Plurilinguismo e multiculturalità nel lessico dell’alimentazione. Maria Teresa Vigolo 1. Contatto di culture e differenze sociali riflesse nell’alimentazione E’ noto che la cultura dell’alimentazione e di tutte le operazioni legate alla preparazione e al consumo del cibo assume nelle varie società umane un valore antropologico e simbolico i cui parametri interpretativi si desumono da una serie di ‘pertinenze’ di ordine generale legate al ‘cibo’ quali la ritualità-sacralità che si riflette nelle relazioni tra il ‘cotto’ vs. il ‘crudo’, il ‘grasso’ vs. il ‘magro’, il ‘proibito’ vs. il ‘non proibito’. Nella sfera del ‘sacro’ rientrano anche il digiuno, l’astinenza (veneto: far vigilia / vidilia), la rinuncia al cibo intesa come rinuncia ai piaceri della vita.1 Tutti questi fatti sono legati a scelte di ordine religioso e risaltano particolarmente nel confronto tra religioni diverse. Si pensi per es. quanto il parametro “proibito vs. il non proibito” pesi nelle tradizioni di vita degli ebrei se come scrive il rabbino Ariel Toaff le scelte alimentari dell’ebreo “sarebbero da considerarsi come fondamenti della sua identità culturale e religiosa”2 e, come conseguenza i cibi non mangiabili sono esclusi dalla cucina e dai ricettari e perciò il lessico alimentare ebraico se da un lato prende a prestito terminologie e ricette dei paesi in cui le varie comunità si sono stanziate, dall’altro permeato così com’è di spirito religioso è altamente simbolico3. Uno dei piatti più noti della cucina ebraica veneziana è il frizinsàl, una torta grassa e succulenta descritta da MARCONI 415 “In una ghiotta si dispongono successivamente a strati i seguenti ingredienti: I. Tagliatelle appena cotte in brodo. II. Fegato d’oca. III. Tagliatelle. IV. Prosciutto d’oca e si cuoce al forno”. Il nome è forse un composto veneziano di tipo imperativale: ‘friggi in sale’ (FORTIS-ZOLLI 193). Il luganegòto è per gli Ebrei veneziani un ‘salame d’oca’, che sostituisce il salame di maiale che è uno degli animali non ammessi, ma il nome viene dal veneziano lugànega ‘salsiccia’. La sùca barùca, diffusa dal veneziano a tutto il Veneto periferico è una zucca di forma allungata, abbastanza diffusa sui mercati e comunemente chiamata a Venezia sùca santa (Cucurbita pepo sp.), essa veniva mangiata, secondo una 1 Tali aspetti dell’alimentazione studiati prevalentemente dall’antropologia devono essere integrati dalla considerazione che i parametri di valutazione sul cibo e sull’alimentazione sono cambiati nella società odierna e sono legati all’ideologia estetica (si scelgono diete dimagranti più o meno controllate), della salute (si opta per i cibi biologici, si controllano le varie componenti degli alimenti: grassi, carboidrati, vitamine, sali minerali ecc.) e sono condizionati dalla pubblicità e dal mercato. 2 A. TOAFF 2000 nel volume Mangiare alla giudia scrive a proposito dell’alimentazione ebraica: “l’arco dei divieti appare largo e senza dubbio condizionante” e l’enumerazione dei cibi esclusi è molto ampia e diversificata. Si va dalle carni delle bestie che non possiedano insieme le due caratteristiche di essere ruminanti e avere lo zoccolo bipartito secondo il testo del Pentateuco (Lev. XI e Deut. XIV), comprendenti dunque tutti i carnivori a cui si aggiungono il cammello, il cavallo, il coniglio, la lepre e naturalmente “la più celebre delle bestie immonde, il maiale, che non è ruminante ed è onnivoro come il cinghiale, il cosiddetto porco solitario” (p. 7). Nella categoria dei volatili i divieti ricadono sui rapaci, su gli uccelli acquatici, come cigni e pellicani e su quelli che non volano, ma si muovono in terra come gli struzzi. Vietati anche gli insetti, con rare eccezioni, i roditori e le bestie che strisciano il ventre al suolo, dai serpenti ai coccodrilli. I pesci per essere permessi dovevano possedere due caratteristiche ben visibili, le pinne e le squame, erano quindi posti al bando, tra gli altri i pescecani, le razze, anguille e capitoni e tutti i cetacei. Immondi e come tali immangiabili erano considerati crostacei e molluschi: cozze, polpi, seppie, calamari, granchi, gamberi, vongole, telline, arselle, aragoste (p. 8). 3 Ne è un esempio il nome di un dolce molto noto tra le comunità ebraiche dell’Italia settentrionale le rece de Amàn ‘orecchie di Aman’, a forma di orecchie d’asino, in spregio del crudele ministro persiano Aman, e inoltre una simbologia pittosto ipercaricata sottende la cosiddetta “Ruota di Faraone” indicante una torta di maccheroni detta anche frizinsal (friggi-in-sale). Questa è definita da TOAFF 133 “una sorta di memoriale culinario, allo stesso tempo simbolico e macabro, celebrante l’affondamento biblico del re d’Egitto e dei suoi carri armati nelle acque del mar Rosso. La forma tonda della torta sarebbe stata a ricordare le ruote di quei carri, le lasagne e le tagliatelle, increspate da sughi e condimenti, avrebbero portato alla mente le onde del mare, mentre i pezzi di fegato grasso, di salame e di prosciutto, insieme ai chicchi di zibibbo e ai “pignoli”, avrebbero rappresentato le teste dei miseri egiziani in procinto di affogare”. 1 tradizione oggi caduta, all’inizio e alla fine dei giorni penitenziali4. Il termine barùca, secondo FORTISZOLLI 389 proviene dall’ebr. bārūkh(ĕ) ‘santo’ ed è un calco sul veneziano sùca santa. Una osmosi tra la cultura ebraica e cristiana è rilevabile dall’asssunzione di ricette molto simili in occasione delle festività più importanti. Durante la festa di Purim gli ebrei mangiano le rece di Aman che sono dei dolci molto simili per impasto e cottura a quelli che si usano a Carnevale nel Veneto, cioè i cróstoli (rurale: grùstuli), veneziano (e da qui in altre province): galani ‘dolci a forma di nastri fritti nell’olio o nello strutto’, accostato a galàn ‘nastro’ (PRATI 1968, 71), cremonese li gali (f. pl.), rifacentesi forse allo spagnolo gala ‘guarnizione dei vestiti’. Con le rece di Aman ‘sfoglio di farina fritto che ha la forma di un orecchio d’asino’ gli Ebrei intendono celebrare la vittoria su Aman, il crudele ministro persiano, protagonista negativo della festa rappresentato per spregio con le orecchie d’asino (FORTIS-ZOLLI 345, MARCONI 415). Ma la terminologia dei dialetti settentrionali sembra essere stata assunta dagli ebrei ashkenaziti italiani che chiamavano questi dolci galahim frit cioè “gala(ni) fritti” (-him è marca di plur.)5 La spiegazione del nome sarebbe perciò molto più semplice di quanto potesse sembrare a TOAFF 166 che interpreta galahim frit come “preti fritti” (galàh è ‘prete cristiano’ < ebr. gallāh5 ‘tonsurato, raso’ cfr. FORTIS-ZOLLI 194) e di conseguenza si chiede come sia possibile trovare un nesso tra i sacerdoti della religione maggioritaria e il perfido antisemita Aman, braccio destro di re Assuero. Ma la circolazione in ambiente popolare di modi di dire e di formulari tra cultura ebraica e cristiana è più diffusa di quanto si possa cogliere dalle testimonianze scritte in quanto l’apporto dell’oralità e della memoria collettiva dei parlanti è fonte preziosa per individuare legami altrimenti sconosciuti. Una parte delle formule ricorrenti nel menu del banchetto di Purim, celebrante la miracolosa salvezza del popolo ebraico, scritto in giudeo italiano, di anonimo, forse veneziano, sembra ancora conosciuta dai contadini veneti che la ripetono per gioco dopo lauti pranzi. Il testo della canzone Dal gran Dio Onnipotente riassumeva in rime volgari che “in questi due giorni / dell’allegro Purino, / noi saremo giocondi/ di bere molto vino. /Mangiamo, beviamo / e ancora c’ubriachamo/ e allegramente stiamo /il popol d’Israel: i versi secondo TOAFF 160 costituivano probabilmente la versione italiana de la Cantiga de Purim alla Morisca in giudeo-spagnolo, recitata dalle comunità sefardite toscane, che si concludeva con l’esortazione: comemos, bebemos / e embriaghemos / e alegres estemos / el pueblo de Israel. La versione raccolta da parlanti il dialetto vicentino (Altissimo) riproduce in parte la formula, con un’aggiunta forse dispregiativa che non è evidente se sia riferita al contesto dell’eccedere in mangiare e bere o se ci sia un riferimento implicito alla festa ebraica di cui i parlanti hanno perso consapevolezza: magnàn, bevàn e alegramente stan e soto i pissi nan e se revoltolan come croton ‘mangiamo, beviamo e allegramente stiamo e andiamo sotto gli abeti e ci giriamo e rigiriamo come rospi’.6 La formula non rispetta la morfologia del dialetto vicentino odierno, data la desinenza generalizzata di I pers. pl. in –amo, è perciò probabile che sia entrata da qualche varietà limitrofa 7. 1. 1 Tempo e spazio nelle denominazioni dei pasti quotidiani Che i pasti quotidiani in diverse culture costituiscano dei marcatori di tempo è noto proprio perché si collocano in determinate ore della giornata, fisse e ripetitive, cui viene assegnato il ruolo di marcare una ciclicità, attraverso la quale si attua la scansione del tempo. Per es. in italiano dopopranzo significa dopo il pasto principale della giornata e dal punto di vista temporale è un ‘post-meridies’ ovvero pomeriggio, nel veneto 4 “Comandano i Rabbini che nella cena di Rosasanà ‘capodanno’ si mangino bietola, finocchio, dattili, porri e zucca. Era consuetudine che le giovani ragazze, dopo aver assistito alle selihòd ‘preghiere per il perdono’ di Rosasanà e Chipùr (giorno di digiuno rigoroso che chiude i dieci giorni penitenziali iniziati con Rosasanà) corressero a casa a far la suca baruca. Questa o veniva tagliata a pezzetti e soffritta o veniva sfatta con la lunga cottura (suca desfada)”, cfr. FORTIS-ZOLLI 388-389. 5 Il participio frit ‘fritto’, con la caduta della vocale finale presuppone un prestito da dialetti ‘gallo-italici’ o altoveneti e non dal veneto centrale che mantiene intatto il vocalismo finale. 6 L’informatore, nato nel 1922 a Cornedo (VI) riferisce che la formula gli è stata insegnata dalla nonna, originaria di un altro paese del vicentino: Altissimo e che gli veniva ripetuta nelle occasioni in cui si facevano pranzi nuziali, o alle feste in cui si mangiava abbondantemente. 7 La morfologia verbale dell’esortativo in –amo non corrisponde all’attuale dialetto alto vicentino dove si riscontra alla I pers. pl. la desinenza –émo (magnémo, bevémo, stémo, se revoltolémo). La desinenza –amo generalizzata a tutte le I persone pl. dei verbi è stata però segnalata dal Pellis a Fràssine di Montagnana, in provincia di Padova, nelle sue inchieste per l’Atlante Linguistico Italiano (ALI). 2 odierno dopomagnà trova il suo esatto corrispettivo in dopomeśodì. Questa indicazione temporale trova riscontro nel latino tardo dei Laudi del Cadore: post magnatum: (a.1432) «...teneatur per suum sacramentum etiam ire post magnatum» (ZOV 1432, art.20); (a.1666) «Saltarij teneantur...per suum sacramentum etiam ire post magnatum» (MAL1666, art.20) “dopo mangiato”, “dopo pranzo”, cfr. (a. 1601) doppò disnar (VENDRAMINI 1979, 283 in Carta di regola di Piaglier); qui con riferimento all’obbligo del saltarius di riprendere la custodia dei boschi anche dopo la pausa per il pranzo. E ancora nell’alto-vicentino pos-polenta = dopomangiato (ironico, in un racconto popolare). Ma il nome latino dei vari pasti giornalieri assume nell’area dolomitica cadorina e ampezzana un significato particolare in quanto non solo rende la scansione del tempo, ma passa ad indicare anche la misurazione dell’attività lavorativa che una persona riesce a compiere nel corso di una giornata e da qui la misura del lavoro umano e ancora la misura di un pezzo di terra e più propriamente in alcune varietà ‘zona di pascolo’. E’ naturale pensare che questa concatenazione di significati sia legata al lavoro umano relato esclusivamente alla coltivazione della terra e sia proprio quindi delle culture agricole. Tali sono la prandèra “quantità di prato che un operaio riesce a falciare in un giorno, equivalente quindi ad una giornata di lavoro8, la marendèra equivalente a tre pasti ossia a tre quarti di giornata di lavoro, la disnèra indicante due pasti o mezza giornata di lavoro, la solverera, equivalente a un pasto corrispondente a 1 quarto di giornata di lavoro9. I termini sono connessi rispettivamente con il latino *prandiarius ‘zum Frühstück gehörig’ (REW 6729), da prandium, con il latino tardo merenda10 che nell’uso plautino indica la refezione vespertina dei contadini, con solvere jejunium ‘rompere il digiuno’ e da ultimo disnèra si connette all’a. francese disner da *dis[jē]jūnāre ‘rompere il 8Dal lat. *prandiarius (REW 