò. Bevve un sorso di caffè e guardò altrove.
«Senti, Elaine...»
«Mi chiamo Elise, ora.»
«Perché proprio Elise?»
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Dave Zeltserman
«Non sono affari tuoi.»
«Scusami. Mi dispiace. Elise... è un bel nome.» Feci un bel
respiro prima di continuare. «Nei sette anni che ho passato
in galera non ho mai smesso di pensare al male che vi avevo
fatto. Devi darmi la possibilità di rimediare, di avere un rapporto con le mie figlie. E forse non è troppo tardi nemmeno
per noi. Prenderò 3460 dollari al mese di pensione e potrebbero essere utili...»
«Tu prenderai una pensione?»
Sorrisi. «Sì, è stato concordato così. Per i miei vent’anni di
servizio.»
Elaine rise di nuovo, questa volta tristemente. Andò avanti
per un po’. «Il succo del problema è proprio questo, Joe. Se tu
oggi fossi venuto qui a dirmi che volevi iscriverti a una scuola
professionale o al college per poter iniziare una nuova carriera, allora avrei potuto credere che qualcosa era cambiato, che
la prigione ti aveva fatto crescere. Ma non è cambiato un bel
niente. Ti piacciono ancora le soluzioni comode, Joe, oneste o
disoneste che siano. Sei rimasto lo stesso. Continua a mancarti il baricentro morale che ti è sempre mancato. Guardati in faccia. Da quanto tempo sei fuori? E ti sei già fatto conciare così.»
«Questi graffi non sono niente» replicai. «Fidati, non significano nulla.» Cominciavo a sudare nel colletto della camicia.
«E poi cosa dovrei fare secondo te? Sputare su 3460 dollari al
mese?»
«Non m’importa di quello che fai. Non mi tocca più.»
«Non rinuncerò a quei soldi.»
«Non me lo aspetto nemmeno.»
«Maledizione. Se per farti contenta ci devo rinunciare, allora sono pronto a farlo.»
«Lascia perdere, Joe. Non ha importanza. Non cambierebbe nulla.»
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«Dammi un’occasione, ti prego.»
«Te ne ho già date migliaia, Joe. Più di quante tu ti sia mai
reso conto. Tutto quello che ti chiedo è di dare un’occasione
anche a noi, restando fuori dalla nostra vita. Non pretenderò mai nient’altro da te.»
Spiazzato la guardai bere il suo caffè, quella totale indifferenza negli occhi.
«Mentre ero dentro mi sono reso conto che da un pezzo ormai andavo soltanto alla deriva. Nella mia vita non c’è niente che abbia un significato, perlomeno niente di positivo. Devo cambiare tutto questo...»
«Puoi farlo, Joe. Puoi fare qualcosa di positivo lasciando
tranquille Courtney e Melissa.»
«Ti comporti come se fossi una specie di mostro. Elaine,
voglio dire Elise, ho commesso un solo errore...»
«Un solo errore? Hai rubato ottantamila dollari e hai cercato di nasconderlo dando fuoco all’ufficio di Phil. Quando ti ha
colto in flagrante hai tentato di ucciderlo, ma sei riuscito solo
a sfigurarlo in maniera orribile. Sarebbe questo il tuo solo errore? Hai fatto molto di più. Hai speso in droga e scommesse
più soldi di quanti ne guadagna in tutta una vita un agente di
polizia. Non so come tu li abbia fatti, quei soldi, ma di sicuro
non legalmente. Non è che hai commesso un solo errore, Joe.
Sei stato preso una sola volta, ma di errori ne hai commessi per
tutta la durata del nostro matrimonio.»
«È sempre tutto bianco o nero per te, eh? E tu sei pura come la neve.»
«Non sono venuta qui per litigare.»
«Fanculo. Vediamo se sai essere altrettanto onesta anche
con te stessa. Cosa facevi tu mentre io annegavo nella coca e
nelle scommesse? Hai cercato una sola volta di aiutarmi?»
«Avevo paura di te!»
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«Vogliamo essere tutti e due sinceri? Non ho mai picchiato né te né le bambine. Non ho quasi mai alzato la voce. Eri
tu quella che strillava dalla mattina alla sera. Chi vuoi prendere in giro dicendo che avevi paura di me?»
«Ci hai puntato addosso la pistola. A me e Melissa!»
«Questo è vero» ammisi, abbassando la voce. «Una volta è
successo. E mi sento morire al solo ricordo. Ma per quanto
pieno di coca non vi avrei mai fatto del male, e tu lo sai. Quindi, Elaine, lo vuoi sapere il vero motivo per cui non hai mai
cercato di aiutarmi?»
«Non me lo avresti mai permesso.»
«Ma sì, certo, continua a ripetere a te stessa queste fesserie.
Io stavo disperatamente chiedendo aiuto, ma tu mi hai guardato annegare senza muovere un dito. E sai perché? Perché
eri terribilmente imbarazzata all’idea di cosa avrebbero detto i vicini, le tue amiche e il tuo preziosissimo gruppo di mamme se fosse saltato fuori che tuo marito era un cocainomane
e uno scommettitore incallito.»
