Quaderno madre lingua imp 1-10-2003 16:49 Pagina 31 Poetando in Dialetto Raffaello Baldini Amedeo Giacomini Franco Loi MODERA: Paolo Di Stefano Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:36 Pagina 32 Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:36 Pagina 33 Paolo Di Stefano Con questa seconda serata entriamo davvero nel vivo della nostra questione, la lingua madre, che abbiamo affrontato in un primo incontro con i narratori, caldo, piacevole, divertente. Questa sera abbiamo con noi Amedeo Giacomini, Franco Loi e Raffaello Baldini. Dicevo “entriamo nel vivo” perché la scelta di scrivere poesia in dialetto è naturalmente una scelta ‘radicale’: non so se i nostri poeti sono d’accordo, ma io la vedo così. Del resto, Pascoli diceva che scrivere poesia è sempre scrivere in una lingua morta: anche su questo non so se i nostri poeti sono d’accordo, ma io condivido l’opinione di Pascoli. Quello che vogliamo sapere questa sera dai nostri poeti è se la loro scelta sia sentimentale, politica, filologica, oppure tutto questo insieme, se sia una scelta espressiva o esistenziale. Io chiederei dunque ai nostri autori perché hanno scelto di scrivere in dialetto, e comincerei con Raffaello Baldini. Raffaello Baldini Questa è una domanda inevitabile, lo capisco perfettamente, e la prima risposta è che non lo so. La seconda risposta è che ho avuto la sensazione, avevo la sensazione, scrivendo in dialetto, che mi capissero tutti, tutti quelli del mio paese, naturalmente, un ‘tutti’ molto piccolo, però era un ‘tutti’. Una terza risposta è che il dialetto è una lingua… Ecco vorrei chiarire preliminarmente che quando parlo del dialetto mi riferisco al mio dialetto, che si parla nel triangolo che ha come vertici Santarcangelo di Romagna, Savignano sul Rubicone e San Mauro Pascoli, e si trova fra Rimini e Cesena; non ho competenza per parlare del dialetto friulano o del dialetto napoletano. La sensazione, appunto, era che qui il mondo dialettale non fosse scomparso, fosse ancora vivo: succedevano delle cose, in questo mondo, ed erano cose che succedevano in dialetto. Per raccontarle, la cosa migliore era farlo in dialetto. Questa è dunque la terza delle ragioni che mi hanno portato a scrivere in dialetto. C’è anche il fatto, autobiografico…ma di questo parleremo dopo, non vorrei dilungarmi. Di Stefano Ecco, girerei la domanda a Amedeo Giacomini. Amedeo Giacomini Credo di essere stato invitato qui in quanto poeta dialettale, poeta cioè che preferisce esprimersi in un codice diverso da quello della comunicazione nazionale, ma il fatto in sé (che io scriva in friulano e non in italiano) mi lascia piuttosto perplesso. Si par- 33 Quaderno madre lingua imp 34 29-08-2003 14:36 Pagina 34 la di un Giacomini poeta in lingua materna, ma qual è veramente la mia lingua materna? Io sono uno a denominazione di origine non controllata. È materno il veneto di terraferma dei miei nonni? Quello di confine dei miei genitori? L’italiano, che mi è stato imposto con cannonate autentiche dalla scuola? Oppure, il friulano del mio paese – per emigrazione - natale, che tra la gente (contadini, operai e i miei compagni…) è stato, fin dalla primissima infanzia, il mio modo comune di esprimermi, indipendentemente dalla volontà dei miei genitori - pretendevano infatti che parlassi l’italiano o almeno il venetoide della piccola borghesia locale, il venetoide quindi degli ‘studiati’? Tirando le somme, passati i sessanta, dovrei riconoscere che sia proprio quest’ultimo la mia lingua madre, ma la confusione rimane e anche mi pesa. Perciò, riferendomi al fare poesia, preferirei non distinguerla in dialettale o in lingua, ma (se c’è), preferirei parlare di poesia tout court, di un modo cioè di considerare il mondo (o semplicemente un paesaggio interiore), esserne dentro nel presente fino in fondo e darne (alle quattro persone che magari ti leggono) qualche strumento per capirlo o magari anche per modificarlo. Una lingua, ne sono convinto, ti trova, non sei tu a cercarla. Per attenermi all’aspetto più problemaUNA LINGUA , NE SONO CONVINTO, tico del tema di oggi, dirò che fu TI TROVA , NON SEI TU A CERCARLA Pasolini, con la scorta del suo pascoliA. Giacomini smo di fondo, a eleggere la lingua materna “lingua della o per la poesia”. A giustificarlo contribuirono alcuni suoi traumi psicologici non superati e la situazione storica (il fascismo, la guerra) in cui operava: il friulano (il casarsese che nemmeno parlava) venne, per lui giovanissimo, a opporsi all’italiano (in cui pure erano state scritte le sue Poesie a Casarsa, poi tradotte servendosi principalmente del contributo di amici e del vocabolario), in quanto questo era diventato insopportabile nella volgarità fascista: non lingua di popolo ma espressione della retorica stupidità piccolo borghese. Il