6729) “relativo al prandium (pasto)”, ha continuatori nei dialetti odierni, cfr. a Cortina prenzera “prato per pascolare le vacche”, parte del pascolo delle vacche di una delle regole basse, sfruttato il quale il pastore passa nel tratto vicino (MAJONI 92), ad Auronzo prendèra “distesa di erba falciata, bella zona prativa”, a Cibiana prandhèra “settore di pascolo di montagna, utilizzato per una giornata”, a Selva prendèra id.), cfr. inoltre antico bellunese prenzera “pranzo”, ant. trev. prenzera id. (PELLEGRINI, Egloga pastorale di Morel. Testo veneto della fine del secolo XVI, Trieste 1964, ora in Studi di dialettologia e filologia veneta, Pisa Pacini 1977, p. 433. L’appellativo è frequente nella toponomastica cadorina, cfr. ad es. Val Prendera a Vigo, Prinzèra (e Pranzèra) nell’ampezzano (BATTISTI, DTA III, 3, 154)]. E’ termine attestato nei Laudi cadorini, prendariae: (a.1340) «qui ellectus fuerit bubulcus, et non iret, quod solvat omni die XII parvos....Si non iret, illi qui non irent ad prendarias solvant similiter XII den.os» [Laudo di Caralte 1340, art.XIX]; prenzera: (a.1630) «Che le piegore tanto da latte come sterpe debbano esser pascolate de prenzera in prenzera si come fino al presente è stato osservato et iusta al solito» [Laudo di Candide 1630, art.100]; (a.1630) «Che li detti Bolchi del Chiappo doppo finito di pascolar tutte le prenzere debbano di nuovo ritornar via per la Monte…» [Laudo di Candide 1630, art.123] 9 Da confrontare con l’italiano asciòlvere ‘far colazione’, ‘merenda’, da cui anche asciòlvere come sostantivo (DEI I, 317) 10 Dei continuatori neolatini di mĕrenda e di cēna (anche nella toponomastica) col significato di ‘pascoli vespertini’ si è occupato D’ELIA 1960, 309-329 a partire dalle varie accezioni che i termini hanno assunto nel latino degli autori e nelle varietà linguistiche delle Alpi centrali. Tra gli scrittori tardo latini Isidoro, orig. XX, 2, 12: merenda est cibus qui declinante die sumitur, …et proxima cenae); Calpurnio, V, ecl. 62: ubi… seraeque videbitur hora merendae, /rursus pasce greges et opacos desere lucos, ci avverte che la merenda è data ai pastori in un momento di riposo del pascolo nel pomeriggio. Lo stesso significato ha il verbo merendare in Isidoro, 20, 2, 12 “mangiare nel pomeriggio”. Il verbo è ancora usato in aree rurali del veneto (alto vicentino): marendare che significa ‘fare uno spuntino, mangiare qualcosa per interrompere il digiuno prima dei pasti principali del mezzogiorno e della sera”. Ciò concorda con quanto sostiene D’ELIA cit., 310 e cioè che etimologicamente merenda non è legato ad una determinata ora del giorno; merere si connette col greco ‘parte’ ed è quindi una creazione parallela a praebĕnda da praebēre. Nei dialetti alto-veneti e ladini marénda e marendare si collocano in ore diverse della giornata: a Selva di Cadore è il ‘pasto di mezzodì e ‘consumare il pasto di mezzodì’ (NICOLAI, 2000, 244), in altre località (Auronzo, Cibiana, Oltrechiusa) marenda ha assunto il significato dell’italiano ‘merenda, spuntino’ e arc. marendèra ‘tre quarti di giornata lavorativa nei campi, circa 900 passi quadrati (MENEGUS TAMBURIN 1978, 141). Nel Veneto odierno merenda, merendina ha assunto lo stesso significato dell’italiano e comprende anche una serie di prodotti industriali confezionati quali dolcetti, stuzzichini, panini, briosches, cioccolata, biscotti, crackers, generalmente usati dai bambini, al di fuori dei pasti principali. 3 digiuno’, veneto: disnàr(e). Al pascolo vespertino si riferisce invece l’appellativo ‘cena’ conservato nei toponimi tra i quali : Crepe de ra çenes, con cui è designato un pascolo in Ampezzo a destra del Boite (ATVT XII, 104), a. 1542 a Senes, a San Vito di Cadore La Zenata e nel fassano di Moena Le Cene (PALLABAZZER 1981, 53). Tale forma toponimica trova un corrispettivo nei nomi friulani Sénas (in-), a Forni di Sopra comune a tutte le malghe del pascolo più prossimo alla casera, nelle vicinanze del “cianpéit”, Sénas, pascolo della malga “Varmóst” e prati privati nell’ampio avvallamento tra il “Clap”, la casera e il “Cuol dala Pria” (ANZIUTTI 149). 1. 2 Alimentazione ‘povera’ ~ alimentazione ‘ricca’ Una conflittualità costante che compare nella considerazione dell’alimentazione è il manifesto contrasto tra l’economia ‘povera’ delle aree montane e improduttive e l’economia ‘ricca’ di pianura, legata alla fertilità del suolo oltre che a fattori ambientali e sociali; ne ha parlato riferendosi alla regione Emilia Romagna P. CAMPORESI in Alimentazione Folklore Società, Parma 1980, e per il friulano P. RIZZOLATTI 1995, ma questo è un topos che ricorre nelle letterature, ed è entrato nell’immaginazione collettiva come dimostrano la favolistica e l’aneddottica. Si pensi ad. es. alla riproposizione costante della favola di Esopo sul topo di campagna e il topo di città, ripresa da La Fontaine e ancora riportata nei testi scolastici dove si evidenzia la contrapposizione del cibo povero e parco di cui si nutre il primo, rispetto all’abbondanza di farro e loglio di cui dispone il secondo11. Anche nelle tradizionali abitudini alimentari del veneto si riscontra tale polarizzazione per cui tradizionalmente i ‘cibi’ poveri’ vengono associati alla campagna o alla montagna e sono identificati come un riflesso della ‘rusticitas’ dei costumi, mentre i cibi elaborati sono associati alla tradizione urbana, alle case dei ricchi con tutto quello che ne consegue: non solo si differenzia la preparazione del cibo, ma anche l’addobbo delle tavole, la scelta delle portate, la disposizione dei posti, le regole del galateo ecc. Per esemplificare le due realtà riportiamo la descrizione di un sontuoso banchetto veneziano quando il potere della Serenissima Repubblica era in auge, in contrasto con il racconto del modo in cui si svolgevano i pasti quotidiani nella piccola comunità pastorale di Lamon in provincia di Belluno in periodi di carestia nei primi decenni del Novecento. La volontà di ostentazione, lo sfarzo, il gusto dell’esotico dominava nella Venezia del Cinquecento. Celebre infatti è rimasta nelle cronache la festa data nel 1574 per la venuta di Enrico III re di Polonia nella città lagunare. “Il re, giunto all’arsenale trovò imbandita nelle stanze del Consiglio dei Dieci, una colazione tutta composta di zucchero. Le tovaglie, le salviette, i piatti, i coltelli, le forchette, il pane erano di zucchero, e così ben imitati che il re rimase piacevolmente sorpreso, allorché la salvietta ch’ei credeva di tela, gli si ruppe tra le mani. Ma il gusto per lo spettacoloso è per lo zucchero, che in questo secolo si profuse a piene mani, anche dove i nostri gusti non lo tollererebbero affatto, come nella minestra di carne, ma la cosa non si fermò qui. Nella sala dello scrutinio, infatti, erano state apparecchiate due altre tavole cariche di confezioni e di figure di zucchero. Il piatto innanzi ad Enrico III rappresentava una regina seduta sopra due tigri, che avevano disegnato sul petto le armi di Francia e di Polonia. A destra della mensa reale, due leoni con una Pallade e una Giustizia; a sinistra un S. Marco e un Davide; sulle altre tavole erano sperse figure di cavalli, di alberi, di navi ecc… I piatti furono 1260 e trecento le figure di zucchero dispensate alle gentil donne che vi assistevano, in numero di duecento” (CALÒ 1945-56, XII). Diversa è la scena dei pasti quotidiani descritti da due informatori anziani di Lamon nei primi decenni del Novecento, in cui il cibo prevalente o esclusivo era la polenta e non ci si riuniva nemmeno attorno alla tavola: si mangiava normalmente sia a mezzoggiorno sia alla sera senza sedersi a tavola, anzi sedeva a tavola soltanto il padrone di casa, la moglie stava sull’areola del focolare, tenendo in mano fette di polenta, i figli rimanevano fuori di casa sui pioli della scala del pollaio o su qualche altro sostegno che si trovava nei cortili, anche loro con la polenta tra le mani. Un pastore riferisce che con la polenta in mano si andava nelle case dei vicini a parlare o si girava per le vie dove tutti si conoscevano e ogni tanto si tornava dentro in casa per bere un bicchiere di vino.12 11 POCCETTI 2002, 899-901 rileva questa dualità nei generi letterari latini della satira e della commedia e scrive: “le contrapposizioni tra paradigmi alimentari a scopo caricaturale si giocano sempre sul filo conduttore tra una condizione ‘rustica’ in cui si polarizzano i valori di povertà e di rozzezza, ma anche quelli di genuinità e di sobrietà ed una condizione ‘cittadina’, in cui alla ricercatezza dei cibi e alle raffinate elaborazioni gastronomiche si accompagnano eccessi ridicoli e smodatezze nocive alla salute” 12 Da interviste fatte ad anziani di Lamon (BL) nel 1999 e raccolte in CORRÀ 2001 183-184 4 La cultura alimentare della montagna veneta è stata particolarmente legata al consumo di diversi tipi di polente o di farinate di cereali, di minestre e raramente brodi di carne, molto minore è stato l’uso del pesce che appartiene alla tradizione alimentare marinaresca, se non del pesce conservato: lo stoccafisso, l’aringa, il baccalà, prodotti che Venezia importava abbondantemente dai mari dell’Europa del Nord. Certamente l’impiego dei farinacei e la composizione stessa delle polente è molto varia e soprattutto l’importazione di nuovi prodotti dopo la scoperta dell’America quali il mais o granoturco, il fagiolo, la patata, hanno cambiato la composizione-base dei piatti tradizionali, ma non necessariamente sono mutati i nomi; un esempio ci viene dal fagiolo che pur continuando il latino phăsĕolus, non rappresenta più le varietà coltivate a Roma che erano del genere dolichos (di origine afroasiatica), ma è la nuova specie americana13. 2. I prodotti di maggiore consumo e la loro stratificazione linguistica I cereali più diffusi erano il frumento14, che spesso scarseggiava e veniva perciò sostituito o integrato dalle popolazioni delle campagne con i cosiddetti cereali inferiori come il méjo/mégio “miglio”, il panìzo “panico”, il sórgo "Surghum vulgare" ossia la "saggina", detta anche mèlega “melica”, la segàla “ségale” e il grano saraceno, quest'ultimo chiamato nel Veneto formentón. Successivamente il nome formentón è stato preso dal mais, di origine americana, importato nel Veneto verso la metà del 1500, da cui si irradiò nelle regioni contermini; allora, per necessità di disambiguare i due tipi di cereali il grano saraceno viene specificato come formentón negro. Proprio nel Veneto si è fatto un uso così incondizionato del mais da provocare sulla popolazione gli effetti disastrosi della pellagra, cfr. il capitolo di L. MESSEDAGLIA 1927: Il mais e la pellagra. Un dramma di vita rurale. Per la panificazione erano usati normalmente anche i cereali misti che avevano nomi specifici quali: granàda o granà, una mescolanza di frumento e segala e la megiàda composta di miglio e frumento. Accanto alle graminacee hanno avuto un ruolo fondamentale per garantire la sopravvivenza alle genti venete le leguminose, specie le fave e i fagioli, i cosiddetti "fagioli dall'occhio", per una macchia nera posta al punto di inserzione del funicolo embrionale, già coltivati dai Greci e dai Romani (Phaselus/Phaseolus , cfr. ANDRÉ 1985, 196), successivamente sostituiti, come abbiamo detto dalle specie importate dal Nuovo Mondo15. 13 Il fagiolo americano è entrato in Italia settentrionale con il nome di ‘fagiolo turco’ o ‘turchesco’ (nell’accezione di ‘straniero’), per distinguerlo dal preesistente ‘fagiolo dall’occhio’, in veneto: faśólo da l’òcio. 14L'uso stesso del frumento che dal XII sec. in poi aveva preso nuovo impulso, era riservato ai ricchi abitanti delle città, mentre le popolazioni delle campagne, continuarono a cibarsi in prevalenza di cereali inferiori. In un documento del 1340 relativo alla storia di Venezia citato da CECCHETTI 1885: 247 si parla dell'uso di frumento di varie specie e del miglio usato col frumento anche a farne pane. A Treviso, nel 1347, un'ordinanza del podestà permette a tutti gli abitanti della città, e dei borghi, di poter fare e vendere pane di qualunque biada (miglio, sorgo e altre granaglie adatte a ciò), data la scarsezza del frumento e ciò senza alcun gravame di dazio (MARCHESAN 1923: 327-328). 