Arrivò la cameriera con il panino e la torta, ma avevo perso l’appetito. Restai lì a guardare mentre Elaine cercava di ritrovare il suo aplomb. Le vidi balenare il dubbio negli occhi.
Sapeva che nelle mie parole c’era più di un granello di verità,
esattamente come io sapevo che c’era nelle sue.
Cercai di cambiare argomento. «Hai portato le foto?» domandai. «Muoio dalla voglia di vedere come sono diventate le bambine.»
«Non le ho portate.»
«Cosa?»
«Scusami, Joe, ma vedere quelle foto ti farebbe solo sentire peggio. Non voglio che torni nella nostra vita. Per il bene
di tutti noi, per favore, dimenticaci.»
«Accidenti, Elaine, non mi fai vedere le bambine nemme-
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La trilogia nera
no in foto? E che idea è questa di escludere completamente i miei genitori? Di non lasciargli neppure vedere le nipotine?»
«Le note ideali su cui andarmene» replicò lei. «Torno a
piedi. Tu resta pure seduto.»
A questo punto ribollivo. Probabilmente ero caldo abbastanza per lessare un uovo. Nel tono più calmo possibile dissi: «Non credere di avere tu tutte le carte. I termini di custodia si possono cambiare.»
Lei, che si stava già alzando, si rimise seduta.
«Non sei nemmeno in grado di affrontare l’udienza, Joe.»
«E perché, sentiamo?»
Lei fece un sorrisetto compiaciuto. «Per lo stesso motivo
per cui dopo l’arresto ti sei dichiarato colpevole. Probabilmente ti sei convinto di averlo fatto per risparmiare a Phil il trauma
di un processo, ma come dicevi poco fa, cerchiamo di essere
sinceri, Joe. Ti sei dichiarato colpevole perché era la soluzione più comoda. Se ci fosse stato il processo, avresti dovuto assistere mentre elencavano tutte le prove contro di te e non avresti retto, esattamente come non reggeresti un’udienza davanti
al giudice dei minori perché reciterebbe la lista di tutte le stronzate che hai fatto in questi anni. E tu non sei capace di affrontare tutto questo.»
«Potrei sorprenderti.»
«Potresti, certo, ma non credo che ci riusciresti.»
La guardai. Se ne stava lì tutta soddisfatta, sicura di sapere il fatto suo. Respirai profondamente per non perdere il
controllo. Non era così che doveva andare l’incontro.
«Elaine, scusa, Elise, sono venuto qui per riconciliarmi con
te e per dirti che ho intenzione di farmi perdonare da Melissa
e Courtney per essere stato un padre così disgraziato. Anche
per recuperare il tempo perduto. Vorrei che tu non ce l’avessi
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Dave Zeltserman
tanto con me. Non voglio combattere contro di te, ma ho intenzione di far parte della vita delle mie figlie.»
«Joe, lo so che nella tua testa tutto questo ha un senso. So
che credi di poter magicamente diventare una brava persona e un padre perfetto per le nostre bambine. Ma fidati, non
andrà così. Non potrebbe mai, con te. Finiresti per far loro del
male, e io non permetterò mai che succeda.»
«Allora ci vediamo in tribunale.»
Lei si alzò. Vidi che tremava leggermente. Fece per allontanarsi, ma ci ripensò e si voltò a guardarmi. «Joe, spero ancora
che tu sia cresciuto, in qualche modo. Forse ti renderai conto
che un modo per dare un significato alla tua vita potrebbe essere quello di regalare un’occasione alle bambine. Ti auguro
ogni bene.»
«Maledizione!» Avevo nella tasca dei pantaloni i soldi che
mi aveva dato Dan, arrotolati e tenuti insieme con un elastico. Tolsi una banconota da cento, rimisi l’elastico intorno alle altre e lanciai il rotolo a Elaine. «Sono più di seimila dollari. Usali per le nostre figlie.»
Lei strinse gli occhi e mi fissò. «Come li hai avuti, Joe?»
«Che differenza fa?»
«Certe cose non cambiano mai, vero?» Lasciò cadere a terra il rotolo. «Non li tocco, i tuoi sporchi soldi.»
«Cristo santo, Elaine, non essere così teatrale. Te li spedirò, allora.»
«Fallo, e li brucerò.»
Uscì dal bar. Restai immobile a fissare le banconote per
terra. Altri nel locale stavano facendo la stessa cosa. Un tipo
grande e grosso con i capelli lunghi e unti si alzò e si chinò lentamente per raccattarle. Gli dissi che, se ci provava, gli avrei
spaccato la testa.
«Io me ne sbatto se sono soldi sporchi» disse, continuando ad abbassarsi. «Se voialtri non li volete...»
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La trilogia nera
Gli ripetei che ero pronto a spaccargli la testa. Lui si raddrizzò e tornò al suo posto.
Mi alzai e raccolsi i soldi. Poi pagai il conto e me ne tornai
a Bradley.
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dave zeltserman - 10 righe dai libri