casarsese fu, dunque, dal punto di vista letterario, per sua stessa definizione, ricerca di una lingua vergine, superiore anche a quella degli ermetici che voleva aggirare, espressione di un popolo antico e nuovo, forte della sua fedeltà a valori concreti: ideologicamente, un fatto di Resistenza. Per quel critico acuto che già egli era, il casarsese (un dialetto molto venetizzato del friu- Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:36 Pagina 35 lano centrale, ricco di dittonghi dolcissimi, di finali tronche alquanto musicali, che ben sposavano la ricerca fono-simbolica delle intenzioni poetiche), a voler essere cattivi, fu persino una decisione oculata, quella che andava bene in quel periodo, in cui l’ermetismo era ormai alle sue strette finali, una decisione atta persino a nascondere (o a mascherare) nella sua fonalità squisita, traumi psichici e umani che erano tipici di un sé Narciso. Gli permise (il casarsese) di creare insomma un teatrino idillico ed edenico in cui l’Io-Narciso e la meglio gioventù che lo circondava rivestivano panni angelici, ben lontani da quelli che, nella sua vita grama, nella sua miseria, quella gioventù veramente era. Un teatrino, dunque, sostenuto – e sta proprio qui, a parer mio, la lucidità letteraria del poeta - dal ricorso, in nome degli intenti di purezza e verginità, ai lirici primitivi (i provenzali, soprattutto), innestato alle traduzioni in friulano dei moderni, a partire da Pascoli, appunto, assunto (senz’altro grazie agli insegnamenti di Contini) quale zoccolo duro della modernità decadente. In altre parole, ancora e fuori dal ricorso al friulano, fu per lui un atteggiamento storicistico che anticipava il suo neosperimentalismo futuro. Io ho molto amato quel teatrino, in primo luogo perché elevava la poesia in lingua friulana a livello finalmente autonomo e, per cultura, europeo, quella poesia che, quasi parallela, per antichità e durata costante, a quella nazionale, era invece caratterizzata dal provincialismo: vernacolare in senso stretto, poesia da ‘tavolata’, insomma, di imitazione verso il basso, prodotta da nobilotti imparruccati e da borghesi in cerca di stima e protezione per divertire nei convivi padroni, amici e sodali. In secondo luogo, l’ho amato perché da quel teatrino ho a lungo dipeso. Dovrò a questo punto chiarire. La mia poesia che, una volta partito Pasolini dalla piccola patria, nacque in tempi di già rinnovato provincialismo, trovò, almeno all’inizio, motivazioni quasi simili a quelle del Nostro: fu, infatti, ‘cercata’ dal friulano piuttosto tardi, all’epoca del terremoto (una guerra per noi tutti, con effetti drammatici di ogni tipo, com’era stata quella del fascismo) una ventina di anni fa. Prima scrivevo prosa e versi in italiano. A incidere sull’aspetto secondo della mia abbastanza torbida diglossia (ma già insegnavo lingua e letteratura friulana agli studenti udinesi) non fu un bisogno di implosione nelle mie passioni a sfondo psicologico, ma un’esplosione in qualche modo politica e di rabbia. Nei primi versi (abbastanza scoperti e naives) davo vi- 35 Quaderno madre lingua imp 36 29-08-2003 14:36 Pagina 36 ta a un personaggio che, per esigenza di verità ma anche di compromissione, chiamavo Io. Con esso mi opponevo all’idea edenica dell’uomo friulano, considerato allora da tutti i potenti, ma soprattutto dai poeti locali, come l’essere migliore che esistesse al mondo, portato a siffatta eccellenza da una natura privilegiata in sé, da valori da sempre radicati e insopprimibili, mal riconosciuti peraltro e senza esito, frustrati in quel momento persino dal Cielo e dalle sue violenze. Era il friulano, cioè il modello dell’uomo forte, religioso, sincero e casto (forte della sua capacità soprattutto di lavoro, divenuto quasi simbolo araldico in tempo di ricostruzione), un uomo (maxime per i poeti) ‘diverso’, che lo stesso Pasolini, ritenuto grande da altri, ma in questa sua patria, profondamente disprezzato (e poi dicono che i poeti non contano per il futuro), nei suoi strambi versi, proponeva come tale. Mia intenzione politica e morale era semplicemente dimostrare la non verità di tutto questo. Il friulano (anche il mio Io lirico) era uno come tutti: un uomo (un IL FRIULANO (ANCHE IL MIO IO LIRICO) giovane, perché io allora ero relativamente giovane) con i suoi vizi, ERA UNO COME TUTTI: UN UOMO CON I con i suoi problemi di comportaSUOI VIZI, I SUOI RIMORSI, I SUOI STRAZI A. Giacomini mento, con i suoi rimorsi e i suoi strazi, con i suoi rapporti anche duri con una fede di norma annichilente, non dunque un essere immerso in un mondo di buone mamme, in un paesaggio da sogno trascorso da immortali primaverili rondinelle, accompagnato da femmine buone e dolcissime. Un individuo, insomma, che nelle sue miserie interiori ed esterne, era semplicemente