15Delle colture di cereali e di leguminose è rimasta traccia sia in documenti scritti, sia nell'onomastica e nella toponomastica locale. Uno spoglio di cognomi padovani e veneziani, tratto da documenti notarili, ad opera di BARBIERATO 2000, 117-140 ha permesso di tracciare un quadro degli alimenti più in uso nelle due province venete a partire dal Medioevo. Tra queste si annoverano due famiglie nobiliari padovane i Papafava (un ramo dei Carraresi), documentato come prenome fin dal 1275), e i Frigimelica, di cui resta a Padova l'omonima via. Da originari soprannomi di forma imperativale: "pappa (< pappare, REW 6214) la fava" e "friggi la melica". La tipologia di questi cognomi che si richiamano ad usi alimentari è stata molto produttiva, riprendiamo dal testo della Barbierato: per la fava Manducafava (a. 1136), Brusafava (a. 1147), Bogifava (Venezia a. 1735), Macafava (a. 1340) (< *maccare, REW 5196), il fagiolo, veneto fazòlo/fasiòlo, è documentato come cognome a Padova a partire dal 1076: Dominico Faxolo e nel 1137 è menzionato Johannes Fasiolus, col dittongo /úò/, che ancora sopravvive in veneziano e in aree conservative del veneto meridionale. Nel Veneto, in età medievale comunissimo era il miglio (Panicum miliaceum), graminacea preistorica e classica, che si coltivava ogni anno come il frumento. A Venezia a San Giacomo dell' Orio c'è la Fondamenta del megio, dove la Serenissima possedeva i pubblici magazzini detti del megio. Testimonianze e tracce dell'antica importanza del miglio, restano nella toponomastica e nei cognomi, sia a Venezia (a.1366 Lucia Meio, a. 1594 Faustina Megion ) che a Padova (a. 1464 Bartolomeo Megiarin, a. 1511 Roberto Megieto quondam Domenico). 5 Solo molto più tardi, verso la fine del 1700 è stata introdotta la coltivazione alimentare della patata nel Veneto settentrionale, attraverso le regioni del Nord d'Europa, tanto che in alcuni paesi dell'Agordino (Belluno) le patate sono denominate: sansóni m. pl.) cioè "sassoni", provenienti dalla Sassonia, di frequente citata come Sansonia nei documenti medievali. Per quanto riguarda le carni primeggia su tutte quella di porco (lo documentano i testi letterari, la toponomastica, l'onomastica e il lessico dialettale)16 accompagnate dall'uso degli animali da cortile e dalla cacciagione. Nell'area alpina e prealpina, dove la pastorizia e l'allevamento ovino e bovino hanno costituito le attività economiche prevalenti, - con l'uso comunitario del territorio e dei propri statuti chiamati "Regole", è prevalsa l'utilizzazione del latte e dei suoi derivati. Come è ben evidenziato da P. CAMPORESI 1995: 185 la civiltà della montagna differiva profondamente da quella della pianura anche nell'alimentazione. Prevalevano nelle aree prealpine e alpine del Veneto l'uso delle castagne e della farina di castagne, di polente e di zuppe di vari cereali, tra i quali primeggiavano l'orzo e la segale, le minestre "lente", non ben distinguibili dalle zuppe. I farinacei sono stati e sono tuttora largamente impiegati nell’alimentazione e costituiscono la componente principale di prodotti di vastissimo uso come il pane e la polenta, che diventano a loro volta ingredienti base di zuppe, minestre, pappe. Queste hanno denominazioni assai diverse, spesso a diffusione locale e variano per composizione e quantità degli ingredienti. Diamo qui una tabella dei cibi di più alto consumo nel Veneto ‘rurale e periferico’ relativi all’impiego di farinacei, pane e polente miscelati con il latte o il brodo o con acqua. Aggiungiamo come area di confronto anche il Friuli in quanto una parte della terminologia culinaria del veneto settentrionale concorda con il friulano, in particolare con il carnico. Altre differenze specifiche riguardano la diversa distribuzione dei tipi nei centri urbani di Venezia e Padova in contrapposizione con le aree collinari e pedemontane di Vicenza e di Treviso e con quelle di Belluno rappresentate dall’agordino, dallo zoldano, dall’ampezzano e dal Comelicano. Abbiamo affiancato alle denominazioni dei cibi anche il nome di alcuni ingredienti che costituivano, specie nei periodi di indigenza, elementi basilari per la preparazione dei cibi, quali il colostro e il siero del latte che viene usato Con il miglio si usava fare nel Veneto una focaccia chiamata megiàzza/ smejàzza/ mejàssa, a Chioggia megiòto, che era d'obbligo al pranzo serale della vigilia di Natale. Più tardi, quando viene introdotto il mais, la megiassa mantiene il nome, ma il miglio viene sostituito dal nuovo cereale. Anche dei cereali misti, l’onomastica veneta dà testimonianza, forse originariamente in modo scherzoso, basti l’esempio del cognome veneziano Sorgoméio, che si trova in un testamento del 1443: Cataruzza Sorgomeio vedova di Marco e nel 1540 compare una certa Maria Sorgameio fu Giorgio (Archivio di Stato di Venezia, Fot. Test., Atti Marpilio 1210, 756). 16Citiamo da CAMPORESI 1993: 55 un notissimo passo di F. Petrarca che dal suo osservatorio privilegiato di Arquà sui Colli Euganei, descrive Padova, città non ancora bonificata, degradata purtroppo dai troppi maiali in libertà che scorrazzavano, insozzando le vie, dei quali non sopportava "la turpe vista e l'ingrato suono", ridotta a un sudicio villaggio, "quasi rozza ed incolta campagna bruttalmente percorsa ed ingombra da greggi di porci che da tutti i lati odi turpemente grugnire e vedi col grivo scavare in tutti i luoghi della terra". A conferma delle parole del Petrarca si trova ancora in quello che oggi è diventato il centro della città la via Porcilia, dove avevano il loro stabulo i porci, a ridosso della Cappella degli Scrovegni, illustre famiglia padovana, che sembra non originaria di Padova, ma, che in ogni caso, tradisce nel cognome un adattamento alla lenizione dei dialetti settentrionali: Scrovegni < scrova, veneto odierno scróa, rispetto all' italiano scrofa. Altre testimonianze sull'allevamento del maiale nel Veneto sono state occultate dalla sostituzione di toponimi; S. Tomaso Agordino (Belluno) era precedentemente Porcìa, tipo analogo al citato Porciglia, Isola Porcarizza (Verona) è diventata Isola Rizza, Brusaporco di Resana (Treviso) è ora Castelminio di Resana. L'allevamento dei maiali, secondo le pratiche tradizionali, ha lasciato tracce nelle numerose denominazioni dialettali degli insaccati e delle parti anatomiche utilizzate per scopi alimentari, compreso il sangue del maiale appena ammazzato, che veniva raccolto e utilizzato in cucina e prendeva il nome di sangueta (femm.). Spesso era mescolato ad altri ingredienti per fare dolci caratteristici. Tra le denominazioni più note degli insaccati ci sono: la bóndola o, secondo una variante veneziana, la bondiòla (voce studiata da MUSSAFIA 1873: 34-35), le moréte, termine di area polesana indicante le “salsicce” con una componente di sangue di maiale, che in vicentino vengono chiamate mortandèle, ( la mortadella era invece la sopressa bologna) il veronese brigàldo "sanguinaccio" e brigàldoi "salsicciotti preparati con sangue di maiale", le sopresse “salami molto grossi” rispetto ai saladi “salami con gli stessi ingredienti delle sopresse, ma più piccoli”, i codessìni / coessìni "cotechini" o muzéti, le lu(g)aneghe “lucaniche”. 6 nell’alimentazione dei maiali, riproducendo con qualche aggiustamento lo schema di TRUMPER-STRAFACE 1998. Lemmi Venezia (Boerio) colostro late marso late marso/ late marça farinata súgoi de tajóli, polénta tajúli minestre manestra de fave ; (di rape) ravàda brodaglia pastume/ (per maiali pastura ecc.] zuppa [gen.] zuppa pesce zuppa verze súpa; sópa di broéto zuppa pane di panada/ panadèla di broetín pappa o panada pappetta per bambini o vecchi Padova Vicenza [Pre-Alpi vs. Pianura] duca/ late cugnòstra Belluno Treviso [Sinistra Piave] duca lat vért Cadore Agordino AmpezzoCo melico Zoldano (di brodo o di verdure) menestra; (di fagioli) menestrón pastón (maiali ed oche); sbro-etón (maiali) / bearón (bestiame) súpa súpa dussa/ žúša/ lat vért lat vért dúissa/ matarèl matarèl jussa [forse = puinéta] dufa/ dúdol/ dudín, zufa dufa đufa patùgoi; /z-/, zudín (Lamon) mòs/ mués/ dòta (polenta més molle) (di fave) (di fave) fàa (di fave) (di fave) badàna/ riésa/ badana badana basàna; baràta (di orzo, fagioli, granoturco) papazzòi slúca purón/ beverón beerón (maiali)/ scòlu; bùoia (a paurógn (pl.) buarogn base di (bestia-me) (beverone fave per per le (maiali e mucche che vitelli) hanno partorito); sópa/ dufa sópa zufa sópa sópa broéto ---------- ---------- sbroetón (+ "brodaglia liquida") panadèla/ paná (f.) supa vérze tajoléti/ tajulíti mòsa, fregolòti bujìa/ tajóli, tajúli (di brodo o di verdure) menestra; (di fagioli) menestrón scòro (maiali)/ bevarón (bestiame)/lavaù ra de sbrodácio paná (f.) panadèla Friuli: Carnia duca/ duche, cajòstre śuf/ giúf jòte/jota mignestre/ brovade (s)brodac’ sbrùdie, (s)brudiot sòpa,-e ---------- ---------- ---------- ---------- sópa sbrodácio ? ? panada sópa de panada pan/ panada súgoi/ panada patúgoi paná/ pan súgoi/ sópa/ sópa mòjo dufa/ patúgoi panada,-e/ panadòt panada,-e/ Dal punto di vista etimologico le voci si possono suddividere tra lemmi d'ovvia origine latina (past-/ pan- e derivati, lact- con modificatori, taliāre, su#cus, bi_b- e derivati, talvolta con incroci, baianus17 ecc.) e quelli 17 Baianus deriva dal nome della città antica della Campania Baiae, nota nell’antichità per i suoi bagni. In latino faba bajā designava un tipo di fava proveniente da questa città. Nei dialetti meridionali, calabrese vajana, vajanèlla ‘baccello’. 7 d'ovvia origine germanica, alcuni dei quali entrati anche in italiano (brod- e derivati, sop-/ sup- e mos-) un terzo gruppo di lemmi sono semanticamente associati ma etimologicamente opachi (duca, dufa [z-/ sgi-], dussa [sgi-] con varianti dúissa, jussa [sgi-: sgiùscia], dóta [jòta]). Le voci del tipo veneto dóta, friulano jòta,-e ('brodaglia' nel cadorino, parte dell'agordino, nel friulano e per un costituente della brodaglia nel comelicano) possono essere confrontate con quella più friulaneggiante del veneto giuliano iota, nonché con voci simili lombarde (zuta/ zóta, assieme al mantovano zóta non registrata nei dizionari)18. Il termine ampezz. fàa riésa “fava resa” equivalente semanticamente a baràta (Majoni), letteralmente ‘barattata’ allude all’usanza di invitare i vicini a cogliere le fave quando erano mature nei campi, cosa che veniva contaccambiata reciprocamente con uno scambio del prodotto.19 Patùgoi ‘farinata o minestra di granoturco cotta nel paiolo e scodellata semiliquida’, forse da pactu(m) allo stesso modo del cremonese patóna, toscano pattóna ‘polenta di farina di castagne’ (REW 6138a, DEI IV 2828 s.v. patto2 PELLEGRINI 1977, 217). Il PRATI 1968, 122 lo accosta al bell. patài ‘tritume’, ‘disordine’, poles. veron. ecc. patuzzo, trent. patüz, borm. patùč. Ciò che ha scritto P. RIZZOLATTI 1995, 69 per la cucina friulana, sottolineando le differenze tra la tradizione latina e quella germanica, vale allo stesso modo per il veneto rurale e periferico: “Anche sul piano degli usi alimentari il contatto [con i popoli germanici] non risulta indolore, con un rimaneggiamento dei sistemi alimentari e di cottura noti all’antichità romana e sintomatici di una cucina barbarica, gotica o longobarda, piuttosto veloce che puntava sulla carne arrostita (frl. rustî, veneto rosto/rostìo/rostì), scottata (frl. sbrovâ, veneto broà), sulla consumazione della carne bollita e dei brodi, delle minestre di grani e delle farinate (frl. soppe, jozze, zûf, veneto settentrionale sopa, dufa), su di una panificazione approssimativa con pane che abortiva in schiacciate (frl. pette, pinze, veneto pinsa) per difetto di lievitazione”. 3. Tedeschismi di contatto nella cucina veneto settentrionale Una serie di tedeschismi nel veneto settentrionale sono stati rilevati da PELLEGRINI 1994, 199-221, molti dei quali toccano la sfera dell’alimentazione, del resto ragioni di ordine geografico (il rapporto di contiguità territoriale tra Sudtirolo-Alto-Adige-Veneto settentrionale) e storico (gli intensi rapporti di emigrazione di lavoratori italiani in paesi tedeschi e l’appartenenza di alcuni territori del Veneto all’Austria) non possono che far prevedere l’esistenza di prestiti dialettali dal tedesco al romanzo (e viceversa). Trascuriamo di soffermarci su una serie di noti tedeschismi quali canéderli < Knödel, finfèrli < Pfifferling, crauti < (Sauer)kraut, speck, krapfen, o strudel che fanno parte delle specialità culinarie di tutto l’Alto Adige ed hanno una circolazione sovraregionale. L’ interesse della raccolta di Pellegrini, cit. riguarda soprattutto i prestiti tedeschi antichi entrati nei dialetti altoveneti e integrati diversamente nelle varietà dialettali locali, molti di questi presentano le caratteristiche fonetico-morfologiche del neolatino arcaico. Si veda ad es. lo zold. grafòiñ (pl.) ‘frittelle con ripieno di miele e papavero’, agord. grafón, karfón ‘bombolone fritto’, amp. carafón, dall'a.a.ted. krapfô ‘Krapfen’ (KRAMER I, 10, TAGLIAVINI 1934, 176, SCHATZ 354), il pl. zold. grafòiñ rappresenta l’esito arcaico locale del suffisso latino –ōni), contro il cador. cràfen, che è più chiaramente assimilabile al tedesco standard Krapfen, tir. krapfen ed è voce ormai entrata in italiano. Un gran numero di prestiti provengono dal tirolese, tra i più riconoscibili sono quelli che presentano un’integrazione nella fonologia romanza di pronunce tirolesi che non trovano il corrispettivo in tedesco standard, per es. agord. smòrm, smòrn `frittella dolce', amp. šmòrn ‘frittella tagliuzzata’< tir. schmPrrn, SCHATZ 538, KRAMER II 199, ted. Schmarren. 18 Alcune delle parole chiamate in causa sono considerate di problematica origine già dalle prime discussioni in STAMPA 1937, 189 e TAGLIAVINI 1988, 297 fino al più recente PELLEGRINI 1992, 170. Alcune forme sopravvivono nei dialetti italiani più arcaici e conservativi tra i quali il friulano jòta, -e" farinata, brodaglia per maiali, pastume", veneto-giuliano iota, il sardo jòtta/ dzòtta, le varietà dell'area Lausberg: jott.. Ma per l'estensione della voce nei dialetti italiani e francesi, per la varietà delle forme e dei significati e per la discussione etimologica v. Trumper 1998: 241-244, che presuppone trattarsi di forme celtiche *juttā ~ jŭtā, entrate in latino nella solita variazione mostrata negli accoppiamenti pūpa ~ pŭppa, cūpa ~ cŭppa ecc...e adattato al sistema fonologico del latino stesso *jŭtta (REW/REWS 4636). 19 Simile usanza esiste ancora nel cadorino, riguarda però altri generi alimentari, per es. carne di maiale macellato in casa, latte di zangola, colostro ecc. cioè se ne dona una porzione ai vicini e si suol dire che è un pan imprestà: un pane dato a prestito (MAJONI). Nell’alto vicentino lo scambio avviene per il fegato di maiale, se ne dà un pezzetto ai vicini che poi contraccambiano quando a loro volta uccidono il porco. 8 Diverse sono le tipologie di integrazione nei dialetti locali di ‘canederli’, dal tir. knöderl, dim. di knödel, TAGLIAVINI 1934, 168, SCHATZ 345, cfr. agord. kanéderli, comel. knéilu ‘grosso gnocco fatto di pane, latte, uova, carne affumicata’, amp. kenédi. Altri prestiti relativi agli elementi base della cucina sono l’ant. agord. germ ‘lievito’, ampezz. ghèrm ‘lievito’ < tir. germ ‘Hefe’, SCHATZ 235, Kr. 122; feltr. gries ‘semolino’ DFR e così altrove (KRAMER I 23, PALLABAZZER 225) dal tir. griess SCHATZ 255, EWD 111, 347, la voce si usa anche nell'italiano regionale; altrettanto dicasi di crèn ‘barbaforte’, ‘rafano’, ormai comune in varie regioni italiane, < tir. krên ‘Meerrettich’ che risale al ceco křen, KRAMER I 15; zold. smauθ, smàuts dal ted. Schmalz ‘burro’, ‘strutto’, smalz è noto in tutto il Veneto; ant. agord. grestl ‘carne lessa mista con patate fritte’, gréstel, gréastl, PALLABAZZER 225 < tir. greast, gereastl, SCHATZ 218, EWD 111, 436 greč; cador., bellun. kraute, krauti ‘cavoli pesti e preparati per la cucina’, voce ormai comune anche in italiano. Come bevanda si ricorderà soprattutto sgnapa `grappa', ovunque nel Veneto settentrionale, onde sgnapàda ‘busse’, TOMASI 103, KRAMER II 198 sgnapada ‘rimprovero’ e KRAMER II 200 šnòpes < tir. schnPps SCHATZ 543. Tra le ricette della cucina ampezzana sono note quelle di Rachele Padovan 1981, dove si nota un’integrazione molto forte di terminologia ladino-veneta e tirolese, in particolare nella preparazione di vari tipi di Knödel ( di fegato, di spinaci, di prugne), dei carafói di patate, nell’uso dello zigar ‘specie di ricotta ricavata dal latticello’, con lo stesso significato del tir. zîger ‘Halbkäse’ (KRAMER III 263, SCHATZ 729), si veda i carafói di zigar, il tocio de zigar. PELLEGRINI 1994, 206 cita anche l’agord. zigar e il comel. θigär ‘ricotta secca lavorata’ e propende per un’origine prelatina della voce. Tirolesi sono anche (cito con la grafia riportata nel testo) i tirtl ‘tortelli fritti ripieni di crauti o di spinaci’, lo zwieback, un dolce di zucchero, farina, burro fuso, il kugulupf (< tir. kugelhupf) “focaccia o panettone con frutta”. All’economia povera della montagna è associato il consumo prevalente di patate, che almeno dal 1800 in poi è diventato un elemento essenziale della cucina. Tra la grande varietà di termini con cui viene designata la patata prevalgono i calchi dal tedesco. Così si spiegano il cadorino piéro, pierostorto, a Cibiana pierθòto, piarθòto, a Valle di Cadore, perùθ che si rifanno alla parola base tedesca Birne ‘pera’ con vari determinanti che sottolineano la differenza con pero ‘pera’, cioè ‘pero storto’ o ‘pero zoppo’ o un dimin. ‘peruzzo’, neoformazioni popolari che a partire da un generico come ‘pero’, formano, in base al rapporto di similarità, un composto che permette il passaggio semantico ad un’altra specie botanica. Aggiungeremo che in area cadorina la diffusione della patata ha avuto una tale estensione da diventare predominante rispetto alla ‘pera’, così nel cadorino odierno il piéro è la patata, mentre se si vuole indicare il frutto, ‘la pera’, bisogna aggiungere uno specificatore: piéro de perèra ‘pera dell’albero di pero’ (MENEGUS TAMBURIN 1978, 171). Non alla ‘pera’ ma alla ‘rapa’ si sono rifatte le denominazioni della patata a Rocca Pietore (BL) dove sono chiamate rèf (pl.) ‘rape’, come nel dialetto arcaico di Falcade: raf . Nelle valli di Gardena e Fassa pare predominare il modello francese pommes de terre, diffuso anche nella terminologia dei dialetti della pianura padana. A Ortisei oggi si chiamano patac’, ma in antico si diceva mėiles de tiėra, come in fassano pómes de tèra (CROATTO 1990, 95). Altro tedeschismo entrato nel Veneto settentrionale è cartùfola (Lamon), parallellamente al friulano cartùfule che designa anche il ‘topinambur’ e con specificazione cartùfule todes’cie (Npirona 106-7), da Kartoffel. Nel dialetto lamonese si aggiungono altre sottocategorizzazioni per designare le patate di piccole dimensioni, dette bagoléte o barabóle, che sembrano nomi gergali, in ogni caso di ambito ristretto. 4. Il gergo Una sezione particolare del lessico dell’alimentazione è rappresentata dal gergo dei pastori delle colonie “cimbre” vicentine e veronesi (MURA 2002, 701-718) e da quello dei pastori lamonesi della provincia di Belluno tra i quali sono intercorsi contatti e scambi negli attraversamenti di territori durante le transumanze. Una parte di questo gergo a diffusione molto ristretta e di non facile soluzione etimologica (la componente germanica si integra con quella veneta) si riferisce a cibi poveri a base di latte, allungato con acqua, siero e polente. Sarénta è una polenta a base di siero del latte (deriva da sĕrum + enta, con il suffisso rifatto sul modello di polenta, la variante lamonese prevedeva l’utilizzazione delle croste della polenta lasciate sul paiolo, la cavarnétha (Lamón, Belluno) detta anche trùla cavarnétha che tutti mangiavano dallo stesso paiolo è una polenta molto morbida che si mangiava con la puìna (ricotta) secca grattuggiata. Una integrazione della vecchia ricetta si fa con l’aggiunta di lardo o pancetta fritti e versati sopra alla polenta già cotta e spadellata, come condimento. Non è chiaro se la cavarnétha lamonese corrisponda alla cavriza "specie di pappa liquida fatta di farina gialla di granoturco, cotta nel latte", conosciuta in tutti i paesi dell'Altopiano di Asiago, specie dai pastori e dai malghesi. E' nota anche sui 9 Lessini veronesi: gavrìza e covrìza, con lo stesso significato. MARTELLO 155, riporta per i VII Comuni la variante cabriza ed è forse riconducibile, non senza difficoltà fonetiche, al medioaltotedesco gevraeze "das fressen, schlemmerei, das Fressen" (LEXER I 965), ma potrebbero esserci interferenze anche con i derivati del veneto cavra/ cavara, con allusione all’utilizzo del latte di capra. Altro termine gergale dei pastori vicentini per ‘polenta’ è óta, uta, nel lamonese öta (CORRÀ 118) che è spiegabile come riduzione di ‘volta’ deverbale di ‘voltare’, un verbo semanticamente pertinente all’azione del ‘girare’ e anche al ‘versare’ la polenta sul tagliere che nel veneto centrale si dice ‘voltar fora’20. Lo stesso concetto ricorre nel gergo piemontese di Locana, dove la polenta è la mna ‘la menata’ e di Valsoana: menàj (ALY BELFÀDEL 1898, 370). Un altro arcaismo latino rimasto nel “cimbro” dei VII Comuni per indicare la polenta è pulta < latino pu_ls, pu_lte (REW 6836)21 la voce è usata dai pastori, ma è conosciuta anche in ambito non-gergale. La pu_ls era un alimento base nelle fasi arcaiche della storia di Roma ed era composta di una mistura di cereali in forma di farinata, ha continuatori romanzi, ma non veneti (REW 6836), almeno per quanto riguarda la documentazione di cui disponiamo. 5. L' alimentazione nella storia di Venezia Le fonti per la storia dell’alimentazione del Veneto e di Venezia in particolare sono, come abbiamo premesso, numerose e varie e meriterebbero una bibliografia ragionata, data la loro eterogeneità cronologica e di contenuto. Se poi utilizzassimo, per capire le tendenze della cucina veneta odierna, anche i ricettari locali, i testi di riferimento diventerebbero quantitativamente smisurati; nel nostro caso abbiamo selezionato una bibliografia che tenesse conto del carattere regionale o locale della terminologia alimentare. Per avere una traccia ricostruttiva, rimandiamo ad un articolo di Tiziana Plebani: Sapori del Veneto: note per una storia sociale dell’alimentazione, presentata in occasione della “Giornata mondiale dell’alimentazione” nel 1995, dove si elencano alcune delle fonti storicamente rilevanti per ripercorrere il complesso degli usi alimentari del Veneto a partire da un’edizione a stampa cinquecentesca delle Variae di Cassiodoro (libro XII, lettera XXII diretta “Provincialibus Istriae”). Questa è la prima fonte ad attestare l’importanza del sale nell’economia locale, motore dei commerci e degli scambi, tale centralità - sostiene la Plebani - si troverà poi in tutta la successiva storiografia veneziana costituendo, insieme agli altri motivi individuati da Cassiodoro - la frugalità e la concordia sociale-il mito dell’origine veneziana, mito dell’indipendenza e dell’autosufficienza che il sale alimentava.22 Un altro gran numero di documenti mette in rilievo l’importanza della pesca e del pesce nell’alimentazione di Venezia e della laguna e tra gli elenchi delle varie specie che vengono presentati, compaiono di frequente denominazioni dialettali locali, accanto a nomi volgari o a volgarizzamenti di nomi scientifici. Inoltre ci sono istruzioni su come pescare i pesci, sulle loro qualità alimentari, sul modo di conservarli e di trasportarli. Numerose sono le notizie che se ne possono trarre, in primo luogo la specificità di Venezia e della laguna rispetto al Veneto di terraferma e al Veneto alpino e prealpino - differenze che riflettono molti aspetti della vita sociale, organizzativa e politica della città lagunare, in secondo luogo si può avere la percezione dell’intensità dei traffici commerciali che hanno caratterizzato la città a partire almeno da Venezia “Repubblica marinara” e di conseguenza gli intensi rapporti che essa ha avuto con l’Oriente, specie con Bisanzio e i paesi balcanici, da cui importava merci e derrate alimentari che esportava in tutta Europa. 20 Ota presuppone la caduta di /v/ in posizione iniziale e la velarizzazione di /l/, per cui *outa > óta, esito attestato nei dialetti alto-veneti, cfr. in agordino (BL) óta ‘curva, svolta, giro, giravolta’, otàda ‘svolta, curva, rigirata, rivoltata’ (PALLABAZZER 418-419). Quanto ad /ö/ del lamonese si tratta di una particolarità che contraddistingue questo dialetto e che lo differenzia da tutte le altre varietà del veneto, prive di vocali arrotondate anteriori. 21Il Meyer Lübke (REW 6836) dà come continuatori di pŭls, pŭlte, l’antico italiano polta oltre all’engadinese e ad alcuni dialetti francesi antichi e moderni. Non è attestato nei dialetti dell’Italia settentrionale, dove invece compare nel cimbro dei Sette Comuni. 