umano. Questa versione persino banale, che non pretendeva cioè di spaccare il mondo (neppure quello degli intellettuali locali e del loro ipocrita senso di superiorità) veniva a oppormi da poeta al da tutti finalmente accettato Pasolini, che per altre ragioni mi era in qualche modo maestro. Nel momento della riflessione, quando capii che, anche per le rimostranze esterne che furono subito piuttosto dure, non avrei potuto scrivere se non in friulano, dovendo per necessità letteraria, fare i conti con lui (muovermi, cioè, e non da semplice epigono al largo da lui), in un primo tempo ne radicalizzai, se si vuole in negativo, i contenuti. Rispetto alla letteratura che mi stava davanti e che ci precedeva entrambi, facevo tesoro dei suoi insegnamenti: l’apertura a problemi stilistici e for- Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:36 Pagina 37 mali di valenza europea; l’uso di un dialetto che non era più quello di un luogo preciso (posto alla destra o alla sinistra del Tagliamento, il fiume che, anche linguisticamente, ci divide), ma una sorta di koiné popolare, espressione in movimento di chi, per scelta, frequentavo: operai, gente della piazza, delle osterie, etc., una koiné, questa, molto corrotta e contrastata dai puristi locali. Avevo anche come punti di riferimento alcuni modelli formali storici: non erano però solo i provenzali che, per mestiere, ben conoscevo, ma anche i francesi medievali (Rutebeuf, più precisamente i primi trovatori, Gace Brulé e non Villon, come è stato più volte detto e ribadito anche dai più attenti dei miei critici), gli spagnoli del Quattrocento (Manrique in particolare) e, per quanto riguarda gli autori moderni, non guardavo a un sotterraneo filone sperimentalista della nostra lingua nazionale, ma piuttosto a Montale (che Pasolini detestava) al secondo Ungaretti, a Sbarbaro, all’altro mio grande maestro Zanzotto e, per gli stranieri, ai russi dell’avanguardia (l’Acmatova, Mandel’stam, certo Pasternak, la Cetaeva più di tutti…), ad alcuni americani (Olson in particolare) e, tra i nostri dialettali, oltre agli autori canonici Porta e Belli, a Loi, soprattutto, e a Guerra. Davo vita così a un neo-volgare (tenendo conto della lingua diversa che usavo) friulano, a parer mio autonomo, marcato, per i contenuti, da un esistenzialismo espressionista ben preciso, quasi unico nella nostra poesia locale di questi giorni. Staccarmi da Pasolini mi fu in seguito piuttosto facile. Ci riuscii, credo, passati i problemi esterni di stampo che dirò ‘impegnato’, volgendomi a un diarismo quasi completo, incentrato sul tentativo della verità sul mio essere, sui problemi che mi travagliano e che penso siano quelli di tutti. È quanto faccio tuttora, da poeta, spero, e non da poeta dialettale. Questo è tutto. Di Stefano Franco Loi. Franco Loi Io sono d’accordo con quello che ha detto Baldini. Perché scrivo in milanese? Non lo so, tanto più che io sono nato a Genova da padre sardo e da madre di Parma. Per questo motivo, probabilmente, penso che certe esperienze, come la gioventù e l’infanzia che ho vissuto a Milano, la paura, la fame, queste cose siano entrate in me attraverso il milanese. Poi potrei dirne tante altre, di ragioni, ma a posteriori, le ragioni si 37 Quaderno madre lingua imp 38 29-08-2003 14:36 Pagina 38 trovano sempre dopo, del perché e del come e del cosa può aver in qualche modo influenzato, come dire, questo mio ‘trovarmi addosso’ il milanese. D’altra parte, penso che ci siano state anche ragioni di carattere psicologico, di carattere politico: certamente io non conoscevo nessun poeta in dialetto, salvo qualche poesia del Porta, mentre ero ancora ragazzino quando leggevo Ariosto, leggevo Tasso, come se fossero dei grandi romanzi. Infatti io, quando ero ragazzo, ho scritto racconti e romanzi, in italiano, perché avevo la passione per la narrativa, avevo letto i grandi romanzieri russi, avevo letto i francesi. Non avrei mai immaginato di scrivere poesie, però poi mi è capitato tra le mani il Belli, i sonetti, avevo già 35 anni, e mi hanno molto colpito per la loro profondità e vastità, per la capacità di affrescare la città, i dolori e le rabbie, i sogni degli uomini, l’amore. Allora ho pensato di scrivere poesie ed ho cominciato in italiano. Soltanto che con l’italiano non funzionava, perché con la mente costruivo queste poesie e mi venivano in mente poeti come Pascoli, Leopardi, D’Annunzio, a seconda di quello che scrivevo. E quindi stracciavo. Per fortuna, ho incontrato due personaggi di cui volevo parlare, due operai: uno era un impiccato che vidi durante la guerra, e l’altro era un giovane soldato, popolano. Volendo farli parlare, mi sono detto: “Non posso farli parlare in italiano”. E allora li ho fatti parlare LA POESIA NON HA NIENTE A CHE VEDERE nella loro lingua, cioè