22Sull’importanza del commercio del sale cfr. J.C. HOCQUET, Il sale e la fortuna di Venezia, Roma, Jouvance, 1991. Tale rilevanza del sale è stata messa in evidenza (GALLO 2002, 881) anche nel mondo greco sia per quanto concerne l’alimentazione (per dare sapore), sia per conservare gli alimenti, specialmente il pesce salato (tarichos) e sulla lavorazione del sale sono ricordati gli impianti di salagione (taricheiai) 10 Ma mentre le denominazioni delle spezie, che Venezia trasportava in gran quantità dal Levante hanno lasciato pochissime tracce di dialettalità23 molto più innovativa è stata la città nel lessico ittico, che annovera un gran numero di nomi locali non solo per le specie di pesci più note e usate a scopo alimentare, ma, ciò che è ancora più importante al fine di identificare le proprietà del lessico tecnico, le denominazioni differenziate per ordine di grandezza, di peso e anche di sesso. Sono per esempio di origine veneziana alcuni nomi di molluschi tra i quali il grançipòro, il grançiporeto, citati già dal Savonarola24 e poi dai naturalisti del 1500 e nelle Lettere di A. Calmo, rifacimenti del termine scientifico Cancer pagu_rus ma con sovrapposizione di un’etimologia popolare che rimanda a porro un vegetale ricco di filamenti e di barbe così come potevano apparire i grançipori con il loro ciuffo di antenne. L’immagine associata a questa specie è stata estesa alla femmina del granchio (Cancer Maia), con la sostituzione di “porro” e l’introduzione di “cipolla”, in dialetto veneziano séoła e segola da cui le grançeole, ipotesi sostenuta da A. PRATI25 e da G. FOLENA 1954: 75. Particolarità della laguna veneta sono le denominazioni del granchio (Cancer Moenas) la cui femmina con le uova è chiamata: maSanéta e il granchio dopo la muta: mołéca (<*mo_llica <mo_llis) quest’ultime commestibili soltanto in primavera quando la corazza del granchio diventa tenera e si usa friggerla in padella. Tra i molluschi sono ben note nel veneziano le cape (f. pl.), originariamente “conchiglie” (poi il nome è stato esteso ai molluschi ivi contenuti), caparón “cardio spinoso”, caparòssolo “Venere tonda”, tutte voci già spiegate da FOLENA 1954 e connesse a cappa “mantello”, metafora visiva applicata alla “conchiglia con le sue scanalature e ondulazioni, simili alle pieghe verticali a raggiera di un mantello”. Tra le varie specie di cape la laguna veneta conosce la capałonga “cannolicchio” la capatónda “cardio”, la capasànta “nicchio scanalato maggiore”.26 E' entrato in italiano il termine canocchia dal veneziano canocia, secondo la grafia del Boerio: canochia "piccolo granchio marino", Cancer Mantis. "E' commestibile comune e di molto uso per la poveraglia, da cui anche il modo di dire: vodo come una canochia smilzo o digiuno, contrario di ripieno...si dice di chi ha la pancia vuota". Nell'uso della cucina veneziana odierna, le canoce, lessate o cotte al forno con vari ingredienti, a differenza di quanto annotava il Boerio sono un piatto raffinato e ricercato. Molto diffusa in tutta la laguna è la coltivazione dei molluschi chiamati in veneziano peòci (pl.) "cozze" (Mytilus edulis), che venivano consumati anche crudi, oppure cotti in padella o fritti. Le ricette per la preparazione prevedono molte varianti. Nel Veneto peòci è termine per “pidocchi”, ma non è chiaro come questo mollusco prelibato abbia assunto la stessa denominazione del "pidocchio"; secondo alcuni va accostato ai pidocchi perché 23 Tra i nomi dialettali delle spezie si hanno: pevere/ pevero che indica il comunissimo “pepe” che poteva essere pevere longo o pevere intriego (SALLACH 1993, 161) in veneziano; attestazioni in padovano antico si hanno dal Serapiom carrarese per la noce moscata: noze moscà , che nella varietà vicentina arcaica è ancora oggi la nóza mus-cia; il mace o arillo della noce moscata era la scorça de la nose moschà ; zenzevro/ zensebro/zenzaro è lo “zenzero” in veneziano e çençevro in padovano ant.; sufràn/ zafràn/ zafaràn è lo “zafferano”; bròche de garofolo cioè “chiodi di garofano” il nome è tuttora in uso nel veneto (padovano ant. garofoli) e indica il “bottone floreale disseccato della pianta” (Eugenia Karyophillata), la canela in cana è in vicentino la cannella; galanca riprende il termine dotto galanga che era usata a Venezia nella composizione del rosolio d’alchermes. Altre spezie di origine orientale come il cubebe, lo spiganardo, il coriandro, il malabatro, non sembrano avere in Venezia corrispondenti dialettali; il malabatro è nel pad. ant. il folio indo o foia de India (Serapiom carrarese). 24M. SAVONAROLA, Libretto de tutte le cosse che se magnano; un’opera di dietetica del sec. XV, a cura di Jane Nystedt, Gotab, Stockholm 1988. 25Il PRATI (Vicende di parole, in "Studi Mediolatini e Volgari", II, 1954, 216-217) ritiene che "se consideriamo che il “granciporro” poté richiamare alla mente di qualche parlante il “porraccio o asfodelo”, per la possibile somiglianza tra le antenne del primo e le lunghissime foglie lineari del secondo, pare anche ammissibile che in “granciporro” non sia entrato il “pàguro". Riteniamo probabile che si tratti di una rimotivazione secondaria, intervenuta quando il significato originario non fosse più trasparente. Il termine grancigole (f. pl.) nel veneto odierno granséola, sembra attestato per la prima volta nell’opera di M. SAVONAROLA, cit. del XV sec. 26Un’altra varietà è citata da SAVONAROLA (sec. XV): cap(p)arace: Le capparace o vero peverate son mancho humide de le cappe. Si tratta dei “datteri di mare”, l’etimo è stato discusso da FOLENA 1954, 75 che si è fondato su un derivato di cappa , e a tale base è accostato anche lo spagnolo carapacho, attraverso caparacho “conchiglia, guscio di mollusco” (rispettivamente con il suffisso -aceus e -aculus), tuttavia non esclude un incrocio col greco gr.ant. gr. biz. 11 vive in un ambiente sudicio e si attacca alle reti come i pidocchi si attaccano ai capelli di ragazzi o di persone sudice. Infatti la miticoltura medievale e moderna usa un particolare sistema di allevamento dei mitili, che si attaccano a reti agganciate a pali ben infissi nell'acqua.27 Un problema etimologico pone poi il famoso baìcoło veneziano che non solo è il “biscotto” ben conosciuto, ma è originariamente il nome del piccolo del Labrax Lupus (la spigola o branzino)28fino a tre o quattro once di peso. Il NINNI 1890 ipotizzava che si trattasse di uno scambio di nomi dovuto alla somiglianza di forma che hanno i labraci con il biscottino veneziano, ma senza dubbio la direzionalità dello scambio va rovesciata. Una volta stabilita la priorità della denominazione attribuita ad uno stadio della crescita del pesce, la cui diffusione come vedremo si allarga alle coste del Mediterraneo, la situazione risulta comunque assai complessa, soprattutto per quanto riguarda le corrispondenze tra i nomi dei diversi stadi di crescita della spigola, chiamata in veneziano branzìn, chioggiotto brancìn, a Grado, Muggia: bransìn. Dal Veneto questa denominazione si è diffusa in molte località dell’Adriatico, fino a Pesaro, ed è spiegato come derivato da branchia per le spine rivolte in avanti presenti nel preopercolo, attraverso brancia variante di branca. Il DEI I 589 dà il veneto branzo , "tenaglia del granchio" ossia “chela” pungente29. L’italiano regionale “branzino” è un prestito dal veneziano. I piccoli del Labrax, in veneto baìcołi (il termine raggiunge le coste marchigiane come il nome dell’adulto) e bajòchi (Chioggia) allo stadio mediano sono entrambe denominazioni anche di biscotti, e la loro etimologia è discussa. Del baiòco si sa che, oltre a rappresentare l’esemplare mediano del Labrax è anche un' antica moneta dello Stato papale, considerata di poco conto.30 La spiegazione più plausibile tuttavia andrà ricercata in altri parallelismi con i dialetti veneti, in cui compare il termine con diversi significati, solo apparentemente non conciliabili. Nelle varietà venete settentrionali forme come bajòk, badòk, badòt, bazòt, sono tutte varianti di badius (LEI IV pp. 317-338) + -occus o -ottus e nel veneziano bagio è "color di cavallo o di mulo ch' è cannellino languido"; bazòto "bazzotto, fra duro e tenero e dicesi comunemente delle uova, mediocre, mezzano; mezzo cotto; molto diffuso per indicare vegetali non ancora giunti a maturazione, cfr. il valsuganotto bado "mezzo secco", in riferimento al fieno, spagn. bayoco "higo sin madurar", concetto riferito anche ai cereali, come il frumento e il riso sia in piemontese che nel Lazio meridionale (fichi bbaddzott´), tic. prealp. bagiòcch agg. "fieno non ben secco". L'aggettivo badius è originariamente riferito al colore "rosso bruno", ma nelle lingue romanze ha sviluppato il significato di qualità mediana: mezzo crudo o mezzo cotto, mezzo maturo o mezzo crudo, né duro né molle ecc...Tra questi significati si può collocare anche quello di "pesce non ancora maturo". La spiegazione non contrasterebbe con altri nomi dei piccoli del Labrax, documentati in testi veneziani antichi quali vairolo (a. 1173, cfr. CECCHETTI 1870, 66) e varuoli (a. 1493-1530, cfr. SANUDO 1980, 172) < varius, anche questo aggettivo indicante originariamente "vario di colore" e quindi "macchiettato, screziato", come la picchiettatura della sua livrea. Quanto a baìcoło, sono state date molte spiegazioni tra le quali derivato da bava + -iccolo, (-īccus + u_lus ) o dal veneto bào che più comunemente è un termine generico per 'insetto', ma anche per “verme”. VINJA 1968, 14 riferendosi al triestino baiòccolo "giovane spigola", pensa a un rapporto con baiocco "moneta di rame", per le macchie nere della livrea e ritiene che la stessa spiegazione valga per baìcolo. Va tenuto presente inoltre che baìcolo, -nei documenti veneziani citati dal SANUDO (a. 1493-1530): vaiccoli pl. (p.14) - potrebbe avere attinenza con un grecismo, giustificato foneticamente dall’attestazione con /v/ iniziale: 'klein', 'winzig', 'unscheinbar', aggettivo usato spesso da Oppiano in riferimento ai piccoli pesci (STRÖMBERG 1943, 32). Ora TRUMPER 2003 riprendendo per baìcoło la derivazione dal latino badius, con riferimento al colore, 27La miticoltura odierna sembra comunque risalire al Medioevo ed è probabilmente opera di un mercante irlandese, Patrick Walton, che naufragato nel 1290 sulle coste francesi notò che i paletti piantati in mare per sostenere le reti per la cattura degli uccelli, si coprivano rapidamente di cozze. Moltiplicò allora i paletti unendoli con fasci di rami ed ottenne ciò che in veneziano si chiama una peocèra. Nella laguna di Venezia si usa il sistema dei pergolati, formati da gruppi di due o tre pali ben infissi sul fondo su cui vengono appese delle particolari reti di plastica a maglia stretta sulle quali cadono le uova dei mitili, dai cui nascono i peoceti. 28Il Labrax Lupus è chiamato in veneziano branzino o varolo (Folena 1963-64) 29 Alla spiegazione tradizionale il Trumper 2003 in stampa, oppone un’etimologia remota che rimanda ad una base indoeuropea *bhrs-t-i < *bhares-, con sicuro riferimento a ‘setole’ o ‘spine’ che avrebbe uno sviluppo comune italo-celtico, morfologicamente differenziato da quello germanico-slavo, anche se partito dalla stessa base. 30C’é da osservare che nella produzione recente dei biscotti “Mulino Bianco” Barilla, i baiocchi sono biscotti rotondi farciti di cioccolato, molto simili per forma a grosse monete. 12 propone un tema indoeuropeo *bhā-, *bhō-, bh∂- ‘splendere’, ‘brillare’ (IEW II, 104-105) che accomunerebbe sia il latino sia l’irlandese antico buide ‘verde-giallo’ e anche ‘viola’. E aggiunge: ‘data la cancellazione storica della stragrande maggioranza di -t-/ -d- nel veneto una deriva *bādi-ĭc[c]ŭlus > *bādīccŭlu(m) > baìcolo non è affatto impossibile né improbabile’. E conclude dicendo che l’ipotesi resta ancora sub judice. Ulteriori informazioni sui tipi di pesci più prelibati della gastronomia veneziana, comprese alcune antiche ricette, sono contenute in BRUSEGAN 1992, 30-33, che basa le sue ricerche su fonti storiche dal XIV al XVI sec. Anche in questa ricca documentazione risulta che molte delle specie ittiche di largo uso alimentare avevano denominazioni diversificate rispetto all’esemplare adulto e, talora erano la grandezza, il peso o l’aspetto particolare ad operare ulteriori sottocategorizzazioni. Per esempio le orate giovani erano chiamate oradèle e quelle più grandi oràe de la corona a causa di un arco giallastro molto evidente posto tra gli occhi dell’esemplare adulto. Il Ninni riporta il veneziano bagìgi per indicare le giovani acciughe. Le distinzioni coinvolgono anche i maschi e le femmine, in particolare le femmine pregne di uova, come abbiamo già notato per il granchio. Il Gobius ophiocephalus o ghiozzo è in veneziano il gò e la femmina è detta panzona (panciona), la smòca indica nella laguna veneta la femmina grossa e pregna dell’ asià (spinarolo, Achanthias vulgaris Bp.)31 una specie molto ricercata come cibo. Gli esemplari più grandi sono denominati Arquilà. (Ninni). La voce deriva dal croato smokva che significa “fico”, e nel dialetto padovano le smòke sono grossi fichi di prima fioritura detti anche mame "mamme". L'equivalenza smoca-fico-mamma in padovano spiega l'attribuzione di smoca alla femmina dello spinarolo, denominazione tuttora in uso nel dialetto di Chioggia (NACCARI-BOSCOLO 518), con allusione anche alla ben nota metafora sessuale suggerita dalla presenza di "fico", come frutto, da cui il veneto figa “organo sessuale femminile”. La stessa tipologia è ripresa nella denominazione passarini (Pleuronectes italicus Günth) detti anche latesiòli (i maschi da latte) e pàssare sono le femmine pregne di uova. Anche qui é presente una sovrapposizione con il nome dell’organo sessuale femminile. I cefali che primeggiano nella cucina veneziana sono distinti tra caostełi (che hanno più di un anno) lotregani, verzełate32 e quelli di grossa taglia: bolpine e boseghe. I più ricercati sono senza dubbio i lotregani (o dotregani) e le verzełate, soprattutto se pescati nel periodo invernale nelle Valli. Già negli “Statuti” della città (a. 1270 e 1272) si fa distinzione tra i “cefali da bon” e i “cefali da rio” (buoni e cattivi), “qui habent bonum budellum et malum budellum”, espressioni ancora usate: siévoli da bon e siévoli da rio: i primi erano quelli pescati al tramonto prima del loro pasto e di conseguenza con l’intestino ancora vuoto, gli altri erano invece pescati dopo la pastura e quindi con l’intestino pieno. Strettamente legato all'evoluzione della storia economica di Venezia è l'uso di alcuni prodotti conservati e di alcune tecniche di conservazione del cibo quali la essicazione, la salatura, la salamoia, l'affumicatura e per evitare il deteriorarsi degli odori, la speziatura. Dall'esigenza di conservare il cibo è sorta anche una tecnica di marinare il pesce tipicamente veneziana, in agrodolce, il cosiddetto pesse in saór “pesce in sapore” che, come sostiene il Brusegan 1992: 25, ha il suo antecedente nel cisame de pesse33 citato dall'anonimo ricettario veneziano del Trecento, in uso con qualche variante ancora oggi specie per le sarde o sardèle in saór. Il termine ha riscontri in Istria: sezame ‘marinatura’ ed è accostabile all’antico genovese inzisame ‘insalata’, propriamente ‘tagliuzzata’, dal latino *incĭsāmen (REW 4354)34. Come scrive M. BRUSEGAN nell'introduzione a La cucina veneziana, i prodotti alimentari, importati ed esportati, dovevano resistere ai lunghi viaggi, ma anche l'equipaggio stesso doveva avere a disposizione in mare provviste non deperibili. In particolare sui banchi dei luganeghèri (pizzicagnoli) venivano venduti i salami de 31Veneziano lagunare asiào, < *acīleatus per acūleatus “munito di pungiglione” v. LEI I 552. Il NINNI nelle Giunte e correzioni al Dizionario del dialetto veneziano di G. Boerio, ci informa che l'asià propriamente detto è lo spinarolo imperiale, mentre lo spinarolo comune o Achanthias Blainvilli è noto col nome di can spinoso . 32Verzelào è citato ne Le Lettere di A. Calmo con il significato di "vergato di grasso ed anche di colore incarnato" (MESSEDAGLIA 1941-42: 5) 33Il Cisame de pesse dell’anonimo “Libro per cuoco” (sec. XIV) è a base di cipolle, uva passa, mandorle e spezie forti. 34 Diversamente CREVATIN 2002, 936 pone alla base di sezame una forma onomatopeica *tšiz ‘soffriggere leggermente’, che giustifica anche il friulano cisâ ‘grillettare, sfrigolare, dell’olio o dei grassi che bollono, quando vi si immergono i cibi da friggere; ma anche di rumori simili’ (PIRONA 155). 13 mar, quali moróna, schinàle, tonina, tarantello, tutti prodotti ricavati dalle carni dello storione e del tonno, conservati in vari modi. Dai mercati del Nord Europa arrivavano in barili sotto sale quelli che nel settecento erano detti "i quattro generi del ponente" e cioè aringhe (renghe), “cospettoni”, salmoni e baccalà. A Venezia si importava dall'Oriente anche il caviale detto caviaro (uova di storione lavate, pressate e affumicate), che affiancava il caviale dei veneziani, cioè la botarga, preparata localmente con le uova di muggini, spigole e altri pesci. Diffuse sono in tutto il veneto le rénghe "aringhe", il cospetón/scopetón, (Alosa gheppia) salato e affumicato, stigmatizzato come il mangiare dei poveri, la saraca "salacca", salata e poi conservata. In chioggiotto è chiamato batagìn il merluzzo salato ed essicato, che beniva battuto prima di essere messo in ammollo. Lo storione veniva denominato dai pescatori veneziani còpese ed è una specie diversa dal làdano, che è termine polesano, sconosciuto a Venezia. Si tratta dell' Acipenser naccarii o “storione del Naccari”, da cui poi “qualunque storione col muso ottuso”. Per indicare le specie rare si aggiunge il titolo di “bastardo o foresto”. (NINNI I 40). Altre varietà dialettali del Veneto centrale (padovano-vicentino), hanno la forma con diverso accento: copése. L’etimologia di copése/cópese è stata ampiamente discussa in LEI I 556-558 compresa la diffusione della voce nei dialetti italiani settentrionali. Dal latino *acupensis > copése, con aferesi della vocale iniziale e il mantenimento della /p/, come nella tradizione semidotta. Lo spostamento d’accento (copése > còpese ) è avvenuto per conguaglio morfologico con i sostantivi in -ex, -ix (es. dèntice, àstice). Dell’ importazione dello storione a Venezia e della sua esportazione nelle principali città europee ha discusso con particolare conoscenza delle fonti documentarie L. MESSEDAGLIA 1941-42 e 1943-44. A Venezia la calle del Sturión a Rialto ne testimonia l’uso e sicuramente l’importanza che ha avuto nella storia alimentare della città, ma i nomi con i quali veniva importato lo storione almeno fino al XVII sec., erano schenàl e morona, indicanti rispettivamente il dorso e il ventre dello storione. Schenàl e moróna sono oggi disusati, ma ampiamente attestati almeno a partire dal Libro dei Conti del mercante veneziano G. Badoer (1436-1440)35 e quindi nelle Lettere del commediografo A. Calmo (sec. XVI), il primo termine di origine neolatina, si riferisce al dorso dello storione, che veniva essicato in modo da ottenere dei filamenti, venduti poi in fasci,36 il secondo designa la parte della pancia dello storione, conservata in salamoia, proveniente dal Levante (specie dal mar Nero) e portata dai Veneziani in Italia. L’etimo di moróna è di origine discussa. Per quanto riguarda ‘schienale’ si tratta della parte ‘spinale’ dello storione, che, volgarmente è diventata “schienale”, per una sorta di equivalenza tra la ‘spina’ che è dorsale come la schiena’. [FEW XIV 65 ursin de mar = storione in mfr. paragonato ad un piccolo orso]. Sulla preparazione dello ‘schienale’ ancora il MESSEDAGLIA 1941-42, p. 24 scrive: “I mercanti italiani chiamarono in Levante schienali (schenali, schinali in veneto) le lunghe strisce che sapevano e vedevano staccate dal dorso o schiena di certi storioni per essere poi sottoposte a speciale confezione, che le rendeva commerciabili”. Gli schienali si vendono a fascio, e dassene 20 per uno fascio. Il nome sarebbe stato dato dunque dagli stessi mercanti italiani che lo importavano (p. 47). Degli usi culinari della moróna e delle varie, ricette di cucina relative, parla esaurientemente il Messedaglia, cit. attingendo a diverse fonti che riguardano la gastronomia veneziana specialmente alle Lettere del Calmo che abbondano di notizie sull’argomento. Sull’etimologia il Messedaglia, cit. scrive che “Morun è dappertutto, in Romania il nome dello storione (Acipenser huso o Huso huso), e morina, morinassi (non che mersine) lo chiamano i Turchi” (p. 44). Lo SKOK 1972 s.v. mùrina ne dà ampie attestazioni non solo in rumeno: moru5n, ma in molte lingue slave, in neogreco , in turco muruna, da cui l’italiano morona “carne di storione del Levante in salamoia portato soprattutto dai veneziani in Italia”. Uno studio di D.J. GEORGACAS, 1978 pp. 139-141 chiarisce che il termine morona è in greco e nelle lingue balcaniche un prestito dal rumeno morun e la forma greca avrebbe interferito con il sinonimo per la terminazione in - escludendo qualsiasi rapporto con designante la Muraena helena, come da alcuni era stato proposto. Che morona si riferisca alle carni dello storione e non di altri pesci è una conclusione a cui sono giunti indipendentemente GEORGACAS, cit. e MESSEDAGLIA 1943-44, p. 125, quest’ultimo esclude le attribuzioni fatte da altre fonti come il DU CANGE V (1885) 522 che identifica la morona con il tonno (conservato) : “Celum crudum ʈ edulium ex thynni piscis carne 35 G. BADOER, Il libro dei conti di Giacomo Badoer : Costantinopoli, 1436-1440. Testo a cura di U. DORINI e T. BERTELE, Istituto Poligrafico dello Stato, Libreria dello Stato, Roma 1956, 29, 598. 36Lo schienale, descritto ne Le Lettere del Calmo era merce di magro d'oltremare, secca e dura, formata da certe aste piuttosto lunghe, raccolta in fasci per la esportazione (MESSEDAGLIA 1941-42: 7) 14 salita, quod Veneti Moronam appellant. Italis Morona thynnum sonat”, o il MUSSAFIA 1873, 80 che parla di “delfino salato e fatto a fette”, riportando la citazione dal Dizionario veneziano e padovano settecentesco di Patriarchi. Non è facile poi stabilire se la voce veneziana moróna sia accostabile allo spagnolo marión, ant. maron (Acipenser Sturio) di cui si è occupato COROMINAS (Diccionario crìtico etimológico de la lengua castellana, III, p. 268), senza chiarirne l’etimologia. Altre proposte interpretative sono riportate in CORTELAZZO 1970, p. 151, tra le quali la connessione di “tonno, merluzzo”, ma anche “storione” con il latino gadus morrhua (merluzzo), condivisa da LAVAGNINI 1993. In ogni caso l’assegnazione del termine ad un unico referente rimane problematica perché di frequente gli scambi di nomi rivelano somiglianze non tanto tra gli oggetti, quanto piuttosto tra le tecniche di conservazione (essicazione, salatura, salamoia, affumicatura). Basta per questo vedere il ROLLAND, XI, pp. 221-228 sotto la voce Morrhua vulgaris ed osservare sia i continuatori diretti in francese: morue, sia la lunga serie di sinonimi diversificati a seconda che il pesce sia fresco o secco e salato oppure sia giovane o maturo. La morue viene chiamata anche nel francese bachalao, italiano merluzzo, spagnolo bacallao; la giovane morue fresca è nel francese ant. (a. 1510 circa) moruhon (m.), secca e salata è lo stockfish (letteralmente ‘pesce bastone, perché diventa dura come un bastone’). L’etimo del veneziano moróna rimane dunque ancora sub judice. 6. I cereali e la panificazione a Venezia Come in altre province venete anche a Venezia nel si fa largo uso di cereali tra i quali il frumento di varie specie e il miglio usato come frumento anche a farne pane37. Il miglio rosso non era molto gradito. Nei documenti del XIV sec. riportati da CECCHETTI 1885, 248 si legge che un certo Antonio muratore, di Murano, popolano turbolento, il 15 Dicembre 1379 “grida in piazza invettive contro chi governa e chi mangia buon pane e beve buon vino e a noi (dice) dà farina di miglio rosso che non possiamo digerire”. A Venezia si facevano nel 1300 il pane bianco e il trasverso (< transversus). Secondo il CECCHETTI cit., 299 questa denominazione deriva “dal sito dello staccio posto fra quello della farina pura e quello della crusca”. Gli ufficiali al frumento del governo veneto non volevano che venissero cotti nella stessa infornata sia il pane bianco che quello trasverso, perché non fossero mischiate le due qualità. La fabbricazione del pane a Venezia è un’arte esercitata dai pistori, dal lat. pĭstōre ‘fornaio’ che si conserva sia nei nomi delle calli: cale del pistór, sia nel dialetto locale. In particolare nella città lagunare si faceva una distinzione tra i pistori che impastavano e forgiavano il pane e i panicuocoli o fornai (fornèri) che provvedevano a cucinarlo. E ancora nella toponomastica veneziana è riflessa l’arte molitoria della farina connessa alla panificazione in cale del pestrìn dal latino pĭstrīnus (REW 6451). Che l’attività della panificazione fosse particolarmente curata a Venezia lo dimostra la ricca legislazione vigente fin dal medioevo (pistori e panicuocoli, facevano parte di due corporazioni) intesa a tutelare, garantire e regolamentare la qualità delle farine, le tecniche di lavorazione, i tipi di pasta, i modi di cottura, la vendita ed il prezzo del pane. Ne sono il riflesso i numerosissimi cognomi veneziani semplici o composti. che ci attestano come le abitudini alimentari costituissero la motivazione alla formazione dei nomi personali, che prendevano spunto dagli usi più comuni di consumare il pane. Diamo qui un elenco, certamente incompleto di cognomi veneziani che hanno come referente il ‘pane’, tratto da uno spoglio di Atti notarili conservati presso l’Archivio di Stato di Venezia (ASV), pubblicato da P. BARBIERATO 2000, pp. 117-140, 38 : Bonaventura Pane moglie di Bettino, menzionata in un testamento veneziano del 24 settembre 1368 (ASV, Not. Test., Atti Gibellino G. 575, 48), a. 1767 Elena Quadropani vedova Ottavio (ASV, Not. Test., Atti Fusi in Atti Cabrini 1162, 590), che corrisponde ad un nomen singulare – da un originario soprannome, sicuramente scherzoso – Quatropane, attestato in un documento padovano del 1147 (CDP III, 1541, 518). Dal concetto del pane come alimento buono per eccellenza derivano tutta una serie di tipi cognominali quali: Ficolò Bompan marinaio (ASV, Not. Test., Atti Rageri F. 985, 174), ma anche le forme imperativali antiche: Magnapan attestato a Venezia nel 1371 quando in un testamento compare un certo Ficolò Magnapan [Mangiapane] (ASV, Not. Test., Miscell. 