il CON LA COSTRUZIONE MENTALE, È QUALCOSA CHE ESCE milanese. Ecco, lì ho DA NOI E NOI SIAMO PIÙ O MENO CAPACI DI SEGUIRE NEL SUO LIMBO, NELLA SUA MUSICALITÀ, scoperto la poesia, e ho NELLA SUA FORZA DIROMPENTE scoperto che avevo F. Loi dentro il milanese più di quel che pensassi. La poesia non ha niente a che vedere con la costruzione mentale, è qualcosa che esce da noi e noi siamo più o meno capaci di seguire nel suo limbo, nella sua musicalità, nella sua forza dirompente. Da allora ho sempre scritto in milanese. Di Stefano Dicevi che avevi letto poche cose di Porta, ma il Tessa, per esempio? L’hai scoperto dopo? Loi Non lo conoscevo. Me l’ha fatto leggere Dante Isella, la bellezza di sei anni dopo, quando io già stavo scrivendo in milanese. Io non credo Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:36 Pagina 39 che ci siano stati influssi. Se si vuole parlare di influssi, io citerei per esempio Dostojevskji o Maupassant, e tra i poeti Dante, che ho sempre amato, oppure Virgilio, che leggevo già alle scuole medie. Ho letto anche Omero, tant’è vero che mi ricordo ancora a memoria l’attacco della traduzione del Monti. Ma io li leggevo come se fossero dei grandi romanzi, mi piacevano le avventure, al di fuori di qualsiasi riferimento di carattere linguistico. Di Stefano Ci siamo messi d’accordo con i nostri interlocutori, di interrompere la discussione e leggere alcuni testi, perché nella poesia in dialetto, ancora più che nella poesia italiana, è utile ascoltare un po’ la grana della voce. Cominciamo con Baldini, e lo introduciamo con una nota bio-bibliografica brevissima: come diceva, è nato a Santarcangelo di Romagna, dove peraltro sono nati anche Tonino Guerra, Nino Pedretti, Gianni Fucci. Ha cominciato a pubblicare tardi, nel ’76, È solitèri, nell’ ’82 La nàiva, poi nell’88 Furistír, nel ’95 Ad nòta e infine nel 2000 una raccolta complessiva di tutti i testi con l’aggiunta di Ciacri. È autore di due monologhi teatrali, (Carta canta e Zitti tutti!) sempre in dialetto, editi da Einaudi l’anno scorso, credo, seguiti da un monologo in italiano dal titolo In fondo a destra. Direi che è tutto. Dicevi che nei primi anni Sessanta hai pubblicato da Bompiani un libretto che non conosco, che si chiama Autotem. Baldini Vi leggo prima in dialetto e poi in italiano, perché pochi, sono sicuro, mi capirebbero. Purtroppo i dialetti hanno questo di inconveniente… Da È solitèri. 39 Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:36 Pagina 40 1938 40 La mèstra ad Sant’Armàid dal vólti, e’ dopmezdè, la s céud tla cambra e la zènd una Giubek. La n fómma. Stuglèda sòura e’ lèt la guèrda ch’la s cunsómma. U i pis l’udòur. Dal vólti u i vén da pianz. LA MAESTRA DI SANT’ERMÉTE/DELLE VOLTE, IL POMERIGGIO, / SI CHIUDE IN CAMERA E ACCENDE UNA GIUBEK./ NON FUMA./ SDRAIATA SUL LETTO/LA GUARDA CONSUMARSI./LE PIACE L’ODORE. DELLE VOLTE LE VIENE DA PIANGERE. (da E’ solitèri, Galeati, Imola 1976) Di Stefano Amedeo Giacomini è nato a Varmo, in provincia di Udine. Oltre a essere poeta in dialetto è anche traduttore dal latino medievale, dal francese antico e dal provenzale - e forse anche dal francese moderno -, narratore, in lingua italiana, oltre che filologo romanzo. Ha pubblicato il primo libro, che s’intitola Manovre, nel ’68, un romanzo, poi ristampato in una nuova edizione. Nello stesso anno ha pubblicato la raccolta di poesie, La vita artificiale, nel ’69 L’arte dell’andar per uccelli con vischio, che è un trattatello, poi duplicato da una pubblicazione simile, L’arte dell’andar per uccelli con reti; nel ’73 pubblica la raccolta di poesie L’incostanza di Narciso; nel ’77 con Tiare pesante comincia la sua attività di poeta dialettale, proseguita poi con Vâr (1978), il romanzo Andrea in tre giorni e Sfuejs nell’ ’81, Fuejs di un an nell’ ’84, Es-fragmenta e Il disequilibrio nell’ ’85, Lune e sclesis nell’ ’86, Presumût unviâr nell’ ’87, e l’ultimo credo che sia In âgris rimis nel ’94. Nel ’97 raccoglie le varie plaquettes in un’antologia dal titolo Antologia privata. Giacomini Io ho lo stesso problema dell’amico Baldini, quindi leggerò anche in italiano perché altrimenti pochi capirebbero tra quanti sono qui. Vi leggerò due poesie del mio primo periodo, una s’intitola Preghiera e la seconda In memoria. Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:36 Pagina 41 Prejere Signôr, ch’i tu nus âs fas nassi par câs, - no volûs, che la fan, pai fîs, no si la voul ch’i tu nus âs sparnissâs - vie pal mônt e come nemâi peâs a ogne vuàrzine, par un toc di pan, un got, ‘ne ciche… Signôr, dai turcs, dai cosacs, dal taremot, tiribil Signôr che di secui tu nus sclíssis dal alt come s’i fóssin puls o viêrz o zàvis, torne cajú tra nó, Signôr, torne, tu sês perdonât. SIGNORE, CHE CI HAI FATTO NASCERE PER CASO/ 41 - NON VOLUTI, CHÉ NESSUNO VUOLE LA FAME PER I SUOI FIGLI -/ CHE CI HAI SPARPAGLIATI PER IL MON- DO/ E COME BUOI AGGIOGATI A OGNI ARATRO, / PER UN PEZZO DI PANE, UN BICCHIERE, UNA CICCA…/ SIGNORE DEI TURCHI, DEI COSACCHI, DEL TERRE- MOTO/ TERRIBILE SIGNORE CHE DA SECOLI CI SCHIACCI DALL’ALTO/ COME SE FOSSIMO PULCI O VERMI O ROSPI, /TORNA QUAGGIÙ TRA NOI, SIGNORE, TORNA, SEI PERDONATO. In memorie Signôr mi dólin stessere i miei paîs… Indolà setu Glemone, frute ridînt dai vôi di sede, nêris ciavêi inghirlandâs d’arcassie, suspîr di primevere? … Stessere, Signôr, mi doul Glemone, mi dólin, stessere, i miei paîs… Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:36 Pagina 42 SIGNORE/MI DOLGONO PAESI…/DOVE SEI STASERA GEMONA,/FANCIULLA I MIEI RIDENTE, OCCHI DI SETA,/ NERI CAPELLI INGHIRLANDATI D’ACACIA, / SOSPIRO DI PRIMAVERA?…/ STASERA, SIGNORE, MI DUOLE GEMONA,/ MI DOLGONO STA- 42 SERA I MIEI PAESI… (da Tiare pesante, in Antologia privata, Mobydick, Faenza 1997) Di Stefano Franco Loi, nato a Genova da padre sardo e da madre emiliana, di Parma. La sua produzione è piuttosto vasta, quindi citerò solo qualche titolo. Comincia a scrivere poesia in lingua solo a trentacinque anni: I cart nel 1973, Stròlegh nel 1975, Teater nel 1978, L’angel nell’ ’81, che poi viene riproposto in forma diversa ed ampliata nel ’94, L’aria nel 1981, Bach nell’ ’86, Liber nell’ ’88, fino all’ultimo libro, Isman, recentissimo, di quest’anno. Loi Io leggerò questa poesia da L’angel, una cosa divertente. Si tratta di una scena in cui noi siamo alle finestre di una villa, un gruppo di ragazzi. In mezzo c’è questo muro che divide il giardino della villa da quella che chiamavamo il “giardino delle monache”: in realtà era tutta una serie di complessi, di piccole costruzioni liberty dove le suore ospitavano ragazze che venivano a studiare o a lavorare a Milano. In realtà noi pensavamo che fosse una novizia, la ragazza che si spogliava nella finestra di questa casa ... “Te sé segür?” “Se te disi che par, di ser, de vèss al cine…” ”Ma…biott?” “Biott”… “E de quand?” Che sera sensa lüna, in via Martini: la villa scüra e vèrta la finestra… “Vah, sü la müra el Topo…” “Brütt bastard…” “Fenìss che la vègn no…” e par un sògn… …el cachi, el prefüm di tilli, del müghètt, i facc de fögh, e là, due che ‘l bricòcch Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:36 Pagina 43 se pèrd dré del scirés e la veranda del Luciano svapora i sces, l’inora quèl snegràss che l’è la sera del giardin, là, tra la nostra e la villa di mònegh, sü la müra a recâm del temp de guèra, gh’è la banda del Zonca, el Mario Ferro, Giorgio, l’Alvar, i fradellin Lungun… “Sé fan?” “Sté vö che fan? Se fan di segh!” E la nott nera la va tra i rös slavadegh, l’erga canadesa, i grund lassü, e fina i pappatas rùnzen inturna, e j öcc di fjö, l’indurmentàss di fiur -qui cinq che pend ‘me zücch da la fenestra, e quèla stansa vöja nel prefüm… “E ‘lura? Sé la fa?” ” L’è dumâ vöna?” “Mì me par lunga…” “Cittu!” … Carnesina ‘na sottoveste se sfira ne la lüs. Un gran silensi. A la bas’giur l’è l’aria a möv i brasc, quèl spettenàss de ner, e ne l’uscüritâ la dansa bianca, e quj tendin ’me nìvur, ché se arsa i spall de fonna tra i cavej de ciel… “La mònega?” “Nuvissia…” “Diu!.. La se volta…” e nel duls cör de magg, biàncur ’me lüna, i dò tettin în un suspir de lé. “Té ’ist?” “Û ’ist…” “Madona...” …Dulsa, nel möess, se smorsa la finestra, un gatt el scappa, luntan se sent un tram. (“SEI SICURO?” “SE TI DICO CHE PARE, CERTE SERE / DI ESSERE AL CINE…” “E DA QUANDO?” MARTINI: / STRA… “ MA…NUDE?” “NUDE”... / CHE SERA SENZA LUNA IN VIA LA VILLA NEL BUIO E APERTA LA FINE- / “GUARDA, SULLE MURA, IL TOPO…” “ BRUTTO BASTARDO…” /”VA A FINIRE CHE NON / IL CACO, IL PROFU- MO DEI TIGLI, DEL MUGHETTO, / LE FACCE DI FUO- VIENE” E SEMBRA UN SOGNO 43 Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:36 Pagina 44 CO, E LÀ, DOVE L’ALBICOCCO / CILIEGIO E LA VERANDA / DEL LUCIANO SVAPORA LE SIEPI, SI FA D’ORO 44 SI PERDE DIETRO IL / QUEL RABBUIARSI CHE È LA SE- RA NEL GIARDINO, / LÀ, TRA LA NOSTRA E LA VILLA DELLE MONACHE, / SUL MURO A RICAMI DEL TEM- PO DI GUERRA /C’È LA BANDA DEL ZONCA, IL MARIO FERRO, /GIORGIO, LONGONI…/ “COSA FACCIANO? L’ALVARO, FANNO?” I FRATELLINI ”COSA VUOI CHE SI FANNO DELLE SEGHE!” /E LA NOTTE SCURA VA TRA LE ROSE SELVATICHE, /L’EDERA CANADESE, LE GRONDE LASSÙ, /E PERFINO I PAPPATACI RONZANO ATTORNO, / E GLI OCCHI DEI RAGAZZI, L’ADDORMENTARSI DEI FIORI/ – QUEI CINQUE CHE PENDONO COME ZUCCHE DALLA FINESTRA, / QUELLA STANZA VUOTA NEL PROFUMO… AL- / “E E LORA? COSA FA?” “È SOLTANTO UNA?” /“A ME SEMBRA LUNGA…” “ZITTO!”…COLOR SOTTOVESTE SI SFILA NELLA LUCE. LENZIO. ALL’ABAT-JOUR È L’ARIA CARNE / UN /A / UNA GRAN SI- MUOVERE LE BRACCIA, QUELLO SPETTINARSI DI NERO, /E NELL’OSCURITÀ LA DANZA BIANCA, / COME NUVOLE, CHÉ SI ALZANO E QUELLE TENDINE / SPALLE DI FEMMI- NA TRA I CAPELLI DI CIELO… “NOVIZIA…” “DIO!… SI /“LA VOLTA…” / SUORA?” E NEL DOL- CE CUORE DI MAGGIO BIANCHE DI LUNA /LE DUE TETTINE SONO UN SOSPIRO DI LEI. / “HAI VISTO?” “HO VISTO…” “MADONNA…” DOLCE, /NEL MUOVERSI, SI CHIUDE LA FINESTRA, /UN GATTO SCAPPA, LONTANO SI SENTE UN TRAM. (da L’angel, Mondadori, Milano 1994) Di Stefano Baldini, qualche giorno fa, mentre ci parlavamo al telefono per chiacchierare di questa serata, menzionavi il fatto che Giovanni Giudici diceva che «scrivere in dialetto in fondo è come nuotare con le pinne». Che cosa pensi di questa osservazione? Baldini La cosa può apparire fondata, nel senso che Giudici argomen- Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:36 Pagina 45 ta che uno che scrive in italiano deve inventare la sua lingua poetica, invece quello che scrive in dialetto ha sottomano una lingua già fatta, già confezionata, deve solo scrivere. In effetti, voglio dire, l’italiano di Ungaretti non è l’italiano di Montale come non è l’italiano di Saba. A questo proposito però mi viene in mente che il milanese di Franco Loi non è il milanese di Tessa, così come il friulano di Amedeo Giacomini non è il friulano di Pasolini. Evidentemente anche Loi e Giacomini si sono dovuti inventare il proprio milanese e il proprio friulano e quindi il discorso del “nuotare con le pinne” può apparire fondato ma non è proprio fondatissimo. C’è chi addirittura ha detto di peggio: io ricordo un articolo intitolato Dialetto come menzogna. Io, dunque, leggo qualcosa e qualcuno potrebbe reagire alzandosi e dicendo: “Lei mente sapendo di mentire”, cosa che sarebbe abbastanza sgradevole. Spero che però il dialetto contenga anche una qualche verità. Io sono di questa opinione, nonostante tutto. Di Stefano Loi. Oltre a utilizzare un milanese molto diverso da quello di Tessa o di Porta, utilizzi anche un milanese davvero inventato da te, circondato e mescolato con arcaismi, italianismi, latinismi, forestierismi. Che atteggiamento ha un poeta rispetto a una lingua che non è una lingua madre, ma in qualche modo ‘paterna’ o ‘fraterna’? Come hai fatto a inventarti questa lingua? Loi Avevo sedici anni quando sono andato a lavorare allo scalo merci di Milano Smistamento, dove sono rimasto per cinque anni. Chi lavorava lì veniva da tutte le parti d’Italia: per la maggior parte si trattava di bergamaschi, cremonesi, lodigiani, lombardi in genere, ma c’erano anche pugliesi, calabresi ecc... Bene, tutti parlavano, o cercavano di parlare, il milanese, e naturalmente, anche in città la sintassi del milanese era cambiata: non poteva essere più quella del Tessa, perché nel frattempo la gente era andata a scuola, almeno fino alle medie, aveva ascoltato la HO ASCOLTATO GENTE NELLE OSTERIE UBRIACA , radio, aveva letto i giornaO GENTE NEI MANICOMI, PAZZA , OPPURE PIENA DI li, era andata al cinema, e PASSIONE PER DELLE COSE DA DIRE, quindi il milanese ne era E IN QUEI MOMENTI LÌ IL MILANESE CHE USCIVA uscito senz’altro modificaNON ERA GIÀ PIÙ QUELLO ‘CLASSICO’ to. Poi, io ho sempre sentito F. Loi la gente inventare la lingua: 45 Quaderno madre lingua imp 46 29-08-2003 14:36 Pagina 46 non ho mai sentito una famiglia meneghina in cui si imita il Tessa o il Porta, la gente inventa la lingua, come ha sempre fatto, secondo i suoi bisogni, le sue esigenze, quando vuole esprimersi… L’ho scritto tanti anni fa: io ho ascoltato gente nelle osterie ubriaca, o gente nei manicomi, pazza, oppure piena di passione per delle cose da dire, e in quei momenti lì il milanese che usciva non era già più quello ‘classico’. Io ho assunto quel milanese, intanto. Poi, il poeta non è che faccia un calco del parlato, perché sarebbe impossibile, per tante ragioni, compresa la struttura stessa della poesia, che è fatta di musica, di ritmo, di emozione. Per esempio Dante, che io sto rileggendo a fondo proprio in questo periodo, è pieno di maschili quando ci dovrebbero essere dei femminili, plurali quando ci dovrebbe essere un singolare, è pieno di libertà, per così dire, per quanto riguarda la lingua. Ci sono tante parole che non hanno niente a che vedere con il fiorentino. Allora io penso che un poeta, quando scrive, sente insorgere dentro di sé una lingua che è adeguata alla poesia e alle esigenze IO PENSO CHE UN POETA , QUANDO SCRIVE, SENTE della poesia. C’è una INSORGERE DENTRO DI SÉ UNA LINGUA CHE È metrica e una musicaliADEGUATA ALLA POESIA E ALLE ESIGENZE DELLA POESIA tà di cui tenere conto. F. Loi Milano era una città già cosmopolita: nel rione dove abitavo si parlava il milanese, ma bastava andare al Leoncavallo per esempio, ed erano tutti pugliesi che parlavano il milanese. È questo tipo di lingua che io ho assorbito. D’altra parte, lo ripeto perché è importante, non è che scrivere in