21, 511). Tra i composti a. 1762 Antonio Pancotto (ASV, Not. Test., Zuccoli A. 1118, 36), a. 1420 Tarsia Panbianco (ASV, Not. Test., Polo F. 793, 184), a. 1424 Giorgio Panblanco quondam Ficolò (ASV, Not. Test., Atti Salomoni E. 947, 239), a. 1412 Veniera Panelate (ASV, Not. Test., Atti Stefani 1231, 363), Paninsacco, nel senso probabile di ‘pane in tasca’, detto come formula augurale compare a Venezia a partire dal 1277 quando si ha notizia di una 37 CECCHETTI 1885, 247 ricava queste notizie da documenti veneziani del 1340. 38 Rimandiamo all’articolo di P. BARBIERATO 2000, pp. 126-127, 140 per i riferimenti bibliografici completi. 15 Marchesina Paninsacco (ASV, Not. Test., Atti Leonardo prete 102, 16) e ancora a. 1323 Caterina Panesacco quondam Vincenzo (ASV, Not. Test., Atti Simeone F. 186 A., 10); tra le forme diminutive a. 1590 Caterina Panetto (ASV, Not. Test., Atti Beni 160, 89); con doppio suffisso dim. e accr., cfr. a. 1323 Margherita Panettoni (ASV, Not. Test., Atti Alberto D. 54, 7). Accanto al pane, alimento per eccellenza, un ruolo di grande importanza nell’alimentazione del passato, anche recente, aveva senza dubbio la polenta < lat. P ŎLĔNTA(M) (REW 6634), termine in uso già nel lat. classico col significato di “farina d’orzo abbrustolito” (Catone), “farinata d’orzo” (Columella), “orzo abbrustolito” (Ovidio), “polenta” (Plinio ed altri), cfr. inoltre in Plauto l’agg. polentarius “di polenta”. Tale termine designava per l’epoca medievale e oltre – fino cioè alla comparsa e alla diffusione in Europa del mais, successiva alla scoperta dell’America – una polenta fatta con qualche cereale minore o, a partire dal sec. XV, quando viene introdotto in Italia, di grano saraceno (si ricordi a questo proposito la “piccola polenta bigia, di gran saraceno” sulla tavola di Tonio nei “Promessi Sposi”). L’appellativo è alla base del cognome padovano Polenta attestato nel 1444 quando nei documenti d’archivio compare un Paduanus Polenta (ASP, Est. 1418, 403), cfr. anche a Venezia a. 1395 Maria da Polenta (ASV, Not. Test., Atti Derva-sio B. 364, 71), e del derivato Polenton documentato nel XV sec. a proposito del noto ser Sicco Polentono de Padua (CDS 223). Un altro elemento che distingueva Venezia rispetto alla terraferma era la tecnica di conservazione di prodotti dei cereali, in particolare il pane biscotto e quindi i biscotti stessi. Ce ne dà notizia in un saggio dedicato al pane D. MILANI VIANELLO 1988.39 Le prime leggi in materia di Pan biscotto, atte a vietarne il commercio alle navi che ne avevano fatto scorta in eccedenza, risalgono al 1282; l'ufficiale preposto ai controlli periodici fu chiamato Provveditore al biscotto. Egli poteva far prelevare dai forni durante le fasi della lavorazione, delle campionature di pane al fine da sottoporle ad un'indagine tecnica da parte di un'apposita sezione del Tribunale. Si dovevano infatti far osservare le regole, affinché la sua peculiarità di lunga conservazione fosse rispettata: per i viaggi brevi si cuoceva due volte, per quelli di lungo corso quattro volte. I panettieri dell'Arsenale producevano il pan biscoto < panis *biscoctus che la ciurma si portava appresso nei viaggi in mare e che conservava per lungo tempo. Essenziali nell'alimentazione dei marinai e dei soldati erano le zuppe fatte di questo pane, in particolare del frisòpo che consisteva nei resti del pane biscotto, raschiati sul fondo della cambusa. Si trattava quindi di spezzature e di polveri frantumate, simili al nostro pangrattato, che veniva usato in mancanza di gallette intere.40 Nell' articolo sull'alimentazione a bordo, TUCCI 1991, 600 ci informa che durante il Medioevo molti pellegrini inglesi, francesi, tedeschi che viaggiavano sulle imbarcazioni veneziane verso la Terrasanta si lamentavano che sulle galere dei pellegrini non veniva somministrato altro che "biscoto negro e duro, carnaze di castrone, vini grandi dispiacevoli e roti". La ricetta di questo mitico biscotto frisòpo è andata ormai perduta, ma il Brusegan riporta che nel 1821, in una fortezza veneziana dell'isola di Candia, si trovarono parecchi quintali di biscotto, murati in un deposito. Il pane vi era rimasto conservato dalla caduta dell'isola in mano ai Turchi alla metà del seicento.41 Il BOERIO 288 cita il 39Sulla panificazione e sui nomi del pane in Veneto la bibliografia è molto vasta. Storicamente sono interessanti anche le notizie indirette che ci vengono fornite da scrittori quali il Ruzante, il Goldoni o anche da leggi e ordinamenti che ne regolano la produzione. E' del 1° febbraio 1333 la più antica mariegola dei pistori, essi erano già associati in corporazione e si erano dati un proprio statuto. Tali primitivi regolamenti riguardavano il pan che sarà fatto non giusto, di come si eleggeva o sostituiva un Gastaldo, di come si poteva uscire dall'Arte e delle festività in cui era "contraditto a far pan" (MILANI VIANELLO 1988, 58). 40Dal termine marinaresco frisopo deriva il frisopin con il quale si chiamavano alla fine della Repubblica di Venezia i soldati della fanteria imbarcati sulle navi, per l'uso evidentemente consuetudinario di mangiare la zuppa di macinatura del pan biscoto (BOERIO 288). 41 Notizie sui diversi tipi di pane che si usavano a Venezia e sul loro utilizzo in cucina ci vengono da NEMO CUOGHI e RANIERI DA MOSTO, in Cucina Veneto, Editoriale Quotidiani Veneti S.p.A. Supplementi ai quotidiani veneti "Il Mattino di Padova", "La Tribuna di Treviso", "La Nuova Venezia" s.d., pp. 9-16. Il pane raffermo trova peculiarità di utilizzazione nella cucina veneta. Il veneziano panbogìo, "pane bollito in acqua o brodo", differisce dalla panàda (che è pure pane bollito) per la minore densità e per la mancanza di spezie. I due piatti hanno indubbiamente origini povere e arrivarono nelle case dei nobili come ricette per convalescenti. Nel veneto centrale e periferico si hanno ripettivamente le varianti panbujìo , la panà e, sempre a base di pane si chiamava pamòjo il ‘pane bagnato o inzuppato in acqua o nel vino’, venez. pamògio, composto di panis e un deverbale del lat. pop. *mŏlliare "ammollire" < mŏllis. 16 frisòpo come termine militare ex-veneto e spiega: "tritume o rottame di biscotto sgranato e ridotto in minuzzoli che altre volte dicevasi Mazzamurro" e, in chioggiotto frisòpo significa nel dialetto odierno"rottura, frantumi"(NACCARI-BOSCOLO, 210) e tale era il significato originario. La voce è testimoniata infatti nel 1300 in SELLA 1944, 253: frisopus, biscotto in pezzi: "biscotum frisopum"42, ed è usata prima come aggettivo, per indicare "spezzettato" poi come nome, passa ad indicare il pane biscotto. La voce è stata interpretata da HUBSCHMID, Thesaurus Praeromanicus I 39 ed è citata come chioggiotta accostata al piemontese (Alessandria) friza “pezzetto, piccola quantità” < lat. frēsum + il suffisso p, relitto del "sostrato mediterraneo" cui lo studioso ha dedicato l'intero primo fascicolo del Thesaurus, cit.43 In veneziano non sembra esserci nelle prime attestazioni del termine biscoto, la differenza tra dolce e salato. L'elemento distintivo sta piuttosto sul bis-cotto, cioè due (o anche più) volte cotto, tale peculiarità, riflessa nella lingua, diventa, nella cultura alimentare di Venezia garanzia di commestibilità per lungo tempo. Tra i più noti biscotti dolci della tradizione alimentare veneziana ci sono i già citati baìcoli, i pevarini, che prendono il nome da uno degli ingredienti: il pepe, i biscoti da sopa “cantucci, biscotti a fette di fior di farina con zucchero e chiara d’uova”, letteralmente “biscotti da zuppa”, i zaléti, "gialletti", dal colore della farina di mais di cui sono fatti. Tra i dolci più tradizionali: il busolà, che è tipico dell'isola di Burano, la torta nicolota, che prende il nome dai residenti dell'isola di S. Nicolò dei Mendicoli, i cui membri erano dediti, in modo quasi esclusivo alla pesca dentro e fuori dalla laguna,44 tipici del Carnevale i galàni di cui si è già detto, e le frìtole, fritte nello strutto. Tra i cereali di origine orientale, entrati molto presto nella cucina veneziana ( già nel 1300) c'è il riso45, utilizzato prima come medicinale e venduto nelle spezierie contando ciascuno dei chicchi, quindi come addensante nelle minestre e da ultimo per il risòtto, piatto che ha conosciuto una grande varietà di usi nella cucina italiana e che è soggetto a continui aggiustamenti e modificazioni dei nomi in base a nuovi ingredienti. Per quanto riguarda la storia del nome, MANZELLI 1986, 228 sostiene che il termine riso è approdato in Italia in due fasi successive, nel latino dell’inizio dell’Impero (oryza in Orazio, ecc...) e nei volgari italiani in età medievale (cfr. risum cum lacte amigdalarum et pulvere cynamomi, in Salimbene de Adam, seconda metà del sec. XIII, SELLA 1944, 121, s. v. cynamomum) : in entrambi i casi la denominazione del cereale è stata mutuata dalla lingua greca, a sua volta di origine orientale. Nel veneto e nei dialetti settentrionali -ipotizza Manzellipotrebbe essere entrato direttamente dalla forma medio greca popolare [rizi], attraverso la reinterpretazione di -i come morfema di plurale dato che molte attestazioni sono per lo più al plurale: risi, cfr. risi e bisi "riso con i piselli" > nel ted. austriaco Risibisi > ungherese rizibizi, sec. XIX. Ciò non sarebbe confermato dall 'anonimo “Libro per cuoco” (sec. XIV) di autore veneziano, che trascrive sempre rixo al sing. : farina de lo rixo, rixo in bona manera ecc. 42La citazione del Sella è tratta dai documenti veneziani del 1300 analizzati dal CECCHETTI 1885, 295, 299. Lo studioso riporta una frase del Tassini, Curiosità veneziane, il quale alla voce Forni, accenna che il biscotto veneziano aveva la proprietà "per un singolare magistero, adesso ignoto del tutto, di non subire l'attacco del tarlo". E ancora aggiunge: Antichissimo l'uso del biscotto, e pur vecchia la denominazione di frisòpo al tritume di esso. 43 Cfr. in alcuni dialetti meridionali e in sardo frésa ‘pane tagliato e biscottato’, accostato al lat. mediev. fresa ‘fava pestata’ (a. 1330 Benevento), prov. frezas ‘fave sbucciate e pestate’ < lat. faba frēsa (Columella) < frendere ‘sminuzzare’ (DEI III 1715). 44Ne dà la ricetta BRUSEGAN 1997, 60. E' una torta fatta di pane raffermo inzuppato nel latte, uvetta e farina e cotta al forno. Viene cosparsa in superfice di semi di finocchio. 45Il riso è divenuto un prodotto alimentare della pianura padana soltanto verso la fine del Medioevo, precedentemente ne veniva fatto un uso assai parco soprattutto come medicinale. Al contrario, nella penisola iberica, il cereale amante dei terreni acquitrinosi era già largamente coltivato durante la dominazione araba, infatti furono gli arabi ad introdurlo in Sicilia e in Spagna. Sulla storia della voce e sulle sue attestazioni antiche in ambito europeo ed extraeuropeo ha scritto, con ampia documentazione MANZELLI 1986, 230-232. In questo contributo l'autore sostiene che la fortuna europea del termine si deve all'italiano, che ha trasmesso il vocabolo al francese (ant. rî > riz, giunto all’inglese, alle lingue celtiche; e al russo nel sec. XIX), al tedesco (medio alto tedesco rīs > Reis, passato alle lingue germaniche settentrionali, Slave occidentali, Baltiche, Baltofinniche), all’ungherese (rizs, a. 1493), alle lingue slave meridionali in concorrenza con l’ant. bulgaro (slavo) orizŭ (> romeno orez) che continua una forma greca arcaizzante con o- preservato. 17 Risi e bisi è il piatto tradizionale veneziano, legato alla festa più importante del santo patrono della città, S. Marco (25 Aprile). Era la pietanza che non mancava mai al pranzo offerto dal doge, il quale era titolare del privilegio di assaggiarlo per primo (BRUSEGAN 1997, 29). Generalmente i nomi dei piatti a base di riso variano a seconda degli ingredienti di cui sono composti e sono numerossimi, specie in tempi recenti in cui si sono moltiplicate le ricette, soprattutto a base di verdure. Tra i più noti della tradizione veneziana sono i risi in cavromàn o cagromàn (Ninni III 212), "minestra di riso mescolato con pezzetti di carne di montone". La voce è un orientalismo studiato, con ampiezza di documentazione da ZAMBONI 1985, alla cui base sta il turco kavurma "carne abbrustolita e fritta", la cui espansione in area serbocroata e balcanica è attestata da SKOK 1972, 66; originariamente una sorta di vivanda a base di interiora tritate, cotte con grasso e messe in grasso a conservarsi. In veneziano il termine cavromàn "noto ai repertori storici e ancora vivo oralmente" indica uno stufato di carne di castrato o di capretto cotta in umido" e risi in cavromàn sono altrimenti detti con termine locale risi co la castradina ossia con “carne di castrone che salata e affumicata si importa dalla Dalmazia e dall’Albania e si vende per lo più dagli Schiavoni”; risi in sbiràlia è una minestra di riso con le regaglie di pollo, nota anche in friulano: rîs a la sbîre (PIRONA 939) "risotto molto condito al sugo di stufato"; risi in mascara o manestra de risi mascarai (BOERIO 402) è una minestra di riso con ortaggi o legumi, così chiamata perché il colore e il sapore del riso sono "mascherati" da quelli dei suoi componenti. Inoltre a Chioggia viene chiamata bazàri una minestra di riso con fagioli, zucca, farina, lardo, olio e spezie, voce connessa a bazàro o bazàr, di cui è un traslato.46 Si deduce dal richiamo a cavromàn, alle maschere, al bazàr che le ricette in questione riflettono elementi molto connaturati al tessuto culturale di Venezia, compresa la componente orientale della sua stratificazione plurilingue, mentre nel veronese è ben noto il riso in cagnon, secondo una terminologia di area originariamente lombarda dove cagnón è il "baco, piccolo verme bianco, come quelli che prolificano sulle carni avariate", da cui per somiglianza, l'accostamento con il chicco di riso bollito, che veniva nelle usanze più antiche cotto moltissimo, anche per tre ore, per cui diventava lungo e molliccio come un baco.47 Una diffusione in tutto il veneto hanno i risi coi fegadìni, i risi col late, cioè cotti nel latte, con aggiunta di zucchero. Come sottolinea BRUSEGAN 1997, 29 tale ricetta è preparata in modo molto simile al rixo in bona manera dell'anonimo cuoco veneziano del 1300, la quale prevede quale unica, rilevante variante, l'impiego di latte di mandorle al posto del latte vaccino. 7. Prestiti veneziani in Oriente Un'attenzione particolare andrebbe posta alla bidirezionalità dei nomi veneziani relativi alla cucina, nel senso che Venezia non ha soltanto ricevuto prestiti dall’Oriente, in base ai suoi rapporti commerciali, ma essa ha soprattutto influenzato i territori dominati, nel periodo del suo espansionismo, in particolare in alcune isole dell’Egeo, e nei territori dell’Istria e della Dalmazia. Le isole ioniche appartennero al domino della Serenissima dal 1209 sino al 1799 ed anche dopo questa data le relazioni economiche e culturali con l'Italia continuavano ad essere intense. Studi in questa direzione sono stati fatti da Folena in un noto articolo, Il veneziano de là da mar, da Cortelazzo in una serie di lavori, la maggior parte dei quali sono ora raccolti in volume: Venezia, il Levante e il Mare e da H. Kahane, in vari articoli tra cui Gli elementi linguistici italiani nel neogreco, dove sostiene che fortemente italianizzata è la terminologia della cucina greca e, per quanto riguarda l’influsso del veneziano, cita alcuni piatti italiani divenuti patrimonio comune di tutti i dialetti della Grecia, mentre un numero ancora maggiore è rimasto limitato all’Eptaneso. Tra questi: dal venez. tagiadèla in Cefalonia e Leucade, o femm.) “pasta casalinga” < venez. bigoli nell’Eptaneso e nel Peloponneso, “minestrina” < venez. manestrina in Cefalonia e Passo; 46I bazariotti erano a Venezia i venditori ambulanti, che girovagavano con le loro ceste di calle in calle decantando a granvoce i pregi delle loro merci (BRUSEGAN 1992, 12). 47Nella prima edizione (1905) del Dizionario Moderno Alfredo Panzini dedica al risotto un lungo articolo in cui dice: "Il riso divide, come territorio gastronomico, l'Italia superiore (Veneto, Lombardia) dall'Italia meridionale. Qui il cibo quotidiano sono i maccheroni, cotti con speciale arte, cioè con molta acqua e al dente...Nell'alta Italia domina il riso: esso forma il cibo pressoché quotidiano. Fra le maniere di preparare il riso, la più tipica è quella del risotto alla milanese, cioè con zafferano" e poi cita altri tipi di risotti con i funghi, con i tartufi ecc...ma bisogna aggiungere che tale denominazione non è locale perché in milanese il nome di tale risotto è ris giald, cioè "riso giallo" per il colore dello zafferano (Cherubini IV 56). 18 < veneto manestra, si trova come “pasta per minestra” nell’Eptaneso, in Lesbo e in Calavrita, e invece come “brodo” in Creta, Nasso, Megiste, nel Peloponneso, nell’Epiro, nella Tracia (p.126). Altre voci, passate dal veneziano al greco di Cefalonia sono state messe in rilievo da Kramer 1983 e si tratta principalmente ancora una volta di terminologia dei naviganti, riferita a prodotti di lunga conservazione: "agliata" che riprende la forma veneziana agiàda definita dal Boerio "vivanda appetitosa di biscotto preparato con aglio, olio, aceto e pepe, la quale è molto in uso fra i nostri naviganti". Sembra un prestito italiano nella forma di base, ma con la lenizione di /t/ > /d/ del veneziano; "pane intriso nel vino e nell'olio", italiano zuppa, veneto supa, veneziano sópa che ha lo stesso significato della voce passata in greco, "baccalà", in realtà si tratterà dello storione essicato, v. il già citato veneto copése. In Montenegro e presso le Bocche di Cattaro “la cucina si rifà completamente a quella latina e non ha praticamente niente in comune con la vecchia cucina slava che si ricollegava a quella germanica. Buona parte della terminologia utilizzata per indicare prodotti alimentari – e soprattutto la pesca - è giunta tramite Venezia che su questa costa, ha per lungo tempo esercitato il suo dominio. (Quarantotto 2002, pp.947-48) Conclusione I nomi tradizionali, legati alla cucina locale, anche in tempi di riscoperta della "cucina povera", stanno scomparendo, evidentemente non si adattano alla pubblicizzazione e alla conquista di mercati sempre più ampi. Questo comunque si verificava anche in passato. Il Ninni 1890, 174 ci informa che il "fegato alla veneziana" era chiamato a Venezia: figà a la luganeghèra e anche figà a la sbrodegona . Nel Veneto odierno figà sopravvive ancora nelle varietà rustiche, ma le determinazioni che alludevano o ad uno degli ingredienti: la lucanica, o al modo di cuocerlo si sono perse del tutto48. Perciò il tipo “fegato alla veneziana”, vuole semplicemente dire "cotto alla maniera in cui si cuoce a Venezia", e questo modo di dire occulta il nome locale che non è stato ritenuto "accettabile" e che in molti casi è andato perduto. Possiamo supporre che tale sorte sia toccata al baccalà alla vicentina, di cui non si conoscono nomi locali, alle tagliatelle alla bolognese, al radicchio trevigiano, al formaggio parmigiano, mentre il formaggio chiamato in Veneto piazentìn, ci rimanda certamente alla denominazione dialettale veneta della città di provenienza, Piacenza, da cui si importava. Senza dubbio la sostituzione della vecchia terminologia è dovuta ancora di più ai nostri giorni ad esigenze commerciali che tendono ad usare nomi di effetto per imporre i prodotti alimentari ad un mercato sempre più vasto. Per cui se le denominazioni di alcune varietà di frutta corrispondevano in passato alle loro caratteristiche intrinseche (per esempio alla stagione o al mese della loro maturazione, se erano primaticce o tardive, se avevano la buccia rugosa o liscia, se erano di colore "ruggine, rosa, verde" ecc..., se la forma era paragonabile a qualche oggetto: piri spada), le etichette dei supermercati corrispondono a tutt'altre esigenze, tra le quali ci sono creazioni di marchi che vengono protetti con denominazioni d'origine controllata (DOC). I nomi popolari locali con i quali si designavano nel Veneto i piatti di lumache, in concomitanza con ciò che è avvenuto nella cucina nazionale, tendono ad essere sostituiti dal termine di gran lunga più di effetto, di origine francese: les escargots. E’ stata dunque la cucina francese a nobilitare questo piatto la cui diffusione interessa tutti i paesi del mediterraneo e che senza dubbio ha dei nomi locali con vari gradi di diffusione. Nel Veneto settentrionale, il piatto di lumache che si accompagna normalmente alla polenta si chiama sciòs, in una piccola area del vicentino si mangiano i corgnùi; a Venezia i bóvoli , nel veronese i bogóni. Innovazioni di tipo commerciale hanno sostituito vecchi nomi del pane; nel padovano sono di formazione recente: le dune "un pane misto di farina di mais e di frumento di forma leggermente ondulata", le soffiate "pane quasi privo di mollica all’interno" le tartarughe "pani con la crosta screziata come quella di una tartaruga" le ciabatte, gli zoccoletti ecc... Tali denominazioni non provengono dal dialetto veneto, ma sono stati imposti nel Veneto, in quanto una nuova tipologia delle forme è andata soppiantando gli antichi prodotti, anch’essi assai numerosi e linguisticamente stratificati: rosette (panini rotondi dalla superficie intagliata a forma di rosa) ciòpe (piccia di pane, due pani uniti) montasù (forma di pane costituita da due panini lunghi e sottili sovrapposti) letteralmente "montati su". Scriveva il Ninni nel 1890, riferendo notizie sui nomi del pane a Venezia, che erano più in uso tra il popolo la ciòpa, la ciopéta, la michéta, la massarina o pan moro, quest'ultimo è di cruschello. E aggiunge che sono numerosissime le forme che si danno al pane, ed i nomi che si applicano ad esse variano a seconda dei vari punti della città. Si raggruppano tuttavia nelle seguenti categorie: a) Pan Taliàn o de pasta dura; 48Non è chiara la motivazione per cui il fegato fosse cotto a la sbrodegóna, in quanto sbròdego "si dice ancora come aggettivo per sudicio, unto, bisunto, imbrodolato" (Boerio 612), nel veneto centrale on sbròdego è un lavoro fatto male, una vivanda cotta senza cura, un piatto non riuscito. 19 b) Pan molo o francese; c) Pan co la ùa; d) Biscoto, all'interno delle quali ci sono diversi tipi di pane, ciascuno caratterizzato da una particolare forma da cui prende il nome. La tradizione della cucina veneta è oggi molto spesso rivisitata e riproposta, spesso attraverso campagne pubblicitarie finalizzate a (ri)lanciare le produzioni tipiche e le specialità locali. L’operazione comporta dal punto di vista linguistico un riequilibrio tra conservazione e innovazione che meriterebbe di essere studiato. Bibliografia e abbreviazioni ALY BELFADEL = A. ALY BELFADEL, Gergo dei calderai di Locana, in “Archivio di Psichiatria” XXI (1900), pp. 361-372 ANZIUTTI = A. ANZIUTTI, Loucs Fornès, Luoghi Fornesi – Forni di Sopra, appunti di toponomastica, supplemento al n° 60 di “Sfuoi Fornes”, Bollettino trimestrale del Circolo Fornese di Cultura, Udine 1997 ATVT XII = G.B. PELLEGRINI, Cortina d’Ampezzo, Commento al foglio XII dell’Atlante Toponomastico della Venezia Tridentina, Firenze 1952 BARBIERATO 2000 = P. BARBIERATO, Riflessi onomastici della cultura alimentare veneta dei secoli passati (dal sec. 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Abbreviazioni: a.a.ted. = antico alto tedesco, agord. = agordino, ampezz. = ampezzano, ant. = antico, arc. = arcaico, aur. = dialetto di Auronzo (BL), bellun. = bellunese cad. = cadorino, comel. = comelicano, dim. = diminutivo, eng. = engadinese, frl. = friulano, gr. = greco, lat. = latino, mediev. = medievale, oltrech. = dialetto dell’Oltrechiusa in Cadore, pol. = polesano, top. = toponimo, soprasilv. = soprasilvano, suff. = suffisso, ted. = tedesco, tir. = tirolese, ven. = veneto, vic. = vicentino, zold. = zoldano. Maria Teresa Vigolo 23