milanese sia più facile, perché le stesse difficoltà che esistono scrivendo in italiano, si incontrano scrivendo in milanese: non si può pensare che si trovi la poesia già fatta. Ciò che si trova, scrivendo in milanese, almeno per quanto mi riguarda, è che il milanese è una lingua consonantica, finisce spesso per consonante o per tronche e allora questo ti dà già una certa aria di musica. Il Tessa diceva sempre che il milanese quando parla è più attento ai suoni che ai contenuti. Questo l’ho sperimentato anch’io, è vero. Noi abbiamo piuttosto la disgrazia di essere un Paese in cui non c’è una lingua nazionale che nasce da una lingua popolare, per cui non abbiamo un’unità linguistica. Ma se pensiamo, d’altra parte, che al momento dell’unità d’Italia soltanto il 2,3% degli italiani parlava l’italiano… Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:36 Pagina 47 Di Stefano Volevo chiedere a Giacomini, che è filologo, appunto, e ci ha parlato prima di Pasolini, se in qualche modo lo scrittore in dialetto sceglie il dialetto per reazione… Giacomini Sì, in qualche modo sì. Di Stefano Reazione per esempio alla lingua standard italiana. Oggi, però, che l’italiano è a sua volta una lingua minoritaria… Giacomini È un dialetto, purtroppo. Un dialetto dell’impero. Di Stefano Non è quasi più rivoluzionario scrivere in italiano che scrivere in dialetto? Giacomini Dipende dai momenti. Adesso personalmente - perché a questo proposito si possono fare solo dei casi personali - io sono tentato di riscrivere in italiano. C’è Berlusconi, e già l’italiano standard è diventato l’italiano corrotto e indicibile di chi ci comanda. Scrivere in italiano torna a motivarmi, per esempio, ma lì il problema dipende appunto dalla visione personale che uno ha della realtà. Purtroppo, o per fortuna, i poeti non sono come i moscerini, che, quando viene primavera, nascono a stormi. Ne nascono tre, quattro, e bisogna per forza personalizzare il problema. Ma, in effetti, se io penso alla letteratura friulana, che dura dalla fine del Duecento, praticamente, con le prime poesie di natura provenzale, noto che la poesia friulana, quella che un pochino conta, è nata nei momenti di attrito sociale, è nata con le guerre, con l’occupazione veneziana del Friuli, è nata con il fascismo, è nata con il terremoto, sempre in quei momenti lì, quando ci sono questi stimoli esterni che colpiscono il poeta o chi parla. Prima ho cercato di dire che il poeta è colui che attraversa un mondo, un paesaggio interiore, o esteriore, come volete, che cerca di starci dentro, di dare le chiavi per capirlo e modificarlo. La poesia nasce proprio in queste situazioni, non ci sono problemi legati alla filologia: se dobbiamo essere legati alla filologia, rispondendo all’amico Giudici, possiamo replicare: “Prova a farlo cantare, il friulano, se sei capace”. È una lingua piuttosto dura, in ogni senso. Se non lo inventi, se non lo rifai tutto, il friulano non canta, non viene. È come soffiare in una zucca, più soffi, meno fischia, ecco. 47 Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:36 Pagina 48 Di Stefano Baldini è stato giornalista per molto tempo, ha lavorato per «Panorama» per molti anni. Come può configurarsi il pubblico, come può immaginarsi il suo pubblico un poeta in dialetto? Baldini Come dicevo prima, io penso al mio paese, alla gente che va 48 in piazza, che va sotto i portici, che cammina per le scalette: io penso che, se dico qualche cosa nel dialetto che la gente parla, quella stessa gente capisca e stia a sentire. L’importante è che ci sia qualcosa da dire. Ripeto, forse, c’è anche da osservare che io sono di quella generazione che ha cominciato a due anni, due anni e mezzo, a nominare le cose in dialetto. Le prime parole mie sono state in dialetto, tutto LE PRIME PAROLE MIE SONO STATE IN DIALETTO, era dialettale intorno a TUTTO ERA DIALETTALE INTORNO A ME, me, mia mamma, mio MIA MAMMA , MIO PADRE, MIA NONNA , MIO NONNO, padre, mia nonna, mio MIA ZIA , GLI AMICI, I COMPAGNI, LE COSE nonno, mia zia, gli amici, PARLAVANO TUTTE IN DIALETTO i compagni, le cose parlaR. Baldini vano tutte in dialetto. Chi ha avuto questa esperienza - e fra di voi forse non c’è nessuno, vi vedo tutti piuttosto giovani - prova delle sensazioni abbastanza difficili da spiegare. Io, come ho detto prima, non ho scelto il dialetto in negativo, cioè non ho scelto il dialetto perché l’italiano non andava bene: l’italiano va benissimo, l’italiano è una lingua straordinaria. Però devo dire che, avendo cominciato a parlare in dialetto, ed essendo adesso – mi lusingo - bilingue, dico che le parole dialettali hanno per me una densità, uno spessore, una forza particolari. La scarána, la sedia. Se io dico scarána ho l’idea di qualcosa ben piantato per terra, su cui si può stare seduti tranquilli, se io dico sedia, mi viene in mente la chiavarina, la sedia di Chiavari, quella esilissima dove non ti puoi sedere tranquillo, e la padrona di casa è ancora meno tranquilla se non sei magro come un chiodo… Il problema di salvare le lingue è un po’ astratto: cosa facciamo con il dialetto per non perderlo? Il dialetto non si può insegnare a scuola. Ma, ragazzi, non si tratta di salvare una lingua, si tratta di salvare un mondo, perché una lingua non è una nomenclatura, non è un vocabolario, non si tratta di salvare il vocabolario, si tratta di salvare dei mondi, e l’impresa è di lunga lena. Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:36 Pagina 49 Di Stefano Ecco, Loi, ma in tutto questo non c’è qualcosa di nostalgico? Quando si pensa al dialetto, si pensa alla nostalgia. E’ una domanda provocatoria, mi rendo conto, ma vorrei che rispondessi. Loi Io non ho nessuna nostalgia. Giacomini e Baldini Neanche io. Loi Non l’ho mai avuta, perché ho sempre vissuto con difficoltà e dunque non è che io abbia una particolare nostalgia di quel mondo. Io vorrei aggiungere una cosa a quello che ha detto Lello. Questo tipo di relazione tra dialetto e oggetto, cosa, è antichissima. La lingua degli Itali, e quindi dei Sanniti, dei prelatini, dei Galli, bene, credo che questa lingua sia sempre esistita e si sia trasformata nel tempo. È più facile che la lingua politica decada. Il latino è finito. Ciò accade nel momento in cui decade la struttura politica di un Paese. Nel momento in cui venisse a cadere la struttura politica del nostro Paese, allora l’italiano cadrebbe. Le questioni non esistono, a mio parere, dal punto di vista della poesia. Dossi diceva: «Quando leggo Goethe mi piace il tedesco, quando leggo Shakespeare mi piace l’inglese, quando leggo Carlo Porta mi piace il milanese». Il problema è quello lì. Quando leggo Dante mi piace l’italiano, quando leggo certi poeti non mi piace per niente. Allora il problema è insito nella poesia. I discorsi linguistici non hanno niente a che vedere con la poesia e i lettori sono quelli che amano la poesia. Allora, io scrivo in milanese, eppure sono uno di quelli che vende più libri in Italia. È vero che metto la traduzione a fronte, ma è ovvio che chi ama la poesia la cerca, in Shakespeare piuttosto che in Baudelaire piuttosto che in Dante Alighieri. Il problema è proprio di amore per la poesia, amore per la conoscenza, amore per l’esperienza fino a che è l’esperienza di un uomo. Se questa esperienza c’è, uno la richiama a sé insieme all’esperienza del poeta che sta leggendo, se essa è resa in poesia. Vuol dire che è suono, movimento, movimento verso qualcosa, movimento per chi la riceve e per chi la fa, la poesia. Questo tipo di considerazione è interessante: quanto la poesia, attraverso la sua struttura musicale, emozionale e di significati, riesca a muovere l’uomo ad amarla. Questo credo che sia il problema di fondo. Che poi dopo sia scritta in milanese o in qualsiasi lingua non ha alcuna im- 49 Quaderno madre lingua imp 50 29-08-2003 14:36 Pagina 50 portanza. Io voglio sempre sentire se c’è quella musicalità, se c’è quella cosa che ti muove dentro, come quando Leopardi dice «Dolce e chiara è la notte e senza vento»: cosa c’è di straordinario in questo verso? A scuola per esempio te lo banalizzano, parafrasando quel “senza vento” con “quieta”, quando invece a me ha sempre dato l’impressione di una grande inquietudine. Se pure io spiegassi anche in altro modo questi versi – e ne posso dare due o tre di spiegazioni – però rimane il fatto che questa sequenza di vocalità ti provoca un’emozione, senza che tu sappia perché. Se tu dici: «Era senza vento chiara la notte e quieta», il risultato è completamente diverso. E’ questa sequenza che muove qualcosa di inspiegabile. E’ come quando tu ascolti Bach, oppure Vivaldi, oppure ancora Beethoven: non è che tu sappia cosa vuol dire, ma senti qualcosa dentro di te muoversi, i pensieri, le emozioni, gli affetti, persino i sensi. Tant’è vero che, se senti un rock, muovi le gambe e non è che tu sappia perché o che tu le voglia muovere, le muovi e basta. Allora vuol dire che c’è nella musica la componente della vibrazione, che nel caso della poesia è vibrazione emozionale, è vibrazione di una storia, di un’esperienza, di una vita. Questo io dico. Di Stefano Se il pubblico vuol fare delle domande… Voce dal pubblico Io vorrei solo ringraziare. Ho letto l’antologia dei poeti dialettali, pubblicata da Einaudi, credo. Io conosco di più Loi, perché, milanese, lo capisco, ma anche gli altri, che pur usano una lingua che non è la mia, anche se li devo leggere quattro volte per capire, e devo leggere la traduzione, danno comunque gioia, i versi mi sembrano più sinceri, meno mediati. Insomma, mi danno questa sensazione e perciò vi voglio ringraziare.